AmbienteDiritto.it 

Legislazione  giurisprudenza                                                      Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso


 

 

Consiglio Stato, Sezione VI,  del 5 dicembre 2002, sentenza n. 6657 .

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello n.4243/98 proposto dal Comune di Follonica, in persona del Sindaco pro-tempore dott. Emilio Bonifazi autorizzato a proporre ricorso in forza di delibera di G.M. 10/4/1998 n.120, e dal WWF (World Wildlife Fund) Italia, in persona del legale rappresentante pro-tempore sig.ra Grazia Francescato, rappresentati e difesi dai prof. avv.ti Massimo Luciani e Federico Sorrentino e dall’avv. Franco Zuccaro e domiciliati presso lo studio dei primi due in Roma, Lungotevere delle Navi n.30;

contro

il Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi n.12;

e nei confronti

- della Società Ambiente s.p.a. rappresentata e difesa dal prof. avv. Andrea Guarino ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, Piazza Borghese n.3;

- della Regione Toscana rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliata per legge in Roma, Via dei Portoghesi n.12;

nonché

sul ricorso in appello n.4277/98 proposto dal Comitato Comprensoriale per il NO al Cogeneratore a CNC del Casone di Scarlino, in persona del Presidente pro-tempore sig.ra Maria Chiara Pierini e del dott. Renzo Fedi, rappresentati e difesi dai professori Massimo Luciani e Federico Sorrentino e dall’avv. Franco Zuccaro ed elettivamente domiciliati presso lo studio dei primi due in Roma, Lungotevere delle Navi n.30;

contro

il Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi n.12;

e nei confronti

- della Società Ambiente s.p.a. rappresentata e difesa dagli avv.ti Giuseppe Guarino, Roberto Righi ed Andrea Guarino ed elettivamente domiciliata presso lo studio del primo in Roma, Piazza Borghese n.3;

- della Regione Toscana rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliata per legge in Roma, Via dei Portoghesi n.12;

per l'annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Toscana - Firenze - Sezione II - n.145 del 5/2/1998;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio delle parti appellate;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Alla pubblica udienza del 12 luglio 2002 relatore il Consigliere Giancarlo Montedoro. Uditi, l'Avv. Luciani, l'Avv. Zuccaro, l'Avv. Righi e l'Avv. Andrea Guarino;

Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Con decreto del Ministro dell’Industria del Commercio e dell’Artigianato prot. n.879737 del 12/4/1996 la Società Ambiente è stata autorizzata ad installare ed esercire nello stabilimento del Casone di Scarlino un impianto per la produzione di energia elettrica mediante turboalternatore ed ad utilizzare come combustibile i residui (rifiuti) di cui all’allegato n.1 del D.M. ambiente 16/1/1995.

Si tratta in particolare di un impianto di potenza termica di 65 MW, alimentato con i residui di cui ai punti 1), 2), 3), 4), 5), 6), 7), 11), 14), 19) e 20) dell’allegato 1 al d.m. ambiente 16/1/1995, contenente norme tecniche per il riutilizzo in un ciclo di combustione per la produzione di energia dei residui derivanti da cicli di produzione e consumo.

Tale autorizzazione, secondo i ricorrenti in appello, è stata rilasciata sull’erroneo presupposto che i veri e propri rifiuti inseriti nel ciclo di combustione dovessero per ciò solo considerarsi semplici residui in quanto tali assoggettabili in sede di riutilizzo ad una normativa assai meno rigorosa di quella prevista per lo smaltimento dei rifiuti.

Avverso tale decreto proponevano ricorso con domanda di sospensione, il riferito Comitato ed il signor Renzo Fedi, lamentando:

a) Violazione e falsa applicazione degli artt.2, 3, 6 lett. d) del d.p.r. 10/9/1982 n.915, in riferimento alla normativa comunitaria in materia di definizione e trattamento dei rifiuti.

Secondo conforme e costante giurisprudenza comunitaria ed interna costituzionale, le leggi nazionali in contrasto con le direttive comunitarie devono essere disattese dal giudice nazionale.

Una disposizione contenuta in un decreto legge, reiterato per almeno quattordici volte, ha introdotto una distinzione fra rifiuto e residuo suscettibile di riutilizzo la quale sarebbe in aperto contrasto con la normativa europea e le rubricate norme del d.p.r. n.915/1982 che ne danno attuazione, in quanto limita l’applicazione delle norme medesime ai soli rifiuti, nonostante che una tale distinzione

non trovi riscontro nella classificazione dei rifiuti fissata dalle direttive comunitarie.

In base a tale distinzione il Ministero dell’Industria non avrebbe applicato la normativa sui rifiuti che prevede l’autorizzazione della Regione interessata, ma solo quella del d.p.r. n.203 del 24/5/1988.

Nel parere favorevole reso dal Ministero dell’Ambiente per l’esercizio del cogeneratore in questione, vi sarebbero almeno quattro combustibili che la direttiva n.689 del 12/12/1991 considera come rifiuti pericolosi.

Si ritiene pertanto che il giudice amministrativo debba disattendere la norma interna, dichiarando che il Ministero non ha applicato le norme attuative delle direttive CE in materia di smaltimento dei rifiuti speciali e quella che prevede l’autorizzazione regionale per lo smaltimento dei rifiuti predetti.

b) Violazione e mancata applicazione dell’art.3 del d.p.r. 10 settembre 1982 n.915. Eccesso di potere per carenza di motivazione.

I ripetuti decreti legge non hanno abrogato la classificazione dei rifiuti contenuta nell’art.3 rubricato, per cui il Ministero dell’Industria, preso atto che i rifiuti da riutilizzare – pur se non soggetti al d.p.r. n.915 in forza dei decreti indicati sono da considerarsi comunque speciali – avrebbe dovuto almeno valutare il contrasto fra le due norme interne e motivare sulla sua scelta finale.

c) Incompetenza dell’organo che ha emanato il provvedimento impugnato.

Il provvedimento di autorizzazione avrebbe dovuto essere adottato dalla Regione Toscana a norma dell’art.6 lett.d) del d.p.r. n.915/1982 e non dal Ministero dell’Industria.

d) Eccesso di potere dell’organo emittente per mancata valutazione del contrasto fra normativa nazionale e normativa comunitaria.

La stessa pubblica amministrazione, di fronte ad un contrasto tanto evidente fra normativa nazionale e comunitaria, avrebbe dovuto valutare l’inadeguatezza assoluta dell’impianto e quindi o disapplicare la norma nazionale od almeno richiedere un’istruttoria adeguata volta a verificare l’inesistenza di alcun pericolo dall’uso di quello che altro non sarebbe che un inceneritore a servizio di una centrale turbo-elettrica.

e) Violazione ed errata applicazione degli artt.5, comma 2, 3, comma 5, 6, 16, 24, 25, e 32 della legge regionale Toscana 16/1/1995 n.5.

La legge regionale regolamenta la programmazione e pianificazione sul territorio regionale dello smaltimento dei rifiuti.

In tale quadro normativo è prevista l’applicazione del piano provinciale di smaltimento dei rifiuti, compresi i combustibili non convenzionali, nonché la valutazione dell’impatto ambientale per ogni intervento di pianificazione.

Il piano provinciale dei rifiuti di Grosseto prevede già un cogeneratore in Valpiana, mentre il piano strutturale del Comune di Scarlino non si adatterebbe all’impianto in questione.

Di tutto ciò l’organo ministeriale che ha adottato il provvedimento impugnato non avrebbe tenuto conto né ha preteso che sul realizzando impianto intervenisse preventivamente la VIA che è intervenuta posteriormente all’adozione del decreto stesso.

f) Eccesso di potere per carente istruttoria.

Dagli atti emergerebbero notevoli perplessità sul realizzando impianto in località Casone.

L’Arpat che ha emesso parere favorevole sul progetto fornito dal proponente, esprimerebbe in realtà una serie notevole di condizioni che ribalterebbero il senso dato al parere stesso. Tali dubbi non hanno portato ad alcun approfondimento istruttorio.

In primo grado ha spiegato atto di intervento la Provincia di Grosseto, nonché il Comune di Follonica e varie altre associazioni ambientalistiche, di cacciatori e di operatori commerciali e turistici. Hanno spiegato intervento ad opponendum i dipendenti della società ambiente.

Il Tar dichiarava inammissibile il ricorso presentato dal Comitato Comprensoriale per il NO al cogeneratore a CNC del Casone di Scarlino nonché inammissibili gli interventi del Comune di Follonica e del WWF Italia e per il resto respingeva il ricorso.

Avverso detta sentenza sono stati proposti gli odierni appelli.

In primo luogo il Comune di Follonica ed il WWF lamentano e contestano l’inammissibilità dichiarata d’ufficio dal giudice di primo grado del loro atto d’intervento.

Il Comune di Follonica rileva che, nella qualità di ente territoriale, ha ritenuto di non potere adire direttamente il giudice amministrativo e pertanto si è limitato ad un atto di intervento ad adiuvandum, non elusivo del termine per ricorrere in difetto di prova della conoscenza effettiva dell’atto censurato.

Il WWF Italia, associazione ambientalista individuata ai sensi dell’art.13 della legge 8 luglio 1986 n.349 rileva di essere legittimata ad intervenire nei giudizi di danno ambientale, e di poter ricorrere al giudice amministrativo per l’annullamento di atti illegittimi in materia ambientale.

Rileva di essere portatrice di interessi diffusi il cui accesso alla giustizia non può essere limitato se a pena di violazione delle disposizioni costituzionali di cui agli artt.24 e 113 Cost..

Si rileva poi che la sentenza impugnata rigetta l’eccezione di inammissibilità del ricorso per omessa impugnativa di atto presupposto con riferimento al d.m. ambiente 16/1/1995 con motivazione non corretta in quanto non risulterebbe vero che i motivi di ricorso non abbiano attinenza a tale atto, ma solo che il d.m. 16/1/1995 si limita a definire la tipologia dei residui in astratto, senza ledere in alcun modo la posizione giuridica soggettiva dei ricorrenti.

In ultimo si rileva che le censure ritenute inammissibili relative alla violazione della direttiva CEE n.94/67 ed alla mancata iscrizione della società ambiente nell’albo degli smaltitori sono semplicemente ulteriori argomenti a sostegno dei motivi di ricorso.

Nel merito si contesta la tesi principale accolta dal giudice di prime cure secondo il quale il processo produttivo autorizzato dal Ministero dell’Industria consiste nella produzione di energia elettrica e quindi in qualcosa di diverso dalla mera combustione di rifiuti, con conseguente necessità di sottoporre i progetti del tipo di quello contestato al solo procedimento previsto dall’art.17 del d.p.r. n.203 del 24 maggio 1988 ed al rispetto della normativa sulle emissioni gassose.

L’impianto in esame non sarebbe un inceneritore bensì un termoconvertitore.

Proprio la direttiva 94/67 dimostra la possibilità di applicare la normativa sui rifiuti in caso di loro smaltimento, indipendentemente dal processo o dallo scopo per il quale esso avvenga, e ciò se dimostra come sottolineato in sentenza che è possibile l’utilizzo di rifiuti, anche pericolosi, come combustibile normale per qualsiasi procedimento industriale, non determina, secondo gli appellanti, l'irrilevanza della normativa sui rifiuti.

