Legislazione giurisprudenza Per altre sentenze vedi: Sentenze per esteso
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE Ufficio del giudice monocratico, Sez. penale (VENEZIA ) 27 novembre 2002, n. 1286
SENTENZA
(Omissis).
FATTO E DIRITTO.
Gli imputati AMPÒ e SIMONETTI sono stati tratti a giudizio per rispondere del seguente reato:
"imputati del reato previsto e punito dagli artt. 81 cpv. 110 61 nr. 1-437 c.p. perché, in concorso tra loro, il SIMONETTI nella sua qualità di responsabile della Gestione Servizi Ausiliari (= G.S.A.) dello Stabilimento Petrolchimico di Porto Marghera e l'AMPÒ nella sua qualità di Primo Assistente di giornata presso la G.S.A. citata, pur essendo pacificamente e da tempo (quanto meno dai primi giorni di ottobre 1998), emersa la necessità di sostituire la valvola denominata "B" della linea spurghi ammoniacali, così come indicata nell'allegata piantina, in quanto trafilava (cioè non teneva più) e pur essendo stata segnalata dallo stesso AMPÒ la priorità 1 (= emergenza) con cui intervenire, il SIMONETTI e l'AMPÒ omettevano invece di intervenire con la tempestività e la decisione necessarie e omettevano di adottare o comunque di far adottare e collocare apparecchi e strumenti idonei destinati a prevenire disastri e infortuni sul lavoro limitandosi a prevedere (ma comunque non a porre in essere) solo delle misure "tampone" e provvisorie, sicuramente non sufficienti, quale l'intervento con il sistema cosiddetto della doppia pinzatura e del "salsicciotto", il quale sistema pacificamente non garantiva la tenuta.
Da tali omissioni e dalla mancata tenuta di un accoppiamento flangiato e in particolare di una sua guarnizione che si ruppe a causa della usura e della mancata manutenzione, anche perché concernente l'impianto BC1 già chiuso da mesi e in via di dismissione, accoppiamento flangiato posto al limite di batteria del Reparto BC1 della citata tubazione, derivava in data 27 dicembre 1998 verso le ore 14.15 una fuga di ammoniaca anidra NH3 sostanza notoriamente tossica e pericolosa, come risulta pure dalla scheda di sicurezza dell'ENICHEM datata 16 marzo 1995, confermata nel marzo 1998.
Con l'aggravante di non essere intervenuti per futili motivi, in quanto l'adozione dell'unico sistema sicuro di intervento (peraltro semplice e rapido in sé: quello dell'inserimento di un disco cieco) avrebbe comportato la fermata di tutta la linea spurghi ammoniacali, cui confluivano vari Reparti (AC9 - AC11 - TD2 - AM4), per un paio di giorni.
Dal fatto inoltre derivavano disastro e infortuni consistiti nelle molestie e patologie occorse alla trentina di dipendenti della ditta "VE.CON." ubicata nei pressi dello Stabilimento Petrolchimico di ENICHEM, dal quale è divisa soltanto da un canale d'acqua, consistenti in bruciore agli occhi, forte lacrimazione, fastidio alle vie respiratorie, tanto che l'attività lavorativa doveva essere interrotta dalle ore 14.20 alle ore 19.30 del 27 dicembre 1998. Tra questi operai si indicano quelli individuati:
FORTI Alvaro, nato a Ve/Marghera il 22 ottobre 1950, residente a Oriago (Ve) in Via Stazione n. 5; SEMENZATO Luigi, nato a Mirano (Ve) il 31 luglio 1969, residente a Spinea, via Cellini n. 9
Esaminate le questioni preliminari, ammesse le prove richieste, il dibattimento si è svolto nelle udienze del 19 settembre 2002, 7 novembre 2001, 16, 23 e 30 gennaio 2002, 11 marzo 2002, 14 e 27 maggio 2002, 7 giugno 2002.
Sono stati sentiti in data:
16 gennaio 2002 i testi RUSSO, MONOPOLI, SCARPA, GIACOPELLO, BARBERI, MUNARO, PORCU, CESTARO, MASUT, SEMENZATO, SCANCELLI, CORRÒ, FAVARETTO, CAMPAGNA;
23 gennaio 2002: i testi BETTETTO, FORTI, BALDRATI, RAIMONDI, MUSCATIELLO, ZANCHETTA, ROMANO, AVEZZÙ;
30 gennaio 2002: i testi PENSO, CALLIGARO, DALL'ARMI, MARCIANO, DONÀ;
ancora 30 gennaio 2002: i Consulenti tecnici (d'ora in poi CCTT) PAOLO RABITTI (PM), LUIGI MARA (parti civili Medicina Democratica, Lega Ambiente, Greenpeace Italia), MARASCHI SIMONE PIETRO (Parte civile Ministero Ambiente); sempre 30 gennaio 2002 vi è stato l'esame degli imputati AMPÒ e SIMONETTI;
11 marzo 2002 i CCTT MESSINEO FRANCESCO e BOATTINI ANTONELLA (imputati),
IL FATTO
Il giorno 27.12.1998 nello stabilimento ENICHEM di Marghera si è verificata una perdita di ammoniaca da un accoppiamento flangiato situato ai limiti di batteria del reparto BC1. In tale reparto si produceva il cloruro di benzile, ma lo stesso era non più attivo dal gennaio del 1998 ed era interessato solo ad una fase di bonifica. La rete dalla quale vi è stata la fuga era quella degli spurghi ammoniacali che collega i reparti AC9 (produzione di acetato di etile), AC11 (produzione di acetato di vinile), TD2 (purificazione di monossido di carbonio e idrogeno) ed il già menzionato BC1 verso il reparto AM4 (produzione di ammoniaca gas e soluzione) dove gli spurghi vengono utilizzati per realizzare soluzioni ammoniacali. Al momento della perdita funzionavano i reparti AC9, AC11 e TD2, quest'ultimo, però, in quel momento non stava effettuando, secondo quanto riferito dall'ENICHEM, gli spurghi ammoniacali. Ad accorgersi della perdita è stato intorno alle ore 14 l'assistente di turno del GSA (gestione servizi ausiliari) che subito avvertì i Vigili del fuoco aziendali che si recarono sul posto provvedendo ad abbattere l'ammoniaca con getti d'acqua nebulizzata. Attivate le procedure di emergenza dello stabilimento, intorno alle 14,30 arrivarono sul posto i Vigili del fuoco nazionali sotto la cui direzione si provvide alla depressurizzazione della linea: individuando l'esatto punto di perdita; chiudendo (anche se nell'immediatezza non si sapeva se tale valvola fosse chiusa o aperta; BARBIERI; p. 41) la valvola di radice, denominata valvola B, della derivazione; ad aprire il collegamento della rete spurghi ammoniacali con i serbatoi D332\D333; a sospendere l'invio degli spurghi dai reparti AC9 ed AC11 fermando le pompe e chiudendo le relative valvole di intercettazione della rete ai limiti di batteria. Alle 15,40 secondo una prima ricostruzione dell'ENICHEM stessa, la perdita era stata completamente eliminata, mentre il vice comandante dei Vigili del fuoco BARBIERI (pag. 44) riferisce di una crisi risoltasi gradualmente.
Sotto la direzione dei Vigili del fuoco si provvide: a bonificare l'intera rete degli spurghi mediante iniezione di azoto e invio della miscela gassosa azoto-ammoniaca al reparto AM4 sino a completa eliminazione dell'ammoniaca in rete; a sostituire la guarnizione dell'accoppiamento flangiato che aveva dato luogo alla perdita; a distaccare, in corrispondenza della valvola B, la diramazione della rete spurghi ammoniacali provenienti dal reparto BC1; a montare, in serie alla valvola B, una seconda valvola chiusa con disco cieco; a montare una valvola chiusa con disco cieco sul terminale della diramazione distaccata. Tali lavori furono effettuati sino alle ore una della notte.
La valvola denominata B, quella posta alla radice della diramazione verso il reparto BC1, era stata ritenuta, circa a metà ottobre del 1998, non perfettamente funzionante in quanto "trafilava", cioè faceva passare il liquido, quando venne chiusa da DALL'ARMI e FAVARETTO. Per tale ragione venne preventivato un lavoro "per eliminare perdita" (documento 818, autorizzazione esecuzione lavori a firma MUSCATIELLO) mediante le c.d. scatole furmanitate che avrebbero dovuto essere realizzate dalla ditta PONTEROSSO a far data dal 4.12.1998. In realtà, non essendo state date garanzie dalla medesima ditta circa la esecuzione dei lavori di dette scatole, nulla venne fatto fino al momento della perdita di ammoniaca qui in esame.
Costituzione di parte civile delle associazioni ambientaliste
Tra le questioni preliminari trattate vi è stata quella della costituzione di parte civile delle associazioni Greenpeace, Lega Ambiente e Medicina Democratica. Delle stesse è stata richiesta la esclusione da parte degli imputati e del Responsabile civile ENICHEM. All'udienza del 19.9.2001 veniva emessa la seguente ordinanza, qui riportata per comodità espositiva e ragione della ammissione delle stesse associazioni.
Il giudice,
in ordine alla richiesta di esclusione delle parti civili Greenpeace, Lega Ambiente-comitato regionale per il Veneto, Medicina Democratica, già escluse in sede di udienza preliminare ed oggi nuovamente costituitesi
OSSERVA
La questione della possibilità di costituzione quali parti civili delle associazione ambientaliste è argomento più volte affrontato dalla giurisprudenza e dibattuto in dottrina; per restare in ambito veneziano, si richiamano le ordinanze del 23.7.1997 del GUP di Venezia nonché quella del l0 ottobre 2000, sempre del GUP ed afferente a questo processo, entrambe molto puntuali ed articolate, sebbene arrivino a conclusioni diverse, avendo la prima ammesso la costituzione di parte civile delle associazioni ambientaliste ed avendola invece esclusa la seconda. Anche di recente a contrapposte conclusioni sono pervenuti e il giudice monocratico di questo stesso Tribunale in data 29 maggio 2001 ed il GUP veneziano in data 12.6.2001.
Ritiene questo giudice, pur nell'evidenza della problematicità della questione, e dovendo di necessità decidere sulla controversia, che la soluzione debba necessariamente affrontare, anche se succintamente, questioni basilari come la sussistenza o meno di un diritto all'ambiente, la sua titolarità, la peculiarità del danno ambientale, le legittimazioni attive e passive.
L'ambiente, ha ritenuto la Corte Costituzionale, è "un bene immateriale unitario, ancorché costituito da una pluralità di componenti" (30.12.1987 n. 641). Altre volte la Corte si è riferita all'ambiente come ad un "valore costituzionale" o "valore costituzionalmente garantito e protetto". Secondo il giudice delle leggi "l'ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e per essa ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (art. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto" (ancora la citata sentenza del 1987).
La giurisprudenza della Cassazione civile è costante nel distinguere tra "danno ai singoli beni di proprietà pubblica o privata" e "danno all'ambiente, considerato in senso unitario, quale bene immateriale a sé stante, ontologicamente diverso dai singoli beni che ne formano il substrato ed oggetto di specifica tutela da parte dell'ordinamento, indipendente dall'incidenza del fatto illecito sui singoli beni o valori che ne sono componenti" (in tal senso, Cass civ., Sez. 3, 3.2.1998 n. 1097). Significativa, inoltre, sempre in ambito civilistico, l'affermazione secondo cui la protezione dell'ambiente è un bene che assurge a valore primario ed assoluto ed è imposta dai precetti costituzionali di cui agli artt. 3, 9, 32, 41 e 42 Cost., per cui l'art. 18 della legge 8 luglio 1986 n. 349 ha avuto solo una funzione ricognitiva di un diritto già esistente e costituzionalmente tutelato (Cass. civ., Sez. 3, 3 febbraio 1998 n. 1087).
Dunque, se l'ambiente è un bene giuridico, occorre chiedersi se sia un bene pubblico (cioè pertinente ad un soggetto pubblico quale lo Stato e/o altro ente territoriale), o collettivo, appartenente cioè a tutti i consociati e quindi a ogni singolo individuo. Tutta la problematica del danno ambientale è maturata in ambito erariale (danno pubblico erariale), ma se si conviene che si tratta di un bene essenziale per la stessa vita dell'uomo, tale bene non potrà che costituire l'oggetto di un diritto soggettivo fondamentale, cioè appartenente a tutti, indisponibile, inalienabile ed irrinunciabile. L'ambiente è un bene vitale per l'uomo e quindi un bene necessario ed essenziale alla sua stessa esistenza. Di qui il carattere fondamentale del relativo diritto.
Istituire, quantunque in capo allo Stato-persona, un legame tra bene ed ente che comunque escluda i singoli appare incongruo rispetto al valore tutelato e ciò sia perché lo stesso Stato (o altro ente pubblico) potrebbe ledere quel bene, sia perché quel bene è in eguale misura di tutti i consociati.
Solo per comodità d'argomentazione si ipotizzi una situazione (i caratteri di bene primario ed assoluto sono funzionali anche per scongiurare simili eventi) in cui la compromissione dell'ambiente conduca ad una scarsità delle risorse o ad una diversità di condizioni da luogo a luogo. Se il bene ambiente non sarà sufficiente per tutti (viene da dire, se la domanda supera l'offerta) come sarà regolata la fruizione del bene ambiente? In tale ipotesi, se si crede davvero che l'ambiente è un bene di tutti, e per tutti essenziale, saranno consentite solo scelte regolative improntate a criteri etici, sociali e solidaristici. Saranno invece inaccettabili libere negoziazioni private.
Dunque, quello per l'ambiente non è solo un interesse diffuso in quanto indifferenziato ma è un diritto soggettivo fondamentale comune a tutti i consociati. Se alle parole della Corte (bene immateriale unitario, valore primario ed assoluto) e all'orientamento giurisprudenziale richiamato (che rinviene il diritto all'ambiente nelle norme costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 9, 32, 41, 42) si vuole dare compiutezza ed inequivocità, occorre anche dire, a parere di questo giudice, che il diritto all'ambiente è, come ritenuto da una parte della dottrina, un diritto soggettivo e della personalità.
Ovviamente, come in tutti i diritti fondamentali di tipo sociale o con problematiche affini, si oscillerà tra la mera petizione di principio (il "diritto di carta") e la difficoltà di una sua significativa attuazione che passa attraverso una messa in discussione di consolidate e tradizionali visioni giuridico-sociali, (il rischio dei "diritti presi sul serio"). Secondo lo schema classico, il diritto soggettivo deve avere come suo necessario correlato un dovere e deve anche esserci la possibilità di una azione giudiziale per far valere quel diritto. Se nessuno deve una certa prestazione non c'è diritto, né c'è diritto se la pretesa non può essere fatta valere in giudizio.
Il diritto all'ambiente, come diritto soggettivo, parrebbe avere entrambi i requisiti. L'azione per danno ambientale può essere promossa nei confronti di persone fisiche, imprese, ed anche nei confronti di amministratori di Enti territoriali e dello Stato (in tema, Cass., Sez. Un., 23 giugno 1992 n. 7677). Il presupposto di tale azione è che da tutti si può pretendere una condotta (quindi una prestazione) che non leda dolosamente o colposamente l'ambiente. Quanto all'azione in giudizio, la stessa è accordata solo allo Stato ed agli enti territoriali e non ad altre persone giuridiche o a persone fisiche. Da tale limitazione non può argomentarsi la insussistenza del diritto soggettivo all'ambiente da parte dei singoli poiché l'art. 18 della legge 8 luglio 1986 n. 349 fa esclusivo riferimento all'azione per danno ambientale. Dovrebbero essere quindi essere consentite azioni cautelari, inibitorie, nonché azioni di mero accertamento senza richiesta di risarcimento danno. Dunque, se proprio per il carattere indifferenziato e diffuso dell'interesse tutelato all'ambiente è opportuna una restrizione dell'azione di danno lasciandone la titolarità ai soggetti pubblici che, oltre ad essere rappresentativi della comunità nazionale e di quelle territoriali locali, hanno competenze e attribuzioni sull'ambiente, permangono tuttavia in capo ad altri soggetti significative azioni di tutela correlate al diritto soggettivo vantato.
Le associazioni ambientaliste di cui all'art. 13 possono intervenire nel giudizio per danno ambientale. Tale intervento è stato diversamente qualificato. In conformità alla lettera della legge si è ritenuto che lo stesso altro non è che l'intervento adesivo dipendente di cui all'art. 105 comma 2 del c.p.p. (in tal senso GUP Venezia 10 ottobre 2000). Altri hanno sostenuto, invece, che con la espressione "intervento" il legislatore ha voluto sintetizzare la facoltà delle associazioni ambientaliste di essere presenti in qualunque tipo (civile, penale e amministrativo) di giudizio per danno ambientale e che nel giudizio penale tale intervento non può che passare attraverso la costituzione di parte civile poiché in detto giudizio non ci sono forme di litisconsorzio o di intervento ad adiuvandum (Cassazione penale, Sez. 3, 17 marzo 1992; GUP Venezia 23.7.1997).
