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CORTE DI CASSAZIONE Sez. III, del 12 Giugno 2007 (Ud.
27/03/2007) Sentenza n. 22826
RIFIUTI - Responsabilità per
realizzazione e gestione di discarica abusiva - Amministratori o liquidatori
della società. La situazione di grave illegalità e di rilevante pericolosità
provocata dagli esiti di gestione di una società non possono trovare nelle
oggettive e rilevanti difficoltà di soluzione una circostanza impropriamente
scriminante. Così come non è accettabile, sul piano giuridico, che le cautele di
intervento derivanti dalla legge e dagli atti amministrativi possano trasferire
sugli enti territoriali e sulle amministrazioni pubbliche forme più o meno
dirette di responsabilità che farebbero venir meno quelle degli amministratori o
liquidatori della società che ha dato origine alla situazione di illegalità e
pericolo. In altri termini, la violazione da parte dei privati delle regole di
cautela e degli obblighi connessi alla realizzazione e gestione di una discarica
non può perdere il carattere di illiceità sul presupposto che neppure le
autorità e gli enti aventi competenza sul sito e sugli immobili hanno saputo
riportare nell'ambito della legalità una situazione gravemente compromessa cui i
privati hanno dato origine. Pres. Onorato - Est. Marini - Ric. PG ed altri in
proc. Arcese. CORTE DI CASSAZIONE Sez. III, del 12 giugno 2007 (Ud.
27/03/2007) Sentenza n. 22826
RIFIUTI - Prodotti contenenti amianto - Costituiscono tecnicamente "rifiuti"
- Carattere di pericolosità. I prodotti contenenti amianto costituiscono
tecnicamente "rifiuti" avente carattere di pericolosità. Sul punto, costante
giurisprudenza Cass. Sez. III, tra cui sentenza 26 ottobre-29 novembre 2006,
n.39360, Lo Bello (rv 345464) e la recentissima decisione del 27 Marzo 2007,
n.sezionale 00959/2007, Bertuzzi ed altri, non massimata. Pres. Onorato - Est.
Marini - Ric. PG ed altri in proc. Arcese. CORTE DI CASSAZIONE Sez. III, del
12 giugno 2007 (Ud. 27/03/2007) Sentenza n. 22826
RIFIUTI - Discarica abusiva di rifiuti pericolosi - Condotta di gestione -
Permanenza nel reato - Concetto. La condotta di gestione di una discarica
abusiva di rifiuti pericolosi rappresenta un esempio paradigmatico e di solare
evidenza di permanenza del reato (sul punto si rinvia, Sezione III,
29/9/-4/12/1989, n.12273, Barucca, rv 177178; 7/7/-27/09/1995, n.2691, rv
203476; 14/4/-5/5/2005, n.16890, Gallucci e altro, rv 231649, 15-27 gennaio
2004, n.2662, PM in proc.Zanoni, rv 227219; si veda anche Quinta Sezione Penale,
sentenza 14 gennaio-25 marzo 2005, n.11924, Spagnolo e altri, rv 231704). Pres.
Onorato - Est. Marini - Ric. PG ed altri in proc. Arcese. CORTE DI CASSAZIONE
Sez. III, del 12 giugno 2007 (Ud. 27/03/2007) Sentenza n. 22826
PROCEDURE E VARIE - Struttura del reato permanente - Art.158 c.p. -
Prescrizione del reato. La natura permanente o istantanea del reato non
dipende da esplicita ed apodittica qualificazione del legislatore, ma dalla sua
naturale essenza, trattandosi di un carattere che inerisce alla qualità della
condotta così come si presenta nella realtà e la cui definizione è affidata
all'interpretazione dei giudici ordinari; pertanto, non costituisce lacuna
costituzionalmente rilevante l'omessa affermazione legislativa del carattere
permanente di un reato. (Corte costituzionale con sentenza n.520 del 26
novembre-17 dicembre 1987). Pres. Onorato - Est. Marini - Ric. PG ed altri in
proc. Arcese. CORTE DI CASSAZIONE Sez. III, del 12 giugno 2007 (Ud.
27/03/2007) Sentenza n. 22826
PROCEDURE E VARIE - Motivazione della sentenza - Completezza e correttezza -
Requisiti - Rinnovata valutazione - Esclusione. Il giudizio sulla
completezza e correttezza della motivazione della sentenza impugnata non può
confondersi "con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da
contrapporsi a quella fornita dal giudice di merito", con la conseguenza che una
motivazione esauriente nell'affrontare i temi essenziali e coerente nella
valutazione degli elementi probatori si sottrae al sindacato di legittimità.
Conservano, dunque, piena validità anche dopo la novella del 2006 i principi
essenziali fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, n.2120, del 23
novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini (rv 203767). Pres. Onorato - Est. Marini
- Ric. PG ed altri in proc. Arcese. CORTE DI CASSAZIONE Sez. III, del 12
giugno 2007 (Ud. 27/03/2007) Sentenza n. 22826
PROCEDURE E VARIE - Reato permanente - Momento della cessazione. La
permanenza del reato cessa nel momento in cui l'offesa al bene protetto viene
meno oppure nel momento in cui l'azione prescritta viene realizzata oppure non è
più esigibile, cessando in tal modo l'antigiuridicità vuoi per fatto volontario
dell'obbligato o per altra causa (si vedano, tra le molte, Sezione Terza penale,
sentenza Barucca, cit., rv 177178; 23 ottobre 1996-29 gennaio 1997, n.604,
Salmeri, rv 207035; 16 aprile-23 maggio 1997, n.1721, PM in proc.Sciarrino, rv
208053; 27 marzo-14 maggio 2002, n.18198, Pinori, rv 221995; 12 febbraio-18
marzo 2004, n.13204, Merico e altro, rv 227571; 24 settembre-12 novembre 2004,
n.44249, PM in proc.Cascina, rv 230468). Pres. Onorato - Est. Marini - Ric. PG
ed altri in proc. Arcese. CORTE DI CASSAZIONE Sez. III, del 12 giugno 2007 (Ud.
27/03/2007) Sentenza n. 22826
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Udienza pubblica del 27 marzo 2007
SENTENZA N.00930/2007
REG. GENERALE N.7054/2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Composta dagli ill.mi Sigg.:
Dott. Onorato Pierluigi Presidente
Dott. Marmo Margherita Consigliere
Dott. lanniello Antonio Consigliere
Dott. Marini Luigi Consigliere
Dott. Sarno Giulio Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI APPELLO DI BARI
WWF ONLUS, PARTE CIVILE
CODACONS ONLUS, PARTE CIVILE
ARTESE STEFANO, nato a Merate il 28 luglio 1962
Avverso la sentenza in data del 21 Ottobre 2005 con cui la Corte di Appello di
Bari, in parziale riforma della sentenza emessa in 16 giugno 2004 dal Tribunale
di Bari in composizione monocratica, lo ha mandato assolto dai reati contestati
ai capi B), C), D) ed E) della originaria imputazione, ed ha confermato la
condanna per il capo A), e cioè per il reato previsto dall'art.51, comma 3, in
relazione agli artt.27, 28 e ss. Del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.22,
con conseguente condanna, previa concessione delle circostanze attenuanti
generiche, alla pena (condizionalmente sospesa) di anni 1 di arresto e Euro
12.000,00 di ammenda; confermando, altresì, il provvedimento di confisca e la
condanna al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore
delle parti civili costituite; disponendo, infine, la revoca delle provvisionali
disposte in primo grado, ad eccezione di quella in favore del Ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio, quantificata in Euro 5.000,00,
oltre accessori di legge,
Fatti di reato commessi fino al gennaio 2003.
Sentita la relazione effettuata dal Consigliere LUIGI MARINI
Udito il Pubblico Ministero nella persona del Cons. GIOVANNI D'ANGELO, che ha
concluso per l'annullamento della sentenza con rinvio alla Corte di Appello
limitatamente ai capi B) e D) della rubrica; per l'accoglimento della istanza di
correzione di errore materiale presentata dall'Avvocatura dello Stato per la
parte civile Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio; per il
rigetto di tutti i restanti motivi di ricorso.
Uditi i Difensori del ricorrente, AVVOCATI FUMAGALLI E D'ARGENTO, che hanno
concluso per l'accoglimento del ricorso presentato, con conseguente assoluzione
del ricorrente "perché il fatto non sussiste" o, in subordine, accertarsi la
prescrizione del reato sub A); per la inammissibilità dei ricorsi presentati dal
Procuratore Generale e delle parti civili.
RILEVA
Con decreto del Pubblico Ministero in data del 15 gennaio 2003, il Sig ARTESE fu
tratto a giudizio avanti il Tribunale di Bari, unitamente ai Sigg.Galvani e
Cuniolo, per rispondere, in qualità di liquidatore della "Finanziaria Fibronit
Srl", dei seguenti reati:
A) artt. 81 cpv., 110 c.p., 51, comma 3 in relazione agli artt.27, 28 ss. del
decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.22, per avere realizzato e gestito
all'interno dello stabilimento industriale Fibronit in Bari una discarica non
autorizzata destinata allo smaltimento di rifiuti pericolosi, in particolare
prodotti di cemento-amianto;
B) artt.81 cpv., 110, 674 c.p., per avere provocato l'emissione e la dispersione
nell'aria di derivati della lavorazione dell'amianto;
C) artL8l cpv., 110, 635, comma 2, n.3 c.p., per avere, a seguito di
inquinamento da amianto, distrutto o comunque deteriorato e reso inservibili le
falde acquifere sotterranee e le strade poste nelle adiacente del complesso
industriale;
D) artt.110 c.p., 50, comma 2 in relazione all'art. 14, comma 3 ultima parte del
citato decreto legislativo n.22 del 1997, per non avere ottemperato alle
ordinanze sindacali relative alla messa in sicurezza e bonifica dell'area ex
Fibronit entro 60 gg. dalla notifica;
E) arti. 81 cpv., 110 c.p., 51 bis del citato decreto legislativo n.22 del 1997
per avere omesso di procedere alla bonifica delle aree inquinate secondo il
procedimento previsto dall'art.17.
Fatti commessi dal 23 settembre 1999 al gennaio 2003, con permanenza.
Nel processo avanti il Tribunale si sono costituiti parti civili sia gli enti
territoriali, sia la curatela fallimentare, sia associazioni come WWF Onlus,
CODACONS Onlus, ed altre.
Va detto che nel corso del processo è stata emessa dal Tribunale sentenza ai
sensi dell'art.129 c.p.p. per essere deceduto il co-liquidatore della società e
coimputato, Sig.Cuniolo.