Dal punto di vista del combustibile, non del prodotto l’impianto va considerato come un impianto per il trattamento dei rifiuti.

Anche ammesso che si tratti di un impianto per il recupero dei rifiuti e non per lo smaltimento, ciò non determinerebbe alcuna sottrazione della fattispecie alla disciplina comunitaria di cui alla direttiva 91/156.

Si sottolinea che ben quattro degli undici rifiuti utilizzati dall’impianto sono classificabili come rifiuti pericolosi dalla direttiva comunitaria 91/689 (numeri 4, 5, 7, 14 del parere del Ministro dell’Ambiente in relazione ai numeri 3, 11, 13 dell’allegato I alla direttiva citata avuto riguardo al numero h14 dell’allegato III).

Tali rifiuti sono considerati pericolosi anche dal d.lgs. n.22/1997 che attua le direttiva europee.

In particolare la sezione 03 dell’allegato D al d.lgs. citato (rifiuti dell’industria tessile) e 040211 che classificano pericoloso anche il combustibile di cui al punto 2 dell’elenco del Ministro dell’Ambiente, il codice 702 (plastiche, gomme sintetiche e fibre artificiali) tutta la sezione 20 (rifiuti solidi urbani).

Si rimarca poi la circostanza per cui la direttiva 91/689 già conteneva una descrizione compiuta dei rifiuti pericolosi (come riconosciuto nelle premesse del d.lgs. n.22/1997) e che l’elencazione dei rifiuti era da formarsi in sede comunitaria come poi avvenuto con l’adozione nel 1993 del catalogo europeo dei rifiuti (CER 93) e nel 1994 con una decisione del Consiglio (94/904) specificatamente dedicata alla tematica dei rifiuti pericolosi.

La distinzione fra rifiuto e residuo è servita ad eludere l’applicazione della normativa europea sui rifiuti. Il legislatore governativo con una catena di provvedimenti assunti per decreto legge, mai convertiti, i cui effetti sono stati semplicemente fatti salvi fino alla data di entrata in vigore della disciplina di attuazione delle direttive 91/156 e 91/689 ha apertamente violato la normativa comunitaria.

Il d.lgs. n.22/1997 elimina la distinzione fra rifiuti e residui, così eliminando la ragione di contrasto con il diritto comunitario.

Si sostiene inoltre che la centrale non si limiti ad utilizzare rifiuti ma produca anche ceneri di combustione (che sono rifiuti ai sensi dell’articolo 1 lett. a) della direttiva del Consiglio CE 91/156) che, per dato di comune esperienza sono pari al trenta per cento del materiale bruciato.

Si sostiene altresì l’incompetenza dell’organo ministeriale in conseguenza della violazione della normativa comunitaria sui rifiuti.

Si rimarca l’assenza di deroga alle prescrizioni sugli impianti di smaltimento e l’assenza di una disciplina idonea a dispensare dall’autorizzazione di cui agli artt.9 e 10 della direttiva 91/156, garantendo la realizzazione degli stessi obiettivi di tutela perseguiti dalla normativa in tema di rifiuti.

Il decreto di autorizzazione impugnato si occupa solo di garantire la qualità dell’aria ai sensi della normativa della legge n.203/1988. Si ritiene poi disapplicabile dal giudice interno anche il d.m. 16/1/1995, perché il principio di primazia del diritto comunitario si estenderebbe anche agli atti di normazione secondaria.

Si invoca la sentenza della Corte di Giustizia 25/6/1997 Tombesi, che fissa un principio inequivocabile in tema di individuazione della nozione di rifiuto.

Erronee sarebbero anche le considerazioni della sentenza in tema di difetto di istruttoria, essendo mancata una considerazione dei presupposti di applicabilità della disciplina che consente il riutilizzo dei rifiuti, nonché in tema di violazione della legge regionale, occorrendo il rispetto del piano provinciale dei rifiuti, ove accolto il presupposto da cui muove il ricorso.

Analogo appello è stato proposto dal Comitato

Comprensoriale per il NO al cogeneratore a CNC del Casone di Scarlino e dal dott.Renzo Fedi.

La sentenza ha ritenuto che la mancanza di legittimazione del Comitato risulterebbe dalla estrema esiguità dei suoi promotori, nonché dal suo scopo limitato e specifico, sostanzialmente coincidente con interessi di mero fatto.

L’appello replica sul punto che l’esiguità del numero dei promotori non può incidere sulla rappresentatività del comitato, al quale hanno aderito centinaia di cittadini.

Invoca altresì i criteri della vicinitas e della partecipazione al procedimento amministrativo.

Con memoria unica ha prospettato le sue difese la Società Ambiente, mentre la difesa erariale ha depositato i documenti del primo grado.

Si eccepisce l’inammissibilità dell’appello per non avere gli appellanti riproposto alcuno dei motivi d’impugnazione del primo grado, circoscrivendo la portata dell’appello alla critica della sentenza impugnata.

In secondo luogo si sostiene l’inammissibilità dell’appello e del ricorso di primo grado per genericità della censura relativa al contrasto fra normativa interna e normativa comunitaria, essendo stata censurata la normativa interna per ragioni puramente nominalistiche (l’utilizzo della parola residuo al posto della parola rifiuto), senza indicare in quali punti la normativa interna sarebbe stata contrastante con la normativa comunitaria.

Si sostiene d’altra parte che tutti i motivi di ricorso sono riportabili ad un’unica censura il mancato rispetto della normativa comunitaria sui rifiuti e la violazione del d.p.r. n.915/1982.

Si constata che la genericità della censura relativa al primo motivo di ricorso riverbera i suoi effetti su tutti gli altri motivi determinando l’inammissibilità dell’originario ricorso nel suo complesso.

Nel merito della pronuncia di primo grado si sostiene che si è formato il giudicato sul punto relativo all’affermazione che l’impianto della Società Ambiente sia una centrale termoelettrica e non un inceneritore di rifiuti.

Si sostiene poi la sopravvenuta carenza di interesse a ricorrere per l’entrata in vigore della disciplina di cui al d.lgs. n.22/1997 che ha previsto che gli impianti già in essere alla data della sua entrata in vigore possano giovarsi immediatamente delle procedure semplificate previste dagli artt.31 e 33 dello stesso decreto legislativo, ossia della comunicazione di inizio attività alla quale può seguire un regime di silenzio-assenso (normativa di cui in ogni caso la società ambiente può a suo dire giovarsi in ogni momento).

Nel merito si afferma la piena compatibilità fra le norme del d.l. n.113/1996 e la disciplina comunitaria in materia di rifiuti.

Si sostiene in ultimo, quanto alla richiesta di disapplicazione del d. interm. 16/1/1995 che il contrasto di un atto amministrativo con norme comunitarie non può provocarne la disapplicazione e che la mancata impugnazione del d. interm. 16/1/1995 porta ad un ulteriore motivo d’inammissibilità del ricorso.

Gli appellanti hanno depositato ampia memoria ulteriormente illustrativa dell’impugnazione.

DIRITTO

Gli appelli sono parzialmente fondati e devono essere accolti per quanto di ragione.

In primo luogo, essendo essi diretti avverso la stessa sentenza e comportando la trattazione di identiche questioni giuridiche, devono essere riuniti per essere trattati congiuntamente.

In primo luogo deve essere affrontata la questione della legittimazione a ricorrere del Comitato per il NO, nonché della legittimazione ad intervenire del Comune di Follonica e del WWF.

Ritiene il Collegio che la legittimazione a ricorrere ed intervenire delle diverse parti sussista e che la questione abbia rilevanza anche se è indubitabile che legittimato ad impugnare sia quantomeno il dott. Renzo Fedi, ricorrente a titolo individuale ed interessato ad esercitare un’impresa agrituristica su un fondo contiguo alla centrale termoelettrica per cui è controversia.

La questione deve essere affrontata al fine di rendere la sentenza di appello fra le giuste parti prima di esaminare necessariamente la causa nel merito.

Si deve prendere le mosse per analizzare la problematica dal codice di rito civile (art.100 c.p.c.) che prevede che per proporre una domanda o per contraddire alla stessa occorre avervi interesse.

La norma è applicabile anche al processo amministrativo – per il suo carattere di generalità – è da ciò deriva che per agire nel processo amministrativo è necessario non solo essere titolari, a seconda dei casi di situazioni giuridiche di diritto soggettivo o di interesse legittimo, ma anche di una posizione di interesse a ricorrere, intesa non come idoneità astratta a conseguire un risultato utile, ma come interesse proprio del ricorrente al conseguimento di un vantaggio materiale o morale attraverso il processo amministrativo.

Nell’ottica del processo di tipo impugnatorio si tratta di un interesse all’eliminazione dell’atto impugnato, originato dall’emanazione di un atto lesivo di interessi legittimi, ossia della sussistenza dell’interesse all’eliminazione dell’atto illegittimo.

L’interesse a ricorrere, secondo la dottrina e la giurisprudenza, è qualificato da un duplice ordine di fattori: a) la lesione effettiva e concreta che il provvedimento impugnato arreca alla sfera patrimoniale o morale del ricorrente; b) il vantaggio concreto, anche se solo potenziale, che il ricorrente mira ad ottenere dall’annullamento del provvedimento impugnato.

L’interesse a ricorrere deve essere caratterizzato anche dai predicati della personalità (deve riguardare specificamente e direttamente il ricorrente) e della attualità (deve sussistere al momento della proposizione del ricorso e deve continuare a sussistere nel corso del giudizio, non essendo sufficiente un'ipotesi o una mera eventualità di lesione) nonché della concretezza (l’interesse va valutato con riferimento ad una concreta lesione o pregiudizio verificatosi a danno del ricorrente).

L’interesse è considerato sufficiente anche se il suo carattere è meramente strumentale, avuto riguardo alla finalità di rimettere semplicemente in discussione il rapporto controverso ai fini del riesercizio del potere in termini potenzialmente idonei ad evitare il pregiudizio sofferto o a conseguire il vantaggio sperato (e ciò in relazione al carattere peculiare del processo amministrativo che si inserisce quale momento parentetico nella dinamica di esercizio del potere).

Si deve quindi ribadire l’acquisizione giurisprudenziale secondo la quale nel processo amministrativo, come nel processo civile, salva espressa previsione di legge, non è ammessa l’azione popolare, ossia l’azione volta ad ottenere un mero controllo oggettivo della legittimità di un provvedimento amministrativo da parte del giudice per iniziativa del quisque de populo.

Non sono ammesse nell’ordinamento forme di controllo giurisdizionale generalizzato sulla pubblica amministrazione, nelle forme dell’azione popolare (diverso essendo lo scopo dell’azione penale in materia di reati contro la pubblica amministrazione che è quella di accertare responsabilità personali ed irrogare sanzioni penali), né sono possibili azioni dirette ad ottenere pronunce di principio al fine di orientare la futura azione amministrativa.

Ciò premesso in via generale si deve inquadrare in modo particolare la tematica dell’interesse all’impugnazione in materia ambientale poiché non v’è dubbio che in tale materia esso si atteggi in modo del tutto peculiare in relazione anche al fenomeno dell’espansione del diritto pubblico dell’ambiente e del ruolo che in detta espansione svolgono le formazioni sociali e gli enti pubblici territoriali ed istituzionali.