Se il diritto all'ambiente ha quelle peculiari connotazioni di cui si è detto (è un diritto soggettivo, della personalità e fondamentale), il carattere fondamentale del diritto permane in capo ai singoli anche quando questi esplichino la loro personalità in formazioni sociali, come nel caso di associazioni ambientaliste di provata serietà e impegno che siano andate, nel loro concreto agire, ben al di là di un mero richiamo astratto e generico al rispetto della legalità. Esiste, quindi, anche una dimensione sociale (oltre a quella personale e pubblica, così Cass. pen., Sez. 3, 10.11.1993) del diritto all'ambiente che fa capo anche alle associazioni ambientaliste. Il diritto dei singoli associati si trasmetterà alla stessa associazione che diventerà quindi titolare di un suo autonomo diritto.
Né pare condivisibile l'obiezione che una mera associazione non può considerarsi una "formazione sociale" nei termini di cui all'art. 2 Cost. poiché in più pronunce sono state ritenute formazioni sociali le associazioni di categorie (Cons. Stato, Sez. V, 12 agosto 1998, n. 1261), le Camere penali (Corte Cost. 27 maggio 1996 n. 171), le organizzazioni associative sorte a tutela di interessi legittimi (TAR Lazio, Sez. 3, 11 luglio 1991, n. 980).
Esclusa la richiesta risarcitoria per danno ambientale ex art. 18 legge n. 349 del 1986, ritiene il giudice, peraltro in conformità alla prevalente giurisprudenza della Corte di Cassazione, che la costituzione di parte civile delle associazioni ambientaliste sia possibile ove per continuità dell'azione, attiva presenza sul territorio, rilevanza del loro contributo, sensibilizzazione della pubblica opinione (si veda Cass., Sez. 3, 1 ottobre 1996, n. 9837) sia possibile stabilire un nesso tra fatto lesivo e lesione del diritto soggettivo dell'associazione stessa (quale formazione sociale; Cass. pen., Sez. 3, 9 luglio 1996 n. 8699) ad un ambiente salubre, diritto derivato e connesso a quello dei singoli soci che in quella formazione sociale esplicano la loro personalità nella convinta adesione ai fini e scopi statutari. La relativa azione sarà quella ordinaria ex art. 2043 c.c.
Inoltre, può anche ipotizzarsi una lesione del diritto di personalità dell'associazione stessa quando il reale e concreto scopo statutario di tutela dell'ambiente venga leso e frustrato dal fatto addebitato all'imputato (Cass. pen., Sez. VI, 16 febbraio1990; Cass. pen., Sez. III, 9 luglio 1996 n. 8699). L'obiezione che l'associazione non ha un diritto a conseguire il suo scopo è pertinente e fondata. Non altrettanto, e comunque non sempre, appare invece fondata l'obiezione che un fatto illecito altrui non può in sé menomare l'immagine della associazione. Si ipotizzi il caso di una associazione il cui scopo è in sintonia con primari valori costituzionali, sia presente sul territorio e sia impegnata in opere di sensibilizzazione e denuncia. Se detta associazione vede ogni (o qualche) suo (significativo) sforzo vanificato da quelle condotte contro le quali statutariamente si batte, finirà sempre più con l'assumere, agli occhi di tanti, una connotazione meramente simbolica, di bandiera, di sterile testimonianza, se non oggetto di velata irrisione per l'utopismo dei suoi fini.
Inoltre, ai fini della tutela aquiliana ex art 2043 c.c. occorre tenere presente che il concetto di danno ingiusto si è di molto ampliato anche a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite del 22 luglio 1999 n. 500.
Infine, l'art. 23 della legge 3.8.1999 n. 265 che ha previsto che le associazioni ambientaliste possono proporre le azioni risarcitorie (conseguenti a danno ambientale) di competenza del giudice ordinario che spettino al comune e alla provincia non sembra avere carattere dirimente ai fini che qui interessano. Infatti, si tratta di una norma relativa alla sola azione per danno ambientale ex art. 18 legge n. 349 che lascia immutata l'azione aquiliana in capo alle stesse associazioni in relazione a propri diritti ed in riferimento ai danni dalle stesse subiti.
Dalla documentazione allegata tutte e tre le associazioni hanno documentato un concreto interesse per la protezione dell'ambiente e, per Medicina Democratica, per la salute in fabbrica, con iniziative ed interventi anche mirati alla realtà industriale di Porto Marghera. Greenpeace e Lega Ambiente sono anche associazioni riconosciute ai sensi dell'art. 13 della legge n. 349 del 1986. Non si tratta quindi di associazioni virtuali, ma, per così dire, "militanti", che hanno documentato di aver profuso impegno ed energie nella attuazione degli scopi statutari mediante iniziative legate alle problematiche territoriali, anche quella nel cui ambito è maturata la vicenda all'attenzione di questo giudice.
P.Q.M.
rigetta la richiesta di esclusione delle associazioni Greenpeace ONLUS, Medicina Democratica, Lega Ambiente-comitato regionale per il Veneto.
Le questioni da risolvere
I fatti sono sostanzialmente pacifici: che DALL'ARMI e FAVARETTO, intorno alla metà del mese di ottobre provarono a chiudere la valvola B, posta alla radice della derivazione della tubazione verso il BC1, questo in fase di bonifica e non più operante dal gennaio 1998; che i due ritennero che la valvola trafilasse; che fu interessata la ditta PONTEROSSO per la realizzazione delle scatole furmanitate (il c.d. salsicciotto); che AMPÒ richiese l'autorizzazione per fare i lavori delle menzionate scatole in priorità 1, cioè emergenza; che tali scatole non vennero realizzate non essendo stata data dalla ditta PONTEROSSO la garanzia della perfetta riuscita; che dopo il sopralluogo della menzionata PONTEROSSO, ai primi di dicembre, non venne adottata misura alcuna in relazione al trafilamento della valvola B.
Non pacifiche sono, invece, le seguenti questioni, attinenti alla valutazione di quei fatti o solo giuridiche: se davvero la valvola B trafilasse o se invece chiudeva e si trattò di una errata manovra dei citati DALL'ARMI e FAVARETTO; se la valvola B fosse destinata a prevenire disastri o infortuni; se doveva essere sostituita o comunque si doveva prendere altra equivalente misura; se la valvola, anche a ritenere che dovesse essere sostituita, doveva comunque restare aperta; se vi è nesso causale tra la omissione addebitata agli imputati e la fuga di ammoniaca verificatasi da un accoppiamento flangiato distante dalla valvola e posto sulla diramazione in prossimità dei limiti di batteria del BC1; se la richiesta fatta da AMPÒ con priorità 1 (emergenza) fosse dettata da reale consapevolezza della emergenza o se invece tanto è stato richiesto solo per affrettare i tempi della autorizzazione; quanta ammoniaca sia fuoriuscita prima e durante l'intervento dei Vigili del fuoco; se l'evento configuri o meno un disastro e\o se si sia verificato un infortunio; eventualmente, profili relativi al risarcimento del danno.
La valvola B
La valvola B era un valvola a saracinesca. Azionata manualmente consentiva l'apertura e la chiusura del flusso, nel caso di specie dell'ammoniaca. Certamente era una valvola di intercettazione. Era un dispositivo? Era un dispositivo destinato a prevenire disastri o infortuni?
Alcune valvole assolvono solo a funzioni di sicurezza, come ad esempio le valvole che si aprono quando la pressione supera un certo valore o che si chiudono quando il flusso aumenta oltre il valore consentito. Altre valvole, come quelle di intercettazione, svolgono anche una funzione di sicurezza, come nel caso in cui sono poste in tubazioni chiuse costituenti rete estese.
Recita l'art. 245 del D.P.R. 547/1955: "le tubazioni e le canalizzazioni chiuse, quando costituiscono una rete estesa o comprendono ramificazioni secondarie, devono essere provviste di dispositivi, quali valvole, rubinetti, saracinesche e paratoie, atti ad effettuare l'isolamento di determinati tratti in caso di necessità". Dunque, le reti estese: "... devono essere provviste". Si tratta di un obbligo previsto dalla normativa antinfortunistica.
In base all'art. 244 del citato D.P.R. 547/1955 "le tubazioni e le canalizzazioni e le relative apparecchiature accessorie ed ausiliarie devono essere costruite e collocate in modo che: a) in caso di perdite di liquidi o fughe di gas, o di rotture di elementi dell'impianto, non ne derivi danno ai lavoratori; b) in caso di necessità sia attuabile il massimo ed il più rapido svuotamento delle loro parti". Anche qui si tratta di un obbligo: "devono essere costruite e collocate".
In via più generale, l'art. 241 dispone: "Gli impianti, le parti di impianto, gli apparecchi, i recipienti e le tubazioni soggetti a pressione di liquidi, gas, vapori, i quali siano comunque esclusi o esonerati dalla applicazione delle norme di sicurezza previste dalle leggi e dai regolamenti speciali concernenti gli impianti e i recipienti soggetti a pressione, devono possedere i necessari requisiti di resistenza e di idoneità all'uso cui sono destinati".
Va menzionato anche l'art. 374 secondo cui: gli edifici, le opere destinate ad ambienti o posti di lavoro, compresi i servizi accessori, devono essere costruiti e mantenuti in buono stato di stabilità, di conservazione e di efficienza in relazione alle condizioni di uso e alle necessità della sicurezza del lavoro. Gli impianti, le macchine, gli apparecchi, le attrezzature, gli utensili, gli strumenti, compresi gli apprestamenti di difesa, devono possedere, in relazione alle necessità della sicurezza del lavoro, i necessari requisiti di resistenza e di idoneità ed essere mantenuti in buono stato di conservazione e di efficienza.
Da tale normativa si desume: che le valvole, qualificate dispositivi dall'art. 245, rientrano nel più generale concetto di apparecchiature; la valvola è una apparecchiatura accessoria ed ausiliaria della tubazione (art. 244), essendo composta di più elementi tra loro coordinati e finalizzata, mediante azione dell'uomo o automatica attivazione, allo scopo di intercettare e parzializzare il flusso all'interno della tubazione; la finalità è di sicurezza, sia perché il citato decreto presidenziale attiene alla normativa antinfortunistica, sia per esplicita menzione nella rubrica dell'art. 244: "disposizioni generali di sicurezza per tubazioni e canalizzazioni". Tubazioni e valvole debbono essere mantenuti in buono stato di conservazione ed efficienza, queste ultime in relazione alla necessità della sicurezza del lavoro (art. 374).
Nel menzionato D.P.R. n. 547 la parola che spesso ricorre è proprio "dispositivo" (esattamente come nell'art. 245 ed in riferimento alle valvole) e sempre qualifica l'apparecchio, il mezzo, il sistema, la misura, la cautela, per evitare infortuni: dispositivo di sicurezza (tra altri, 68), di blocco (72), di arresto (71) e cosi via: dispositivi tali da... (art. 74), dispositivi atti a... (art. 77). Che la omessa collocazione di un dispositivo antinfortunistico e di sicurezza di cui al più volte menzionato D.P.R. 547 possa integrare il reato di cui all'art. 437 c.p. è stato più volte affrontato dalla Corte di Cassazione sia in relazione al concorso tra contravvenzione e delitto ed al diverso tipo di elemento psicologico, sia in relazione al bene giuridico tutelato (pubblica incolumità) sia in riferimento alle dimensioni dell'impresa. Mai è stata fatta questione che il "dispositivo" (anche due bottoni da schiacciare per evitare rischi alle mani) non rientrasse tra gli "apparecchi" di cui all'art. 437 c.p.p.
In una imponente industria chimica con, parrebbe, 400\500 km di tubazione (ma la situazione non cambia anche se la estensione fosse di gran lunga inferiore, è sufficiente che possa considerarsi estesa), le valvole non possono non essere essenziali sia per la stessa funzionalità dell'impianto (a fini meramente tecnico-produttivo) sia per ragioni di sicurezza dei lavoratori e della collettività in generale. In ambito di sicurezza, associare ad una industria chimica il pericolo della perdita di liquidi o della fuga di gas è operazione mentale, empiricamente e statisticamente fondata, istintiva e spontanea al pari della connessione tra la caduta di un lavoratore dall'alto e lavori edili, tra il crollo di una gru e i più vari cantieri, tra lo schiacciamento e l'amputazione di parti del corpo e macchine operatrici.
In caso di necessità, recita l'art. 245 del D.P.R. n. 547, la valvola a saracinesca deve essere idonea ad intercettare il flusso per isolare determinati tratti di tubazione. La finalità è, quindi, anche di sicurezza.. Se è funzionale chiudere o aprire una valvola per ragioni legate al processo produttivo, quella stessa valvola deve poter essere chiusa o aperta, a seconda della contingenza verificatasi e della necessità operativa, al fine di isolare determinati tratti. La valvola quale mezzo per la produzione è nella totale disponibilità del datore o dirigente o lavoratore che possono orientarsi come meglio credono, ma quale mezzo per la sicurezza è sottratto alle insindacabili scelte imprenditoriali e soggetto a regole e prescrizioni (le menzionate norme del D.P.R. n. 547) essendo in gioco non più l'utile d'impresa ma la salute di lavoratori o cittadini.
Dunque, la valvola a saracinesca, nelle reti estese, ha anche una funzione di sicurezza, qui evidenziandosi, inoltre, che il dispositivo o l'apparecchiatura antinfortunistico possono anche essere di importanza non fondamentale.
Questione diversa è se la valvola B qui in esame fosse superflua o se fosse tollerabile che potesse non funzionare tenuto conto che, si asserisce, in prossimità vi erano altre valvole funzionanti che potevano servire allo scopo di intercettare il flusso in caso di necessità. La prima questione si pone poiché la difesa degli imputati ha anche ritenuto che, sia in generale che in relazione al nesso causale tra quella valvola e l'evento, da nessuna norma, e tecnica e giuridica, si evince un obbligo di costruire in quel punto (dov'era la valvola B) una valvola a saracinesca. In sostanza, se quella valvola lì poteva non esserci, non avrebbe senso discutere del suo supposto trafilamento.
L'argomentazione non convince. È vero che nessuna norma prevede, al metro o al centimetro, "dove" installare le valvole, ma il più volte citato D.P.R. n. 547 dà criteri d'ordine generale e funzionali in vista di un certo scopo: tubazioni e relative valvole debbono essere costruiti e collocati in modo tale da evitare danno ai lavoratori in caso di rotture o fughe e debbono poter consentire l'isolamento e lo svuotamento di tratti in caso di necessità. La valvola B era in prossimità del collettore principale degli spurghi ammoniacali ed era distante circa 200 metri dalla valvola al limite di batteria del BC1.
Dunque, su di una diramazione, quella tra il BC1 ed il collettore che conduce gli spurghi ammoniacali (dei reparti AC9, AC11, BC1 e TD2) al reparto AM4, vi erano due valvole, una al limite di batteria del reparto stesso, scelta necessitata per isolare il BC1, l'altra in prossimità del collettore, anch'essa scelta funzionale al controllo della diramazione tra collettore e reparto. Rimane difficile ipotizzare che l'una o l'altra siano superflue essendo evidente la necessità di isolare il reparto e la diramazione. Entrambe rispondono, infatti, alle esigenze ed alle finalità di cui ai più volte citati artt. 244 e 245 del D.P.R. n. 547. Non a caso gli stessi CCTT degli imputati (prima relazione MESSINEO-FORABOSCHI, pag. 4) parlano di valvola "di radice" della diramazione.
Quanto alla supposta abbondanza delle valvole, per cui la valutazione andrebbe fatta nel suo complesso e non per singola valvola, oltre al rilevo che nella fattispecie non si vede ove sia l'eccesso di valvole nella diramazione in direzione del BC1, va evidenziato come le norme che impongono condotte prudenziali e cautelari debbono comunque essere rispettate indipendentemente da fauste, e magari anche fondate, prognosi di non pericolosità della omissione. Inoltre, proprio l'esame della fattispecie qui in esame evidenzia come sia errata la percentualizzazione del rischio: infatti, su chilometri e chilometri di tubazioni sono bastati due millimetri di guarnizione scentrata a costituire il varco per la fuga.
La valvola B, valvola a saracinesca, era un apparecchio destinato a prevenire disastri o infortuni.