La sentenza 16 giugno 2004 del Tribunale di Bari.
All'esito del processo di primo grado per il Sig.Galvani è stato ritenuto
non doversi procedere per intervenuta prescrizione dei reati, escluso il
concorso di reati con il coimputato Artese, mentre il Sig.Artese è stato
condannato in data 16 giugno 2004 dal Tribunale di Bari per tutti i reati
contestati (con responsabilità per il capo C limitata ai soli danni arrecati
alle strade), determinando la pena in anni due di reclusione, con sospensione
della stessa. Il Tribunale ha disposto altresì la confisca degli immobili
interessati, fatti salvi gli obblighi di bonifica, ed ha condannato il Sig.Artese
al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, disponendo
provvisionali in favore del Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio (Euro 5.000.000,00), della Regione Puglia e della Provincia di Bari
(Euro 25.000,00 ciascuno), nonché in favore di WWF e CODACONS (Euro 5000,00
ciascuno).
Avverso tale sentenza hanno proposto appello sia il Sig.Artese sia il Pubblico
Ministero (impugnazione poi rinunciata dalla Pubblica accusa in sede di
giudizio).
La sentenza 21 Ottobre 2005 della Corte di Appello di Bari.
Con sentenza in data 21 Ottobre 2005 la Corte di Appello di Bari, ha mandato
assolto il Sig.Artese dai reati contestati ai capi B) ed E), con la formula
"perché il fatto non sussiste", ed ai capi C) e D), con la formula "per non
avere commesso il fatto"; ha invece confermato la condanna per il capo A), e
cioè per il reato previsto dall'art.51, comma 3, in relazione agli artt.27, 28 e
ss. del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n.22, con conseguente condanna,
previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena
(condizionalmente sospesa) di anni 1 di arresto e Euro 12.000,00 di ammenda;
confermando, altresì, il provvedimento di confisca e la condanna al risarcimento
dei danni, da liquidarsi in separata sede, ed alla rifusione delle spese del
processo in favore delle parti civili costituite; disponendo, infine, la revoca
delle provvisionali disposte in primo grado, ad eccezione di quella in favore
del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio, quantificata in Euro
5.000,00, oltre accessori di legge.
La dettagliata ricostruzione dei fatti operata nella prima parte della sentenza
consente di ritenere accertati, anche alla luce dei motivi di impugnazione,
alcune essenziali circostanze di fatto, la cui esposizione appare fin d'ora
necessaria ai fini della successiva esposizione dei motivi di ricorso:
- Risale al 1933 l'inizio di attività in Bari della Società Adriatica Prodotti
in Cementoamianto (SAPIC) controllata dalla famiglia Milanese, fino alla
cessione alla soc.Fibronit, sempre controllata dai sigg. Milanese fino a che,
con vari passaggi societari, la proprietà viene integrata e poi assunta da altri
soggetti; in particolare, per quanto di interesse in questa sede, i Sigg.
Galvani (che presiedeva la Fibronit Srl nel 1993) e Cuniolo (che presiedeva la
Finanziaria Fibronit Spa il 18 febbraio 1996, data in cui incorpora la Fibronit
Srl);
- La Fibronit Finanziaria Spa è stata messa in liquidazione il 14 maggio 1997,
con nomina quali liquidatori dei Sigg.Cuniolo e Attese;
- L'attività produttiva di cementoamianto si è protratta nello stabilimento
barese fino al 1985, generando una enorme quantità di scarti e residui di
lavorazione, compresi fanghi e polveri di amianto, tutti prodotti qualificati
(con il d.P.R. n.915 del 1982) come rifiuti tossici e nocivi e quindi (con il
d.lgs. n.22 del 1997) come "rifiuti pericolosi";
- L'esistenza di quantità consistenti di rifiuti pericolosi all'interno
dell'area Fibronit, che è situata in adiacenze di zone abitate, viene rilevata
ufficialmente solo nel 1995, quando nel corso di un sopralluogo vengono
ispezionati sia la zona su cu insistevano i capannoni produttivi, sia una vasta
area incolta dove giacciono oltre 100 tonnellate di giunti e tubi di
cementoamianto;
- Una parte dei materiali esistenti risulta essere stata apportata ancora nel
novembre 1994, e cioè ad anni di distanza dalla cessazione delle attività
produttive;
- Nel corso delle attività di controllo, nell'agosto 1995 si è accertato che i
materiali venivano "smaltiti" mediante attività di distruzione e di interramento
all'interno dell'area Fibronit;
- Solo a partire dal 1994 il Comune di Bari ha ritenuto di adottare le prime
misure di cautela: risale al maggio 1996 l'ordinanza sindacale di attivazione
delle procedure volte alla bonifica dell'area, cui fa seguito nel successivo
mese di Agosto la presentazione del piano di lavoro per la bonifica dello
stabilimento;
- Nel frattempo, il 10 ottobre 1995 il Pubblico ministero in sede emette un
provvedimento di sequestro probatorio dell'area in relazione a violazioni degli
artt.25 e 26 del d.P.R. n.915 del 1982, sequestro che cesserà solo nell'agosto
del 1998, essendo state completate secondo il Pubblico Ministero, le attività di
acquisizione probatoria;
- A partire dal novembre 1997 l'area è comunque fatta oggetto di interventi di
"messa in sicurezza";
- Il 23 settembre 1999 nel corso di un nuovo sopralluogo viene accertato che
all'interno di un capannone giacciono abbandonati oltre 70 mc di materiali
contenenti amianto, verosimilmente raccolti nell'ambito della messa in
sicurezza, che si trovavano all'interno di sacchi ("big bags") che risultavano
per una quota privi di data di confezionamento e, per altra quota, confezionati
in parte nel luglio 1997 e in parte nel marzo 1998, mentre altre quantità di
materiali simili, o comunque contenenti amianto, sono abbandonati all'interno di
altri capannoni ed in una diversa area dello stabilimento;
- Negli anni successivi segue uno scambio di comunicazioni tra il Comune e i
responsabili della Fibronit, con una indicazione da parte di questi ultimi delle
attività poste in essere, ivi compreso l'appalto dato per gli interventi di
sicurezza programmati, e con ripetute segnalazioni di inadempimento inviate dal
Sindaco di Bari;
- Nel corso di sopralluogo effettuato il 25 e 27 luglio 2001 i verbalizzanti
accertano il permanere di materiali abbandonati che creano situazioni di
evidente pericolosità e verificarono che solo aree molto limitate avevano subito
interventi di bonifica o messa a norma significativi; accertarono, altresì la
presenza di vani e di rifiuti non inseriti nel "piano generale di sicurezza";
- In data 12 gennaio 2002 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale
di Bari dispone il sequestro preventivo dello stabilimento e delle aree
collegate;
- Un nuovo sopralluogo, effettuato il 23 gennaio 2002, ha portato
all'accertamento della permanenza di situazioni gravemente irregolari;
- Infine, un ultimo sopralluogo è stato effettuato dai consulenti del Pubblico
Ministero il 16 febbraio 2002, ed ancora una volta è emersa la sussistenza di
plurime situazioni irregolari e gravemente pericolose, così come è emerso che il
crescente stato di degrado dell'area e delle strutture esistenti costituisce
elemento destinato ad aggravare la situazione (sentenza Corte Appello,
pagg.9-12);
- Con nuova ordinanza del 26 ottobre 2002 il Sindaco ha ordinato alla
Finanziaria Fibronit in liquidazione di dare corso agli interventi ed ai lavori
prescritti, ivi compresa la integrale rimozione dei materiali contenenti
amianto, con "immediata esecuzione in danno" della società e "ferme restando le
responsabilità relative, anche di carattere penale, degli interventi elencati
nel verbale di sopralluogo del 26 novembre 2001";
- Preso atto dell'inottemperanza da parte della società, il 10 febbraio 2003 il
Comune di Bari ha proposto l'approvazione della spesa di Euro 3.720.000 per
l'esecuzione in danno degli interventi urgenti;
- I consulenti hanno accertato che i casi di decesso riconducibili
all'esposizione all'amianto sono stati tra i dipendenti della Fibronit ben 204,
con esclusione dei decessi per mesotelioma;
- Che i casi di decesso per mesotelioma tra la popolazione barese al dicembre
2003 risultavano essere 119, e di questi: 16 tra ex dipendenti Fibronit, 4 tra
familiari dei dipendenti, 31 tra la popolazione residente attorno all'opificio;
- Che aree circostanti la sede della Fibronit risultavano ancora caratterizzate
da situazione di pericolo.
Sulla base di queste circostanze, la Corte ha analiticamente ripercorso la
motivazione della sentenza di primo grado, esponendone i passaggi essenziali,
con riferimento, soprattutto (pag.29 ss.), al capo A), soffermandosi in
particolare sulla attività di "gestione" (pag.39 ss.), sul tempo del commesso
reato e sulle specifiche condotte attribuite al Sig. Artese (pag.44 ss.), anche
con riferimento ai poteri da costui ricevuti quale co-liquidatore e alle
relative responsabilità, anche quale presidente della società denominata "Beta"
(pag.48 ss; si veda in particolare la nota 98 di pag.53). Anche la motivazione
della sentenza di primo grado con riferimento alle restanti ipotesi
contravvenzionali viene analiticamente esposta (pag.57 ss.), così come le
dichiarazioni di appello presentate ed i relativi motivi (pag.82 ss.).
La motivazione della decisione della Corte di Appello viene esposta nelle
pagine 94 ss. In estrema sintesi:
Capo A) - La Corte di Appello ritiene di confermare il giudizio di
responsabilità formulato dal giudice di prime cure, motivando sia sulla
sussistenza dei presupposti in fatto e dell'elemento soggettivo del reato
contravvenzionale, sia sulla natura permanente del reato (pag.96, con
riferimento anche alla rilevanza del sequestro preventivo dell'area), sia
sull'assenza di violazioni di legge quanto a corrispondenza tra contestazione e
reato ritenuto in sentenza (pag.97 e 98), sia sulla qualificazione giuridica del
fatto (pag.98 e 99);
Capo B) - La Corte ha ritenuto di escludere la sussistenza dell'ipotesi
contravvenzionale prevista dall'art.674 c.p. in quanto non risulta provato il
superamento dei limiti previsti per le emissioni, limiti che, contrariamente
alla tesi della pubblica accusa, non opererebbero esclusivamente per le attività
autorizzate; diversamente opinando, il giudice, svincolato da parametri tecnici,
si troverebbe a "svolgere una funzione curativa" ricorrendo a parametri incerti,
così come avrebbe fatto il giudice di primo grado parlando di "normale
tollerabilità" e di "concreto disturbo". Ciò, a maggior ragione, quando gli
stessi consulenti hanno affermato che le rilevazioni effettuate non consentono
di avere un quadro "effettivamente rappresentativo" della situazione,
circostanza che non può dirsi superata, in assenza di rilevazioni costanti e
precise, dal fatto che polveri provenienti dall'area Fibronit furono rinvenute
sui terrazzi delle abitazioni vicine. Mancherebbe, in conclusione, la prova
della rilevanza delle emissioni.