L’espansione del diritto pubblico dell’ambiente anche in forza dell’iniziativa giuridica degli organismi sovranazionali è fenomeno di ragguardevole entità in molti ordinamenti.

L’estensione delle attività regolamentate comporta la correlativa espansione dell’area dei conflitti “giustiziabili” tuttavia ciò non può trasformare il processo in una sede di rappresentazione di interessi sociali che avrebbero come veicolo attori e soggetti non aventi alcuna relazione qualificata nel senso anzidetto con l’atto impugnato.

Occorre quindi affrontare il tema nell’ottica dell’esame degli approdi giurisprudenziali.

Essi hanno valorizzato il criterio della vicinitas al fine di radicare l’interesse a ricorrere avverso gli atti autorizzativi della creazione e dell’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili (nella specie, alimentato da combustibile ricavato da rifiuti) (in argomento CdS VI 15/10/2001 n.5411).

E’ ormai pacifico l’interesse a ricorrere degli enti locali quali ad es. “il comune nel cui territorio è localizzata una discarica di rifiuti, ai sensi dell'art.3 bis l. 29 ottobre 1987 n.441”, in proposito si è affermato che “è titolare dell'interesse a ricorrere avverso la delibera di localizzazione, sia in quanto ente esponenziale dei residenti, sia in quanto titolare del potere di pianificazione urbanistica su cui incide il provvedimento di localizzazione, sia in quanto soggetto che per legge può partecipare al procedimento amministrativo e che in quanto tale può impugnarne il provvedimento conclusivo” (C. Stato, sez.V, 2.3.1999, n.217; in senso analogo CdS IV 6/10/2001 n.5296).

E’ del pari certo che non occorra provare l’esistenza di un danno concreto ed attuale al fine di impugnare il provvedimento di localizzazione di una discarica o di un impianto industriale ritenuto inquinante in quanto la questione della concreta pericolosità dell’impianto, valutata alla luce dei parametri normativi, è questione di merito, mentre al fine di radicare l’interesse ad impugnare è sufficiente la prospettazione di temute ripercussioni su un territorio collocato nelle immediate vicinanze ed in relazione al quale i ricorrenti sono in posizione qualificata (quali residenti o proprietari o titolari di altre posizioni giuridiche soggettive rilevanti).

In questa chiave si deve ritenere – come ha fatto il giudice di primo grado – senz’altro sussistente l’interesse ad impugnare di Fedi Renzo.

Circa la posizione concreta del Comitato per il NO giova svolgere alcune considerazioni.

Il divieto di azione popolare sarebbe troppo facilmente eluso se si permettesse, in modo sganciato da ogni riferimento alla vicinitas o prossimità come sopra definita, l’impugnazione di atti di localizzazione di impianti pericolosi a fini ambientali da parte di gruppi di cittadini, organizzati in comitati, aventi struttura transeunte e non duratura, non titolari di posizioni giuridiche qualificate o aventi una peculiare relazione con il territorio interessato dalla realizzazione industriale contestata e quindi prescindendo dal riferimento dell’associazione a determinate qualità dei partecipanti ed alle finalità di tutela di una determinata collettività.

Non basta il mero scopo associativo o lo statuto del comitato, a rendere differenziato un interesse diffuso o adespota, facente capo alla popolazione nel suo complesso quale l’interesse alla salvaguardia dell’ambiente (che cosa diversa dal diritto all’ambiente salubre spettante al singolo la cui sfera può essere concretamente incisa da un’iniziativa dannosa), specie quando tale scopo associativo si risolva senza mediazione alcuna di altre finalità, nell’“utilizzazione di tutti i mezzi leciti per non consentire la realizzazione di un determinato progetto industriale” e, quindi, in definitiva, nella stessa finalità di proporre l’azione giurisdizionale.

In tal caso la costituzione di un comitato o di un’associazione diverrebbe lo strumento per perseguire l’azione giurisdizionale popolare in veste diversa, e per questo motivo si deve ritenere inammissibile il ricorso del Comitato per il NO.

Tuttavia è ormai pacifico l’interesse a ricorrere in via autonoma delle associazioni ambientalistiche riconosciute (ai sensi dell'art.18, 5º comma, l. 8 luglio 1986 n.349 le associazioni ambientalistiche, infatti, se riconosciute da appositi decreti ministeriali, sono legittimate a ricorrere nelle controversie relative a materie corrispondenti alle loro finalità istituzionali. C. Stato, sez.VI, 25.1.1995, n.77) mentre la situazione dell'associazione di fatto, meno stabile, ai fini del riconoscimento della sua legittimazione ad agire in giudizio può essere valorizzata – a tutto concedere – solo ai fini dell'ammissione di un suo intervento ad adiuvandum (del quale esistono i presupposti formali e sostanziali).

Infatti l'esplicita legittimazione delle associazioni ambientalistiche di dimensione nazionale o ultraregionale non esclude, quindi, di per sé sola, una legittimazione, quantomeno limitata al fine di spiegare un intervento ad aiuvandum, agli organismi comitati o associazioni che si costituiscano in un ambito territoriale al precipuo scopo di proteggere l'ambiente, la salute, e/o la qualità della vita delle popolazioni residenti su tale circoscritto territorio, ove non solo il loro statuto ma i loro programmi e le loro attività risultino effettivamente orientati nel senso di volere proteggere l'ambiente e la salute nella data località (e si pensi al ruolo pregnante che possono avere in questa materia i c.d. comitati di quartiere).

La sentenza impugnata ha ritenuto che il comitato non sia sufficientemente rappresentativo per l'esiguità dei promotori (tre), per il fatto che gli stessi sono residenti nel vicino comune di Follonica e non in Scarlino e per la vaghezza del riferimento ed agli interessi dei cittadini delle colline metanifere. Tali elementi se consentono di escludere la legittimazione ad agire in via autonoma non comportano certo l’estromissione dal giudizio del Comitato attesa la possibilità di considerare la sua adesione al ricorso del Fedi alla stregua di un atto di intervento ad adiuvandum.

In tal senso non appare decisiva la considerazione relativa all’esiguità dei promotori del comitato, poiché in primo luogo non appare richiesta, ai fini della valutazione dell’ammissibilità di un intervento ad adiuvandum una stringente verifica di rappresentatività numerica delle associazioni ambientalistiche non riconosciute che si legittimano, per rappresentatività, anche in base ad altri indici (inerenza dello scopo alla tutela dell’ambiente, riferibilità dell’associazione ad una collettività determinata, serietà dell’iniziativa, carattere non strumentale della medesima, contraddittorio avvenuto ed instaurato con le pubbliche amministrazioni), la rappresentatività numerica riguardando solo le associazioni riconosciute ed essendo accertata in sede amministrativa, e soprattutto non potendo assumere alcuna rilevanza a tale scopo il numero dei promotori il comitato ma casomai il numero degli aderenti allo stesso.

In secondo luogo deve rilevarsi che la vicinitas elusa per il fatto che i promotori sono residenti a Follonica e non a Scarlino non può essere limitata al comune di insediamento di un impianto industriale che si assume dannoso per l’ambiente in quanto la prossimità dell’interesse è in questo caso correlata all’imponenza della minaccia del male o del danno temuto e, quindi, nel caso di una centrale termoelettrica, di un danno commisurato agli effetti inquinanti diffusivi di cui l’impianto si può ipotizzare capace.

In tal senso deve ritenersi sussistente la vicinitas anche nel caso di iniziative associative che riguardino soggetti residenti in comuni limitrofi.

In terzo luogo e con decisivo argomento, deve ritenersi che la finalità del comitato, pur connotato da un'indubbia limitatezza dello scopo, che allude alla proposizione dell’azione giurisdizionale in modo immediato e per questo non fonda la legittimazione a ricorrere, sia quella di tutela, con mezzi anche differenti dall’azione in giudizio, dell’area umida esistente nel luogo scelto per la realizzazione del cogeneratore di Scarlino e dei cittadini delle colline metanifere quindi di una serie di soggetti che si identificano per il fatto di essere residenti nelle aree vicine al cogeneratore.

Deve quindi ritenersi che sussista l’interesse ad intervenire del comitato, quale formazione sociale ai sensi dell’art.2 Cost., orientata concretamente a proteggere gli interessi ambientali di una collettività determinata.

Quanto poi agli interventori Comune di Colonica e WWF Italia, va dichiarato ammissibile il loro intervento in primo grado, non essendovi concreta prova (sul punto non evidenziata dalla sentenza) che il loro intervento adesivo autonomo sia stato effettuato in elusione del termine decadenziale, poiché non vi sono in atti concreti elementi (né sono stati indicati dalla sentenza di primo grado) comprovanti l'effettiva conoscenza del provvedimento impugnato da data antecedente il sessantesimo giorno precedente la proposizione del ricorso.

Devono essere di seguito esaminate le eccezioni di inammissibilità proposte dalla Società Ambiente.

In primo luogo si censura per inammissibilità l’appello delle istanti per mancata riproposizione dei motivi di ricorso di primo grado. L’eccezione è infondata.

Certo l’appello – così come proposto in modo sostanzialmente analogo dalle diverse appellanti, mediante gli stessi difensori - non contiene una formale riproposizione dei motivi di primo grado ed è costruito quale critica alla sentenza impugnata, ma non vi è nella proposizione dell’appello, da rispettare alcuna formula sacramentale o impostazione predefinita dei motivi.

I motivi d’appello devono essere specifici e formulati in relazione alla sentenza impugnata, tanto che si è dubitato in giurisprudenza, all’inverso, della legittimità dell’appello che si risolva nella mera riproposizione dei motivi del ricorso di primo grado, a fronte di una sentenza analiticamente argomentata, mentre deve ritenersi ammissibile l’appello che, formulato in guisa di esame critico del decisum impugnato, contenga, sul piano logico, la chiara riproposizione delle questioni fatte oggetto dei motivi di impugnazione proposti in primo grado.

Nella specie tale riproposizione è evidente nell’ampia trattazione, contenuta nell’atto di appello, delle statuizioni di merito della sentenza appellata, con la conseguenza dell’indubbia possibilità di considerare devoluta al giudice d’appello la materia sostanzialmente negli stessi termini prefissati dall’ambito e dall’area dei motivi presentati in primo grado.

Ne consegue il rigetto dell’eccezione d’inammissibilità.

Vi è poi l’eccezione – acutamente formulata - d’inammissibilità per la genericità delle censure proposte sin dal ricorso di primo grado.

Ma la questione fondamentale del ricorso di primo grado, (dalla quale logicamente tutte le altre censure e questioni discendono), legata alla mancata applicazione della normativa interna di recepimento delle direttive comunitarie in tema di smaltimento dei rifiuti è chiaramente posta dall’atto introduttivo del giudizio al primo, secondo e terzo motivo.

L’applicazione necessaria del diritto interno di recepimento delle direttive sui rifiuti deriva dall’assunto - secondo gli appellanti costituente diritto vivente comunitario - dell’illegittimità comunitaria della distinzione fra rifiuti e residui – così come operata dall’anzidetto d.l. - nell’ambito dell’unitaria nozione di rifiuto.