La valvola B non era idonea a isolare il tratto tra sé e la valvola posta al limite di batteria BC1
Le tubazioni debbono avere valvole in grado di effettuare l'isolamento di determinati tratti in caso di necessità. Si tratta di una idoneità strutturale e qualità che la valvola deve possedere in funzione di una eventualità che obblighi a isolare alcuni tratti. La valvola B non aveva tale idoneità in quanto trafilava. Non era idonea a isolare il tratto delimitato dalla stessa valvola B e quella posta al limite di batteria del BC1. Tale inidoneità era stata accertata da DALL'ARMI e FAVARETTO, era nota ad AMPÒ e SIMONETTI che avevano attivato procedure e mezzi per rimediare alla inidoneità della valvola: le scatole furmanitate. Si era, tuttavia, soprasseduto, non essendo state date piene garanzie dalla PONTEROSSO, cui si voleva appaltare l'esecuzione di tali scatole.
La valvola B non chiudeva bene, trafilava, faceva passare l'ammoniaca: non era idonea a isolare un lungo tratto di tubazione, la diramazione proveniente dal BC1 (200 m).
La valvola B doveva essere sostituita Dunque, trattandosi di una valvola inidonea andava riparata o sostituita. L'obiezione che in quel frangente produttivo la valvola doveva o poteva restare aperta, e quindi non si poneva alcun problema di intercettazione del flusso, non coglie lo scopo della normativa di prevenzione secondo cui la valvola deve sempre essere idonea anche al fine di intercettare il flusso in caso di necessità. Se per esigenze tecnico-produttive può essere indifferente che la valvola funzioni bene o meno, non lo è per le esigenze di sicurezza insite nella stessa funzione intercettatrice della valvola che in caso di necessità deve isolare un tratto di tubazione. Né è pertinente l'obiezione che all'ENICHEM, in quei mesi (ottobre-dicembre 1998), non vi era la necessità di chiudere il tratto di tubazione poiché la questione è altra, ed è quella di avere la certezza di poter chiudere la valvola in caso di necessità.
Che la valvola B trafilasse era un problema di non poco conto: si trattava di una valvola di una tubazione, di una imponente struttura chimico-industriale (400/500 km di tubi; così SIMONETTI, p. 141), ove passava ammoniaca, un fluido con caratteristiche di tossicità, esplosività ed infiammabilità. Se ci fosse stata, per ipotesi, una visita ispettiva e l'ispettore del lavoro avesse saputo da AMPÒ e SIMONETTI che la valvola B trafilava, avrebbe certamente preteso che fosse subito cambiata, e ciò, oltre che per ordinaria prudenza e buona tecnica, anche in relazione allo spirito e alla lettera dei citati artt. 241, 244, 245 del D.P.R. n. 547. Ancora: se si ritiene corretto, o almeno non scorretto, non sostituire la valvola B (come hanno deciso di fare gli imputati), se cioè una valvola che trafila può non essere sostituita, dovremmo dedurre che se tutte le valvole dell'ENICHEM avessero trafilato tutte potevano essere lasciate al loro posto così com'erano. Una tale soluzione è all'evidenza inaccettabile, né pare a questo giudice che sia possibile invocare, per la deroga, l'aspetto quantitativo: un conto è una valvola, un conto sono 100. Sarebbe come dire che su 100 metri di viadotto sarebbe tollerabile un metro di guardrail malmesso. O che, ebbri, non ci si possa mettere alla guida per 100 km ma è tollerabile che lo si faccia per uno.
La valvola B, inidonea all'uso (non chiudeva), doveva essere sostituita. Trattandosi di apparecchio destinato a prevenire disastri o infortuni sussiste, nella omissione della sostituzione, o in altra certa ed equivalente misura, la materialità della condotta di cui all'art. 437 c.p. Simonetti ed Ampò volevano effettivamente sostituirla
I primi a ritenere che la valvola B dovesse essere sostituita sono stati proprio gli imputati. Essi hanno saputo da DALL'ARMI e FAVARETTO che la valvola trafilava e successivamente è partita la richiesta per la esecuzione delle scatole furmanitate da eseguirsi tramite l'impresa PONTEROSSO. Non avevano optato per la sostituzione della valvola ma comunque avevano attivato un rimedio equivalente nell'isolamento del tratto di tubazione che andava verso il BC1. Che quel tratto di tubazione verso il BC1 andasse isolato è inequivocabile, prudente e giusta scelta di AMPÒ e SIMONETTI che dinanzi ad una valvola che perdeva in linea hanno cercato la soluzione mediante le scatole furmanitate, soluzione questa che avrebbe reso superflua la sostituzione della valvola in quanto comunque la diramazione sarebbe stata isolata. Poiché, però, la ditta PONTEROSSO non garantiva sulla perfetta tenuta delle scatole furmanitate, che è come dire che l'inconveniente della trafilante valvola B si trasferiva sulla menzionate scatole, nel tratto di tubazione interessato comunque ci sarebbe finita l'ammoniaca, e tanto valeva allora (ragionarono AMPÒ E SIMONETTI) non fare nulla e lasciare aperta la valvola B, scelta peraltro corretta onde evitare che il liquido trafilato dalla valvola B e imprigionato tra le due valvole (valvola B e quella al limite di batteria) potesse esplodere.
La scelta fu corretta ma ha come suo presupposto un errore: il non avere sostituito la valvola. Nella situazione data si scelse la soluzione giusta ma i termini della questione da risolvere erano la conseguenza di una omissione. Se la valvola in caso di necessità deve intercettare il flusso ai fini dell'isolamento di un tratto di tubazione, nella fattispecie, pur di non cambiare la valvola, si era scelta una soluzione che rendeva evidente che quel tratto non era affatto isolato né isolabile.
Non era isolabile per via del trafilamento e si decideva di operare come se la valvola non ci fosse, lasciandola aperta. Una valvola che non chiude, o non chiude bene, non svolge la sua funzione. Averla lasciata aperta per questa sola ragione rende evidente che quella valvola creava problemi e non ne risolveva alcuno, e i problemi aperti attenevano sia alla gestione di produzione (si era ritenuto utile e conveniente chiuderla e ciò non è stato possibile) che alla sicurezza, in quanto la certezza della inaffidabilità della chiusura vanificava la componente funzionale di prevenzione insita nella valvola di intercettazione.
Gli imputati avevano richiesto i lavori con il codice di priorità 1, cioè emergenza
Che il tratto di tubazione di derivazione dal BC1 andava chiuso e con urgenza è affermazione che prima ancora d'essere il presupposto di un addebito penale è l'evidente connotato della condotta degli imputati che tale obiettivo volevano perseguire in ottemperanza ad un dover essere. Venerdì 20.11.1998 alle ore 17.13 AMPÒ inserisce al computer la richiesta per la realizzazione delle scatole furmanitate, lavoro qualificato con priorità 1 (emergenza) e da realizzarsi dal 24.11 al 30.11. La richiesta venne accolta dai competenti uffici ed in data 30.11.1998 (doc. 815-103) risulta che i lavori dovevano iniziare l'1.12.1998 con la ditta PONTEROSSO. In altro documento a firma dell'assistente MUSCATIELLO (doc 818-107) risulta che i lavori vennero, invece, preventivati per il giorno 4 dicembre 1998. In realtà, poi, non se ne fece nulla non avendo la PONTEROSSO dato garanzia assoluta sulla riuscita del lavoro (testimonianza ROMANO p. 68). Da allora la valvola è rimasta aperta, esattamente come da scelta effettuata a metà ottobre da DALL'ARMI e FAVARETTO, ma senza che fossero trovate altre soluzioni rispetto alla impraticabilità delle scatole furmanitate.
In base alla nota del 31.1.1984 relativa alle modalità per la compilazione dei documenti per lavori di investimento (doc. 839) le priorità per la richiesta dei lavori erano quattro. La priorità 1 è definita di emergenza, la 2 di urgenza, la 3 programmabile e la 4 è la fermata programmata. La priorità 1, doveva essere utilizzata per lavori la cui esecuzione deve essere immediata e che si rendono necessari per evitare conseguenze immediate alla sicurezza delle persone e degli impianti. La priorità 2 doveva, invece, essere autorizzata per lavori che non hanno conseguenze immediate sulla sicurezza delle persone e/o degli impianti e sulla produzione, ma che possono trasformarsi in priorità 1 se non iniziati con una certa tempestività, indicativamente 5 giorni. Invero, i requisiti della priorità 1 potevano attenere anche ad altri profili, quali ad esempio la perdita (totale o parziale) di produzione in atto o condizioni di rischio elevato di grosse perdite, ma nessuna di queste era solo astrattamente ipotizzabile in relazione alla valvola B il cui trafilamento, verso una tubazione di diramazione dal reparto BC1 dismesso da mesi e in fase di finale bonifica, non consentiva di avere sicurezza sulla gestione del flusso, nella fattispecie l'ammoniaca, fluido tossico, infiammabile e pericoloso.
È, quindi, la stessa condotta degli imputati ad essere pienamente coerente con l'assunto dell'accusa che quella valvola andava sostituita o che il tratto di diramazione proveniente dal reparto BC1 andasse comunque isolato trattandosi di reparto dismesso, non più interessato a cicli produttivi.
Quando gli imputati (ed invero anche il teste FAVARETTO) dicono che l'idea delle scatole furmanitate non fu una felice idea ("fesseria" è l'espressione di SIMONETTI, p. 135; "idea balzana" dice FAVARETTO, p. 140) sia perché non dava garanzia di riuscita sia perché era impraticabile fino a quando non era ultimata la bonifica del BC1 dicono cose sensate ed inconfutabili, ma ciò evidenzia come sia piuttosto singolare che tale elementare logica non sia stata dono degli imputati in quel novembre del 1998. Era, ed è, evidente che chiudendo definitivamente con le scatole furmanitate il tratto di tubazione in questione il BC1 non poteva ultimare la bonifica. E allora la sola spiegazione possibile è che gli imputati abbiano agito dando all'iniziativa delle scatole furmanitate la sola funzione possibile e utile: chiudere definitivamente la tubazione evitando di dover sostituire la trafilante valvola; la chiusura, ovviamente, era subordinata alla ultimazione della bonifica da parte del reparto BC1 (significativamente DALL'ARMI, p. 70, che pure nulla dice di aver saputo della richiesta delle scatole furmanitate: "era assurdo pinzettare, perché questo mi impediva di continuare le bonifiche").
La richiesta, invece, non è più assurda se si ipotizza che le bonifiche fossero sul punto di finire. Ha detto, infatti, il teste FAVARETTO, p. 143: "credo che il BC1 avesse ancora poche bonifiche o addirittura quasi terminato, adesso non ricordo cosa ha detto Dall'Armi o cosa ho detto io". Dunque, DALL'ARMI e FAVARETTO constatano che la valvola B trafilava circa a metà di ottobre e la richiesta per le scatole furmanitate è stata fatta da AMPÒ il 20 novembre successivo, quindi un mese dopo, e si tratta di richiesta con priorità 1. La valvola, inidonea all'uso "totale" (cioè, all'occorrenza stare chiusa o aperta), andava immediatamente sostituita, ma può comprendersi (come spiegazione, non come giustificazione) che comportando tale sostituzione una operazione complessa e coinvolgente più reparti si possa aver temporeggiato onde consentire al reparto BC1 di finire le bonifiche, situazione quest'ultima che permetteva, potendo a quel punto il BC1 rimanere isolato, anche di intervenire con il più comodo sistema (sulla "comodità" della pinzatura, SIMONETTI a p. 135 e 136) delle scatole furmanitate. In effetti così accade un mese dopo la "prova" della chiusura effettuata da DALL'ARMI e FAVARETTO, tempo più che congruo per ritenere che le bonifiche fossero ultimate o che tale ultimazione fosse questione di giorni. Di qui la priorità 1, giustificata anche dal ritardo dell'intervento essendo trascorso un mese dalla scoperta del trafilamento, nonché dal rischio di evitare, con il BC1 che aveva finito (o stava per finire) le bonifiche, ulteriori ritardi.
In quest'orizzonte di senso, sul presupposto che a metà ottobre la finale bonifica del BC1 fosse ormai questione di pochi giorni, o comunque prossima (questa è la convinzione di FAVARETTO che evidentemente l'ha trasmessa ad AMPÒ), ha una sua logica ed una sua coerenza la richiesta in priorità 1 fatta a novembre da AMPÒ. Ritenere, invece, come oggi dicono gli imputati, che la richiesta delle scatole furmanitate venne effettuata solo per essere pronti quando il BC1 avrebbe finito le bonifiche e che il tempo della ultimazione fosse questione non prevedibile (poteva essere questione di giorni o di mesi) e comunque estranea alle scelte di competenza del GSA (e quindi degli imputati AMPÒ e SIMONETTI), lascia del tutto inspiegata, secondo condivise logiche sociali, la scelta della richiesta poiché è ragionevole ritenere che ci si attivi per risolvere questioni attuali o imminenti o comunque collocate in un orizzonte operativo di prossimità ragionevole.
Che senso aveva, per il GSA, gravato da tanti lavori, interessarsi di una questione che doveva essere affrontata, poniamo, sei mesi dopo, un anno dopo, in una data indefinita visto che il BC1 era padrone assoluto dei suoi tempi di lavoro e finanche geloso custode di tali tempi che non comunicava ad alcuno. Ed anche a voler ritenere che gli imputati agissero in preda ad una maniacale programmazione anche sui tempi lunghi, che senso ha allora formulare la richiesta in priorità 1 visto che di tempo ce n'era in abbondanza tale da sopportare anche le supposte inerzie della direzione tecnica?
È SIMONETTI che dice che sul BC1 non aveva alcuna "giurisdizione" (p. 134), che "francamente" non sapeva quando le bonifiche sarebbero finite (p. 142), che per quanto ne sapeva lui le bonifiche in quel frangente potevano essere state "cinquanta" o "neanche una" (p. 134), e poi si sottrae alla obiezione, consequenziale alle premesse da cui lo stesso SIMONETTI muove, che i tempi dell'intervento, data la imprevedibilità di quelli della bonifica, potevano essere misurati a giorni, a mesi ed anche ad anni (domanda del PM, p. 143). L'obiezione del PM tendeva a mostrare la incoerenza della condotta (adoperarsi con procedure privilegiate (la priorità 1) per un lavoro che poteva realizzarsi anche un anno dopo) e l'imputato che ciò ha ben capito non aderisce all'obiezione, ne fa una questione di competenza ("io dico, non era nelle mie competenze"), e per dare ragionevole senso a quei ponteggi sotto il tubo e la valvola B (è difficile immaginarli lì inutili e fermi per un anno) evidenzia il suo intento, per dopo Natale, di "tenere in tensione" (p. 144) la situazione "pungolando la gente" (cioè i vari capi reparto), il che è ancora incomprensibile poiché se tempi e modi della bonifica del BC1 era questione interna di quel reparto e non interferiva con il lavoro e le responsabilità degli imputati non si vede perché il "pungolo" doveva avvenire dopo Natale e non prima, oppure a Carnevale o a Pasqua.
In fondo, basta invertire i termini della relazione (non la dismissione del tratto di tubazione quale dato dipendente dalla ultimazione delle bonifiche ma la accelerazione di queste in funzione della improrogabile dismissione del tratto) per ridare coerenza ai comportamenti e spiegare il potere di "pungolo" da parte di SIMONETTI che, responsabile della valvola B e del tratto verso il BC1, ben poteva sollecitare gli altri a fare in fretta. Ma mentre ciò non sembrava necessario in un primo tempo (tutto deponeva per la imminente fine della bonifica) e la soluzione delle scatole furmanitate sembrava la più agile e comoda, constatata la impraticabilità di queste ultime e non arrivando l'aspettato assenso del BC1 occorreva prendere altre decisioni per risolvere il problema della trafilante valvola B. E invece ogni decisione è stata rinviata a quando il BC1 avrebbe terminato le bonifiche. Ma, come ha detto il PM, "la fuga non poteva aspettare queste cose" (esame SIMONETTI, p. 140), frase indubbiamente "retoricamente efficace" come ha sottolineato la difesa degli imputati, ma neutra e tecnica se riformulata con: "se è doveroso attivarsi per l'adozione di una misura precauzionale ciò costituisce una priorità assoluta che non è subordinabile a tempi e condizioni del tutto estranei ai profili di sicurezza"
In conclusione, la mera richiesta delle scatole furmanitate è incompatibile con il permanere delle bonifiche al BC1 e, invece, ha come suo presupposto che tali bonifiche fossero di imminente ultimazione. Motivare la richiesta della priorità 1 con il solo scopo di "guadagnare" tempo è comportamento illogico se non c'era fretta alcuna e il lavoro da farsi poteva addirittura essere realizzato mesi dopo. È del tutto coerente, invece, con la convinzione: a) che la ultimazione delle bonifiche al BC1 era ormai questione di poco tempo; b) che, quindi, il tratto di tubazione potesse essere isolato anche con le scatole furmanitate evitando in tal modo di fermare le linee spurghi di più reparti; c) che ciò avrebbe risolto il problema della valvola che trafilava. Una volta realizzato che i fatti erano diversi (il BC1 tardava a terminare le bonifiche; e quindi le scatole furmanitate non potevano essere realizzate) incombeva agli imputati trovare altre soluzioni per risolvere il problema della trafilante valvola B.