Capo C) - L'assoluzione del Sig.Artese dal reato di danneggiamento delle sedi
stradali si fonda su due considerazioni: a) che la prova che il danneggiamento
sia avvenuto è stata acquisita con riferimento ad epoca anteriore al 1997 e non
vi è prova di condotte del Sig.Artese che abbiano provocato ulteriori danni,
circostanza decisiva quando non si è in presenza di reato permanente; b) al Sig.Artese
non risultano indirizzate ordinanze sindacali né altri provvedimenti che lo
obbligassero ad intervenire.
Capo D) - La Corte premette (pag.102) che il capo di imputazione risulta, a
proprio parere, errato, nel senso che la commissione del reato non avrebbe
dovuto essere ancorata alla data delle ordinanze sindacali, bensì al momento di
cessazione del reato permanente; ne consegue che lo scadere del sessantesimo
giorno dalla comunicazione dell'ordinanza avrebbe dovuto segnare l'inizio della
permanenza della condotta illecita, non certo la sua cessazione.
A differenza del reato sub A), la contravvenzione sub D) costituisce reato
proprio, cioè esclusivo dei destinatari formali della ordinanza, e l'ordinanza
del marzo 2001 era indirizzata solo al Sig.Cunicolo. Il Sig. Artese fu
successivamente destinatario di altra ordinanza, anch'essa rimasta senza
ottemperanza, ma tale fatto non è stato oggetto di contestazione.
Capo E) - L'assoluzione con la formula "perché il fatto non sussiste" dal reato
previsto dall'art.5 l bis del d.lgs. n. 22 del 1997, è stata motivata con la
circostanza che il capo di imputazione non opera alcun riferimento al
superamento dei limiti di accettabilità fissati dal DM 15/12/1999 n. 471
(emanato in attuazione dell'art.17 del citato d.lgs. n.22 del 1997, articolo cui
opera espresso rinvio l'art.51 bis). Il fatto che l'imputazione rinvii ai
precedenti capi d'imputazione ed alle disposizioni ivi citate quali fonti
dell'obbligo di bonifica non è stato ritenuto sufficiente dalla Corte, che ha
considerato non esaustivo il richiamo del Tribunale alla nota sentenza della
Corte di cassazione del 28 aprile 2000, Pizzuti e che ha richiamato quanto
affermato con riferimento al reato contestato sub B) in ordine al divieto di
interpretazione "creativa". Ha affermato, inoltre, la Corte che "la pur doverosa
tutela dell'ambiente e della salute pubblica non può giustificare scorciatoie o
pragmatismi probatori", così che deve essere rispettata la "nozione rigidamente
formale di inquinamento" introdotta dal reato in esame e capace di soddisfare i
principi di certezza e determinatezza, così che la responsabilità deve essere
ancorata, al pari di quanto previsto dall'art.59 del d.lgs. n.152 del 1999 in
tema di inquinamento delle acque, ad accertamenti tecnici precisi e non a
valutazioni che seguano criteri logico-induttivi come quelli seguiti dal giudice
di prime cure.
Infine, la Corte ha escluso che sussistano prove sufficienti a carico
specificamente del Sig. Artese in ordine al reato in esame. Il principio fissato
dall'art.27 della Costituzione impedisce di ritenere che la titolarità legale di
una società sia sufficiente ad attribuire responsabilità penale, che vanno pur
sempre collegate a condotte specifiche che mettano in collegamento l'imputato
con l'evento inquinamento o con il suo pericolo concreto e attuale.
Quanto all'appello circa le provvisionali concesse dal Tribunale, la Corte di
appello (pag.107 ss.), ha ritenuto di confermare esclusivamente la provvisionale
concessa al Ministero costituitosi parte civile. Solo in questo caso, infatti,
il Tribunale ha esposto i parametri che ha posto a fondamento della
determinazione della provvisionale, seppure determinata espressamente (pag.86
della motivazione della sentenza del Tribunale) "in via equitativa". L'importo
liquidato è inferiore a quello richiesto dall'Avvocatura dello Stato (pari a
Euro 6.746.130). La Corte evidenzia che né nei motivi di appello né nella
discussione la difesa del Sig.Artese ha contestato i criteri seguiti per la
quantificazione dell'importo citato.
Al contrario, per tutte le altre parti civili il Tribunale non avrebbe esposto
in alcun modo gli elementi su cui fondava l'esistenza certa di un danno e del
suo ammontare, così che sul punto la sentenza non viene confermata.
Deve segnalarsi, infine, che il dispositivo della sentenza della Corte di
appello, in contrasto con quanto esposto in motivazione, al punto 3 fissa in
soli 5.000 Euro la provvisionale concessa al Ministero dell'ambiente e della
tutela del territorio.
Avverso la sentenza della Corte di Appello hanno presentato ricorso la Procura
Generale della Repubblica in sede, le parti civili costituite (WWF e CODACONS),
il Sig.Artese ed i suoi difensori.
1. Il ricorso della Procura Generale della Repubblica lamenta la
violazione ai sensi dell'art.606, comma 1, lett. b e lett. e) c.p.p. con
riferimento alla decisione di assoluzione dell'imputato dal reato indicato al
capo B) con la formula "perché il fatto non sussiste" e per quello indicato al
capo D) con la formula "per non avere commesso il fatto". A parere del
ricorrente, infatti, la motivazione su questi punti risulterebbe manifestamente
illogica e contraddittoria e vi sarebbe stata erronea interpretazione delle
norme penali.
Rileva il ricorrente che la Corte, condannando il Sig.Artese per i fatti
contestati al capo A) della rubrica, ha accertato il protrarsi fino al 2003
delle condotte illecite e pericolose, così che non si comprendono le ragioni per
cui non sussisterebbe la responsabilità dell'imputato anche per le violazioni
sub 13) e D).
1.a - Quanto alla contravvenzione ax art.674 c.p., contestata al capo B),
e cioè la dispersione nell'aria di fibre di amianto provenienti dai materiali
illecitamente stoccati, il ricorrente evidenzia come la sentenza si fondi sul
richiamo alla recente giurisprudenza di legittimità che ha interpretato la
locuzione "nei casi non consentiti dalla legge" nel senso che non sussisterebbe
violazione penale nei casi in cui - come in quello di specie - gli accertamenti
compiuti escludano che la presenza nell'aria di agenti inquinanti superi i
valori fissati dalle specifiche disposizioni di legge. Osserva il ricorrente che
tale impostazione è pienamente condivisibile quando si versi in ipotesi di
attività legittimamente poste in essere dal cittadino, ma non può essere accolta
quando si sia in presenza di un'attività abusiva o comunque illecita. In questo
caso, infatti, le "molestie" che le sostanze presenti nell'aria possono
apportare alla collettività derivano da una condotta posta in essere al di fuori
dei parametri di legalità, così che non possono essere ricondotte all'interno di
quella "presunzione di legittimità" che deriva dal mancato superamento dei
limiti legali.
In questo senso, e cioè con conclusioni più aderenti al fatto contestato al Sig.
Artese, si sarebbe espressa la giurisprudenza di legittimità che ha individuato
la sussistenza dei presupposti di applicazione dell'art.674 c.p. con riferimento
ai contenuti del provvedimento autorizzatorio, così che solo per le attività
regolarmente autorizzate possono assumere valore i limiti quantitativi fissati
dalla normativa in vigore.
Erroneamente, dunque, la sentenza impugnata avrebbe fatto derivare la soluzione
assolutoria dalle semplice mancanza di prove del superamento dei limiti
quantitativi in vigore, del tutto trascurando la premessa delle emissioni: e
cioè il fatto che tali emissioni, sicuramente avvenute, trovano la loro causa
nella natura abusiva della discarica esistente.
E non solo, perché la sentenza impugnata presenterebbe, secondo il ricorrente,
un secondo ordine di vizi logici e giuridici. Nel ritenere non provato il
superamento dei limiti di tollerabilità, la Corte di Appello avrebbe omesso del
tutto di considerare il dettato della normativa fondamentale in tema di amianto:
la legge 27 marzo 1992, n.257. Tale legge ha reso in radice illegale ogni
attività che comporti estrazione, trasporto e impiego dell'amianto (art.1),
prevedendo come uniche eccezioni (art.3) i casi delle attività produttive in cui
sia possibile trasformare o smaltire o bonificare l'amianto; solo in questi casi
avrebbero efficacia i limiti quantitativi, le soglie di tollerabilità fissate. A
conferma di queste conclusioni il ricorrente evidenzia che il citato art.3 opera
un rinvio all'art.3 i del decreto legislativo 15 agosto 1991, n.227;
disposizione questa, che non a caso si riferisce ai soli luoghi di lavoro ed
alla salute dei lavoratori.
In conclusione, il ricorrente chiede che la sentenza venga censurata per avere
erroneamente - e cioè operando un riferimento a limiti di tollerabilità non
applicabili all'ipotesi di inquinamento causato da discarica abusiva - escluso
la sussistenza della contravvenzione contestata.
1.b - Quanto alla assoluzione "per non avere commesso il fatto" riferita al
capo D) della contestazione - e cioè violazione dell'art.50, comma 2 in
relazione all'ultima parte dell'art.14, comma 3 del citato d.lgs. n.22 del 1997,
il ricorrente lamenta la contraddittorietà della motivazione. La Corte di
Appello, infatti, ha escluso la responsabilità del Sig. Artese sulla base della
circostanza che le ordinanze sindacali non ottemperate erano state intestate e
indirizzate al solo Sig. Cuniolo. Tale conclusione si porrebbe in contrasto con
le circostanze che la stessa Corte ha ritenuto pacifiche, ed in particolare con
la circostanza che i Sigg. Artese e Cunicolo era stati nominati entrambi
liquidatori e, dunque, legali rappresentanti della società destinataria delle
ordinanze; per mero errore le ordinanze si dirigono al Sig. Cuniolo, ancora
qualificato come "presidente" della Finanziaria Fibronit Spa in un momento in
cui la società era in liquidazione ed egli rivestiva, unitamente al Sig. Artese,
la qualità di liquidatore. In conclusione, la natura propria del reato
contestato non comporterebbe affatto la non responsabilità del Sig. Artese,
posto che occorrerebbe fare riferimento non al formale destinatario delle
ordinanze, bensì all'incarico di rappresentanza legale ricoperto effettivamente,
come dimostra il fatto che in più occasioni fu lo stesso Sig. Artese a
indirizzare all'amministrazione comunale le formali risposte alle ordinanze
sindacali.