La circostanza di non aver detto in quale parte il d.l. n.113/1996 recante “disposizioni in materia di riutilizzo dei residui derivanti da cicli di produzione e consumo in un processo produttivo o in un processo di combustione” contrasti con il diritto comunitario è priva di rilevanza ai fini dell’ammissibilità del ricorso poiché ciò che si contesta con il ricorso è che la distinzione fra rifiuti e residui - quale disegnata dal d.l. n.113/1996 - possa essere legittimamente posta a base di una disciplina differenziata dei rifiuti–residui, non conforme al diritto comunitario armonizzato e recepito nell’ordinamento interno.

La questione relativa alla possibilità di ritenere il d.l. n.113/1996 una corretta trasposizione del diritto comunitario è questione di merito sorta a seguito delle difese dell’Amministrazione che non conduce ad una necessaria conclusione in rito di inammissibilità del ricorso di primo grado.

Vi è poi l’ulteriore eccezione d’inammissibilità del ricorso relativa alla mancata impugnazione del d.m. 16/1/1995 (che non viene espressamente riproposta dalla società appellata che si limita ad eccepire l’inammissibilità dell’appello sul punto in cui chiede al giudice di disapplicare l’atto predetto per la novità del motivo in tal modo proposto ma la problematica sarà esaminata congiuntamente con il merito allora dovendosi esaminare la valenza di tale atto ai fini del decidere) rigettata dalla sentenza di primo grado con motivazione che gli appellanti valutano erronea e lacunosa, anche se corretta nel decisum.

Il d.m. 16/1/1997 non doveva essere impugnato nella tesi degli appellanti non avendo portata lesiva degli interessi degli stessi, lesi solo dal provvedimento di autorizzazione della centrale termoelettrica di combustione dei residui-rifiuti.

Il punto atterrebbe al merito, come rilevato dal giudice di primo grado, poiché i motivi proposti sono tali da potersi anche valutare indipendentemente dall’impugnativa del d.m. 16/1/1995.

Ciò perché il decreto interministeriale 16/1/1995 reca norme tecniche per il riutilizzo in un ciclo di combustione per la produzione di energia dei residui derivanti da cicli di produzione o consumo.

Esso individua i tipi e le caratteristiche dei residui in attuazione della normativa eccezionale ed urgente sui c.d. residui più volte reiterata e mai convertita in legge.

L’impugnativa è invece dell’atto di autorizzazione all’installazione ed all’esercizio della centrale termoelettrica per contrarietà al diritto comunitario vivente in materia di rifiuti per cui può essere considerato proponibile - anche alla luce dell’eventuale disapplicazione del decreto interministeriale (da effettuarsi ove occorra anche d’ufficio nella tesi degli appellanti) - indipendentemente dall’impugnativa del decreto di individuazione dei residui riutilizzabili nei processi produttivi (poiché non è la riutilizzabilità in contestazione ma la mancanza di autorizzazione ex lege n.915/1982 a rendere illegittimo il provvedimento): da ciò il rigetto dell’eccezione.

In ogni caso sul rigetto dell’eccezione di inammissibilità s’è formato giudicato, mentre quanto al motivo d’impugnazione proposto dagli appellanti per correggere la motivazione del rigetto esso può ritenersi inammissibile per carenza d’interesse avendo la sentenza da risolvere conflitti pratici e non certo questioni teoriche (potendosi peraltro valutare nel prosieguo la concreta incidenza di tale d. interm., anche ai fini della disapplicazione richiesta in appello).

Nel merito, trattando congiuntamente dei primi quattro motivi di ricorso originario per la loro stretta connessione logica, occorre inquadrare la problematica nella giusta prospettiva valutando il complesso quadro normativo nel quale ha operato la pubblica amministrazione allorché ha adottato il provvedimento amministrativo impugnato.

Con leggi 9 gennaio 1991 n.9 e n.10 è stato disposto, fra l’altro, che la produzione di energia elettrica a mezzo di impianti che utilizzano fonti di energia rinnovabili, tra cui sono ricompresse le azioni di trasformazione di rifiuti organici ed inorganici finalizzati alla produzione di energia, non è soggetta alla normativa emanata in materia di nazionalizzazione dell’energia elettrica (art.22 legge n.9/1991) e che l’utilizzazione delle fonti di energia predette è considerata di pubblico interesse e di pubblica utilità (art.1 legge n.10/1991).

Per gli impianti di produzione di energia elettrica che comportano emissioni nell’atmosfera, ivi compresi gli impianti sopra citati utilizzanti rifiuti o combustibili non convenzionali (CNC), la vigente normativa ambientale prescrive una specifica autorizzazione alla costruzione ed all’esercizio – ai sensi dell’art.17 del d.p.r. 24 maggio 1988 n.203 – rilasciato dal Ministero dell’Industria, previo parere favorevole dei Ministeri dell’Ambiente e della Sanità, sentite le Regioni interessate.

Nel caso specifico poi occorre fare riferimento ulteriore ad una serie di norme che, al fine di agevolare la soluzione del problema dello smaltimento dei rifiuti, hanno individuato varie categorie di questi ultimi particolarmente idonei al loro impiego quali combustibili per la produzione di energia elettrica, escludendoli, nel contempo, dal campo di applicazione del regime dei rifiuti di cui al d.p.r. n.915/1982 e successive modificazioni ed integrazioni (fino alla legge n.22/1997 e successive modificazioni ed integrazioni). Dette norme sono state introdotte a partire dal d.l. 8/7/1994 n.438, reiterato sostanzialmente per undici volte fino al d.l. 8 marzo 1996 n.113 di cui fa applicazione il decreto impugnato. Occorre riportare per chiarezza espositiva l’intera disposizione dell’art.5 (Attività di riutilizzo sottoposte a comunicazione): “Chiunque intende effettuare sul territorio nazionale il trattamento, lo stoccaggio o il riutilizzo dei residui di cui agli allegati 2 e 3 al decreto del Ministro dell'ambiente 5 settembre 1994, pubblicato nel supplemento ordinario n.126 alla Gazzetta Ufficiale n.212 del 10 settembre 1994, e di cui al decreto del Ministro dell'ambiente 16 gennaio 1995, pubblicato nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale del 30 gennaio 1995, n.24, ad eccezione delle categorie di cui ai punti 21 e 22 dell'allegato 1 al medesimo decreto, è tenuto a darne annualmente comunicazione, su carta libera, alla sezione regionale dell'Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento dei rifiuti ed alla regione, alla provincia autonoma o alla provincia delegata, territorialmente competente. La comunicazione è corredata da una relazione, nella quale sono indicati provenienza, tipi, quantità e caratteristiche dei residui da trattare, stabilimento e ciclo di trattamento, di produzione o di combustione nel quale i residui stessi sono destinati ad essere riutilizzati, nonché le caratteristiche merceologiche dei prodotti derivanti dai predetti cicli di riutilizzo. La regione, la provincia autonoma o la provincia delegata può chiedere ulteriori dati ed informazioni per verificare il rispetto delle norme vigenti sulla tutela della salute e dell'ambiente e, qualora accerti la mancanza dei presupposti o dei requisiti dalle stesse richiesti, può vietare la prosecuzione dell'attività ed impone la rimozione degli effetti già prodotti. 1. Con decreto del Ministro dell'ambiente, di concerto con i Ministri dell'industria, del commercio e dell'artigianato e della sanità, verranno stabilite le norme tecniche per la regolamentazione delle attività finalizzate al riutilizzo ai fini della produzione di energia dei residui bituminosi derivanti da processi di lavorazione del greggio (TAR) e dei residui allo stato solido derivanti dal processo di codificazione di frazioni pesanti petrolifere (Coke di petrolio). 2. Le sezioni regionali territorialmente competenti dell'Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimenti dei rifiuti redigono l'elenco degli operatori che hanno effettuata la comunicazione ai sensi del presente articolo. 3. Agli oneri per la tenuta degli elenchi di cui al comma 1 si provvede con le entrate derivanti dal diritto di iscrizione annuale, pari a lire cinquantamila a carico delle ditte esercenti le attività. 4. Nel rispetto delle norme a tutela della salute e dell'ambiente e della normativa comunitaria, con particolare riferimento alle disposizioni di cui ai commi 5 e 6, con decreto del Ministro dell'ambiente, di concerto con i Ministri della sanità, dell'industria, del commercio e dell'artigianato e delle risorse agricole, alimentari e forestali, vengono apportate modifiche ed integrazioni agli allegati di cui al comma 1. 5. Le attività di riutilizzo dei residui non tossici e nocivi sono sottoposte alle procedure agevolate previste dal presente articolo qualora: a) siano definite per ciascun tipo di attività le norme generali che fissano i tipi dei residui nonché le condizioni alle quali le attività sono sottoposte alla disciplina del presente articolo; b) siano definite in relazione ai tipi di residui ed ai metodi di trattamento o riutilizzo le prescrizioni necessarie per assicurare che i residui stessi siano riutilizzati senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizi all'ambiente. 6. Le attività di riutilizzo dei residui tossici o nocivi o pericolosi sono sottoposte alle procedure agevolate previste dal presente articolo qualora: a) siano definite le norme generali che fissano i tipi di residui; b) sia indicato per ogni tipo di residuo il valore limite di sostanze pericolose contenute ed i valori limite di emissione; c) siano individuati i tipi di attività e le condizioni alle quali l'attività è sottoposta alla disciplina del presente articolo; d) siano definite, in relazione ai tipi e alle quantità di sostanze pericolose contenute nei residui ed ai metodi di riutilizzo, le prescrizioni necessarie per assicurare che i residui stessi siano riutilizzati senza pericolo per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizi all'ambiente.” Fin qui la disciplina primaria.

Con il decreto interministeriale 1/1/1995 il quadro normativo relativo ai c.d. residui riutilizzabili veniva completato in modo esaustivo, individuando i tipi di residui smaltibili mediante riutilizzo nei processi di generazione dell’energia elettrica.

Il quadro normativo predetto non veniva mai convertito in legge, sicché non superava la soglia della transitorietà ed eccezionalità, pure durevole nel tempo con la prassi costituzionalmente illegittima della reiterazione dei decreti legge, ma veniva sanato dalla legge 11 novembre 1996 n.575 per quanto attinente gli effetti della mancata conversione dei decreti legge predetti.

In primo luogo va rilevato che l’utilizzazione delle fonti rinnovabili è in accordo con la politica energetica della CE ed è rispondente ad un uso razionale dell’energia. Tra le fonti rinnovabili la legge n.10/1991 art.1 comma 3 annovera la trasformazione di rifiuti organici ed inorganici, considerando altresì fonti assimilate alle fonti rinnovabili di energia la cogenerazione intesa come produzione combinata di energia elettrica o meccanica di calore.

L’utilizzazione delle fonti rinnovabili di energia è considerata dall’art.1 ult. co. citato di pubblico interesse e di pubblica utilità.

Essa non era soggetta alla vecchia riserva disposta in favore dell'ENEL dall’art.1 della legge 6/12/1962 n.1643 ed alle relative autorizzazioni (art.22 della legge 9/1/1991 n.9).

Il procedimento autorizzatorio per le centrali non appartenenti all’ENEL ossia gli impianti di produzione di energia elettrica che comportano emissioni nell’atmosfera, ivi compresi gli impianti utilizzanti rifiuti o combustibili non convenzionali, è disciplinato per il caso in esame dall’art.17 del d.p.r. 24/5/1988 n.203 che fa salva la competenza del Ministro dell’Industria e disciplina la fattispecie per quanto attiene gli aspetti relativi la qualità dell’aria (ora il procedimento è disciplinato anche dal regolamento di cui al d.p.r. 11/2/1998 n.53).