La prassi dell'abuso della priorità 1
Gli imputati non hanno negato di avere formulato la richiesta in priorità 1 (richiesta invero fatta da AMPÒ, ma condivisa dal SIMONETTI che quale superiore del primo ne ha avallato tutte le scelte), ma hanno sostenuto che a tale richiesta non poteva essere dato rilievo alcuno in quanto la indicazione della priorità 1 era, all'ENICHEM, quasi la regola per ottenere quanto prima l'assenso per la esecuzione dei lavori stessi. Di fatto, sostengono gli imputati, della priorità 1 vi era un generalizzato abuso. E in questo senso sono anche le considerazioni dei CCTT degli imputati MESSINEO-BOATTINI (p. 1 e ss. Appendice). La spiegazione oggi addotta offre una diversa chiave di lettura dei fatti accaduti in cui l'evidenza semantica delle parole e degli scritti e l'ermeneutica dei comportamenti non abbisognano di spiegazione alcuna: era stata formulata una richiesta in priorità 1, detta priorità in un codice condiviso significava emergenza; i lavori dovevano essere eseguiti in una settimana (o meglio nell'arco di una settimana); era stata contattata allo scopo la ditta PONTEROSSO; questa ha eseguito un sopralluogo ma non ha dato garanzie.
Tutto ciò rende comprensibili, spiegabili e coerenti i fatti e i comportamenti: si è giudicato di eseguire le scatole furmanitate; tale lavoro è stato qualificato come emergenza; è stato richiesto ed autorizzato; subito dopo si è passati, coerentemente con le premessa della urgenza, ad una rapida esecuzione dei lavori che non hanno avuto luogo per le note difficoltà della PONTEROSSO a dare idonea garanzia. Né i giorni necessari per l'approntamento del lavoro possono smentire o inficiare la richiesta con i caratteri della emergenza trattandosi di lavoro che necessitava di sopralluogo, ponteggi, studi di fattibilità, affidamento ad una ditta esterna. La coerenza delle condotte, circa la necessità del lavoro, si interrompe con il rifiuto della PONTEROSSO di dare garanzie scritte. Se non le scatole furmanitate, qualcos'altro, questo ci si attenderebbe da uno sviluppo coerente della problematica in atto. Invece, dopo le non garanzie della PONTEROSSO, ed i ritardi della ultimazione delle bonifiche al BC1, nessuna soluzione è stata prospettata se non quella di lasciare la valvola aperta rinviando il lavoro da farsi alla fine della bonifica del BC1, cioè ad anno nuovo, in una data comunque indefinita e insuscettibile di previsione dati i tempi non proprio brevi e certi della bonifica del reparto BC1.
La spiegazione dell'abuso della priorità 1, detta dagli imputati e avvalorata dalle considerazioni dei CCTT di parte, in realtà non è equivalente a quella di immediata ed evidente lettura che gli stessi fatti consegnano all'interprete. È non è solo una questione attinente alla difficoltà del vero di emergere dietro le apparenze ove, in ipotesi, queste siano fallaci o fuorvianti. È che la stessa spiegazione non convince non riuscendo a comporre unitariamente i vari tasselli della vicenda. Se la valvola che trafilava non era un serio problema, perché tanto (questo è, oggi, l'assunto difensivo) doveva comunque rimanere aperta, perché allora DALL'ARMI e FAVARETTO, per primi, e poi SIMONETTI e AMPÒ, si adoperarono per isolare il tratto di tubazione verso il BC1? Perché pensarono alle scatole furmanitate, al fine di avere da queste lo stesso risultato della valvola chiusa? Perché chiamarono la PONTEROSSO? Perché il lavoro fu stimato da farsi nell'arco di una settimana e non in mesi? Perché, al di là della richiesta, così effettivamente avvenne, nel senso che la PONTEROSSO venne subito chiamata per la esecuzione dei lavori?
Né l'elenco dei lavori richiesti con priorità 1, di cui all'appendice della CT degli imputati, è dirimente, non essendo affatto evidente che i lavori richiesti fossero tutti o quasi tutti di nessuna urgenza ed emergenza. Tranne che in un caso non viene indicata dai CCTT la data di effettiva esecuzione e la stessa consulenza valorizza le date di inizio e termine dei lavori. È dato rilevare, allora, che alcuni lavori sono stati eseguiti, come da indicazione, nella stessa giornata (ad esempio i nn. 2, 3, 6, 20, 21), o nell'arco di uno, due o tre giorni (ad esempio i nn. 1, 4, 5, 7, 8, 9, 14, 15, 16, 17, 19). Parrebbe, quindi, che l'unico lavoro a non essere stato eseguito è proprio quello relativo alle scatole furmanitate, cioè il lavoro attinente e consequenziale al trafilamento della valvola B. Inoltre, i lavori attengono a perdite d'acqua (di certo non è una fuga di gas, ma comunque si interviene d'urgenza), o a dispositivi di sicurezza, controllo o tenuta (pompe, valvole, guarnizioni, Phmetri) ove l'intervento immediato è doveroso. La parola perdita (acqua, vapore) ricorre in 11 lavori e sono quelli realizzati più celermente.
Dunque, non è vero che all'ENICHEM tutte le richieste in priorità 1 erano gonfiate e non rispondenti a reali esigenze di sicurezza o di rilevante interesse produttivo.
La valvola B trafilava
Che la valvola B trafilasse è un dato pacifico stando alla formulazione del capo di imputazione. Il dato di fatto pacifico di regola non viene provato non essendoci contestazione al riguardo. Probabilmente il PM ha ritenuto pacifico tale fatto poiché presupposto di tanta parte della condotta degli imputati: che la valvola B trafilasse era fondata e ragionevole convinzione di DALL'ARMI e FAVARETTO che avevano chiuso la valvola stessa constatandone la perdita in rete (interna, non esterna) attraverso due indici, il brinamento sulla tubazione (FAVARETTO, p. 129; DALL'ARMI p. 41) e l'aumento di pressione (FAVARETTO p. 133). Inoltre, la richiesta delle scatole furmanitate aveva senso solo se la valvola B perdeva.
Tale pacificità è stata contestata dalla difesa degli imputati per due motivi: a) FAVARETTO poteva non aver chiuso bene la valvola; b) alle prove dei vigili del fuoco la valvola era perfettamente funzionante.
Oltre che ad una motivazione di carattere generale (perché mai l'accusa ritiene che all'ENICHEM tutto sia tutto errato ed approssimativo, le condotte siano negligenti ed imprudenti, ma poi si fa eccezione per la manovra del FAVARETTO che se ha detto che la valvola non teneva evidentemente non teneva?), è lo stesso FAVARETTO a ipotizzare, in dibattimento, che possa non aver chiuso bene la valvola (p. 130: "...io l'ho chiusa, ma non vorrei dire anche una fesseria che non l'ho chiusa bene, perché andando lì con le mani non è che abbia...") ed è l'imputato SIMONETTI a dare una diversa spiegazione (p. 126, "... secondo me potevano anche aver preso un granchio, anzi sicuramente avevano preso un granchio") ritenendo che dentro il tubo vi fosse ancora dell'ammoniaca che evaporando aveva aumentato la pressione del manometro.
Rileva questo giudice che DALL'ARMI e FAVARETTO non si sono limitati ad una sommaria prova di chiusura della valvola, ma constatata la perdita (hanno dato una corretta lettura del brinamento e dell'aumento di pressione) hanno riprovato scaricando la pressione all'interno del tubo e tirando un po' di più la valvola, e ciò hanno fatto riconstatando che la pressione aumentava nuovamente, desumendo, quindi, che la valvola non teneva (DALL'ARMI p. 42). Non si è trattato, quindi, di una sbrigativa manovra e di una sommaria valutazione, ma di una operazione fatta con scrupolo e riverificata proprio per escludere casualità ed errori. Peraltro, è oggi che FAVARETTO ipotizza di non aver chiuso bene, non al momento della manovra che evidentemente, pur in un contesto critico (la valvola non chiudeva e vanificava l'intento e l'utilità di chiuderla), è stata avvertita da FAVARETTO come corretta ed adeguata. Va infine evidenziato che a causare il trafilamento poteva anche non essere un difetto della valvola ma un qualche materiale ostacolo alla sua funzionalità, ma anche in tale ipotesi comunque occorreva verificare perché la valvola non chiudeva bene e provvedere alla sua manutenzione o sostituzione. In sostanza, constatato che la valvola trafilava, dovere di AMPÒ e SIMONETTI era quello di rimediare all'inconveniente.
Quanto alla verifica dei Vigili del fuoco (nota 11.1.1999) i quali, dopo aver smontato la valvola dalla tubazione, ne hanno constatato la tenuta, va qui evidenziato che gli stessi vigili hanno qualificato come "empirica" la prova e che la stessa valvola non era nelle medesime condizioni in cui era al momento dell'evento. Hanno, infatti, evidenziato i CCTT di parte civile MARA-THIEME, con puntuali argomentazioni (p. 25, CT 8.4.2002), che la valvola durante l'intervento dei VVFF del 27.12.1998 (il giorno dell'incidente) è stata sottoposta ad insulti meccanici poiché "sulla stessa valvola B sono stati installati la valvola di soccorso ed il disco cieco" e che la stessa, per la incolumità degli intervenuti, è stata, ragionevolmente, abbondantemente ed insistentemente lavata, elementi tutti che potrebbero aver rimosso il materiale se la perdita fosse dipesa da una qualche ostruzione che impediva la perfetta chiusura della valvola. Inoltre, la prova dei Vigili del fuoco non è avvenuta in base alla normativa API 598 che per il collaudo delle valvole progettate per la tenuta nei due sensi prevede che il test sia effettuato su entrambi i lati, e non su uno solo, e con una pressione che nel caso di specie doveva essere di 55 bar, e non di 9 e 15 bar come effettuato dai Vigili del fuoco.
I CCTT degli imputati non contestano l'avversa affermazione, e cioè che quelle sono le regole dei collaudi delle valvole a saracinesca, ma rilevano che nella fattispecie non una prova di collaudo dovesse essere effettuata ma una verifica della tenuta della valvola nelle medesime condizioni in cui si ha operato o avrebbe dovuto operare, e quindi in riferimento "alla pressione di esercizio del collettore su cui era installata la valvola e alla direzione del flusso in atto al momento in cui la valvola a suo tempo ha manifestato la mancanza di tenuta" (p. 5 CT MESSINEO-BOATTINI 30.4.2002). Rilevano i medesimi CCTT che peraltro ciò era quanto era stato richiesto dal PM che così aveva scritto: "codesto comando procederà all'individuazione degli eventuali difetti della valvola B che causarono il passaggio di gas ammoniacali dalla linea che va dal reparto AC9 al reparto AM4 rispetto al punto di perdita di gas situato in prossimità dei reparti CV11-BC1".
Va qui rilevato che la prova, nella misura in cui si ritiene (non per presunzione ma per dato d'esperienza) pacifico che per precauzione degli intervenuti gli stessi hanno certamente investito con getti d'acqua la valvola sottoponendola altresì a notevoli insulti meccanici (CT MARA-THIEME, p. 25, 8.4.2002), nonché in relazione alla evidenza delle fotografie prodotte dal PM all'udienza dell'11.3.2002) da cui "si può rilevare che la posizione dello stelo filettato è indice inequivoco che la valvola B era aperta" (ancora CT MARA-THIEME, p. 27), non appare decisiva ai fini della valutazione della efficienza della valvola, qui comunque evidenziandosi che se le regole tecniche per una operazione di collaudo hanno lo scopo di dare certezza sulla idoneità ed efficienza di quanto collaudato, le stesse norme debbono essere applicate ogni qual volta si voglia verificare se sussistono o meno difetti.
Se la valvola "doveva" rimanere aperta
Ritengono gli imputati che l'aver lasciato la valvola aperta è stata una giusta scelta (era pericoloso, infatti, imprigionare un liquido nella tubazione) ma soprattutto che la valvola in posizione aperta era la sua normale condizione. Ha detto SIMONETTI: "la valvola era aperta, non c'era nessuna situazione di pericolo, non è stato fatto nessun tipo di lavoro, la valvola era in condizioni normali, la linea era in esercizio fino al limite di batteria del BC1" (p. 134). Ancora: "noi sapevamo solamente che quella valvola era aperta, era giusto che restasse aperta perché era nelle condizioni normali e che non c'era nessuna condizione di pericolo" (p. 141).
La "normalità" di cui parla l'imputato SIMONETTI in realtà difettava due volte nella fattispecie qui esaminata. Se per valvola nelle condizioni normali si intende una valvola "a norma", la valvola B non era affatto a norma poiché non chiudeva ed una valvola intercettatrice che non chiude non è una valvola idonea e funzionale al "suo" uso. Giova qui ripetere che la idoneità della valvola (i più volte menzionati artt. 241 e ss. D.P.R. n. 547) va valutata in sé e non in riferimento alla probabilità dell'accadimento dell'evento (in genere, la perdita a valle che necessita di intercettazione del flusso). Né era normale che rimanesse aperta poiché la situazione nuova esigeva la sua chiusura. DALL'ARMI sul punto è stato chiaro. La chiusura era funzionale a due esigenze: la prima, evitare che la parziale bonifica della tubazione fosse ogni volta vanificata ("motivo fondamentale era proprio quello di non andarmi a risporcare, mi passi il termine..."; p. 59); la seconda, verificare che alla fine della bonifica potesse essere definitivamente chiusa per la dismissione del tratto ("...quella di provare se quella valvola là mi faceva tenuta, perché una volta terminate le bonifiche quella valvola là doveva essere chiusa"; p. 66). In sostanza, quando FAVARETTO e DALL'ARMI sono andati a chiudere la valvola non era una semplice "prova" ma una manovra sin da subito funzionale o comunque una prova finalizzata, se con esito positivo, a diventare da subito scelta operativa. Infatti, non aveva senso far fluire su quel tratto l'ammoniaca, né le ultime bonifiche ancora da farsi erano impedite dalla chiusura della valvola. È vero che questa doveva essere aperta per far passare l'acqua e l'azoto delle bonifiche, ma ciò sarebbe avvenuto (si veda il documento a firma DALL'ARMI, allegato 8 prima CT FORABOSCHI-MESSINEO) previa chiusura delle pompe dei reparti AC9, AC11 e TD2, depressurizzazione della linea spurghi, apertura (appunto) della valvola B, invio di acqua demineralizzata, invio dell'azoto, e quindi chiusura della valvola B. In questo modo l'ammoniaca non avrebbe mai più varcato la soglia della valvola B, sarebbe stata intercettata dalla medesima valvola, ed il tratto di tubazione mai più si sarebbe "risporcato" per dirla con le parole di DALL'ARMI. Finita la bonifica quella valvola, all'occorrenza chiusa ed aperta durante le operazioni di bonifica, ma sempre in funzione intercettante dell'ammoniaca, sarebbe stata definitivamente chiusa.
Anche il CT MESSINEO ritiene che quella valvola doveva restare aperta perché quella era "la condizione di esercizio" ed era impensabile fare la manovra di apertura e chiusura "tutte le sere". Tali affermazioni non convincono poiché le condizioni di esercizio non erano quelle di quando il BC1 funzionava (si era, infatti, in fase di ultimazione della bonifica) e soprattutto dal documento a firma DALL'ARMI (il già citato allegato 8) risulta che le bonifiche successive a quelle di metà ottobre (quando DALL'ARMI e FAVARETTO chiusero la valvola B constatandone la perdita) e fino alla data dell'evento sono state tre: 20 ottobre, 2 novembre ed una tra l'1 ed il 5 dicembre. Dunque, non "tutte le sere" bisognava aprire e chiudere la valvola, ma solo in rare occasioni, esattamente in tre giorni (forse quattro, ma non si sa se anteriore o meno al 15 ottobre) su circa due mesi e mezzo.
Ciò che si ripropongono FAVARETTO e DALL'ARMI è di chiudere la valvola, perché in quel contesto e con quelle problematiche era "normale" tenerla chiusa e non aperta. La giustificazione della continuità (era sempre stata aperta) non è pertinente poiché erano mutate le condizioni di fatto (il BC1 non era più funzionante, non spurgava più, e le bonifiche erano in fase finale, per cui era utile ed efficiente non risporcare la tubazione), tant'è che FAVARETTO e DALL'ARMI vogliono chiuderla. E una volta constatata la non tenuta della valvola si incaricano di dirlo ai rispettivi superiori che, a quel punto, "sanno" che la valvola B non chiude. Ed anche questo è un elemento di novità rispetto al passato perché se per anni la valvola è stata sempre aperta, ma si presupponeva che all'occorrenza avrebbe anche chiuso, da quel momento conoscono il difetto della valvola avendo la certezza che non è in grado di chiudere ed intercettare. La posizione di apertura della valvola tra il prima ed il dopo delle operazioni di FAVARETTO e DALL'ARMI non è affatto uguale, poiché prima era per buona tecnica che restava aperta, dopo per buona tecnica doveva, invece, essere chiusa; prima era aperta per scelta, dopo era aperta per necessità.