2. Il ricorso della parte civile CODACONS Onlus si articola attorno a
plurimi motivi, che possono così sintetizzarsi:
2.a - quanto al capo B) della rubrica: violazione ai sensi dell'art.606
c.p.p. in relazione all'art.674 c.p., alla legge 27 marzo 1992 n.257 e al D.M. 6
settembre 1994, per avere la sentenza erroneamente escluso la responsabilità del
Sig.Artese per la contravvenzione sub B) ritenendo carente la prova del
superamento dei limiti fissati dal D.M. citato. Erroneamente la sentenza avrebbe
omesso di considerare il limite fissato dal D.M. 8 agosto 19994 e il fatto che
la legge 27 marzo 1992, n.257, agli artt.2 e 3, vieta ogni forma di trattamento
e dispersione di amianto, con l'unica eccezione dei luoghi di lavoro in presenza
di severissime cautele (D.M. 6 settembre 1994). Con la conseguenza che in tutti
i casi diversi la contravvenzione sarebbe integrata da qualsiasi dispersione,
anche di una sola fibra di amianto, circostanza che la sentenza ritiene provata
(pag.55).
2.b - Quanto al capo C) della rubrica: violazione ai sensi
dell'art.606 c.p.p. in relazione all'art.635 c.p. per manifesta
contraddittorietà della motivazione. Dopo avere riconosciuto che il
danneggiamento delle strade vi fu (pag.34 e 35), la motivazione
irragionevolmente omette di considerare che questo si protrasse anche durante il
periodo in cui il Sig.Artese fu liquidatore della soc.Fibronit: si veda pag.62
della sentenza di primo grado là dove afferma che ancora il 16 febbraio 2002 le
strade limitrofe erano impregnate di amianto.
2.c - Quanto al capo D) della rubrica: violazione ai sensi dell'art.606
c.p.p. e dell'art.50, comma 2 del citato d.lgs. n.22 del 1997 per erronea
applicazione di legge. Erroneamente la sentenza attribuisce l'obbligo di
adempimento alla sola persona fisica individuata nelle ordinanze, perché, in
ottemperanza del principio fissato dall'art,27 Costituzione, la responsabilità
gestionale fa capo a tutti i rappresentanti legali della società.
2.d - Quanto al capo E) della rubrica: violazione ai sensi dell'art.606
c.p.p. in relazione all'art.192 c.p.p. per erronea applicazione della legge
penale e contraddittorietà della motivazione. Il principio del libero
convincimento del giudice impone allo stesso giudice una rigorosa valutazione
del complessivo quadro probatorio, così che l'assenza di campionamenti non
potrebbe essere sufficiente ad escludere la responsabilità del Sig.Artese in
presenza di numerosi e diversi ulteriori elementi di prova a suo carico. Il
ricorrente non comprende come la sentenza impugnata possa fondare su un
precedente giurisprudenziale in tema di sospensione condizionale subordinata al
ripristino o alla bonifica del luoghi (Cassazione n.35501/2006, Spadetto, della
III Sez.Pen.) una valutazione negativa in tema di sufficienza del quadro
probatorio, e ciò dopo avere più volte riconosciuto l'esistenza di una
situazione di gravissimo e protratto inquinamento (pagg.3, 4, 9, 31 e 32).
2.e - Quanto alla disposta revoca della provvisionale, erroneamente il
giudice di appello avrebbe omesso di considerare che la certezza del danno (mai
messa in dubbio dalla stessa sentenza) e la sua liquidabilità secondo equità
sono elementi sufficienti per concedere la provvisionale.
3. Il ricorso della parte civile WWF Onlus si articola attorno ai
medesimi motivi articolati dalla parte civile Co.Da.Cons, così che è sufficiente
rinviare a quanto appena esposto, anche in tema di revoca della provvisionale.
4. Il ricorso presentato dal Sig.Artese. Con atto di ricorso depositato
il 5 dicembre 2005 il Sig.Artese propone impugnazione avverso: a) la citata
sentenza della Corte di Appello 21 Ottobre 2005; b) l'ordinanza dibattimentale
del 21 Ottobre 2005 che rigettava una istanza di sospensione del dibattimento in
relazione all'attività ispettiva in corso presso la sede della ditta Fibronit;
c) l'ordinanza dibattimentale in pari data con cui la Corte ha rigettato
l'istanza di rinnovazione parziale del dibattimento; d) l'ordinanza con cui è
stata dichiarata manifestamente infondata la questione incidentale di
legittimità costituzionale, in quanto non sollevata nei motivi di appello, con
riferimento all'applicazione della nozione di "reato permanente".
Il ricorso si articola attorno a undici diversi motivi, così riassumibili:
Per quanto concerne la SENTENZA DEL 21 OTTOBRE 2005:
4.1 - con riferimento al capo A) della rubrica: violazione ai sensi
dell'art.606, co.1, lett,b) c.p.p. in relazione agli artt. 81, 110 c.p., 51, co.3,
27, 28 ss. D.lgs. n.22 del 1997 per erronea applicazione della legge. La
condanna per reato continuato non sarebbe stata in alcun modo motivata con
riferimento al reato continuato ritenuto sussistente. Mancherebbe in motivazione
ogni riferimento all'inizio delle condotte, alle violazioni, alla cessazione
delle condotte, alla più grave delle violazioni, alla natura omogenea oppure
eterogenea delle condotte; parimenti manca ogni indicazione sulla pena base e
sull'entità degli aumenti.
Sempre con riferimento al capo A), il medesimo motivo introduce una diversa
doglianza, concernente questa volta la stessa sussistenza della fattispecie
disciplinata dall'art.51, comma 3 del citato d.lgs. n.22 del 1997, ritenendo non
conferente il richiamo agli artt.27 e 28 della medesima legge, che disciplinano
l'attivazione di un nuovo impianto di smaltimento dei rifiuti o di un deposito
temporaneo, e, dunque, una radicale incoerenza nella stessa contestazione così
come accolta in sentenza.
Infine, si lamenta l'assoluta carenza di motivazione circa l'applicazione
dell'art.110 c.p., così che o si versa in ipotesi di mancanza di motivazione,
oppure la condanna ha avuto, irritualmente, riguardo ad un reato monosoggettivo.
4.2 - sempre con riferimento al capo A) della rubrica: violazione ai
sensi dell'art.606, co.1, lett.e) c.p.p. per manifesta illogicità della
motivazione, emergente dallo stesso testo del provvedimento, con riferimento ai
"tempi distinti" della condotta incriminata. Sostiene il ricorrente che non
versandosi in ipotesi di reato continuato - ipotesi su cui la sentenza non
avrebbe in alcun modo motivato - nessun pregio può avere il richiamo ai "tempi
distinti" quando si è in presenza di "leggi miste alternative". Nel caso di
specie la nonna incriminatrice sanzione chiunque "realizza o gestisce una
discarica non autorizzata", e ciò, a detta del ricorrente descrive "un reato che
si perfeziona indifferentemente sia con la realizzazione ... sia con la gestione
della discarica abusiva", per cui "la contestualità nel tempo o la
frazionabilità del comportamento ... sono del tutto indifferenti ai fini della
sussistenza del reato, apparendo come modalità equipollenti della condotta di
contrasto con la legge penale...".
Ciò che la sentenza non affronta è quale sia il legame fra la condotta ascritta
al Sig.Artese ed i tempi distinti di essa, né quale sia la sua condotta
riconducibile ad una contestazione che riguarda fatti commessi dal 1995 al 2002,
quando è pacifico che egli assunse la qualità di liquidatore solo il 14 maggio
1997, e cioè (pare di capire) dopo che la fattispecie di reato si sarebbe ormai
perfezionata.
In particolare, osserva il ricorrente che la Fibronit aveva predisposto un piano
di risanamento dell'area industriale fin dal 20 agosto 1996; che la diffida ad
adempiere era stata intimata dal Comune di Bari alla Fibronit il 2 maggio 1997,
e cioè prima dell'ingresso del Sig.Artese nell'incarico di liquidatore; che il
Sig.Artese ha nel tempo, a partire dal 20 maggio 1997 fino al 30 novembre 2001,
presentato plurimi piani di risanamento, così che va escluso che egli abbia mai
"gestito" una discarica abusiva, considerando anche che i conferimenti di
materiale sono cessati il 30 dicembre 1996, prima cioè del suo ingresso nella
società, e che, comunque, a tale data andrebbe fissata la cessazione delle
contravvenzioni, con conseguente prescrizione dei reati al 30 giugno 2001.
4.3 - Ancora con riferimento al capo A): violazione ai sensi
dell'art.606, lett.e) c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione. In
particolare si lamenta che la sentenza dedichi la maggior parte delle sue
argomentazioni alle condotte di accumulo ed interramento dei materiali, condotte
pacificamente cessate nel 1996 e quindi non riferibili al Sig.Artese. Tale
circostanza dimostrerebbe che la Corte di Appello ha seguito il percorso
argomentativo del primo giudice, con conseguenti aporie e contraddizioni
insanabili, anche a seguito della assenza nel presente giudizio dei presunti
concorrenti nel reato.
4.4 - Ancora con riferimento al capo A): violazione ai sensi
dell'art.606, lett.e) c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione. In
particolare si lamenta l'illogicità della motivazione con riferimento alle
condotte ascritte al Sig.Artese relative all'utilizzo dei capannoni e dell'area
contrassegnata in planimetria come "Z", alla raccolta di rifiuti pericolosi in
sacchi, alla conservazione di materiale contenente amianto ed in pessimo stato
di conservazione. Erroneamente la sentenza omette di considerare che fino
all'ottobre 1999 i legali rappresentanti Fibronit hanno operato ogni operazione
possibile a tutela dell'ambiente, fronteggiando eventi imprevisti (come
l'incendio del capannone "D5") e inadempienze contrattuali di terzi (quali la
SAT Impianti Sri), così come omette di considerare che gli accertamenti tecnici
hanno sempre rilevato che i valori esistenti sull'area e attorno ad essa si
conservavano al di sotto dei limiti fissati dal DM 6 settembre 1994 e dall'OMS
e, infine, che ancora successivamente alla cessazione del Sig.Artese
dall'incarico la situazione di fatto non è mutata, neppure dopo che il sito è
stato preso in carico dagli enti territoriali costituitisi poi parte civile. Ciò
dimostrerebbe che il Sg.Artese ha fatto quanto era in suo potere per gestire al
meglio la situazione che ha rinvenuto all'atto dell'assunzione dell'incarico di
liquidatore.