Da questo quadro normativo nazionale muovono i fatti di causa per i quali la Società Nuova Solmine s.p.a. del Gruppo ENI nell’ambito delle azioni di ristrutturazione delle proprie attività a seguito del ridimensionamento delle attività minerarie nella zona delle c.d. colline metallifere con istanza corredata di apposita documentazione tecnica del 30/12/1994 ha chiesto l’autorizzazione alla costruzione ed all’esercizio ai sensi del citato art.17 del d.p.r. n.203/1988 di un impianto per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, caratterizzato da una potenza immissibile con il combustibile di circa 70 MW termici.

Il progetto presentato dalla società prevede il parziale riutilizzo dei propri impianti per l’arrostimento delle piriti, utilizzati fino al 1994 per la produzione di acido solforico, siti nel Comune di Scarlino, località Casone, nonché l’installazione di elementi ex novo, al fine di realizzare un impianto per il riutilizzo in un ciclo di combustione di rifiuti individuati dai decreti interministeriali suddetti al fine di produrre energia elettrica.

L’impianto in questione costituisce senza dubbio una centrale termoelettrica e non un impianto di smaltimento di rifiuti, né un inceneritore di rifiuti, diversa essendo, anche a norma del più preciso quadro normativo sopravvenuta la centrale termoelettrica dall’inceneritore.

La peculiarità del caso risiede nel fatto che la centrale, invece di essere alimentata a carbone, petrolio o a gas, utilizza come combustibili i residui di altre lavorazioni costituenti ai sensi delle legge vigenti “fonti rinnovabili di energia” ovvero residui riutilizzabili o combustibili non convenzionali.

Anche il D.P.C.M. 21/7/1989, atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni per l’attuazione e l’interpretazione del d.p.r. n.203/1988 conferma che la centrale termoelettrica è l’impianto funzionale e connesso al ciclo di produzione dell’energia “ivi compresi gli impianti di alimentazione”.

La competenza all'installazione della centrale termoelettrica è quindi una competenza del Ministero dell’Industria, che tra l’altro è stata giudicata costituzionalmente legittima (Corte Cost. 21/7/1995 n.346).

Di qui l’infondatezza del terzo motivo di ricorso che vorrebbe affermare in materia un'inesistente competenza regionale, sulla sola base del d.p.r. n.915/1982.

Va altresì tenuto presente che non incide sul caso di specie la devoluzione delle funzioni amministrative alle province in relazione all’autorizzazione all’installazione ed all’esercizio degli impianti di produzione di energia (art.31 del d.lgs. n.112/1998) che non è normativa di immediata efficacia e comunque opera per il futuro e non in relazione all’epoca di adozione del provvedimento impugnato.

L’impianto poi non produce (se non accidentalmente) rifiuti da ulteriormente smaltire (ceneri) ma prevalentemente emissioni gassose e non è quindi un impianto di smaltimento ma di recupero dei rifiuti (ai sensi della direttiva 91/156 CE).

Orbene così definita la natura dell’impianto e la sua finalizzazione, nonché la competenza dell’organo amministrativo titolare del potere di autorizzazione all’installazione della centrale occorre rilevare che le censure mosse dagli appellanti, nel quadro legislativo previgente il d.lgs. n.22/1997 (su cui si è diffusa la pronuncia CdS VI 15/10/2001 n.5411), non incidono sulla legittimità della autorizzazione all’installazione ma, e qui risiede la ragione della loro solo parziale fondatezza, solo sulla legittimità dell’autorizzazione all’esercizio dell’impianto medesimo.

Infatti, anche qualora l’attività di utilizzazione dei residui fosse riconducibile alla disciplina dei rifiuti, da ciò non potrebbe mai derivare un'illegittimità dell’autorizzazione alla installazione della centrale, poiché la centrale è realtà economica aziendale e giuridica diversa da una discarica e/o da un inceneritore e/o da un impianto di trattamento, stoccaggio temporaneo o definitivo dei rifiuti (tale da dovere esser inserito nel piano regionale di organizzazione dei servizi di smaltimento dei rifiuti ai sensi dell’art.6 del d.p.r. n.915/1982) ed utilizzare un rifiuto ai fini della combustione generatrice di energia in una centrale termoelettrica è attività relativa all’esercizio della centrale medesima e non alla sua costruzione e localizzazione (di competenza esclusiva del Ministero dell’Industria per quanto già detto).

Di qui l’infondatezza di tutte le deduzioni ed argomentazioni dei ricorrenti dirette a contestare la legittimità dell’autorizzazione all’installazione della centrale.

Una conferma di questo assunto la si ritrova nella disciplina delle direttive 89/369 CE e 89/429 CE, nonché nel d.m. 19/11/1997 n.503 che disciplinano le emissioni e le condizioni di combustione degli impianti di incenerimento di rifiuti, normative non certo applicabili al cogeneratore della società appellata.

Ciò premesso occorre verificare se l’attività amministrativa posta in essere dal Ministero dell’Industria emanando il decreto impugnato sia stata pienamente rispettosa della normativa comunitaria e della normativa interna che disciplina i rifiuti in recepimento della normativa comunitaria.

E’ ius receptum nel diritto comunitario che la nozione di rifiuto ai sensi delle direttive 75/442 e 78/319 non deve intendersi nel senso che escluda le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (Corte Giustizia CE 28/3/1990 cause riunite 206/88 e 207/88 Vessoso-Zanetti nonché Corte di Giustizia CE 18/4/1992 causa 9/00 Palin Granit e Vehmassalonkansanterveyon).

Di recente, confermando tale orientamento, si è statuito che: “la nozione di «rifiuti» figurante all'art.1 della direttiva del consiglio 15 luglio 1975 n.75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del consiglio 18 marzo 1991 n.91/156/CEE, cui rinviano l'art.1 n.3, della direttiva del consiglio 12 dicembre 1991 n.91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi, e l'art.2, lett. a), del regolamento (CEE) del consiglio 1º febbraio 1993 n.259, relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal suo territorio, non deve essere intesa nel senso che essa esclude sostanze od oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire oggetto di un negozio giuridico, ovvero di una quotazione in listini commerciali pubblici o privati; in particolare, un processo di inertizzazione dei rifiuti finalizzato alla loro semplice innocuizzazione, l'attività di discarica dei rifiuti in depressione o in rilevato e l'incenerimento dei rifiuti costituiscono operazioni di smaltimento o di recupero che rientrano nella sfera d'applicazione delle precisate norme comunitarie; il fatto che una sostanza sia classificata nella categoria dei rifiuti riutilizzabili senza che le sue caratteristiche e la sua destinazione siano precisate è al riguardo irrilevante; lo stesso vale per la triturazione di un rifiuto” (Corte giustizia Comunità europee, 25.6.1997, nn.304, 330, 342/94, 224/95 Tombesi).

La sentenza Tombesi è particolarmente interessante avuto riguardo alle questioni oggetto dell’appello poiché in essa venivano in rilievo proprio i decreti-legge reiterati ma non convertiti recanti disposizioni in tema di riutilizzo dei residui derivanti da cicli di produzione o di consumo in un processo produttivo o in un processo di combustione, nonché in materia di smaltimento dei rifiuti”, adottati a partire dal novembre 1993 (d.l. 9 novembre 1993 n.443 GURI 10/11/1993 n.264).

Il Governo italiano, per diversi anni, attraverso l’emanazione di successivi decreti legge, oltre che aver fatto ricorso all’espediente terminologico di definire i rifiuti riutilizzabili e/o recuperabili residui ha disposto una blanda disciplina per la loro regolamentazione ed il riutilizzo, disciplina sostanzialmente derogatoria rispetto alla disciplina interna (d.p.r. n.915/1982) di recepimento delle prime direttive comunitarie in materia di rifiuti e difforme rispetto alle ulteriori direttive non ancora trasposte (91/156 e 91/689).

L’espediente terminologico non era quindi né ingenuo né innocuo, né meramente nomenclatorio o classificatorio, ma serviva, nell’ottica del legislatore, proprio a segnare il campo di una differente disciplina, ritenuta non contrastante con il diritto comunitario (ma con perplessità che conducevano poi alla mancata conversione dei decreti legge pur molte volte reiterati) perché fuori dal campo di applicazione delle direttive sui rifiuti.

Proprio i principi affermati nella sentenza Tombesi ossia la qualificabilità dei residui come rifiuti impongono di verificare - come richiesto dagli appellanti che su tale presupposto fondano tutto il ricorso - se la disciplina posta dalla normativa adottata d'urgenza e salvata in sede di mancata conversione con l. 11/11/1996 n.575 (GURI 12/11/1996 n.265) sia conforme alle direttive comunitarie recepite dal diritto interno ed alle altre che erano in attesa di trasposizione o se, non debba, come richiesto dagli appellanti farsi applicazione della normativa interna di recepimento (d.p.r. n.915/1982 ed ora d.lgs. n.22/1997 c.d. decreto “Ronchi” dal nome del Ministro proponente).

Infatti la sentenza Tombesi è chiara nell’affermare che “una normativa nazionale che adotti una definizione della nozione di rifiuti che esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica non è compatibile con la direttiva 74/442 nella sua versione originale e con la direttiva 78/319 (sentenze 28/3/1990 causa C- 359/88 Zanetti; 10/5/1995 causa 422/92 Commissione c. Germania). Tale interpretazione non è messa in discussione né dalla direttiva 91/156, che ha apportato modifiche alla prima delle due direttive, né dalla direttiva 91/689 che ha abrogato la seconda (cfr. la precitata sentenza Commissione c. Germania).

Le direttive in tema di rifiuti pongono il principio fondamentale dell’autorizzazione di ogni attività di smaltimento e recupero (artt.9 e 10 della direttiva 91/156) o dell’iscrizione dell’impresa che smaltisce in appositi albi (art.12) (il d.p.r. n.915/1982 adotta pienamente il principio dell’autorizzazione art.6 lett. d) del d.p.r. n.915/1982). L’autorizzazione può non essere contemplata per gli stabilimenti o le imprese che recuperano rifiuti, ma ciò può avvenire (art.11) a condizione che le autorità competenti abbiano adottato per ciascun tipo di attività norme generali che fissano i tipi e le quantità di rifiuti e le condizioni alle quali l’attività può essere dispensata dall’autorizzazione e sempre che i tipi o le quantità di rifiuti ed i metodi di smaltimento o di ricupero siano tali da rispettare le condizioni imposte dall’articolo 4.

Tali condizioni vogliono che i rifiuti siano recuperati senza creare rischi per l’acqua, l’aria, il suolo e per la fauna e la flora; senza causare inconvenienti da rumori od odori; senza danneggiare il paesaggio ed i siti di particolare interesse (art.4 direttiva citata).

Gli stati membri informano la Commissione delle norme generali adottate in virtù del paragrafo 1.

Analoga norma è prevista in tema di smaltimento di rifiuti pericolosi (art.3 della direttiva 91/689) ma in questo caso è prevista che la disciplina derogatoria rispetto al principio di autorizzazione, ossia la dispensa dello Stato membro, sia comunicata alla Commissione almeno tre mesi prima, che si apra una procedura di consultazione fra gli Stati membri, che la Commissione faccia una proposta di adozione della normativa secondo la procedura di cui all’art.18 della direttiva 75/442/CE (che prevede, in caso di proposta non conforme al parere del Comitato dei rappresentanti degli Stati membri, l’intervento del Consiglio).