Il dolo
Gli imputati sapevano che la valvola B trafilava e non l'hanno sostituita. Si sono adoperati prevedendo (AMPÒ chiedendole e SIMONETTI approvando e condividendo tale scelta) la realizzazione delle scatole furmanitate sul presupposto che di lì a poco sarebbe terminata la bonifica del BC1 e tale soluzione (le scatole furmanitate) sarebbe stata equivalente a quella della sostituzione e chiusura della valvola, soluzione poi non praticata non essendo state date assicurazioni al riguardo dalla ditta PONTEROSSO e non avendo il BC1 finito le bonifiche, situazione quest'ultima che rendeva sempre più evidente, stante la impraticabilità delle scatole furmanitate, la necessità della doverosità della sostituzione della valvola.
In tema di dolo, si vedano le seguenti massime:
L'elemento psicologico del reato di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro richiede la coscienza e volontà di omettere le cautele prescritte, nonostante la consapevolezza del pericolo per pubblica incolumità cioè la volontà e consapevolezza di violare l'obbligo giuridico di collocare i dispositivi destinati a prevenire disastri ed infortuni sul lavoro. Cass., Sez. 2, sent. 11699 del 24/11/1994 (ud.01/09/1994) rv. 199761.
Per la configurabilità dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 437 cod. pen. sono necessarie e sufficienti la coscienza e volontà dell'omissione accompagnate dalla rappresentazione dello scopo cui mirano gli accorgimenti tecnici tralasciati e del pericolo che la loro mancata adozione comporta, mentre non è richiesta l'intenzione di recar danno alle persone. Cass., Sez. 1, sent. 00783 del 26/01/1994 (ud.19/11/1993) rv. 196145.
Poiché la consapevolezza dell'omissione delle misure prescritte, e comunque indispensabili per prevenire disastri o infortuni sul lavoro, e l'accettazione del pericolo insito nell'operare senza le stesse sono sufficienti ad integrare il delitto di cui all'art. 437 c.p., qualora si verifichino, benché non voluti, il disastro e l'infortunio sul lavoro, ricorre l'ipotesi di reato prevista dal comma secondo dell'art. 437 c.p., senza che il più grave evento non voluto sia idoneo a trasformare nel delitto semplicemente colposo di cui all'art. 451 c.p. la consapevole e voluta omissione delle misure e il pericolo connesso. Cass., Sez 4, sent. 10048 del 08/11/1993 (ud.16/07/1993) rv. 195701.
Sussiste, quindi, il dolo quando volutamente si omette la condotta doverosa nella consapevolezza che si tratti di misura destinata a prevenire disastri o infortuni, con l'accettazione del pericolo per la pubblica incolumità e senza che rilevi la intenzione di arrecare danno alle persone. Come si è già argomentato, gli imputati sapevano che quella valvola "doveva" essere sostituita, prova ne è che si attivano per la realizzazione delle scatole furmanitate con priorità 1 sul presupposto della imminente fine della bonifica del BC1 che avrebbe reso equivalente questa misura con quella della chiusura della valvola. Si è già visto che gli imputati, esclusa la realizzabilità delle scatole, non percepivano affatto la "normalità" di quella valvola immotivatamente aperta ma sentivano il peso del ritardo della sua sostituzione e chiusura se l'imputato SIMONETTI, come ha detto egli stesso, aveva l'intenzione, per dopo Natale, di "tenere in tensione" la situazione "pungolando" (p. 144) i reparti.
Gli imputati, che pure si erano adoperati per rimediare all'inconveniente del trafilamento della valvola B nella consapevolezza della doverosità della sostituzione, stante il ritardo della ultimazione delle bonifiche al BC1 e la conseguente impraticabilità della soluzione delle scatole furmanitate, che peraltro non davano garanzia di tenuta del flusso, omettono, con piena consapevolezza, di sostituire la valvola pur sapendo della doverosità della sostituzione per finalità di sicurezza. Sussiste anche il dolo del reato di cui all'art. 437 c.p.
Se la valvola B ha intercettato il flusso
La tesi dei difensori e dei CCTT degli imputati è che, al di là di ogni altra considerazione, al momento della fuga e durante le operazioni dei Vigili del fuoco la valvola fu chiusa e subito dopo cessò la fuoriuscita. Dunque, si ritiene, la valvola B, contrariamente alla erronea convinzione degli stessi imputati, di fatto funzionava e all'occorrenza, cioè proprio in caso di fuga a valle, ha assolto la sua funzione intercettante. Si tratta di una affermazione che non risponde agli elementi probatori acquisiti. Va rilevato, infatti, che tranne una qualche generica indicazione nella deposizione del teste MARCIANO, emerge dagli atti e dalle deposizioni testimoniali che la valvola B venne chiusa circa alle ore 15,30 ma che i Vigili del fuoco continuarono ad utilizzare l'acqua per l'abbattimento dell'ammoniaca fino alle 17 e che comunque le concomitanti (si veda anche il teste GIACOPELLO, p. 26) chiusure delle pompe dei reparti AC9 ed AC11 e delle valvole di intercettazione della rete ai limiti di batteria degli stessi reparti, eliminando l'afflusso degli spurghi ammoniacali, non consentono di attribuire alla chiusura (in fase di emergenza) della valvola B alcuna efficienza causale sulla eliminazione della perdita.
Si tenga presente che l'accusa non ritiene che la valvola non chiudesse ma che trafilasse, e quindi una significativa diminuzione (teste BARBIERI, p. 44), ma non totale eliminazione, della perdita constatata poco dopo la chiusura della valvola stessa prova l'assunto del PM non quello degli imputati.
Peraltro, nella stessa prima relazione tecnica dei CCTT FORABOSCHI-MESSINEO (3.2.2001, pp. 3-4) si legge: si provvide: a chiudere la valvola di radice sul ramo di tubazione su cui si era verificata la perdita (valvola B); ad aprire il collegamento della rete spurghi con i serbatoi D332/D333; a sospendere l'invio degli spurghi dai reparti AC9 e AC11 fermando le relative pompe e chiudendo le valvole di intercettazione della rete ai limiti di batteria dei reparti medesimi; a chiudere la valvola di intercettazione della diramazione della rete di collegamento al reparto TD2 (valvola A). Quindi, non la sola chiusura della valvola B, ma l'insieme di queste operazioni (si veda, in tal senso, la nota 28.12.1998 (fg. 106-109) della stessa ENICHEM) "determinarono" il notevole calo della fuoriuscita che comunque non si è arrestata subito dopo la chiusura della valvola ma è proseguita, sebbene in quantitativi notevolmente inferiori, fino alle 17.
In sostanza, la fuoriuscita dell'ammoniaca è in un primo tempo sensibilmente diminuita e poi progressivamente calata fino a cessare del tutto a causa di più operazioni che non consentono in alcun modo di ritenere che la valvola B quando venne chiusa intercettò il flusso senza perdite o trafilamenti. Tale certezza poteva derivare solo se avesse continuato ad esserci qualcosa da intercettare, e cioè gli spurghi ammoniacali degli altri reparti, ma questi furono interrotti e comunque intercettati dalle valvole al limite delle rispettive batterie, e quindi la cessazione totale della fuoriuscita non può essere ricondotta alla chiusura della valvola B.
Fallacia naturalistica e fallacia normativa
La difesa degli imputati rimprovera al PM di aver ritenuto che la richiesta formulata da AMPÒ (e condivisa da SIMONETTI) con il codice priorità 1 fosse sufficiente per provare la reale emergenza della richiesta. Invertendo i termini della c.d. "legge di Hume" ritiene che così come da un puro fatto non può derivare un precetto, un dover essere, ugualmente da un dover essere (nella fattispecie il regolamento aziendale) non può desumersi un fatto. Questo giudice non condivide la critica mossa poiché la relazione parrebbe comunque tra "fatti", pur continuando a porsi un problema di validità del condizionale: A, dunque B; è stato chiesto con priorità emergenza, dunque reale emergenza. In effetti, intuitivamente così non è, potendo la richiesta essere stata formulata travisando i fatti o, come sostiene oggi AMPÒ, solo per guadagnare tempo. L'addebito mosso agli imputati fa riferimento ad una reale ed oggettiva necessità ("pur essendo pacificamente e da tempo (quanto meno dai primi di ottobre 1998) emersa la necessità di sostituire la valvola denominata B della linea spurghi ammoniacali in quanto trafilava (cioè non teneva più)..."; capo di imputazione) oltre ad una consapevolezza personale ("e pur essendo stata segnalata dallo stesso AMPÒ la priorità 1 (= emergenza) con cui intervenire"). L'imputazione è quella di avere omesso di intervenire con la tempestività e decisione necessarie e di avere omesso di collocare, o far collocare, apparecchi e strumenti idonei a prevenire disastri ed infortuni, e ciò perché la valvola B trafilava ed occorreva sostituirla o trovare altra equivalente soluzione. Le circostanze concessive ("pur essendo...") non individuano la fonte dell'obbligo, che è invece insita nella concreta fattispecie sussumibile sotto la norma (nelle reti estese le valvole a saracinesca inidonee si riparano o sostituiscono; l'imprenditore deve adottare le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie per tutelare la integrità fisica dei lavoratori), ma evidenziano, secondo la prospettiva dell'accusa, gli indicatori inequivoci, sul piano probatorio, della sussistenza del reato.
Questo sussiste anche se la necessità del comportamento doveroso non è, per così dire, conseguenza intuitiva ma riflessiva, non di immediata ed empirica evidenza ma frutto di una diligente valutazione; e se, dopo tale consapevolezza, l'agente non lascia traccia alcuna del suo giusto intento nei meccanismi decisionali della struttura in cui opera. In sostanza, AMPÒ non è penalmente responsabile perché pur avendo fatto richiesta in priorità 1 poi non vi ha dato seguito, ma perché essendoci le condizioni di fatto che obbligavano alla sostituzione della valvola egli deliberatamente non lo ha fatto. E ciò, nonostante che fosse pacifica le necessità della sostituzione (o altra misura equivalente) ed avesse fatto la richiesta in priorità 1.
Che la valvola B trafilasse, come si è già argomentato, è un dato processualmente acquisito. Si è anche motivato, e qui si ribadisce, perché la richiesta in priorità 1 di AMPÒ fosse tale nell'intento dello stesso imputato e non fatta con altre finalità: a) la mera richiesta delle scatole furmanitate è incompatibile con il permanere delle bonifiche al BC1 e, invece, ha come suo presupposto che tali bonifiche fossero di imminente ultimazione; b) motivare la richiesta della priorità 1 con il solo scopo di "guadagnare" tempo è comportamento illogico se non c'era fretta alcuna e il lavoro da farsi poteva addirittura essere realizzato mesi dopo; c) è del tutto coerente, invece, con la convinzione: che la ultimazione delle bonifiche al BC1 era ormai questione di poco tempo e che, quindi, il tratto di tubazione potesse essere isolato anche con le scatole furmanitate evitando in tal modo di fermare le linee spurghi di più reparti.
Il nesso tra valvola B e l'evento
Tra la mancata sostituzione della valvola B, o altra equivalente misura (disco cieco, sezionamento della diramazione) e l'evento "disastro-infortunio" vi è un nesso causale.
Va preliminarmente evidenziato che il reato di cui al primo comma dell'art. 437 c.p., come si è già argomentato, sussiste per la sola omissione della sostituzione della valvola B, omissione sorretta dalla coscienza e volontà di violare l'obbligo giuridico disposto a tutela della prevenzione di disastri ed infortuni, senza che rilevi la volontà di non volere l'infortunio o il disastro. Verificatasi una dolosa omissione o rimozione o danneggiamento di impianti o dispositivi antinfortunistici, il reato, già sussistente, può ritenersi aggravato se dal "fatto" derivi un infortunio o un disastro, occorrendo quindi accertare se l'evento da valutare sia effettivamente un disastro o un infortunio e se sia conseguenza della dolosa omissione o rimozione.
La questione del nesso, per come sono stati e previsti e il reato semplice e l'aggravante di cui al capoverso dell'art. 437 c.p., si pone, quindi, non già per accertare la sussistenza del reato ma della sola aggravante dell'avvenuto disastro o infortunio. Così come il reato di cui al primo comma di cui all'art. 437 c.p. ben può sussistere indipendentemente dall'aggravante del secondo comma, ugualmente la eventuale insussistenza del nesso tra condotta omissiva ed evento (disastro o infortunio) si colloca all'interno dell'aggravante e non incide sul reato se di questo sussistono tutti i presupposti.
Il reato, come ogni reato di pericolo, finalizzato ad arretrare la soglia della punibilità, è integrato da una situazione di pericolo cagionato dalla dolosa omissione, pericolo che il legislatore ritiene insito e connaturale alla stessa omissione di cautele normativamente previste. Qualora alla omissione segua il disastro, occorre verificare se detto disastro sia conseguenza di quella omissione, potendo l'infortunio o il disastro avere autonomi nessi eziologici che prescindono dalla dolosa condotta omissiva che pure permane. Occorre che "dal fatto" (che è già un fatto-reato) derivi il disastro o l'infortunio (art. 437/2 c.p.). Si vedano, negli stessi termini, gli artt. 431, 432 e 433 c.p. che fanno dipendere l'aggravante "se dal fatto deriva un disastro", per cui, ad esempio, sussiste il reato di cui al secondo comma dell'art. 432 c.p. se si lanciano sassi contro veicoli dal cavalcavia dell'autostrada ma non c'è l'aggravante se si ha la prova che lo sbandamento dell'autobus (che ne ha determinato la caduta dalla scarpata) è cominciato immediatamente prima ed è dipeso da una macchia d'olio sull'asfalto o da un malore dell'autista. Quindi, la problematica del nesso va condotta solo nell'alveo dell'aggravante e non si riverbera sul fatto-reato della omissione (o rimozione o danneggiamento) delle cautele antinfortunistiche o destinate a prevenire disastri. D'altro canto, le aggravanti sono ritenute elementi accessori ed accidentali del reato e quindi possono anche non esserci senza che per ciò stesso il reato venga meno.
La tesi del PM e dei CCTT di parte pubblica e delle parti civili è molto semplice: se quella valvola fosse stata sostituita e chiusa, come volevano fare FAVARETTO e DALL'ARMI in un primo tempo, e poi gli imputati SIMONETTI ed AMPÒ secondo l'iniziale programmazione, l'ammoniaca non sarebbe andata nella tubazione di diramazione verso il BC1 e l'incidente non si sarebbe verificato. Che la valvola dovesse essere sostituita per essere chiusa risulta dal capo di imputazione ove si fa riferimento non solo al suo trafilamento (dunque, era chiusa che la valvola serviva, ed era in posizione di chiusura che non funzionava) ma anche alla inidoneità della soluzione delle scatole furmanitate che è una misura equivalente alla chiusura della valvola.
La obiezione della difesa degli imputati e dei rispettivi CCTT è articolata e si fonda su più argomenti. Il primo è che la necessità della chiusura della valvola è stata affermata ma non provata non rinvenendosi alcuna prescrizione circa la sua chiusura, sottolineandosi che per anni ed anni la valvola era rimasta aperta. Il secondo è che anche se la valvola fosse stata sostituita, per le medesime ragioni poc'anzi dette, la stessa sarebbe rimasta in posizione di apertura. Il terzo è che alla verifica dei fatti, ad incidente verificatosi, la valvola asseritamente malfunzionante ha di fatto intercettato il flusso come avrebbe fatto una valvola nuova. In sostanza, ipotizzando che gli imputati avessero tenuto la condotta doverosa, l'evento "fuga" si sarebbe verificato lo stesso, e dunque la mancata sostituzione della valvola non è causa dell'incidente.
Le due tesi hanno premesse diverse, quella del PM che la valvola doveva essere sostituita e chiusa. Quella degli imputati che la valvola al più dovesse essere solo sostituita e che comunque sarebbe rimasta aperta, esattamente come la supposta trafilettante valvola B. Ritiene il giudice che sia fondata la prima tesi. Constatato che la valvola trafilava, gli imputati dovevano sostituirla. Questo era il loro dovere. Dovevano anche chiuderla? La risposta non può che essere affermativa poiché questa era la esigenza che aveva portato a "scoprire" che la stessa, appunto chiusa, non teneva. E non era una esigenza contingente, ma una scelta stabile e duratura. A ritenere, ad ottobre, in epoca non sospetta, che quella valvola dovesse essere chiusa sono stati FAVARETTO E DALL'ARMI, e con loro AMPÒ e SIMONETTI che quella esigenza hanno recepito con la misura, equivalente alla chiusura, delle scatole furmanitate.