4.5 - Ancora con riferimento al capo A): violazione ai sensi
dell'art.606, lett.a) c.p.p. per abnormità della sentenza nella parte in cui
crea la nozione di reato permanente quale nozione rilevante ai fini della
prescrizione. Considerato che il capo di imputazione reca la menzione
dell'art.81 cpv. c.p., la sentenza avrebbe dovuto chiarire definitivamente in
cosa consista il concetto di permanenza, cui la sentenza di primo grado dedica
appena un cenno a pag.44. Nulla quaestio, ovviamente, qualora la permanenza si
traducesse in un istituto applicabile in bonam partem, unificando in unica
figura di reato tutti gli aspetti oggetto del capo di imputazione. Se, invece,
l'istituto si traduce in una applicazione in malam partem, allora occorre che ne
sia chiarito in modo definitivo il fondamento normativo, evitando ogni soluzione
"creativa" e rispettando i principi di tassatività e legalità della fattispecie.
La sentenza si esprime per l'esistenza di una condotta protrattasi fino al 15
gennaio 2003 che avrebbe provocato un'alterazione permanente dello stato dei
luoghi. Tale alterazione per il ricorrente non ha niente a che vedere con la
natura permanente del reato, posto che essa rappresenterebbe una conseguenza
esterna rispetto alla condotta eventualmente posta in essere. Nel caso di specie
non sussisterebbe alcuno dei requisiti del reato permanente, nella sua accezione
non fattuale ma giuridica, posto che esso è caratterizzato non dalla distruzione
del bene protetto, ma solo dalla sua compressione, così che col cessare della
permanenza l'offesa viene a cessare ed il bene protetto torna ad espandersi.
Circostanze che la stessa sentenza esclude caratterizzino i fatti oggetto del
presente giudizio.
Così stando le cose, l'applicazione dell'art.158 c.p. quale conseguenza della
ritenuta permanenza rappresenta una applicazione in malam partem che non
è consentita dal nostro ordinamento. In realtà la condotta punibile ascritta al
Sig.Artese ha inizio, secondo la contestazione, il 14 maggio 1997 e, applicando
i termini prescrizionali per il reato continuato, i fatti sono soggetti a
prescrizioni che sarebbe maturata, al più tardi, il 14 novembre 2002.
4.6 - Quanto alla confisca dell'area in sequestro: violazione ai sensi
dell'art.606,1ett.b) c.p.p. in relazione all'art.51, comma 3 del citato d.lgs.
n.22 del 1997 per erronea applicazione della legge. La sentenza, non risolvendo
i dubbi circa la proprietà dell'area, già lasciati irrisolti dalla decisione di
primo grado, dispone la confisca degli immobili. Premesso che in atti non è
stato rinvenuto l'originale del provvedimento di sequestro preventivo - che i
giudici hanno acquisito in copia incompleta - il ricorrente lamenta che. A) non
vi è prova alcuna che l'area su cui insiste la discarica sia di sua proprietà, e
che i giudici non hanno apprezzato correttamente la circostanza che la
"Finanziaria Fibronit Spa" è rimasta del tutto estranea al processo; b) che la
confisca può essere disposta solo nel caso di "realizzazione" di una discarica
abusiva, condotta che non può essere addebitata al Sig.Artese, eventualmente
responsabile di condotta di gestione di una discarica che altri avevano in
precedenza realizzato.
4.7 - Quanto alle statuizioni civili: violazione ai sensi dell'arrt.606,
lett. e) c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo
del provvedimento. Premesso che erroneamente la Corte di Appello ha affermato
che il Sig.Artese avrebbe proposto appello solo per le statuizioni in tema di
provvisionale, e non anche in tema di responsabilità civile (in realtà,
impugnando la sentenza negli aspetti attinenti la responsabilità penale egli
avrebbe "implicitamente" contestato anche gli aspetti relativi alla condanna al
risarcimento dei danni), il ricorrente lamenta che la sentenza non avrebbe
adeguatamente motivato in ordine alla causazione del danno e, in particolare,
alle conseguenze derivanti sul punto dall'assoluzione del Sig.Artese per tutti
gli altri capi di imputazione.
Inoltre, del tutto incoerente appare la riduzione in sentenza della
provvisionale in favore del Ministero a soli 5.000,00 Euro (a fronte
dell'importo di 5 milioni di Euro statuito in prime cure) senza che sul punto si
motivi adeguatamente e senza che se ne faccia derivare una almeno parziale
compensazione delle spese fra imputato e Ministero. Altrettanta incoerenza
sussiste in sentenza nella misura in cui, ritenuta assente la prova in ordine
alla presenza fattuale di particelle inquinanti nell'aria, si considera comunque
sussistente un danno risarcibile in favore delle parti civili.
Da tutto ciò avrebbe dovuto discendere l'obbligo per la Corte di Appello di
condannare le parti civili alla rifusione delle spese processuali sopportate dal
ricorrente (pari ad Euro 12.000,00 oltre Iva ed accessori), nonché a risarcire
con Euro 100.000,00 i danni causati al ricorrente stesso mediante il gravemente
colposo esercizio dell'azione civile in sede penale, con provvisionale pari ad
Euro 45.000.000,00 (quarantacinque milioni), oltre accessori. Tale richiesta
viene meglio chiarita al punto 8 che segue: avendo le parti civili eseguito gli
accertamenti tecnici, ben avrebbero dovuto sapere che le particelle di amianto
presenti nell'aria non superavano la soglia di tollerabilità, così che la loro
azione civile é stata promossa pur sapendo che non vi era alcun danno da
calcolare e risarcire.
Conseguentemente si richiede la sospensione dell'esecuzione della condanna
civile ai sensi dell'art.612 c.p.p.
4.8 - Con riferimento alla condanna ai danni ed alle spese: violazione ai
sensi degli artt.606, co.1, lett. b), 539 e 541 c.p.p. per erronea applicazione
della legge. L'iter logico della sentenza appare contraddittorio nella parte in
cui, dato per assodato che il giudice di prime cure aveva determinato le
provvisionali con criterio equitativo, afferma che il giudice avesse in atti la
prova che i danni risarcibili in favore del Ministero costituitosi parte civile
ammontassero ad Euro 6.746.13,00, secondo il prospetto prodotto in giudizio
dallo stesso Ministero. Erroneamente la sentenza impugnata afferma che la difesa
del Sig.Artese non ha contestato i calcoli prodotti dalle parti civili, perché,
come già esposto, il ricorrente afferma di avere impugnato la sentenza di primo
grado anche sul punto responsabilità civile "implicitamente" in quanto ha agito
in sede di appello per ottenere una sentenza assolutoria. Non solo, ma la Corte
di Appello ha omesso di considerare che il Sig.Artese in sede di conclusioni
aveva richiesto (ed in sede di ricorso per cassazione ribadisce tale richiesta)
la condanna delle parti civili a rifondergli le spese sopportate ed i danni
subiti.
Ciò detto, il ricorrente evidenzia che le parti civili hanno chiesto un
risarcimento con riferimento a tutti i reati contestati al Sig.Artese, senza
operare alcuno specifico riferimento al nesso causale fra i danni richiesti e le
condotte contestate al capo A). Ne consegue che la richiesta è priva di ogni
specificità sia con riferimento al nesso causale, sia con riferimento all'an ed
al quantum del danno riconducibile eventualmente all'unico reato per cui vi è
stata affermazione di responsabilità. Tale vizio travolge anche le richieste in
punto di provvisionale.
Con riferimento alle ORDINANZE DIBATTIMENTALI impugnate:
4.9 - Quanto alla mancata sospensione del dibattimento: violazione ai
sensi dell'art.606, co.1, lett.c) c.p.p. in relazione agli artt. 178, lett. c) e
185 c.p.p. per violazione delle norme processuali stabilite a pena di nullità. A
fronte di una richiesta di sospensione del giudizio avanzata dalla parte civile
Regione Puglia, la Corte di Appello ha ritenuto che l'esistenza di una attività
ispettiva sugli immobili oggetto dell'imputazione, e gli eventuali documenti che
in tale contesto si sarebbero prodotti, la difesa del Sig.Artese ha instato
perché la sospensione venisse concessa, in modo da comprendere gli estremi e le
caratteristiche dell'attività ispettiva e di poterne valutare la rilevanza ai
fini della propria difesa. La Corte ha, invece, considerato che le attività in
parola dedotte non rivestissero rilievo probatorio nell'ambito del processo, ed
ha pertanto respinto l'istanza. A parere del ricorrente non solo la Corte ha
erroneamente motivato tale decisione con il richiamo all'art.16, comma 11 bis
del d.lgs. n.22 del 1997 - dovendo eventualmente richiamare il successivo
art.17, comma 11 bis - ma ha omesso di considerare che non si era in presenza di
mera attività amministrativa, bensì di attività che, svolta dalla polizia
giudiziaria, presentava dirette connessioni con le previsioni di accesso, messa
in sicurezza e prevenzione dei danni che concernono direttamente l'autorità
giudiziaria. Erroneamente, dunque, la Corte ha respinto l'istanza senza
consentire alla difesa di valutare la rilevanza probatoria delle nuove attività
con riferimento al processo in corso.
4.10 - Quanto alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale:
violazione ai sensi degli artt.606, co.1, lett. b), 495 e 603 c.p.p. per erronea
applicazione della legge. L'istanza di4ensiva, volta a rinnovare parzialmente il
dibattimento al fine di escutere alcuni testi, è stata rigettata dalla Corte di
Appello per più ragioni: tardività, non essendo inclusa nei motivi di i
impugnazione; non necessità dell'escussione dei testi; estraneità rispetto al
devolutum (trattandosi di circostanze estranee ai tempi distinti della
condotta dell'appellante) in quanto le testimonianze erano state invocate con
riferimento al reato previsto dall'art,674 c.p.
In realtà, secondo il ricorrente, le testimonianze sarebbero risultate
rilevanti, avendo ad oggetto la alterazione permanente dei luoghi, ed essendo
elementi sopravvenuti non avrebbero dovuto incorrere in censure di non
tempestività.
Evidentemente la Corte ha posto in relazione il tema della alterazione
permanente con la contravvenzione ex art. 674 c.p. ed omesso ogni valutazione in
ordine al legame con le condotte contestate al Sig.Artese al capo A).