La normativa italiana che, in attesa della completa attuazione delle direttive 91/156 CE e 91/689 CE ed in particolare “in attesa che la Commissione dell’Unione europea stabilisse in maniera puntuale i criteri che caratterizzano la nozione di rifiuto”, ha distinto fra rifiuti e materie prime secondarie e poi fra rifiuti e residui riutilizzabili non trova quindi alcuna copertura comunitaria da parte dello Stato membro non essendovi prova dell’esperimento puntuale delle procedure di garanzia di cui agli artt.11 della direttiva 91/156 e 3 della direttiva 91/689 per la dispensa dall’autorizzazione ed apparendo singolare il riferimento alla necessità di una puntualizzazione dei criteri che definiscono la nozione di rifiuto in presenza di cospicue e costanti indicazioni della giurisprudenza comunitaria sul punto.

L’approdo della giurisprudenza comunitaria relativamente alla nozione ampia ed oggettiva di rifiuto è stato sostanzialmente accolto anche dalla Cassazione e dal Consiglio di Stato in alcune decisioni riguardanti il regime delle c.d. “materie prime secondarie”, che ai sensi della legge 9/11/1988 n.475 (legge alla quale risale l’inizio della c.d. “emergenza rifiuti”) sono i “residui derivanti da processi produttivi e che sono suscettibili, eventualmente previi idonei trattamenti, di essere utilizzati come materie prime in altri processi produttivi della stessa o di altra natura”.

Giudicando sul noto caso dell’impresa Acna di Cengio il Supremo Consesso ha avuto occasione di precisare che in tema di smaltimento dei rifiuti, nella generale categoria dei rifiuti rientrano non soltanto le sostanze e gli oggetti che si possono considerare tali sin dall'origine (ad es., immondizie), ma anche le sostanze e gli oggetti non più idonei a soddisfare i bisogni cui erano originariamente destinati, pur se non ancora privi di valore economico, sicché «abbandonato o destinato all'abbandono» va inteso non nel senso civilistico di res nullius o di res derelicta, disponibile all'apprensione di chiunque, sebbene di sostanza od oggetto ormai inservibile alla sua funzione originaria, dismesso - o destinato ad essere dismesso - da colui che lo detiene, anche mediante un negozio giuridico (C. Stato, sez.IV, 19.7.1993, n.741 nello stesso senso Cass. pen. Sez.III 26/2/1991 Lunardi; Cass. Sez. Un. pen. 27/3/1992 Viezzoli).

Le materie prime secondarie, ovvero i residui derivanti dai processi produttivi suscettibili di essere riutilizzati, non costituiscono una categoria autonoma, diversa o comunque alternativa rispetto ai rifiuti, giacché si tratta pur sempre di sostanze ed oggetti dismessi - o destinati ad essere dismessi - dal loro detentore in quanto non più idonei a soddisfare i bisogni cui erano originariamente destinati; pertanto, continua ad applicarsi ad esse la normativa (amministrativa e penale) prevista dal d.p.r. 10 settembre 1982 n.915, almeno fino a quando non si provvederà a tutti gli adempimenti prefigurati dall'art.2 l. 9 novembre 1988 n.475 che, proprio in funzione dell'attitudine delle materie prime secondarie ad essere riutilizzate, riserva alle stesse un regime giuridico diverso da quello cui sono sottoposti i rifiuti in generale (C. Stato, sez.IV, 19.7.1993, n.741). Il principio è chiaro: non sono ingiustificabili diversità di trattamento fra rifiuti e rifiuti-residui (diversità consentite anche dalle direttive comunitarie) ma esse non devono comportare una sostanziale sottrazione della materia al perseguimento delle finalità di tutela affermatesi nell’ambito del diritto comunitario vivente in materia ambientale con riguardo ai rifiuti.

In particolare poi, anche sul piano sostanziale, non possono dirsi soddisfatte dal d.l. n.113/1996 e dalla disciplina secondaria da esso presa a riferimento (emanata in attuazione dei primi decreti non convertiti), le condizioni poste dal legislatore comunitario per la dispensa dal regime autorizzatorio: a fronte del disposto dell’art.5 del d.l. n.113/1996 (attività di riutilizzo sottoposte a comunicazione) che impone solo oneri informativi all’impresa che effettua il riutilizzo dei residui-rifiuti e non assicura alcuna salvaguardia preventiva dell’ambiente o cautela sufficiente affidandosi solo ai controlli ex post (divieti di prosecuzione dell’attività ed ordini di rimozione degli effetti già prodotti).

In proposito giova ricordare che le procedure semplificate introdotte dal decreto Ronchi (d.lgs. n.22/1997) che hanno rielaborato la disciplina di settore (in virtù di una doppia delega legislativa l. 22/2/1994 n.146 artt.38-39 per il recepimento delle direttive 91/156 e 91/689 nonché l. 6/2/1996 n.52 per il recepimento della direttiva 94/62 sugli imballaggi), eliminando gran parte delle disposizioni contrastanti con il diritto comunitario hanno costruito un sistema organico fondato su principi direttivi, assetti organizzativi, profili procedimentali e sanzionatori che affrontano compiutamente la materia dei rifiuti superando quella che la dottrina ha indicato come l’epoca dell’«emergenza rifiuti» connotata dall’emanazione continua dei c.d. “decreti catenaccio”.

A seguito dell’emanazione del decreto “Ronchi” è stata emanata una disciplina per il riutilizzo dei rifiuti non pericolosi con d.m. 5/2/1998: tale disciplina attuativa degli artt.31-33 del d.lgs. n.22/1997 è rispondente effettivamente ai canoni comunitari e costituisce una piena attuazione delle direttive.

Essa è considerata un vero e proprio superamento dell’assetto precedente (cfr. art.33 comma 6 del d.lgs. n.22/1997; art.11 comma 2 del d.m. 5/2/1998), che rimane transitoriamente in vigore (e quindi viene fatto salvo dal decreto “Ronchi”), per quanto attiene i rifiuti non pericolosi solo per quanto riguarda le voci 6, 7, 9, 14 dell’allegato 1 e solo entro tre mesi dall’entrata in vigore dello stesso, mentre l’impianto gestito dalla Società Ambiente utilizza residui classificati in voci dell’allegato 1 non “salvate” dalla disciplina transitoria del d.m. 5/2/1998 e comunque non v’è prova abbia posto in essere le procedure semplificate del d.m. sicché si deve supporre abbia continuato ad esercitare valendosi del vecchio titolo abilitativo anche dopo il decorso dei tre mesi predetti.

Di recente, con d.m. 12/6/2002 n.161, sono stati individuati i rifiuti pericolosi che è possibile ammettere alle procedure semplificate, con una compiuta disciplina degli aspetti rilevanti la gestione del rifiuto quali ad es. la c.d. “messa in riserva” in attesa del recupero (ossia la gestione del rifiuto non immediatamente recuperato aspetto cruciale non disciplinato dalla normazione previgente) così completandosi il disegno previsto dalla legge Ronchi.

La norma transitoria relativa al recupero dei rifiuti pericolosi (art.9 del d.m. 12/6/2001 n.161) abroga il D.M. 16/1/1995 e concede sei mesi alle imprese già in esercizio – come la Società Ambiente - per adeguarsi alle disposizioni del regolamento sui rifiuti pericolosi (art.9 comma 3).

A fronte di questo quadro normativo sopravvenuto (invero non totalmente ricostruito dalle parti), si è eccepito, con acutezza, il sopravvenuto difetto di interesse a ricorrere.

Ma sul punto va osservato che non v’è prova che la Società Ambiente si sia compiutamente avvalsa delle disposizioni di cui agli artt.31-33 della legge Ronchi (e che proprio il succedersi del nuovo quadro normativo al previgente, evidenzia, al mero confronto fra le due normative, l’illegittimità comunitaria della situazione precedente).

Ciò rende l’annullamento del vecchio titolo abilitativo all’esercizio rilevante in difetto di una nuova autorizzazione (conseguibile anche per silentium) attesa anche l’intenzione della Società Ambiente di continuare per quanto possibile ad avvalersi del titolo autorizzatorio rilasciato in precedenza ed ora sub iudice ed al contrapposto interesse degli appellanti di eliminare tale atto dal mondo giuridico anche solo per vederlo sostituito con statuizioni conformi all’ordinamento.

Deve ribadirsi che non v’è dubbio alcuno sulla possibilità della Società Ambiente di continuare ad operare ed esercitare la centrale termoelettrica nel sito assentito, ma, in assenza di un nuovo titolo abilitativo all’utilizzazione dei residui conforme al nuovo quadro giuridico (che ha distinto, fra l’altro, fra rifiuti pericolosi e non pericolosi prevedendo differenti cautele) il giudice amministrativo investito dell’impugnativa avente ad oggetto l’autorizzazione rilasciata nel quadro giuridico previgente deve pronunciarsi sul ricorso proposto con riguardo al quadro normativo preesistente (solo in parte e temporaneamente confermato dalla disciplina transitoria).

Sull’irrilevanza dello ius superveniens ai fini della carenza d’interesse a ricorrere esistono diversi interessanti pronunce del giudice amministrativo.

Intanto è ius receptum che la legittimità dei provvedimenti amministrativi va valutata con il riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della loro emanazione; pertanto per sostenerne l'illegittimità non è invocabile lo jus superveniens (C. Stato, sez.V, 6.4.1991, n.452).

All’opposto vale la stessa regola, non può desumersi per il principio tempus regit actum la sopravvenuta legittimità dell’atto in forza di ius superveniens; da ciò deriva che non può eccepirsi la carenza d’interesse per la mera forza dello ius superveniens, salvo il caso eccezionale di chi, resistendo in giudizio, eccepisca l’inutilità dell’annullamento di un atto perché la riedizione del potere dovrà conformarsi ad una norma medio tempore entrata in vigore, recante una disciplina diversa da quella previgente ed assolutamente conforme all’atto a suo tempo adottato, sicché sia chiaro che la riedizione del potere porterà “necessariamente” alla medesima situazione giuridica, in forza delle norme nel frattempo entrate a far parte dell’ordinamento giuridico (e sempre che l’interesse all’annullamento non debba ritenersi in forza della pregiudizialità dello stesso rispetto ad eventuali azioni risarcitorie proponibili innanzi al giudice amministrativo o rispetto ad un qualificato interesse morale al ripristino della legalità amministrativa violata).

Deve anche considerarsi che la giurisprudenza amministrativa considera l’interesse strumentale alla rinnovazione del procedimento sufficiente a fondare l’interesse ad ottenere la decisione sicché ove lo ius superveniens sia solo diverso rispetto al diritto previgente e non comporti una necessaria identità dell’atto rinnovato all’atto annullato, deve ritenersi che anche dalla mera riedizione del potere in modo conforme ai nuovi canoni legali venga soddisfatto l’interesse azionato (nella specie potranno adottarsi maggiori cautele quali previste dalle nuove norme tecniche).