Si è già visto che l'obiezione degli imputati (in contrasto con la loro opinione ante evento) che la valvola "doveva" rimanere aperta non è fondata poiché la stessa non serviva più agli spurghi ammoniacali del BC1, da quasi un anno dismesso ed in fase di bonifica. Né la bonifica esigeva la valvola sempre aperta, anzi la esigeva chiusa (non aveva senso alcuno far affluire gli spurghi ammoniacali degli altri reparti sulla diramazione fino al limite di batteria del dismesso BC1), con possibilità di apertura in fase di invio dell'acqua demineralizzata e di azoto da parte del bonificante BC1. È proprio perché non si è voluto sostituire la valvola B pensando alle "comode" scatole furmanitate che si è tardato sempre più l'intervento poiché, queste sì, erano incompatibili con la bonifica del BC1.
Va poi rilevato che vi era un'altra ragione per tenere chiusa la valvola: non solo la ammoniaca affluiva su di una diramazione ove non c'era esigenza alcuna che transitasse ed anzi ove faceva solo danno (continuava a "sporcare" il già citato DALL'ARMI, p. 59) il tratto già parzialmente bonificato), ma quel fluido era contenuto in un tratto palesemente deteriorato e privo di manutenzione (BARBIERI, p. 48, nonché relazione di GIACOPELLO citata, fg. 069), circostanza questa che non può essere rimproverata ad AMPÒ e SIMONETTI ma di cui gli stessi dovevano tenere conto nell'orientare le loro scelte. È fuori dalla imputazione, come sostiene la difesa degli imputati, la mancata manutenzione della tubazione della diramazione qui in esame, ma non lo è il fatto che di tale evidente mancata manutenzione non abbiano tenuto conto gli imputati che hanno consentito una superflua sollecitazione della tubazione mediante il passaggio di un liquido tossico e pericoloso. Non si imputa, in sostanza, ad AMPÒ e SIMONETTI la mancata manutenzione della tubazione, ma di non avere correttamente valutato, nella scelta di temporeggiare lasciando aperta la valvola poiché trafilante, che il tubo era privo di manutenzione. Si aggiunga, inoltre, che su quel tubo vi era dell'acqua e che la guarnizione si è rotta proprio nella parte inferiore, ove ristagnava l'acqua. Si rileva, inoltre, che il controllo della tenuta delle flange e delle valvole non è un qualcosa di eccezionale ma un controllo frequente se, come risulta dalla richiesta (foglio 818) di MUSCATIELLO per l'approntamento dei ponteggi ai fini della esecuzione delle scatole furmanitate, tale voce è una di quelle indicate nell'apposito stampato da compilare che, peraltro, nella fattispecie era contrassegnato da un "sì", quindi come controllo che avrebbe dovuto essere effettuato nel "raggio di zona".
SIMONETTI sostiene che la "fuga non era assolutamente prevedibile" (p. 141), ma è proprio per evitare personali diagnosi che in taluni casi è il legislatore che si sostituisce agli agenti espropriandoli della facoltà di valutare in concreto e ponendo una regola cautelare inderogabile. Il dover essere della chiusura della valvola non era di mera esigenza produttiva (evitare la parziale bonifica finora fatta) ma di cautela e prudenza essendo del tutto superfluo sollecitare una tubazione (malmessa e con dentro acqua stagnante) con liquido tossico e pericoloso che non ha altra ragione di affluire su quel tratto se non perché la valvola non chiude.
Tale superfluità, tenuto conto della pressione e del tipo di liquido, non è indifferente e neutra ma si qualifica negativamente (tranne in un caso) in riferimento a più criteri "normativi" (le regole per fare ciò che è giusto, corretto, utile), qui evidenziandosi quello della sicurezza che rileva nella fattispecie. Sul piano tecnico: è tecnicamente sbagliato sollecitare inutilmente una tubazione. Sul piano economico: è sbagliato "risporcare" (così il più volte citato DALL'ARMI) inutilmente una tubazione se ciò comporta maggiore tempo ed energie (dunque spreco di risorse) per ribonificare. Sul piano della sicurezza e della prevenzione: è imprudente e pericoloso sollecitare una tubazione, peraltro priva di manutenzione, con un liquido tossico e nocivo. È, invece, per altri profili, economicamente utile non interferire negativamente per circa due giorni su tre reparti (che avrebbero dovuto interrompere gli spurghi ammoniacali) rinviando il tutto a quando il BC1 avrebbe finito le bonifiche ed attivandosi per una soluzione rapida e comoda come le scatole furmanitate. La domanda suona un po' retorica, ma è inevitabile per sciogliere il nodo: si tratta di sapere, se sono giuste le premesse da cui si muove, se il criterio normativo con cui valutare se la valvola dovesse o no essere sostituita e chiusa debba essere quello dell'utile di impresa o quello della sicurezza dei lavoratori e dei cittadini.
Si potrebbe obiettare che occorre individuare la norma "giuridica" che nella fattispecie imponeva la sostituzione e la chiusura della valvola B. L'art. 2087 c.c., che in base ad un filone dottrinale e a decisioni giurisprudenziali è correlabile all'art. 437 c.p., dispone che "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro". In base ad esperienza e tecnica, giuridicamente recepite dal menzionato articolo, la valvola andava sostituita e chiusa.
Non ignora questo giudice che autorevole dottrina ritiene che il reato di cui all'articolo 437 c.p. ha come suo presupposto la violazione di uno specifico obbligo giuridico. Nella fattispecie lo specifico obbligo giuridico è quello di avere le valvole idonee all'uso essendo vano cercare una norma giuridica che dica quando debbano essere chiuse o aperte trattandosi di aspetti che dovranno essere risolti in base ai già menzionati criteri della tecnica e dell'esperienza che nella fattispecie esigevano la valvola chiusa. Quando la cautela non si esaurisce in se stessa (ad esempio, un parapetto, il dispositivo antisdrucciolevole delle scale) ma di necessità occorre una ulteriore scelta d'uso, quest'ultima va effettuata in relazione alle esigenze concrete che nel caso in esame consigliavano la chiusura di un tratto di tubazione (ove ristagnava acqua ed era di scarsa manutenzione) che era del tutto inutile sollecitare in pressione con un liquido pericoloso. È difficile superare la chiarezza ed evidenza della considerazione che la valvola, che la si voleva chiudere, è restata aperta solo perché non si chiudeva.
Sulla nozione di disastro
La difesa degli imputati e, più dettagliatamente, quella del responsabile civile, hanno evidenziato come il termine disastro, nella sua accezione comune, ed anche in quella giuridica, connoti un fatto particolarmente grave, devastante, di notevoli proporzioni, con un pericolo ed un danno diffusi, inequivocabili, di immediata e drammatica percezione. A supporto di tale significato, è stata anche citata della giurisprudenza e sono state prodotte le riviste ove è possibile leggere per esteso le relative sentenze, onde evitare l'approssimazione insita nelle massime di cui le parti civili avrebbero fatto un vero abuso scollegandole dalle fattispecie concrete che le avevano determinate. Ed in effetti quasi tutte le sentenze citate attengono a fatti particolarmente gravi che hanno avuto anche una vasta eco nella pubblica opinione, come ad esempio la tragedia di Stava o quella della motonave "Elisabetta Montanari" o l'incidente dell'ICMESA di Seveso. Si tratta, indubbiamente, di un angolo di visuale che offre un notevole contributo per la comprensione del reato in esame e che richiama l'operatore giuridico alla concretezza delle problematiche da affrontare nelle interpretazione delle norme. Tuttavia, pur essendo condivisibile in linea generale l'assunto da cui la ricerca muove, non possono condividersi il metodo e le finalità se questi, come traspare dalla ricerca, pretendono di dare esaustiva visione della problematica del "disastro" che non può ridursi ad un concetto che racchiuda solo eventi di vasta portata o tragici. Che così non è risulta dalla complessità della questione poiché il disastro è un elemento dei reati di danno ma connota anche i reati di pericolo (e tale è quello dell'art. 437 c.p.), ed in quest'ultimo caso la mancanza dell'evento-danno e l'assunzione della sola sua possibilità/probabilità come fattispecie costitutiva evidenzia il limite della "imponenza" e "tragicità" quale misura del disastro giuridicamente inteso. Anzi, proprio la qualità del bene giuridico tutelato (la pubblica incolumità) e la diffusa scelta della punibilità delle condotte generatrici anche del solo pericolo, che quindi anticipano la soglia della punibilità stessa, fanno sussumere sotto la stessa norma situazioni di fatto tra loro molto diverse, per cui, ad esempio, è stato ritenuto "naufragio" (che è uno dei disastri tipicizzati) sia quello ove sono morti trenta uomini dell'equipaggio (Cassazione penale, Sez. IV, 6 novembre 1979, Foro it. 1981, II, 121) sia quello in cui una barca, anche a remi, non sia più in grado di galleggiare regolarmente per il semplice capovolgimento del mezzo ed escludendosi la necessità di un inabissamento del medesimo (Cassazione penale, Sez. IV, 23 marzo 1977, Cass. pen. 1979, 69).
Ma al di là di una ricerca mirata tesa ad evidenziare come la norma incriminatrice comprenda una forbice ove trova posto anche una lettura "minimale" del disastro (i "disastri semplici" o i "disastri non disastri" per dirla con le parole delle parti civili il cui incerto lessico è stato stigmatizzato dalla difesa del responsabile civile), va evidenziato che la stessa ricerca proposta pare contenere già in sé la smentita di quel che vuol dimostrare quando, invero con coerenza e lealtà (anche se è la stessa parte a sottolineare la non significatività di dette pronunce), inserisce tra i casi esaminati anche quello del pericolo del disastro ferroviario ritenuto sussistente anche se il treno venne fermato poco prima del passaggio a livello erroneamente lasciato aperto e senza che veicolo alcuno in quel momento transitasse (Cassazione penale, Sez. IV, 28 marzo 1988, Cass. pen. 1990, I, 236; negli stessi termini, si veda anche Cassazione penale, Sez. IV, 20 gennaio 1986, Cass. pen. 1987, 1724, relativa alla presenza di un masso di notevoli dimensioni e peso posto in mezzo ai binari subito dopo una curva a visuale non libera ma che non cagionò danni rilevanti tanto che il convoglio poté proseguire la marcia). Altra sentenza menzionata è Cass. penale 3 marzo 2000 (in Foro It., 2001, II, 366) relativa al cedimento di un muro di contenimento di un terreno collinare che si ribaltò all'interno di un cortile di una scuola ma di notte e quindi a scuola chiusa e purtuttavia fattispecie integrante il reato di cui all'art. 449 c.p.
A voler giudicare dal mero dato di fatto (il crollo notturno del muro, il passaggio a livello non attraversato da alcun veicolo; il masso che non causò il deragliamento) non vi è stato alcun apprezzabile e tangibile pericolo di disastro nella sua accezione "forte", eppure la Cassazione ha ritenuto che le concrete circostanze che hanno impedito o ridotto il danno (il deragliamento, l'impatto con i veicoli, la lesione o morte di alunni) non eliminavano il disvalore penale di una condotta che aveva determinato il pericolo del disastro quantunque questo poi non si sia verificato.
In effetti, è tutta la problematica dei reati di pericolo ad essere complessa: si pensi alla distinzione tra reati di pericolo astratto e concreto, tra la pericolosità come elemento insito nella stessa condotta (condotta pericolosa) e la pericolosità come successiva alla condotta stessa, ai criteri per la prognosi della pericolosità (ex ante, al momento della condotta, e quindi con gli elementi conoscibili e prevedibili dall'agente; ex post, ad accadimento realizzato, tenendo conto dei dati oggettivi che hanno favorito o impedito l'evento), alla difficile qualificazione del concetto stesso di pericolo che non è un "fatto" percepibile ma una relazione di possibilità/probabilità, al, per così dire, test di realtà che verificando se un disastro c'è stato o no potrebbe indurre a ritenere che se disastro non c'è stato non vi è stato pericolo dello stesso.
Appare evidente, comunque, che se la insussistenza del pericolo del disastro viene fatta derivare dal non verificarsi di quest'ultimo, il concetto stesso di pericolo perde ogni sua possibile autonomia e valenza e con esso i reati di pericolo che, appunto, indipendentemente dal disastro, vogliono, anche con funzione general-preventiva, sanzionare condotte che, secondo adeguati e prevedibili sviluppi causali, mettono in pericolo il bene della pubblica incolumità, anche se, eccezionalmente o casualmente, il disastro non si è verificato. Dunque, per restare ai casi già esaminati, se colposamente si lasciano aperte le sbarre, o si lascia cadere un masso sulla ferrovia o si lascia crollare un muro di contenimento sito nel cortile di una scuola, sussiste il pericolo del disastro essendo prevedibile sviluppo della condotta che si verifichi un disastro ferroviario o un crollo pericoloso per la salute e la vita degli alunni, e ciò proprio nell'accezione "forte" di cui si è detto. Irrilevante è che il muro crolli di notte (poteva crollare di giorno) o che nessuna automobile attraversi il passaggio a livello (ne potevano passare due, una per ogni senso di marcia) o che il masso si sia posizionato in modo tale da non aver creato danni (poteva posarsi mezzo metro più a destra o a sinistra e sarebbe stata tutt'altra storia), poiché le favorevoli circostanze sono state casuali e sottratte a qualsivoglia azione o influenza del colpevole agente.
In tal senso, anche a voler dare qui per ammesso che quel che è accaduto il 27.12.1998 non è stato un disastro (e cioè ricondurre il tutto ad una fuoriuscita di ammoniaca che ha causato a pochi lavoratori per qualche minuto bruciori e lacrimazioni), non è logicamente e giuridicamente corretto far transitare a ritroso tale qualità, per cui nessun danno dunque nessun pericolo, o se si vuole poco danno dunque poco pericolo. L'affermazione della difesa di una parte civile ("e se il vento spirava verso Marghera?") non è così inconferente come è parso ai difensori degli imputati, qui evidenziandosi che la prevedibilità di una fuoriuscita di un gas tossico (ed anche esplosivo ed infiammabile) in notevole quantità comporta la prevedibilità anche del disastro come sua probabile conseguenza, dipendendo il contenimento degli effetti da fattori non padroneggiabili dall'agente, come ad esempio la tempestività e l'efficienza (nonché il numero) dell'intervento dei Vigili del fuoco (potevano arrivare in otto e non in quindici, un quarto d'ora più tardi e poteva non essere agevole individuare il punto di fuga) e le condizioni meteorologiche, in particolare la direzione e la forza del vento, che se verso il centro abitato di Marghera avrebbe coinvolto migliaia di persone.
Infine, l'art. 437 c.p. menziona il disastro nel primo e nel secondo comma, ed in entrambi casi il disastro costituisce la finalità della precauzione omessa o rimossa o l'evento aggravatore, ma sempre disgiuntamente agli infortuni sul lavoro: "se dal fatto deriva un disastro o un infortunio sul lavoro...". Se basta uno solo dei due elementi per integrare il reato, focalizzare l'attenzione solo sul primo per rilevarne la gravità non giova alla comprensione delle fattispecie incriminate se il secondo elemento, per scelta del legislatore, ha una formulazione che ricomprende anche un semplice e non grave infortunio di un solo lavoratore. Peraltro ciò solo ad un primo esame può apparire uno sbilanciamento dell'equilibrio della fattispecie accomunando gravi disastri a non gravi infortuni, perché è anche vero il contrario, e cioè che vengono equiparati mortali infortuni e non gravi (senza vittime) disastri. Né la intrinseca gravità del primo (un disastro è per sua essenza un fatto grave) può essere la sola chiave di lettura dell'intera norma permeando di uguale gravità il secondo elemento, potendosi invece sostenere che sia la elasticità del secondo (infortunio è un piccolo taglio sulla mano e infortunio è la amputazione della stessa) a connotare anche il concetto di disastro.
Nel caso qui in esame, le dimensioni dell'impresa ENICHEM sono tali da non porre all'interprete alcun problema circa l'applicabilità o meno dell'art. 437 c.p. non trattandosi di certo di una piccola fabbrica (cui non si applica l'art. 437 c.p. secondo una corrente giurisprudenziale) ed essendosi verificato un infortunio se circa 80 operai della VE.COM. sospendono l'attività di lavoro stante la situazione di "emergenza" verificatasi e molti di loro, ed in particolare SEMENZATO e FORTI, avvertono nausea, difficoltà respiratoria e lacrimazione, e ciò fino al giorno dopo. Si aggiunga che quella degli operai della VE.COM. non dev'essere stata solo una infondata "paura" se nonostante il cessato allarme delle Autorità gli stessi si sono rifiutati di riprendere il lavoro ed hanno atteso ancora un paio d'ore fino alle 19,30 di sera, con notevole e personale aggravio della loro condizione facendo poi gli stessi straordinario (BETTETTO, p. 9) fino alle due di notte.