4.11 - Quanto alla questione di legittimità costituzionale in relazione
all'art.23 della legge 11 marzo 1953, n.23: erronea applicazione della legge
per essere stata la questione ritenuta manifestamente infondata e non proposta
ritualmente con i motivi di appello. Premesso che l'art.24 della citata legge
n.23 del 1953 prevede che la questione possa essere riproposta all'inizio di
ogni grado di giudizio, il ricorrente insiste nella questione, censurando la
decisione della Corte di Appello che ha impropriamente ritenuto esistente
un'analogia strutturale tra reato permanente e reato continuato ed una
consonanza tra reato permanente e reato abituale, con il risultato di giungere
ad una applicazione in malam partem che pone 1'art.158 c.p. in contrasto con gli
artt.25 e 3 della Costituzione.
5. Il ricorso presentato dalla difesa del Sig.Artese. Accanto ai motivi
di impugnazione presentati dal Sig.Artese per mezzo dei suoi difensori, e come
sopra sintetizzati, sempre in data 5 dicembre 2005 la difesa ha presentato
ulteriori e diversi motivi di ricorso, così riassumibili: Violazione ai sensi
dell'art.606, co.1, lett. b), e) ed e) in relazione agli artt.516, 521 e 522
c.p.p., nonché art.530 c.p.p., nonché 40 e 42 c.p.
5.1 - Con riferimento al capo A) della rubrica, erroneamente la sentenza
di secondo grado avrebbe escluso la sussistenza di un vizio nella
correlazione fra accusa e decisum, non ritenendo pregiudizievole per
la difesa che né la condanna in sede di appello abbia riferimento ad una ipotesi
contravvenzionale, e non ad ipotesi dolosa, né che la decisione escluda
l'ipotesi di concorso con il Sig.Galvani, predecessore del Sig.Artese nella
gestione societaria.
A fronte di tale valutazione della Corte di Appello, la difesa segnala che nella
contestazione iniziale le condotte addebitate al Sig.Artese avevano carattere
doloso e commissivo, mentre la sentenza di primo grado aveva finito col
ritenerlo responsabile per un reato omissivo improprio. Si tratta di condotte
ontologicamente diverse tra loro, e tale circostanza non risulta meno grave per
il fatto che il reato ritenuto in sentenza abbia natura contravvenzionale, posto
che il pubblico ministero avrebbe comunque avuto l'obbligo di modificare la
contestazione ai sensi dell'art.516 c.p.p. Da tale violazione dell'obbligo di
modificare espressamente la contestazione discenderebbe, a parere della difesa,
la violazione da parte del giudice dell'obbligo di trasmissione degli atti al
pubblico ministero, con conseguente nullità dell'intera procedura ai sensi
dell'art.522 c.p.p.. Si chiede pertanto che il giudice di legittimità annulli la
sentenza impugnata, ai sensi degli artt.521 e 522 c.p.p., con restituzione degli
atti al pubblico ministero competente.
5.2 - Sempre con riferimento al capo A), erroneamente la sentenza ha
omesso di mandare assolto il Sig.Artese rispetto alla condotta di
"realizzazione" della discarica. Posto che l'art. 51 del citato d.lgs. n.22
del 1997 ricomprende due distinte condotte, di realizzazione e di gestione della
discarica, e posto che è pacifico che il Sig.Artese assunse cariche sociali dopo
che la presunta discarica era stata realizzata da altri, la difesa chiede che il
giudice di legittimità escluda la sussistenza delle condotta di realizzazione,
annulli sul punto la sentenza di appello e riduca conseguentemente la pena
inflitta.
5.3 - Ancora con riferimento al capo A), la difesa lamenta l'erronea
qualificazione giuridica del fatto, che avrebbe dovuto essere ricondotto
alla diversa ipotesi prevista dall'art.50, comma 1, oppure 51, comma 2 del
d.lgs. n.22 del 1997. Tale doglianza si riferisce al fatto che per il Sig.
Artese la sentenza riterrebbe addebitabile esclusivamente la fase conclusiva
delle condotte contestate, ed in particolare il solo avere ammassato 70 mc. di
materiale non avviato a discarica, con la conseguenza che avrebbe dovuto
parlarsi di deposito temporaneo incontrollato. Se così fosse stato deciso, la
Corte di Appello avrebbe dovuto prendere atto che il reato era cessato comunque
il 2 maggio 2001, e cioè 60 giorni dopo l'ordinanza sindacale del 2 marzo 2001,
posto che, secondo la difesa, ai sensi "dell'art.8, comma 4 del D.Min. 471 del
1999" in caso di mancata individuazione o di inerzia del responsabile
dell'inquinamento scatta l'obbligo di intervento degli enti territoriali, i
quali divengono responsabili giuridici degli interventi di bonifica, con la
conseguenza che i loro ritardi non possono riverberarsi in danno del Sig.Artese.
Ciò senza considerare che, nella contraddizione esistente alle pagine 95 e 96
della sentenza impugnata circa le attività di bonifica e di messa in sicurezza,
la motivazione alla pagina 97 finisce per addebitare all'Artese una condotta
meramente negligente, di mancata rispetto alle inerzie del co-liquidatore, Sig.Cuniolo.
La sentenza deve quindi essere annullata.
5.4 - Erronea individuazione della data di commesso reato con riferimento al
capo A) della rubrica. La difesa lamenta che il giudice dell'appello abbia
erroneamente superato la prospettiva di una cessazione del reato nel momento in
cui, il 12 gennaio 2002, intervenne un provvedimento di sequestro preventivo,
ritenendo invece di fissare tale momento alla data del 15 gennaio 2003, e cioè
alla data del decreto di citazione a giudizio.
La natura giuridica e le finalità del sequestro preventivo, così come
riconosciute in via generale da plurime decisioni della Corte di Cassazione e
dalla stessa motivazione adottata dal giudice delle indagini preliminari
(necessità di interrompere un reato permanente i cui effetti erano ancora in
atto), avrebbero imposto alla Corte di Appello di ritenere cessate le condotte
criminose alla data del 12 gennaio 2002.
6. I motivi nuovi
Con atto depositato il 1° marzo 2007, la difesa del Sig. Artese ha presentato
motivi nuovi in relazione al regime introdotto dal T.U. in materia di ambiente
del 3 aprile 2006, n.152. In particolare si sostiene che gli artt.192 e 255 di
tale disciplina avrebbero "depenalizzato" le condotte ascritte al Sig. Artese
mediante la introduzione di ipotesi di "abbandono" e "deposito incontrollato"
dei rifiuti per le quali sono previste sanzioni extra penali.
Infine, si sollecita l'applicazione dell'art.257 del T.U. in parola, sul
presupposto che l'assoluzione del Sig.Artese dai reati contestati ai capi da 13)
ad E) dimostrerebbe la sussistenza di condotte di osservanza dei progetti di
risanamento, con conseguente obbligo per il giudice di applicare la condizione
di non punibilità prevista dalla disposizione citata.
7. Le specifiche istanze successive ai moti d'impugnazione
Successivamente alla presentazione dei motivi d'impugnazione sono state
depositate due istanze.
7.a - Con memoria ai sensi dell'art.8 della legge n.46 del 2006, la difesa
del Sig.Artese ha chiesto:
1. che la Corte voglia dichiarare non doversi procedere nei confronti del
ricorrente per essere il reato estinto per prescrizione. Posto che la legge 5
dicembre 2005, n.251, all'art.6, comma 2 ha modificato l'art.158, comma l c.p.
nel senso di far decorrere il termine prescrizionale dalla data di inizio della
consumazione del reato continuato, data che va fissata al 14 maggio 1997, il
termine massimo di prescrizione, pari ad anni 4 e mesi 6, risulterebbe decorso.
Il tutto ferme restando le richieste avanzate nei motivi di ricorso in tema di
pregiudiziale di costituzionalità e di condanna delle parti civile costituite a
risarcire i danni causati al Sig.Artese.
2. che la Corte voglia ritenere applicabile al caso di specie lo jus
superveniens costituito dalla modifica all'art. 533 c.p.p., come novellato
dall'art.5 della legge 20 febbraio 2006 n.46, e quindi accogliere anche sotto
questo profilo il ricorso principale e mandare assolto il ricorrente;
3. che la Corte voglia ritenere applicabile al caso di specie lo jus
superveniens rappresentato dalla modifica all'art.606, comma 1, lett. d)
c.p.p. apportate dall'art.8 della citata legge n.46 del 2006 con riferimento
alla mancata assunzione di prova "decisiva";
4. che la Corte voglia ritenere applicabile al caso di specie lo jus
superveniens rappresentato dalla modifica all'art.606, comma 1, lett. e)
c.p.p. apportate dall'art.8 della citata legge n.46 del 2006 con riferimento al
vizio di motivazione in relazione agli atti del procedimento specificamente
indicati nel ricorso, atti che consistono nelle già richiamate ordinanze di
reiezione delle istanze di sospensione e di rinnovazione del dibattimento
(motivi di ricorso n.9 e 10).
7.b - L'Avvocatura dello Stato, in favore del Ministero dell'ambiente e
delle tutela del territorio, in data 6 Ottobre 2006 ha presentato "rinnovazione
di istanza di correzione sentenza", segnalando che non può non costituire
mero errore materiale la riduzione da 5 milioni a 5 mila Euro dell'importo della
provvisionale disposta dalla sentenza di appello in favore del predetto
Ministero. Si tratta di errore evidente che può trovare oggi correzione alla
luce di plurime decisioni della Corte di Cassazione (Sez.III Pen., 11/4/1994,
Bessone; Sez.V Pen., 13/11/2003, Aragona). In effetti, su istanza del Tribunale
di Bari, la Corte di Appello ebbe a fissare per la data dell'8 giugno 2006 una
udienza per la correzione dell'errore; nel corso dell'udienza, preso atto della
proposizione dei ricorsi per cassazione, la Corte di Appello decide si rimettere
gli atti al giudice di legittimità per ragioni di competenza.
OSSERVA
1. Come esposto nelle pagine che precedono, la complessa e ampiamente motivata
sentenza della Corte di Appello di Bari è stata oggetto, al pari della
altrettanto articolata sentenza del Tribunale di Bari, di censure che riguardano
sia le statuizioni in ordine alla responsabilità penale del ricorrente, sia in
ordine alla contestazione mossa dalla pubblica accusa ed alla sua gestione
processuale, sia in ordine alle statuizioni civili. Ritiene la Corte che,
alla luce del dispositivo qui adottato, sia opportuno prendere in esame
preliminarmente le questioni di ordine processuale, così da sgombrare il
campo dalle censure di metodo prima di passare all'analisi dei contenuti
relativi alla sussistenza dei reati ed alle conseguenze civili che sono ad essi
riconnesse.