In particolare l’interesse azionato con il ricorso non è solo quello alla chiusura o alla diversa localizzazione della centrale, ma è anche (se non in primo luogo) quello all’effettivo immediato rispetto della normativa comunitaria in tema di smaltimento e recupero dei rifiuti, sull’assunto dell’illegittimità comunitaria della superata distinzione fra rifiuti e residui.

Stabilita quindi l’incidenza della censura solo sulle modalità di esercizio della centrale termoelettrica residua l’interesse degli appellanti al pieno rispetto, nelle modalità di esercizio della centrale, della normativa comunitaria e di quella interna che la recepisce, (anche sopravvenuta qualora ci si voglia proiettare nella prospettiva della riedizione del potere successiva all’annullamento); interesse che può ben essere tutelato annullando parzialmente l’atto abilitativo impugnato nella parte in cui ha autorizzato l’utilizzazione dei residui indicati dell’allegato 1 al d.m. 16/1/1995 per violazione della direttiva comunitaria, trasposta con il d.p.r. n.915/1982.

In tale prospettiva non può dirsi che le norme dettate dal decreto interm. 16/1/1995 siano norme generali sufficienti a dispensare dal titolo autorizzatorio specifico richiesto dalla disciplina di recepimento delle direttive comunitarie: il d.m. fu formulato soprattutto allo scopo di fissare i valori limite delle emissioni gassose ed ha trascurato altri profili pur essenziali di tutela della salute e dell’ambiente quali ad es. il caso della combustione promiscua di più rifiuti alcuni dei quali anche classificati come pericolosi (su questo l’appello muove considerazioni pertinenti e fondate a pag.18) o la gestione del rifiuto prima del riutilizzo (aspetti tutti considerati dai nuovi d.m. emanati in attuazione del decreto “Ronchi”).

Non si può inoltre non sottolineare come l’inizio immediato di attività potenzialmente dannose per l’ambiente (e per questo regolamentate) consentito dal d.l. n.113/1996 non si concilia con il principio di prevenzione e precauzione che è richiamato attualmente dall’art.174, a linea 2 del Trattato CE.

Da ciò consegue la necessità di disapplicare, in forza del principio noto di primazia del diritto comunitario sul diritto interno con esso contrastante (su cui Corte di Giustizia 9/3/1978 causa 106/77 Simmenthal e Corte Cost. n.170/1984), la norma interna di cui al d.l. n.113/1996 che ha reso a suo tempo legittimo lo smaltimento senza autorizzazione in violazione del diritto comunitario trasposto (direttiva 75/442 e d.p.r. n.915/1982 chiaramente invocati nel ricorso introduttivo) e non potendosi la disciplina suddetta ritenere mera attuazione del potere degli Stati di dispensa dall’autorizzazione previsto dalle direttive comunitarie 91/156 e 91/689 (non ancora trasposte all’atto dell’emanazione del provvedimento impugnato e certo non invocabili, solo per quella parte, per sostenere la legittimità della normativa derogatoria introdotta con i decreti legge non convertiti).

Si deve altresì disapplicare il dm. 1/6/1995, peraltro ormai formalmente abrogato (e produttivo, per ultrattività, di effetti abilitativi ulteriori in casi diversi da quello in esame, in forza del diritto transitorio del decreto “Ronchi” ossia in presenza di un’autorizzazione, rimasta inoppugnata, all’esercizio di un impianto rilasciata nel previgente quadro normativo).

Qui l’appellata Società Ambiente eccepisce la novità del motivo relativo alla richiesta di disapplicazione dell’atto amministrativo presupposto non impugnato a suo tempo.

In primo luogo va esaminata la questione relativa alla disapplicazione dei regolamenti e di altre fonti secondarie (quali quelle che dettano norme tecniche) in via generale, ed al fine di ricostruire i lineamenti del potere di disapplicazione nel processo impugnatorio, poi va esaminata la questione relativa alle modalità di proposizione della domanda che comporta la disapplicazione di un atto presupposto non impugnato.

E’ noto che al giudice amministrativo è consentito, anche in mancanza di richiesta delle parti, sindacare gli atti di normazione secondaria al fine di stabilire se essi abbiano attitudine, in generale, ad innovare l'ordinamento e, in concreto, a fornire la regola di giudizio per risolvere la questione controversa; egli può giungere alla disapplicazione della norma regolamentare che si ponga in contrasto con la legge qualora incida su una posizione di diritto soggettivo perfetto, il cui contenuto è completamente riconducibile alla norma di legge (C. Stato, sez.V, 26.2.1992, n.154).

La sentenza ricordata, pur avendo un inciso che ne limita l’efficacia all’ambito di giurisdizione esclusiva su diritti soggettivi, come è stato detto in dottrina, non emerge dal nulla, ma è il portato, come generico influsso culturale, proprio di quella grandissima innovazione che è stata la disapplicazione delle norme interne configgenti con il diritto comunitario.

La motivazione di tale decisione è importante per il suo carattere generale e suscettivo di ulteriore evoluzione.

Ivi è detto: “Ogni ordinamento non può non prevedere un meccanismo invalidante delle norme di grado inferiore che sopraggiungano ed urtino contro precetti poziori dell’ordinamento medesimo. Per l’atto avente forza di legge il meccanismo, nel nostro ordinamento, è dato dall’invalidazione a seguito di pronuncia di incostituzionalità.

Per l’atto normativo emanato dalla p.a. il meccanismo è rappresentato di fronte al giudice civile e penale, dalla disapplicazione dell’atto stesso, anche se le parti non controvertono sul punto.

Ma se si tratta di atto di normazione secondaria, e se quindi per esso possano valere criteri analoghi a quelli recepiti in un qualunque caso di concorso di norme, fra loro contrastanti anche se idonee in astratto a regolare la medesima fattispecie, deve proporsi identica soluzione ove quell’atto (di normazione secondaria) sia in conflitto con un atto di normazione primaria e non sia oggetto di impugnazione al giudice amministrativo.

Ne consegue che, qualora la norma primaria preesista all’atto amministrativo a contenuto normativo, questo deve essere considerato non idoneo, a causa della maggior forza della norma primaria, ad innovare sulle statuizioni da essa recate.

Anche nei giudizi amministrativi, quindi, l’atto regolamentare sarà inapplicabile, come qualsiasi atto legislativo inidoneo a regolare la fattispecie.

In tal modo – senza violare i principi che informano il processo amministrativo e sulla falsariga di quanto avviene per gli atti di normazione primaria per mezzo del sindacato di costituzionalità – al giudice amministrativo è consentito, anche in mancanza di richiesta delle parti, sindacare gli atti di normazione secondaria, al fine di stabilire se essi abbiano attitudine, in generale, ad innovare l’ordinamento e, in concreto, a fornire la regola del giudizio per risolvere la questione controversa.”

Poi la sentenza contiene un principio ulteriore con il quale si precisa che la disposizione regolamentare incideva su un diritto soggettivo perfetto ed è quindi per questa parte meno innovativa essendo stata anche in precedenza affermata la disapplicabilità in giurisdizione esclusiva di atti paritetici (Csi 27/1/1989 n.7).

Resta tuttavia l’importanza della motivazione gravida di sviluppi che non possono che essere cauti, in presenza di contrapposti principi: legalità e certezza del diritto, effettività della tutela ed onere impugnatorio.

Un passo ulteriore, è stato effettuato con la pronuncia C. Stato, sez.IV, 29.2.1996, n.222, a tenore della quale “nel caso in cui un atto amministrativo non sia immediatamente lesivo di un interesse legittimo e non debba pertanto essere impugnato ex se, esso, se dotato di autonomia funzionale, può rilevare nell'impugnazione di atti successivi, in primo luogo, come atto presupposto nel giudizio di impugnazione dell'atto che lo presuppone, con conseguente sua invalidazione nel caso deciso (ed in quanto invalidante l'atto che lo presuppone ne determina l'annullamento); in secondo luogo come atto rilevante in via pregiudiziale nel giudizio di impugnazione dell'atto pregiudicato, con conseguente sua disapplicazione, se riconosciuto illegittimo, nel caso deciso; pertanto, invalidazione dell'atto presupposto e disapplicazione dell'atto pregiudiziale, pur non comportando entrambi l'annullamento dell'atto non immediatamente lesivo, si distinguono tra loro perché la prima (invalidazione) consiste nell'accertare la trasmissione del vizio dall'atto presupposto all'atto applicativo, la seconda (disapplicazione) consiste nel considerare l'atto pregiudiziale tamquam non esset, senza alcuna trasmissione di vizi”.

In quel caso, in giurisdizione di legittimità, il Consiglio ha respinto l’appello, proposto da una società pubblica avverso la sentenza di un Tar che, in accoglimento di un ricorso proposto da un condominio aveva annullato l’atto di assenso ad una sopraelevazione in area vicina a zona cimiteriale.

Rispetto al motivo di ricorso incentrato sull’invocazione di una norma tecnica di attuazione del PRG derogatoria alle distanze cimiteriali nel caso di edifici di pubblico interesse ha disapplicato tale disposizione, non impugnata, per contrasto con l’art.338 t.u. delle leggi sanitarie ritenuto inderogabile.

Ha ritenuto disapplicabile la norma tecnica peraltro per il fatto che essa non era stata posta a presupposto dell’atto impugnato essendo solo norma che veniva in esame in via pregiudiziale.

Ora con CdS IV n.222/1996 si deve ritenere affermato il principio di disapplicabilità della normazione secondaria pregiudiziale, (non presupposta), in giurisdizione generale di legittimità.

Ritiene il Collegio che del principio possa farsi applicazione nel caso di contrasto di una normazione secondaria con il diritto comunitario vivente (anche qualora tale normazione secondaria sia stata posta a presupposto dell’atto impugnato, censurato per violazione della normativa primaria interna di recepimento della normativa comunitaria) e ciò anche ove l’atto di normazione secondaria sia citato nelle premesse dell’atto impugnato e quindi ne costituisca il presupposto.

In tale ipotesi è stato ritenuto in dottrina, con opinione minoritaria, che la norma secondaria sia affetta da nullità o “macroillegittimità” o da “radicale inidoneità ad innovare l’ordinamento” per intervento sovrappositorio ad una normativa che, per avere copertura comunitaria, deve prevalere nell’ordinamento interno in forza del principio di primazia e dell’effetto utile.

Al di là della complessa questione relativa alla configurabilità di un tale vizio radicale di illegittimità comunitaria che non ha ancora trovato convincente sistemazione dottrinale ed accoglimento in giurisprudenza (nonostante una recente pronuncia della Corte giustizia Comunità europee, 29.4.1999, n.224/97 abbia affermato la rilevabilità d’ufficio di tale contrasto, statuendo che “un divieto emanato anteriormente all'adesione di uno stato membro all'Unione europea, non attraverso una norma generale ed astratta, bensì attraverso un provvedimento amministrativo individuale e concreto divenuto definitivo, che sia in contrasto con la libera prestazione dei servizi, va disapplicato in occasione della valutazione della legittimità di un'ammenda irrogata per l'inosservanza di tale divieto dopo la data dell'adesione”), giova ricordare che tale tecnica di tutela deve, allo stato della evoluzione giurisprudenziale maturata in materia, conciliarsi con il principio della domanda e di corrispondenza fra chiesto e pronunciato.