Tre litri in una bottiglia da uno
Secondo i CCTT degli imputati dall'accoppiamento flangiato ove si ruppe la guarnizione sono fuoriusciti kg 395 di ammoniaca dispersa e successivamente kg 1199 di ammoniaca abbattuta con acqua dai Vigili del fuoco (p. 22 CT MESSINEO-BOATTINI 15.4.2002), per un totale quindi di kg 1594. Tale calcolo è stato contestato dal CT del PM RABITTI secondo cui l'ammoniaca rilasciata in atmosfera è stata tra kg 2769 e 4540, quella abbattuta tra kg 3178 e 5125 e quindi, in totale la quantità totale di ammoniaca rilasciata durante l'incidente è di un minimo di kg 5892 e un massimo di kg 9610 (CT RABITTI 15.4.2002, pp. 15 e 16). Secondo il CT di parte civile MARA l'ammoniaca fuoriuscita è, secondo una stima prudenziale, di kg 4947 (p. 50, CT MARA-THIEME 8.4.2002).
Tali notevoli disparità di stime (all'evidenza si notano quantitativi di gran lunga superiori in base ai calcoli dei CCTT del PM e delle parti civili), hanno indotto i CCTT degli imputati MESSINEO e BOATTINI ad una radicale critica dei loro contraddittori che nelle loro valutazioni non avrebbero "tenuto conto del fatto che la quantità che fuoriesce dalle rete non può essere superiore a quella che entra; se così non fosse si violerebbe il principio di conservazione della massa" (p. 16 CT MESSINEO-BOATTINI 15.4.2002). Asseriscono i medesimi CCTT che è materialmente impossibile che dal foro della guarnizione possano essere usciti i quantitativi indicati dai CCTT MARA e RABITTI, che è come dire, ma l'efficace espressione è del difensore del Responsabile civile, che se è indubitabilmente vero che la quantità di ammoniaca fuoriuscita non poteva essere maggiore della quantità presente nel sistema al momento dell'evento, i fantasiosi CCTT vorrebbero far credere che da una bottiglia di un litro possono uscire tre litri d'acqua.
La questione che divide i CCTT è, invero, sulle premesse, se cioè la bottiglia (il quantitativo di ammoniaca potenzialmente disperdibile) fosse di un litro o di tre litri. La battuta, invero, può essere rovesciata e potrebbe dirsi che i CCTT degli imputati vorrebbero far credere che rovesciando una bottiglia piena di tre litri ne fuoriesce solo uno. La questione, come tutti sanno, è che i CCTT non sono d'accordo sulle premesse da cui sviluppare i calcoli e trarre le conclusioni: è evidente che se gli uni (CT del PM) pone l'inizio della fuga alle ore 13,15 e gli altri alle 13,35, ci sono venti minuti di differenza che impediranno di arrivare ad eguale stima; se gli uni (CCTT imputati) calcolano la pressione in mandata delle pompe tra 9,5 e 16 bar (ritenute quella di normale assetto) e gli altri la stimano in 23 bar (potenzialità di progetto), i risultati non potranno coincidere; ancora: se i consulenti divergono anche sulle dimensioni del foro di uscita dopo la rottura della guarnizione, per gli uni di 19,6 mm², per gli altri almeno 50 mm² (diffusamente sul punto CCTT MARA-THIEME 8.4.2002, 46) la quantità di ammoniaca fuoriuscita non potrà che aumentare proporzionalmente (2,5 volte superiore; CT del PM 15.4.2002, p. 11). Analoghe considerazioni possono essere fatte sulle diverse valutazioni circa il foro calibro o sulla presenza o meno delle valvole di non ritorno sui serbatoi D332 e D 333.
Ritiene questo giudice che dalle foto della guarnizione rotta (all. 3 CT del PM), quelle con il centimetro a lato, risulta che la stima di un foro di 2, 5 mm per 2 di spessore (e quindi 50 mm²) sia aderente alla evidenza della rappresentazione fotografica, mentre l'ipotesi dei CCTT degli imputati di un foro circolare di mm 5 con una superficie quindi di mm. 19,6 non trova supporto e riscontro nelle menzionate foto. Va pure evidenziato che non vi sono valide ragioni per privilegiare il calcolo dei CCT degli imputati in ordine alla pressione delle pompe dei reparti AC9 ed AC11 stimata tra i 16 ed i 19 bar (p. 7 iniziale relazione MESSINEO), mentre i CCTT del PM e delle parti civili hanno valorizzato la pressione di mandata di progetto (di 23 bar). Il rilievo dei CCTT MARA-THIEME secondo cui la valutazione tra i 16 ed i 19 bar è solo dichiarata e non documentata, e peraltro in riferimento ad un giorno di cinque mesi successivo all'evento, mentre il dato progettuale è un elemento oggettivo, coglie un aspetto della fragilità della stima che essendo di parte può ritenersi interessata, ovviamente al pari di quella dei CCTT di parte civile. Va rilevato che rispetto alle obiezioni poste dai CCTT del PM e delle parti civili, i CCTT degli imputati non hanno mirato la replica sul dato contestato e cioè che il foro e la pressione fossero stati erroneamente calcolati in 50 mm² (magari invitando a meglio guardare il centimetro posto a lato della foto) ed in 23 bar (provando che il dato della pressione era un elemento costante della produzione) ma hanno dedotto la impossibilità del dato in base alla contraddizione interna dell'avverso assunto che non poteva violare il principio di conservazione della massa. Ma la confutazione (secondo le leggi della fisica avrebbe dovuto autogenerarsi nei tubi un notevole quantitativo di ammoniaca, il che chiaramente non è possibile) ha avuto una replica ove il dato "impossibile" è stato invece dimostrato ipotizzando che i serbatoi D332 e D333 non avessero le valvole di non ritorno (esattamente come da disegno dei CCTT degli imputati) e che vi fossero anche gli spurghi ammoniacali del TD2. Va pure evidenziato che la richiesta dei CCTT MARA-THIEME (a p. 37 della relazione dell'8.4.2002) di conoscere come mai il dato (trend B, p. 4, relazione MESSINEO) della portata dello spurgo ammoniacale (che sarebbe stato dirimente nella stima dell'ammoniaca fuoriuscita) non fosse rilevato dallo strumento di controllo PRC850 non ha avuto alcun riscontro nelle considerazioni dei CCTT degli imputati.
In conclusione, ritiene il giudicante che il quantitativo di ammoniaca (si tratta di un gas tossico) indicato dai CCTT MARA-THIEME (kg 4.947) sia quello che è adeguatamente supportato da dati congrui e valutazioni condivisibili (l'anticipazione di venti minuti della fuga del CT del PM, sebbene valutata in relazione alla forza del vento, è smentita dall'ora indicata dall'orologio della cui esattezza non vi sono elementi per dubitare); il foro indicato dai CCTT degli imputati è smentito dalla foto acquisita), e rimane, per la sua imponenza, una grandezza indicativa e significativa, ben oltre la soglia dell'incidente modesto e contenuto, che non muta le caratteristiche dell'evento anche a voler ridurre detto quantitativo ipotizzando minori portate delle pompe, comunque almeno pari a 16 bar. Va pure evidenziato che la connotazione massiva della fuoriuscita rimane anche ad adeguare i dati dei CCTT degli imputati (kg. 1594) alle maggiori dimensioni del foro (2,5 volte maggiore) indicato dagli altri CCTT in 50 mm².
Per le ragioni esposte, costituisce un disastro la dispersione nell'aria di un imponente quantitativo (circa cinque tonnellate) di ammoniaca. Inoltre, le difficoltà di respirazione, la nausea e la lacrimazione cui sono stati soggetti molti operai della VE.COM. costituiscono un infortunio.
Il risarcimento del danno
Recita l'art. 18 della legge 8 luglio 1986 n. 349:
1. Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato.
2. Per la materia di cui al precedente comma 1 la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, ferma quella della Corte dei conti, di cui all'articolo 22 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3.
3. L'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato, nonché dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo.
4 Le associazioni di cui al precedente articolo 13 e i cittadini, al fine di sollecitare l'esercizio dell'azione da parte dei soggetti legittimati, possono denunciare i fatti lesivi di beni ambientali dei quali siano a conoscenza.
5 Le associazioni individuate in base all'articolo 13 della presente legge possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi.
6. Il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l'ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali.
7. Nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale.
8. Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile.
9. Per la riscossione dei crediti in favore dello Stato risultanti dalle sentenze di condanna si applicano le norme di cui al testo unico delle disposizioni di legge relative alla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato, approvato con regio decreto 14 aprile 1910, n. 639.
In tema di danno ambientale, appare opportuno trascrivere alcuni passi della sentenza della Corte Costituzionale del 30 dicembre 1987 n. 641, in Foro It., 1988, I, 694 e ss.:
L'ambiente è stato considerato un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell'insieme, sono riconducibili ad unità. Il fatto che l'ambiente possa essere fruibile in varie forme e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie norme che assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene unitario che l'ordinamento prende in considerazione.
L'ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto.
Il danno è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che la distruzione o il deterioramento o l'alterazione o, in genere, la compromissione del bene riveste in sé e per sé e che si riflette sulla collettività la quale viene ad essere gravata da oneri economici. La tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali impone una disciplina che eviti gli sprechi e i danni sicché si determina una economicità e un valore di scambio del bene. Pur non trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta a essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo.
Consentono di misurare l'ambiente in termini economici una serie di funzioni con i relativi costi, tra cui quella di polizia che regolarizza l'attività dei soggetti e crea una sorveglianza sull'osservanza dei vincoli; la gestione del bene in senso economico con fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientali. Si possono confrontare i benefici con le alterazioni; si può effettuare la stima e la pianificazione degli interventi di preservazione, di miglioramento e di recupero; si possono valutare i costi del danneggiamento. E per tutto questo l'impatto ambientale può essere ricondotto in termini monetari. Il tutto consente di dare all'ambiente e quindi al danno ambientale un valore economico.
Significativa, in tema, anche Cassazione civile, Sez. I, 9 aprile 1992 n. 4362 la cui massima qui si riporta:
L'ambiente in senso giuridico costituisce un insieme che, pur comprendente vari beni o valori quali la flora, la fauna, il suolo, le acque ecc. si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà, priva di consistenza materiale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo costituente, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell'ordinamento, con la L. 8 luglio 1986 n. 349, rispetto ad illeciti, la cui idoneità lesiva va valutata con specifico riguardo a siffatto valore ed indipendentemente dalla particolare incidenza verificatasi su una o più delle dette singole componenti, secondo un concetto di pregiudizio che, sebbene riconducibile a quello di danno patrimoniale, si caratterizza, tuttavia per una più ampia eccezione, dovendosi avere riguardo per la sua identificazione non tanto alla mera differenza tra il saldo attivo del danneggiato (nella specie, il parco nazionale d'Abruzzo, che lamentava il taglio abusivo di piante) prima e dopo l'evento lesivo, a determinare in concreto una diminuzione dei valori e delle utilità economiche di cui il danneggiato può disporre, svincolata da una concezione aritmetico-contabile. Cassazione civile, Sez. I, 9 aprile 1992 n. 4362, Giust. civ. Mass. 1992, fasc. 4
Per le ragioni esposte, la fuoriuscita di ammoniaca è stata prolungata e imponente, con un significativo impatto sull'ambiente. Anche solo a voler ricostruire l'accaduto in base agli elementi che la stessa ENICHEM ha fornito alle autorità (che poi ai fini di un calcolo prudenziale è il tempo preso in considerazioni dai citati CCTT MARA-THIEME, p. 50) l'ammoniaca è ininterrottamente fuoriuscita dalle 13,35 fino alle 15,30 (da questo momento sono state poste in essere manovre che hanno vieppiù ridotto la fuga), dunque per due ore e con un rilascio nell'aria di kg 4947, in parte abbattuti dai vigili aziendali e dai Vigili del fuoco del corpo nazionale. Quasi cinque tonnellate di ammoniaca riversate nell'aria, in larga parte abbattuta e comunque finita nella laguna, costituiscono un imponente quantitativo che hanno sicuramente compromesso l'ambiente, alterandolo e degradandolo. L'aria (è una delle risorse naturali) sovrastante e circostante lo stabilimento dell'ENICHEM è stata alterata e resa irrespirabile, almeno in parte. Il comportamento istintivo degli 80 operai della VE.COM., che erano a circa 1.800 m dal punto di fuga, costituisce una sicura prova che l'aria in quel momento (e non è stato questione di pochi minuti, ma due ore) era stata alterata nella sua qualità e resa non solo maleodorante ma nociva per la salute umana.
Tale alterazione costituisce una grave lesione dell'ambiente, a nulla rilevando la sua transitorietà e l'assenza apparente di conseguenze durature se comunque le concrete modalità dell'evento hanno raggiunto una intensa ed evidente criticità: per un vasto raggio e per due ore l'aria non era tale. Pretendere che si possa parlare di un danno ambientale solo in presenza di una apprezzabile e duratura compromissione significa (laddove il danno è arrecato a beni quali l'aria e l'acqua) assimilare il danno solo a tragedie o scenari apocalittici.
La irrespirabilità dell'aria ha impedito ad 80 operai di fare il loro lavoro per due ore e comunque sono rimasti inattivi per 5 ore. Diverse condizioni climatiche e di vento avrebbero potuto rendere tale situazione generalizzata ad un intero quartiere coinvolgendo migliaia di persone. Chi era nei parchi avrebbe dovuto correre al chiuso, come pure i passanti sui marciapiedi. I clienti del supermercato sarebbero rimasti dentro per più ore. Chiunque stesse lavorando all'aperto doveva smettere. E così via semplificando, ma non troppo. È vero che ciò non è accaduto, ma le plausibili ipotesi evidenziano la dannosa e nociva potenzialità di quel quantitativo d'aria che è stato degradato dall'ammoniaca. La collettività ha diritto all'aria salubre e lo Stato ciò deve garantire. Per più di due ore in prossimità del punto di fuga, fino a circa due km l'aria non era tale e chi di quel bene è il responsabile verso la collettività, lo Stato, deve essere risarcito.
Nella fattispecie non è possibile una precisa quantificazione del danno poiché l'evento ha assunto connotazioni tali che non è stato possibile il ripristino, né è stata possibile alcuna misurazione, in termini sia quantitativi che qualitativi, della alterazione o modificazione dell'ambiente, che pure c'è inequivocabilmente stata come risulta dal precipitarsi degli operai VE.COM. dentro gli ambienti chiusi.
Peraltro, è proprio in riferimento a tale evidente difficoltà che il legislatore ha introdotto, sebbene in via sussidiaria, i criteri equitativi di cui all'art. 18 che in tema di danno ambientale, e sul presupposto che l'ambiente non ha un valore di scambio, assumono una autonoma e ragionevole rilevanza. D'altro canto, anche a voler quantificare e "misurare" un valore d'uso, comunque poi rimane irrisolta la monetizzazione se il bene non ha un mercato. In tal senso, pur ponendosi un problema di inquadramento della natura del danno qui in esame (risarcitorio o sanzionatorio), quel che rileva è che i criteri indicati dall'art. 18 consentono di quantificare l'ammontare del danno che altrimenti rimarrebbe indeterminabile. Uno di tali criteri, il "costo" del ripristino, è, invero, certo, anche se talvolta detto costo può non esaurire l'insieme del danno. Quanto agli altri due criteri, la gravità della colpa e il profitto conseguito dal trasgressore, possono condurre a differenti risultati a parità del danno. Qualunque questo sia (la premessa da cui si muove nel risarcimento qui in esame è che danno vi è stato ma non è possibile la precisa quantificazione), l'ammontare sarà diverso se si ipotizza che lo stesso evento-danno è stato cagionato da agente più o meno colpevole e più o meno economicamente avvantaggiato dalla sua condotta lesiva. Il (preciso ammontare del) danno, quindi, non dipenderà (solo) da elementi insiti nello stesso, ma (anche) da fattori estranei e non di diretta efficienza causale sull'entità del danno medesimo.
Colpa e danno possono non essere correlati, potendo la prima essere minima e massimo il secondo, e viceversa. Egualmente non c'è proporzione tra profitto conseguito dalla illecita condotta ed il danno ambientale derivatone, potendo un ingente danno essere la conseguenza di una negligenza finalizzata alla realizzazione di un modesto profitto. Il profilo sanzionatorio dei menzionati criteri è evidente, ma trattandosi di criteri equitativi per la "precisa" determinazione del danno appaiono ragionevoli poiché la base "approssimativa" del danno stesso segue le ordinarie regole probatorie e la elasticità del "di più", o del "di meno", per la esatta determinazione si fonda sul grado di immeritevolezza della condotta in relazione a imprudenze e riprovevoli tornaconti.