2. La corrispondenza tra accusa e decisum
Il ricorrente ha argomentato in modo ampio in ordine alla violazione del
principio di corrispondenza tra accusa e decisione, lamentando di non essere
stata messa in grado di adeguatamente difendersi. Ciò sotto più aspetti: a)
l'essere stata contestata al Sig.Artese una ipotesi di concorso nel reato senza
che siano stati definiti in modo chiari i termini fattuali ed i rapporti con i
presunti concorrenti, rimasti estranei al processo; b) l'avvenuta contestazione
di una ipotesi di continuazione tra gli episodi criminosi, non precisata nei
termini temporali e per di più caratterizzata da contraddittorietà per essere
stato l'istituto della continuazione impropriamente commisto alla struttura
permanente dei fatti reato relativi alla realizzazione e gestione della
discarica abusiva.
Tali censure non meritano accoglimento. La contestazione mossa dalla pubblica
accusa al Sig.Artese presenta contenuti chiari sia in ordine ai fatti ed alle
condotte, sia in ordine alla loro qualificazione giuridica. E' evidente,
infatti, che l'originaria imputazione è stata mossa ad entrambi i liquidatori,
uniti tra loro dal vincolo del concorso di persone ex art.110 c.p., e ha
riguardo a più condotte protrattesi nel tempo ed aventi caratteristiche fattuali
chiaramente delineate. La circostanza che la posizione processuale del
coimputato sia stata definita con sentenza ex art.129 c.p.p. a seguito
dell'avvenuto decesso nulla ha modificato in ordine ai contenuti della
contestazione mossa al Sig.Artese, persona che entrambe le sentenze hanno
ritenuto, pur nelle diversità di valutazione sulla sussistenza dei reati,
corresponsabile dei fatti e delle condotte per cui vi è stata pronuncia di
condanna. Non solo, ma il Tribunale ebbe a valutare in termini negativi
l'ipotesi di concorso tra il Sig.Artese e il Sig.Galvani, escludendola e
considerando prescritti i reati allo stesso Galvani contestati, in tal modo
rapportando in modo articolato il proprio decisum all'originaria contestazione
mossa dalla pubblica accusa.
Quanto alla contestata continuazione tra i reati, nessuna violazione di legge e
nessuna limitazione dei diritti della difesa risultano realizzate con la
sentenza impugnata e, si aggiunge, con quella di primo grado. Premesso che il
capo di imputazione relativo alla discarica abusiva (capo A) ipotizzava anche
per il Sig.Artese sia la condotta di realizzazione sia quella di gestione della
discarica, la sentenza impugnata chiaramente esclude che all'odierno ricorrente
sia addebitabile la prima delle due condotte e, in modo del tutto coerente,
afferma la di lui responsabilità solo per la condotta gestionale evitando di
applicare qualsiasi aumento di pena a titolo di continuazione.
3. La continuazione e la permanenza del reato
Quanto si è appena detto impone di respingere anche le censure mosse in ordine
alla presunta incoerenza della contestazione, sempre al capo A) della rubrica,
di un reato insieme continuato e permanente. Esclusa la sussistenza della
contestata continuazione, la sentenza ha qualificato come permanente il reato di
gestione della discarica abusiva. Si tratta di qualificazione che la Corte, come
vedremo, ritiene corretta e, soprattutto, di soluzione giuridica che non
presenta conflitti logici o giuridici né con il quadro complessivo oggetto della
contestazione, né con le statuizioni adottate dalla Corte territoriale.
4. La questione di legittimità costituzionale
Sempre con riferimento alla contestazione di una ipotesi di permanenza nel
reato, la difesa ha censurato l'ordinanza con cui la Corte di Appello ha
dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata con riferimento all'art.158 c.p. per contrasto con gli articoli 3 e 24
della Costituzione.
Premesso che questa Corte condivide le valutazioni che la Corte territoriale ha
dato della natura permanente del reato contestato al capo A), che si pone del
tutto in linea con la costante giurisprudenza di legittimità relativa sia alla
struttura del reato permanente sia alla sua applicazione, ex art.158 c.p., con
riferimento all'istituto della prescrizione del reato, si osserva che la Corte
costituzionale con sentenza n.520 del 26 novembre-17 dicembre 1987 ha affermato
il seguente principio:
"La natura permanente o istantanea del reato non dipende da esplicita ed
apodittica qualificazione del legislatore, ma dalla sua naturale essenza,
trattandosi di un carattere che inerisce alla qualita' della condotta cosi' come
si presenta nella realta' e la cui definizione e' affidata all'interpretazione
dei giudici ordinari; pertanto, non costituisce lacuna costituzionalmente
rilevante l'omessa affermazione legislativa del carattere permanente di un
reato."
Coerentemente con tale principio, e con le altre sentenze del giudice delle
leggi in tema di permanenza del reato e prescrizione (in particolare la sentenza
n.46 del 25 febbraio-3 marzo 1998 e la sentenza n.26 del 5-12 aprile 1978), la
questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa va ritenuta
manifestamente infondata ed il motivo di ricorso deve essere respinto.
5. La richiesta di sospensione del dibattimento
La difesa ha poi contestato una diversa violazione del diritto di difesa, e cioè
la reiezione della richiesta di sospensione del processo in sede di appello con
riferimento alla istanza di nuove attività istruttorie.
Premesso che per giurisprudenza costante di questa Corte la rinnovazione del
dibattimento in appello o lo svolgimento in quella sede di nuove attività
istruttorie risponde a logiche di eccezionalità, deve osservarsi che le attività
di integrazione probatoria richieste alla Corte di Appello avevano ad oggetto
circostanze successive all'epoca dei fatti contestati ed allo stesso avvio della
fase processuale. Si era, dunque, in presenza di elementi probatori relativi a
circostanze solo indirettamente ed eventualmente incidenti sulla contestazione.
In questo quadro deve ritenersi correttamente motivata e non caratterizzata da
illogicità l'ordinanza del 21 ottobre 2005 con cui la Corte di Appello ha
ritenuto di non ammettere i nuovi mezzi di prova e di non procedere alla
sospensione del dibattimento così come richiesta e illustrata dalla difesa del
ricorrente. Tale ordinanza (che questa Corte può esaminare versandosi in ipotesi
di motivo di ricorso di che ha riguardo ad aspetti procedurali); sottolinea come
i fatti sopravvenuti concernessero accesso richiesto dall'Assessorato
all'ambiente della Regione Puglia, così dando luogo ad attività svoltasi il 24 e
29 settembre 2005 avente "natura prettamente amministrativa e priva di qualunque
rilievo probatorio nell'ambito di questo processo". In presenza di motivazione
corretta e coerente, questa Corte non può sostituire a quella del giudice del
merito la propria valutazione sulla rilevanza dei nuovi mezzi richiesti, a ciò
ostando le caratteristiche e le finalità del giudizio di legittimità ancora
successivamente alla modifica apportata all'art.606 c.p.p. dalla legge n.46 del
2006.
6. Le censure mosse ai sensi della lett.e) dell'art.606 c.p.p.
Così affrontate le censure della difesa in ordine alla correttezza del rapporto
fra accusa e decisum e della gestione dello strumento processuale da
parte dei giudici di prime e seconde cure, occorre procedere all'esame delle
censure mosse dai diversi ricorrenti allo stesso decisum.
La Corte ritiene necessario premettere, atteso il tenore di alcune delle
predette censure, che la modifica apportata dall'art.8 della legge 20 febbraio
2006, n.46, all'art.606, lett. e) c.p.p. non ha trasformato la natura essenziale
del giudizio avanti la Corte di cassazione, che resta ancorato al controllo
sulle violazioni di legge.
Tale conclusione emerge con chiarezza da numerosi precedenti, ed in particolare
dall'ampia motivazione, che viene condivisa da questo Giudice, della sentenza
della Seconda Sezione Penale della Corte, 5 maggio-7 giungo 2006, n.19584, Capri
ed altra (rv 233773, rv 233774, rv 233775) e della sentenza della Sesta Sezione
Penale, 24 marzo-20 aprile 2006, n.14054, Strazzanti (rv 233454).
Osserva la sentenza Capri che prima delle novella del 2006 la giurisprudenza
pacificamente affermava che 1'art.606, lett.e) c.p.p. non affidava alla Corte
"il compito di accertare l'intrinseca adeguatezza dei risultati
dell'interpretazione delle prove, ma quello ben diverso di stabilire se i
giudici di merito avessero esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se
avessero dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti e se
nell'interpretazione delle prove avessero esattamente applicato le regole della
logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di
valutazione della prova...". Tali principi sono rimasti fermi anche dopo la
legge n.46 del 2006, e la natura del vizio denunciabile resta attinente alla
correttezza del discorso giustificativo della decisione e non al suo contenuto
valutativo.
Ciò non toglie importanza alla circostanza che il nuovo testo del citato
art.606, lett. e) sottolinea il valore decisivo che la valutazione del fatto ha
con riferimento alla corretta applicazione della disposizione che si attaglia al
caso concreto, posto che un'errata applicazione delle regole sulla valutazione
della prova si trasforma in una non coerente applicazione della legge al fatto
realmente accaduto ed alle conseguenti responsabilità.
Tuttavia, resta fuori dubbio che il giudizio avanti la Corte di cassazione
risponde a logiche e finalità sue proprie, che non ripetono quelle del giudizio
avanti i giudici di merito. Una dimostrazione di questa differenza la si ricava,
tra l'altro, dalla motivazione della sentenza n.26 del 2007 della Corte
costituzionale, là dove (punto 6.1), argomentando in ordine alla modifica
apportata dalla legge n.46 del 2006 al potere di impugnazione del pubblico
ministero, afferma che la possibilità di ricorso avanti la Corte di cassazione è
"rimedio (che) non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito,
consentito (invece) dall'appello".
Se, dunque, il controllo demandato alla Corte di cassazione non ha "la pienezza
del riesame di merito" che è propria del controllo operato dalle corti di
appello, ben si comprende come il riferimento del nuovo testo dell'art.606,
lett. e) agli "altri atti del processo" su cui il ricorso può fondare la
richiesta di annullamento della sentenza di merito non significa affatto che il
giudice di legittimità sia chiamato, attraverso l'esame di tali atti, a
ripercorre l'intera ricostruzione della vicenda oggetto di giudizio.