In nessun caso infatti può ritenersi elusa la normativa sul termine decadenziale di impugnazione nel caso in cui si sia rispettato il principio della domanda, essendosi chiesta, in sostanza, la disapplicazione della normativa interna per contrasto con il diritto comunitario sin dal ricorso introduttivo e, a seguito della presentazione di un’eccezione impropria, ossia dello spiegarsi delle difese della parte resistente, si sia poi focalizzata l’attenzione sulla normazione secondaria di per sé non direttamente lesiva, ma richiamata dal resistente o dal controinteressato per giustificare la deroga al diritto comunitario, assumendo che la stessa era qualificabile (senza che ciò fosse evidente ex actis quale “normativa generale” giustificatrice di una dispensa dalla regola dell’autorizzazione preventiva).

In tal caso se, in replica all’eccezione avversa, eccezione formulata evidenziando un profilo delle norme tecniche secondarie non immediatamente evincibile dal loro tenore, si chieda la loro disapplicazione non può ritenersi violato il principio della domanda o introdotto un motivo nuovo.

Così un’interpretazione adeguatrice, in un’ottica di bilanciamento di valori costituzionali, pur ammettendo la possibilità della disapplicazione dell’atto di normazione secondaria ai fini della garanzia di effettività del diritto comunitario, deve tenere pur sempre conto del principio della domanda in quanto “il diritto comunitario non impone ai giudici nazionali di sollevare d’ufficio un motivo basato sulla violazione di disposizioni comunitarie, qualora l’esame di tale motivo li obblighi a rinunciare al principio dispositivo alla cui osservanza sono tenuti esorbitando dai limiti della lite quale è stata circoscritta dalle parti e basandosi su fatti e circostanze diversi da quelli che la parte interessata ha posto a fondamento della propria domanda; l’obbligo, per il giudice di attenersi all’oggetto della lite e di basare la propria pronuncia sui fatti che gli sono stati presentati, trova il proprio fondamento nel principio secondo il quale l’iniziativa di un processo spetta alle parti ed il giudice può agire d’ufficio nei soli casi eccezionali in cui il pubblico interesse esige il suo impulso. Si tratta di un principio condiviso nella maggior parte degli Stati membri, che tutela i diritti della difesa e garantisce il regolare svolgimento del procedimento, preservandolo, in particolare, dai ritardi dovuti alla valutazione di nuovi motivi” (Corte di Giustizia 14/12/1995 in cause riunite C-430/93 e C-431/93 Van Schijndel).

Ed il rispetto del principio della domanda non può che essere verificato nel contesto di ogni singolo processo, dovendosi poi, sul piano delle concretezze, ritenere nella specie pienamente rispettato tale principio ove la dinamica processuale sia stata del tipo di quella dianzi evidenziata.

Nessun rilievo ostativo dell’annullamento del decreto impugnato, previa disapplicazione delle norme menzionate, possono avere le norme interne successive che hanno prorogato salvato in vario modo gli effetti (artt.33, comma 6, 57, comma 6 del d.lgs. n.22/1997, nonché i d.m. 5/2/1998 art.11 comma 2, e d.m. 12/6/2001 n.161 art.9) dei vecchi titoli abilitativi ai fini della carenza sopravvenuta d’interesse per quanto già detto, essendo dette norme applicabili ai vecchi titoli abilitativi rimasti inoppugnati (dovendo l’esame dell’impugnazione dell’atto amministrativo avvenire secondo la situazione di fatto e di diritto esistente al momento dell’adozione dell’atto impugnato) ed essendo invocabile lo ius superveniens di cui agli artt.31-33 del d.lgs. n.22/1997 dalla società appellata nel prosieguo dell’azione amministrativa, in difetto di prova dell’attuale conseguimento, da parte della Società Ambiente, dei titoli abilitativi taciti di cui agli artt.31-33 della legge Ronchi, ormai sostituitisi pienamente alla disciplina previgente (circostanza quest’ultima che avrebbe determinato il sopravvenuto difetto di interesse a ricorrere degli appellanti con riferimento al ricorso originario).

Né può dirsi rilevante la norma, contenuta in un recentissimo decreto legge (d.l. 8/7/2002 n.138 ) art.14 che contiene l’interpretazione autentica della nozione di rifiuto (14. Interpretazione autentica della definizione di «rifiuto» di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.22.) 1. Le parole: «si disfi», «abbia deciso» o «abbia l'obbligo di disfarsi» di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.22, e successive modificazioni, di seguito denominato: «decreto legislativo n.22», si interpretano come segue: a) «si disfi»: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n.22; b) «abbia deciso»: la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n.22, sostanze, materiali o beni; c) «abbia l'obbligo di disfarsi»: l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'allegato D del decreto legislativo n.22. 2. Non ricorrono le fattispecie di cui alle lettere b) e c) del comma 1, per beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni: a) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente; b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n.22.) poiché, al di là della dubbia legittimità della disposizione che sembra reintrodurre sotto forma di interpretazione autentica la distinzione fra rifiuto e residuo riutilizzabile, la norma riguarda casi marginali di totale certa innocuità del riutilizzo e di riutilizzo senza previo trattamento di recupero ai sensi del decreto Ronchi (all. c).

Fin qui la disamina dei primi quattro motivi di ricorso che sono stati trattati congiuntamente per la loro connessione e per la circostanza di essere stati unitariamente trattati nell’atto di appello.

L’ulteriore motivo d’appello relativo alla mancata considerazione del piano provinciale dei rifiuti è infondato poiché il piano provinciale dei rifiuti previsto dal d.p.r. n.915/1982 non avrebbe mai potuto individuare la localizzazione di una centrale termoelettrica.

Da tutto quanto detto deriva l’accoglimento parziale dell’appello e, in riforma della sentenza impugnata, l’annullamento dell’atto impugnato nella sola parte in cui autorizza l’utilizzazione dei residui senza autorizzazione ex art.6 lett. d) del d.p.r. n.915/1982, respingendo per il resto gli ulteriori motivi di ricorso.

Sussistono giusti motivi per compensare le spese del giudizio, in considerazione della complessità e della novità delle questioni.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie in parte i ricorsi in appello indicati in epigrafe e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, ed in parziale accoglimento del ricorso di primo grado, annulla il provvedimento impugnato nella sola parte in cui autorizza l'utilizzazione dei residui indipendentemente dall'autorizzazione ex art.6 lett. d) del d.p.r. n.915/1982, respinge per il resto gli ulteriori motivi di ricorso.

Compensa tra le parti le spese di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

 

Così deciso in Roma, il 12 luglio 2002, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sez. VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

Giovanni RUOPPOLO Presidente

Alessandro PAJNO Consigliere

Pietro FALCONE Consigliere

Giuseppe MINICONE Consigliere

Giancarlo MONTEDORO Consigliere Est.




 

M A S S I M E

 

1) L’inizio immediato di attività potenzialmente dannose per l’ambiente non si concilia con il principio di prevenzione e precauzione - l’obbligo di disapplicare la norma interna in violazione del diritto comunitario. Non si può non sottolineare come l’inizio immediato di attività potenzialmente dannose per l’ambiente (e per questo regolamentate) consentito dal d.l. n.113/1996 non si concilia con il principio di prevenzione e precauzione che è richiamato attualmente dall’art.174, a linea 2 del Trattato CE. Da ciò consegue la necessità di disapplicare, in forza del principio noto di primazia del diritto comunitario sul diritto interno con esso contrastante (su cui Corte di Giustizia 9/3/1978 causa 106/77 Simmenthal e Corte Cost. n.170/1984), la norma interna di cui al d.l. n.113/1996 che ha reso a suo tempo legittimo lo smaltimento senza autorizzazione in violazione del diritto comunitario trasposto (direttiva 75/442 e d.p.r. n.915/1982 chiaramente invocati nel ricorso introduttivo) e non potendosi la disciplina suddetta ritenere mera attuazione del potere degli Stati di dispensa dall’autorizzazione previsto dalle direttive comunitarie 91/156 e 91/689 (non ancora trasposte all’atto dell’emanazione del provvedimento impugnato e certo non invocabili, solo per quella parte, per sostenere la legittimità della normativa derogatoria introdotta con i decreti legge non convertiti). Consiglio di Stato, Sezione VI del 5 dicembre 2002, Sentenza n. 6657.

 

2) La competenza all'installazione e localizzazione di una centrale termoelettrica - limiti del piano provinciale dei rifiuti. Il piano provinciale dei rifiuti previsto dal d.p.r. n.915/1982 non avrebbe mai potuto individuare la localizzazione di una centrale termoelettrica. La competenza all'installazione della centrale termoelettrica è quindi una competenza del Ministero dell’Industria, che tra l’altro è stata giudicata costituzionalmente legittima (Corte Cost. 21/7/1995 n.346). Consiglio di Stato, Sezione VI del 5 dicembre 2002, Sentenza n. 6657

 

3) La nozione di rifiuto ai sensi delle direttive 75/442 e 78/319 - ius receptum nel diritto comunitario - la sentenza Tombesi. E’ ius receptum nel diritto comunitario che la nozione di rifiuto ai sensi delle direttive 75/442 e 78/319 non deve intendersi nel senso che escluda le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (Corte Giustizia CE 28/3/1990 cause riunite 206/88 e 207/88 Vessoso-Zanetti nonché Corte di Giustizia CE 18/4/1992 causa 9/00 Palin Granit e Vehmassalonkansanterveyon). Di recente, confermando tale orientamento, si è statuito che: “la nozione di «rifiuti» figurante all'art.1 della direttiva del consiglio 15 luglio 1975 n.75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del consiglio 18 marzo 1991 n.91/156/CEE, cui rinviano l'art.1 n.3, della direttiva del consiglio 12 dicembre 1991 n.91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi, e l'art.2, lett. a), del regolamento (CEE) del consiglio 1º febbraio 1993 n.259, relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della comunità europea, nonché in entrata e in uscita dal suo territorio, non deve essere intesa nel senso che essa esclude sostanze od oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, neanche se i materiali di cui trattasi possono costituire oggetto di un negozio giuridico, ovvero di una quotazione in listini commerciali pubblici o privati; in particolare, un processo di inertizzazione dei rifiuti finalizzato alla loro semplice innocuizzazione, l'attività di discarica dei rifiuti in depressione o in rilevato e l'incenerimento dei rifiuti costituiscono operazioni di smaltimento o di recupero che rientrano nella sfera d'applicazione delle precisate norme comunitarie; il fatto che una sostanza sia classificata nella categoria dei rifiuti riutilizzabili senza che le sue caratteristiche e la sua destinazione siano precisate è al riguardo irrilevante; lo stesso vale per la triturazione di un rifiuto” (Corte giustizia Comunità europee, 25.6.1997, nn.304, 330, 342/94, 224/95 Tombesi). La sentenza Tombesi è particolarmente interessante avuto riguardo alle questioni oggetto dell’appello poiché in essa venivano in rilievo proprio i decreti-legge reiterati ma non convertiti recanti disposizioni in tema di riutilizzo dei residui derivanti da cicli di produzione o di consumo in un processo produttivo o in un processo di combustione, nonché in materia di smaltimento dei rifiuti”, adottati a partire dal novembre 1993 (d.l. 9 novembre 1993 n.443 GURI 10/11/1993 n.264). Consiglio di Stato, Sezione VI del 5 dicembre 2002, Sentenza n. 6657.

 

Per ulteriori approfondimenti ed altre massime vedi il canale:  Giurisprudenza