Il CT del Ministero dell'ambiente Dr. MARASCHI ha fornito alcuni elementi ai fini della valutazione del danno.
Ha così motivato il costo di ripristino della qualità dell'acqua di abbattimento:
Un possibile anche se parziale computo del danno può tuttavia essere desunto dal costo che si avrebbe dovuto sostenere per depurare almeno l'acqua derivante dall'abbattimento dell'ammoniaca presso un impianto pubblico di depurazione (fermo restando che tale valore non indica il costo di ripristino delle risorse ambientali contaminate sia per il carattere limitato del bene preso in considerazione sia perché, lo si è discusso in dibattimento, la procedura di abbattimento della nube con getti d'acqua non può considerarsi risolutiva di ogni problema, essendo certo che non consente l'abbattimento dell'intera quantità di ammoniaca presente in atmosfera).
La quantità totale di ammoniaca rilasciata dagli impianti è stimata in 5892/5956 kg. Supponiamo di dover inviare al depuratore acque contenenti azoto ammoniacale al limite massimo concesso per il recapito in pubblica fognatura dalla legge 152/99 oppure dalla tabella C della precedente legge 319/76 e cioè 30 mg/l (30 ppm).
Un semplice computo ci permette di calcolare quanti litri d'acqua sarebbero necessari per diluire 5.900 kg di ammoniaca (1.200.000.000 mg) fino alla concentrazione di 30 mg/l e cioè:
5.900.000.000 [mg]/30 [mg/l] = 196.666.666 l pari a 196.700 m³.
Considerando, per il momento e in via del tutto teorica, un costo di smaltimento compreso tra le lit. 100 e le lit. 500 al m³ possiamo ottenere la seguente stima economica:
196.700 [mc x lit. 100 [lit. /mc = lit. 19.670.000
195.700 [mc x lit. 500 [lit. /mc = lit. 98.350.000
pari ad un costo medio di lit. 49.184.850 (euro 25.401,86)
Ritiene il giudicante che le argomentazioni poste dal CT MARASCHI a fondamento del costo sopra indicato sia corretto, tranne che nella stima della ammoniaca fuoriuscita che è da ritenere invece di kg 4947.
Va poi rilevato che le spese del costo di intervento dei Vigili del fuoco è stato di euro 3.095,43.
Quanto all'indebito profitto del trasgressore il medesimo CT di parte ha rilevato che in base al bilancio dell'ENICHEM spa per il 1988, nella copia depositata presso il Tribunale di Milano, ed in riferimento al conto o economico consolidato riclassificato, si desume che per i settori Poliuretani e Cloro ed Elastomeri il margine operativo lordo (ricavi meno i costi di acquisto di materie prime e del lavoro) è stato di 71 miliardi di lire annui, pari a lire 194.520.547 pari ad euro 100.461. Lo Stato ritiene che il profitto del trasgressore nella fattispecie sia stato certamente di euro 200.922,96, pari ai due giorni di fermo delle attività necessari per la sostituzione della valvola B che implicava la chiusura degli spurghi ammoniacali degli altri reparti, se non di euro 7.534.610,92 pari all'indebito profitto per 75 giorni, tanti quanti ne sono passati dalla consapevolezza in capo agli imputati del trafilamento della valvola ed il giorno dell'evento.
Non ritiene questo giudice di condividere l'impostazione secondo cui l'indebito profitto debba essere valutato in relazione ai giorni dell'omissione. Ai fini della valutazione del profitto del trasgressore occorre, nel caso in esame, fare riferimento ai giorni necessari per la esecuzione dei lavori di sostituzione della valvola B, cioè due giorni, come è risultato anche dal reale accadimento dei fatti, tuttavia in situazione di emergenza, durante i quali i reparti non avrebbero potuto produrre in quanto sarebbe stata chiusa la linea spurghi ammoniacali.
Imputati e Responsabile civile hanno contestato l'impostazione della parte civile Ministero dell'ambiente ritenendola irragionevole e sbagliata. Al di là di ogni altra considerazione hanno evidenziato che l'ENICHEM s.p.a. nel corso del 1998 ha avuta una perdita e non un utile di esercizio, per cui nessun profitto ha realizzato in quell'anno. Il dato è vero e risulta dalla stessa relazione del CT di parte MARASCHI che tuttavia non a caso ha ritenuto di prendere in considerazione solo il margine operativo lordo della gestione caratteristica, e dunque ciò che residua sottraendo ai ricavi il costo del venduto, senza le interferenze dell'insieme di tutti gli altri elementi che servono per individuare l'utile o la perdita d'esercizio che è condizionata da tante altre poste (ad esempio ammortamenti e svalutazioni) che a nulla rilevano nella individuazione di un "profitto" quale conseguenza di quella condotta lesiva.
Se così non fosse, imprese in difficoltà o in uno stato di insolvenza sarebbero, in base al criterio del profitto del trasgressore, immuni da responsabilità per danno ambientale. Invero, nelle medesime condizioni sarebbero anche imprese floride in fase di crescita ma con notevole e fisiologico indebitamento verso banche che, quindi, potrebbero non avere utili di esercizio.
Va rilevato, infine, che il profitto conseguito dal trasgressore è uno dei criteri per la valutazione equitativa del preciso ammontare del danno. Imputati e Responsabile civile hanno sottolineato che nella fattispecie AMPÒ e SIMONETTI non hanno tratto alcun profitto dalla condotta loro addebitata. I due imputati, invero, hanno tenuto la loro condotta nell'esclusivo interesse della ENICHEM spa del cui profitto si sono fatti pienamente carico. La loro azione era stata realizzata nell'esclusivo interesse della impresa alle cui dipendenze lavoravano. Ritiene questo giudice che il "profitto" conseguito dal trasgressore non sempre e non necessariamente è quello di cui il trasgressore si è appropriato ma quello realizzatosi quale conseguenza della sua consapevole e finalizzata condotta. D'altro canto, opinare diversamente, significa che in tutti quei casi in cui ad agire è stato un dipendente ma in sintonia con le scelte aziendali e in funzione dell'interesse dell'impresa il criterio del "profitto conseguito" sarebbe non semplicemente inutile ma utilizzato, contro ogni evidenza ed equità, per la minimizzazione del danno, in senso quindi diametralmente opposto all'intento del legislatore che "equitativamente" ha voluto introdurre, nell'ambito della trasgressione, una proporzione tra "profitto" e danno.
Va rilevato che nell'ambito della responsabilità civile detta somma non desta meraviglia alcuna anche in riferimenti a fatti seri ma non particolarmente gravi (ovviamente secondo parametri statistici, non in base alla giusta sensibilità del danneggiato). Se un dipendente dell'ENICHEM avesse cagionato danni a cose e persone in un "tradizionale" incidente (poniamo stradale) non mortale ma grave probabilmente la stessa ENICHEM sarebbe stata condannata a pagare più della somma qui statuita. Non risulta processualmente che la VE.COM. abbia chiesto alcun risarcimento del danno ma non ci si sarebbe meravigliati se avesse citato in un giudizio civile la ENICHEM pretendendo, secondo i consolidati parametri del danno emergente e del lucro cessante, una somma anche dimezzata rispetto a quella qui liquidata (in fondo ha dovuto sospendere il lavoro per mezza giornata tenendo inutilizzati 80 operai). In sostanza, quel che qui si vuole evidenziare, è che la reiterata doglianza di irragionevolezza più volte avanzata nei confronti della richiesta dello Stato (invero giustificata per la più alta cifra della forbice proposta: euro 7.735.533) si spiega solo con le oggettive difficoltà insite nella applicazione della problematica del danno ambientale che, probabilmente per il numero limitato di controversie, non ha ancora avuto l'approfondimento che merita, se non in termini generali e di principio, da parte di dottrina e giurisprudenza.
Quanto agli enti locali costituiti (Comune di Venezia e Provincia di Venezia), escluso nei loro confronti la liquidazione del danno ambientale ex art. 18 legge n. 349 del 1986 (sul punto si veda anche l'attuale formulazione dell'art. 117 Cost.), si liquida il danno subito ex art. 2043 c.c. e 185 c.p., in euro 80.000, di cui: a) euro 10.000 per spese e costi sostenuti dall'Ente territoriale in ragione ed a causa delle condotte ascritte agli imputati; b) euro 50.000 per danni all'immagine ed al prestigio derivati, in ragione ed a causa delle menzionate condotte ascritte agli imputati, all'Ente territoriale anche in considerazione della sua natura di ente costituzionalmente necessario ed all'attribuzione ad esso nell'ambito del territorio di pertinenza che ne è elemento costitutivo di compiti istituzionali di amministrazione, controllo, gestione e programmazione tanto del bene ambiente unitariamente inteso, quanto delle sue singole componenti; c) euro 20.000 quale danno da sviamento della funzione istituzionale derivato, in ragione ed a causa delle medesime condotte, all'Ente territoriale, attese le cagionate limitazioni alla libertà di esercizio dei propri poteri di amministrazione attiva ed ai maggiori oneri resi necessari per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali.
Alle parti civili Lega Ambiente e Medicina Democratica, entrambe non escluse quali parti civili avendo documentato la loro fattiva e concreta attività in funzione della protezione dell'ambiente e della salute dei lavoratori in fabbrica (sul punto si rinvia alla ordinanza del 19.9.2001), si liquida, ciascuna, la somma di euro 25.000 di cui: a) euro 10.000 quale danno patrimoniale per i costi sostenuti per l'attività di acquisizione dei dati, di informazione e denuncia alla pubblica opinione, agli enti competenti e all'autorità giudiziaria, e per ogni altra iniziativa svolta per contrastare le conseguenze negative delle condotte di cui al capo d'imputazione; b) euro 15.000 quale danno non patrimoniale subito per la lesione all'immagine e al diritto di personalità dell'associazione, sotto il profilo della frustrazione della sua azione sia all'interno che all'esterno del sodalizio (la Lega Ambiente anche in quanto associazione di protezione ambientale riconosciuta ai sensi della legge 349/86), nonché quale ente esponenziale degli associati.
Ai fini dell'art. 18 comma 7 legge 8 luglio 1986 n. 349 il concorso di entrambi gli imputati ha avuto eguale peso, per cui ciascuno risponde per la metà per il danno ambientale liquidato al Ministero dell'ambiente, mentre la responsabilità è solidale per la condanna al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 2043 c.c. e 185 c.p. di cui agli enti locali ed alle associazioni. Il Responsabile civile ENICHEM s.p.a., ex art. 2049 c.c., viene condannato in solido con i medesimi imputati.
Le spese processuali vengono liquidate come in dispositivo.
Non sussistono i giustificati motivi per la provvisoria esecuzione ex art. 540 c.p.p.
La sanzione
Entrambi gli imputati sono incensurati. Ciò induce a concedere le attenuanti generiche che si ritengono equivalenti alla contestata aggravante di cui al capoverso dell'art. 437 c.p.
Non sussiste, invece, l'aggravante di cui all'art. 61 n. 1 c.p. dell'aver agito per motivi futili. Non solo ciò è da escludere per la posizione subordinata e non apicale dei due che pur avendo avuto una condotta finalizzata agli interessi dell'impresa ENICHEM s.p.a., tuttavia non avevano alcun personale interesse o tornaconto nella vicenda, e quindi neanche futili motivi per agire. Inoltre, la contestata aggravante sussiste solo se l'azione è stata il mero pretesto per delinquere.
Quanto alla sanzione, si ritiene congrua, valutati i criteri di giudizio di cui all'art. 133 c.p., la pena di mesi sei di reclusione.
Si ha motivo di ritenere, anche per la incensuratezza degli stessi, che per l'avvenire gli imputati si asterranno dal commettere ulteriori reati.
PQM
Visti gli artt. 533, 535, 538 e ss. c.p.p.
DICHIARA
Gli imputati SIMONETTI COSIMO e AMPÒ EMANUELE responsabili del reato loro ascritto, esclusa l'aggravante di cui all'art. 61 n. 1 c.p., e concesse agli stessi le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante di cui al cpv. dell'art. 437 c.p., li condanna, ciascuno, alla pena di mesi sei di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.
Pena sospesa e non menzione per entrambi.
CONDANNA i medesimi imputati ed il Responsabile civile ENICHEM s.p.a. in solido tra loro, al risarcimento del danno in favore delle seguenti parti civili e per le somme di seguito liquidate:
MINISTERO DELL'AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO, euro 225.000= oltre ad euro 12.000= per spese processuali;
COMUNE DI VENEZIA, euro 80.000=, oltre ad euro 10.800= per spese processuali
PROVINCIA DI VENEZIA, euro 80.000= oltre ad euro 9.500= per spese processuali;
LEGA AMBIENTE, COMITATO REGIONALE PER IL VENETO; euro 25.000=, oltre ad euro 15.000= per spese processuali;
MEDICINA DEMOCRATICA, euro 25.000=, oltre ad euro 21.000= per spese processuali
Giorni 60 per il deposito.
1) Art. 18 Legge n. 349/1986 - danno ambientale - ambiente come bene unitario - valore primario e assoluto del bene ambiente - danno patrimoniale - i costi correlati alla gestione dell’ambiente (funzioni di polizia, gestione del bene, interventi di miglioramento e recupero,…) consentono di ricondurre l’impatto ambientale intermini monetari e di attribuire al danno ambientale un valore economico. In tema di danno ambientale, la sentenza della Corte Costituzionale del 30 dicembre 1987 n. 641: L'ambiente è stato considerato un bene immateriale unitario sebbene a varie componenti, ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; ma tutte, nell'insieme, sono riconducibili ad unità. Il fatto che l'ambiente possa essere fruibile in varie forme e differenti modi, così come possa essere oggetto di varie norme che assicurano la tutela dei vari profili in cui si estrinseca, non fa venir meno e non intacca la sua natura e la sua sostanza di bene unitario che l'ordinamento prende in considerazione. L'ambiente è protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto. Il danno è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che la distruzione o il deterioramento o l'alterazione o, in genere, la compromissione del bene riveste in sé e per sé e che si riflette sulla collettività la quale viene ad essere gravata da oneri economici. La tendenziale scarsità delle risorse ambientali naturali impone una disciplina che eviti gli sprechi e i danni sicché si determina una economicità e un valore di scambio del bene. Pur non trattandosi di un bene appropriabile, esso si presta a essere valutato in termini economici e può ad esso attribuirsi un prezzo. Consentono di misurare l'ambiente in termini economici una serie di funzioni con i relativi costi, tra cui quella di polizia che regolarizza l'attività dei soggetti e crea una sorveglianza sull'osservanza dei vincoli; la gestione del bene in senso economico con fine di rendere massimo il godimento e la fruibilità della collettività e dei singoli e di sviluppare le risorse ambientali. Si possono confrontare i benefici con le alterazioni; si può effettuare la stima e la pianificazione degli interventi di preservazione, di miglioramento e di recupero; si possono valutare i costi del danneggiamento. E per tutto questo l'impatto ambientale può essere ricondotto in termini monetari. Il tutto consente di dare all'ambiente e quindi al danno ambientale un valore economico. Significativa, in tema, anche Cassazione civile, Sez. I, 9 aprile 1992 n. 4362 la cui massima qui si riporta: L'ambiente in senso giuridico costituisce un insieme che, pur comprendente vari beni o valori quali la flora, la fauna, il suolo, le acque ecc. si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una realtà, priva di consistenza materiale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo costituente, come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell'ordinamento, con la L. 8 luglio 1986 n. 349, rispetto ad illeciti, la cui idoneità lesiva va valutata con specifico riguardo a siffatto valore ed indipendentemente dalla particolare incidenza verificatasi su una o più delle dette singole componenti, secondo un concetto di pregiudizio che, sebbene riconducibile a quello di danno patrimoniale, si caratterizza, tuttavia per una più ampia eccezione, dovendosi avere riguardo per la sua identificazione non tanto alla mera differenza tra il saldo attivo del danneggiato (nella specie, il parco nazionale d'Abruzzo, che lamentava il taglio abusivo di piante) prima e dopo l'evento lesivo, a determinare in concreto una diminuzione dei valori e delle utilità economiche di cui il danneggiato può disporre, svincolata da una concezione aritmetico-contabile. Cassazione civile, Sez. I, 9 aprile 1992 n. 4362, Giust. civ. Mass. 1992, fasc. 4 TRIBUNALE Ufficio del giudice monocratico, Sez. penale (VENEZIA ) 27 novembre 2002, n. 1286
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