Come giustamente osservato dalla citata sentenza Capri ed altra, il rapporto tra
il disposto degli artt. 544 e 546 c.p.p., e cioè tra completezza e concisione
della motivazione, comporta che la motivazione del giudice di merito non deve
dare conto di tutti gli elementi di prova esaminati, ma concentrarsi su quelli
che assumono valore decisivo ai fini della decisione, posto che la finalità
della motivazione resta quello di rendere edotte le parti delle ragioni
essenziali della decisione stessa e del percorso logico seguito. E' all'interno
di questa prospettiva di ordine generale che deve essere inteso il riferimento
agli specifici atti del processo, con la conseguenza che il giudice di
legittimità è chiamato a valutare l'incidenza di eventuali violazioni commesse
dalla decisione impugnata sul risultato finale. Restano pertanto escluse dal
controllo della Corte "non soltanto le deduzioni che riguardano
l'interpretazione e la specifica consistenza degli elementi di prova, ma anche
le incongruenze logiche che non siano assolutamente incompatibili con le
conclusioni adottate in altri passaggi argomentativi adottati dai giudici;
cosicché non possono trovare ingresso in sede di legittimità i motivi di ricorso
fondati su una diversa prospettazione dei fatti adottata dai ricorrenti né su
altre spiegazioni fornite dalla difesa per quanto plausibili, ma comunque
inidonee ad inficiare la decisione di merito. Al di là di questi limiti
finirebbe per accreditarsi la Corte di cassazione di poteri rivalutativi che,
come tali, appartengono alla sola cognizione del giudice di merito.".
In altri e conclusivi termini, questa Corte ritiene che il giudizio sulla
completezza e correttezza della motivazione della sentenza impugnata non possa
confondersi "con una rinnovata valutazione delle risultanze acquisite, da
contrapporsi a quella fornita dal giudice di merito", con la conseguenza che una
motivazione esauriente nell'affrontare i temi essenziali e coerente nella
valutazione degli elementi probatori si sottrae al sindacato di legittimità.
Conservano, dunque, piena validità anche dopo la novella del 2006 i principi
essenziali fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite Penali, n.2120, del 23
novembre 1995-23 febbraio 1996, Fachini (rv 203767).
7. Il reato contestato al capo A) della rubrica
Per quanto concerne la contestazione di gestione di discarica abusiva (capo A),
la sentenza impugnata appare correttamente motivata (pag.94 ss.) e il ricorso
del Sig. Artese deve essere respinto.
7.1 Entrambe le decisioni dei giudici del merito (che la Corte può esaminare
congiuntamente attesa la coincidenza di gran parte dei motivi di ricorso con
quelli di appello) hanno affrontato in modo completo e convincente il tema delle
caratteristiche del sito e della relativa disciplina giuridica. La sussistenza
di una "discarica non autorizzata" è certamente integrata dalla presenza di
grandi quantità di prodotti contenenti amianto stoccati in magazzini non
sufficientemente protetti oppure depositati addirittura all'aperto, materiali
soggetti al deterioramento della struttura ed alla conseguente dispersione delle
fibre. E, del resto, tutta la corrispondenza fra la Finanziaria Fibronit, gli
enti territoriali e le autorità di controllo, come esposta in sentenza e sul
punto non contestata dal ricorrente, appare elemento univoco nel dimostrare la
esistenza di un sito che necessitava interventi di salvaguardia e di bonifica.
Né sembra possa mettersi in dubbio che i prodotti contenenti amianto
costituiscono tecnicamente "rifiuti" avente carattere di pericolosità. Sul
punto, richiamato l'univoco dettato normativo, su cui dovrà tornarsi, si rinvia
alla costante giurisprudenza di questa Sezione della Corte, tra cui la sentenza
26 ottobre-29 novembre 2006, n.39360, Lo Bello (rv 345464) e la recentissima
decisione del 27 Marzo 2007, n.sezionale 00959/2007, Bertuzzi ed altri, non
massimata.
7.2 Parimenti, la sentenza impugnata risulta pienamente convincente e immune da
vizi allorché afferma che il Sig.Artese ha avuto co-responabilità nella
integrazione del reato. Del tutto coerente appare la motivazione su questo
punto, considerato che tra le altre cose vi si afferma (con circostanze in fatto
che questa Corte considera come elementi accertati) che l'incarico accettato dal
Sig.Artese non prevedeva una chiara ripartizione di compiti rispetto al
co-liquidatore; che successivamente al sopralluogo del 23 settembre 1999
intercorse per anni tra la soc.Fibronit e gli enti locali e le autorità
competenti una ripetuta corrispondenza avente ad oggetto gli interventi da porre
in essere per porre rimedio al grave rischio ambientale; che il Sig.Artese fu
soggetto attivo di tale corrispondenza e della predisposizione di progetti di
intervento; che egli fu al vertice di una società costituita proprio al fine di
supportare quei progetti; che, dunque, non si può escludere la sussistenza in
capo al Sig.Artese delle responsabilità gestionali e degli obblighi connessi
all'attività di liquidatore della società, responsabilità ed obblighi certamente
rilevanti ai sensi dell'art.40 c.p. (si veda Sezione Terza Penale, sentenza 8
giugno-21 settembre 2006, n.31401, Boccabella, rv 234942).
7.3 Infine, si deve ritenere che la motivazione della sentenza impugnata
affronti in modo corretto il tema, posto nei motivi di appello, della
corrispondenza fra accusa e decisione (pagg.97-98). Non solo il fatto di reato è
stato esposto con chiarezza nel capo di imputazione e non immutato dalla
sentenza di primo grado, ma appare pacifico che la ritenuta sussistenza della
responsabilità dell'odierno ricorrente a titolo di colpa è del tutto
riconducibile alla lettera del capo A) che esplicita in modo in,equivoco sia la
posizione del Sig.Artese di liquidatore della società sia ed la condotta a lui
ascritta.
8. A fronte di questo quadro complessivo, non può condividersi la censura che il
Sig.Artese muove alla sentenza impugnata nella parte in cui non terrebbe conto
del fatto, asseritamene decisivo, che il co-liquidatore, Sig.Cuniolo, avesse,
rispetto all'odierno ricorrente, una più diretta presenza e relazione con il
luogo ove i materiali erano depositati. Tale circostanza assumerebbe, secondo il
Sig.Artese, rilievo decisivo per escludere la sussistenza di una sua qualche
responsabilità rispetto alla gestione della discarica. Risulta dalle sentenze in
atti che la situazione in cui versava l'ex stabilimento era perfettamente nota
alla società, ai precedenti amministratori ed ai liquidatori nominati nel 1997,
tanto che l'attività di liquidazione era strettamente legata alla bonifica ed
alla possibile destinazione degli immobili e dell'area, come dimostrano i
progetti di lottizzazione, di cui il Sig.Artese si occupò direttamente e che
potevano risultare praticabili solo nella eventualità che il recupero e la
bonifica dell'area andassero a buon fine. La sentenza impugnata ha fatto buon
uso di tali circostanze e la motivazione risulta coerente con le premesse in
fatto e priva di vizi logici, con la conseguenza che anche sotto tale profilo i
motivi di ricorso non meritano accoglimento.
9. Così ricostruiti i fatti, poche osservazioni merita il ricorso del Sig.Artese
nella parte in cui sostiene che egli ebbe ad attivarsi presentando ben otto
proposte di bonifica ed una proposta di lottizzazione dell'area, circostanze che
escluderebbero che egli possa essere ritenuto responsabile di una illecita
gestione della discarica.
Occorre qui chiarire che la situazione di grave illegalità e di rilevante
pericolosità provocata dagli esiti di gestione della soc.Fibronit e della
Finanziaria Fibronit non possono trovare nelle oggettive e rilevanti difficoltà
di soluzione una circostanza impropriamente scriminante. Così come non è
accettabile, sul piano giuridico, che le cautele di intervento derivanti dalla
legge e dagli atti amministrativi possano trasferire sugli enti territoriali e
sulle amministrazioni pubbliche forme più o meno dirette di responsabilità che
farebbero venir meno quelle degli amministratori o liquidatori della società che
ha dato origine alla situazione di illegalità e pericolo. In altri termini, la
violazione da parte dei privati delle regole di cautela e degli obblighi
connessi alla realizzazione e gestione di una discarica non può perdere il
carattere di illiceità sul presupposto che neppure le autorità e gli enti aventi
competenza sul sito e sugli immobili hanno saputo riportare nell'ambito della
legalità una situazione gravemente compromessa cui i privati hanno dato origine:
pur nella consapevolezza delle difficoltà che si collegano alla sanatoria di una
realtà tanto complessa, quella prospettata dal Sig.Artese costituisce una vera
inversione dei principi di responsabilità che non può essere in alcun modo
condivisa.
Del tutto infondate sono, dunque, le doglianze del Sig.Artese - e le sue
sorprendenti richieste di risarcimento dei danni rivolte ai soggetti pubblici
costituitisi parte civile - che censurano la sentenza impugnata trasferendo
sulle amministrazioni pubbliche le responsabilità del mancato intervento di
risanamento e bonifica.
10. 11 reato sub A) come reato permanente
Considerate le caratteristiche del sito e la vicenda che in concreto ha visto
interessata la sede della ex fabbrica Fibronit, la Corte può ritenere accertato
che tale fabbrica ed i terreni di sua pertinenza divennero una discarica in cui
giacevano prodotti contenenti amianto, ed accertato, altresì, che per tutto
l'arco di tempo oggetto della contestazione vi fu un pericolo altissimo di
inquinamento ambientale e sussistette in concreto la dispersione di fibre di
amianto.
A fronte di questo stato di cose, sorprende che il ricorso del Sig.Artese
insista con tanta larghezza di argomenti ed energia nel contestare il carattere
di permanenza del reato oggetto del capo A) della rubrica e lo stesso fondamento
di tale istituto giuridico.
La dottrina e la giurisprudenza da decenni (tra le moltissime si vedano le
sentenze di questa Sezione del 29 settembre-4 dicembre 1989, n.12273, Barucca,
rv 177178; 7 luglio-27 settembre 1995, n.2691, 'merito, rv 203476; 14 aprile-5
maggio 2005, n.16890, Gallucci e altro, rv 231649) hanno esaminato e quindi
fondato le caratteristiche del concetto di permanenza nel reato e le differenze
esistenti rispetto alle diverse nozioni del reato istantaneo con effetti
permanenti e del reato continuato. Si tratta di osservazione talmente ovvia che
questa Corte può in questa sede limitarsi ad evidenziare come la condotta di
gestione di una discarica abusiva di rifiuti pericolosi rappresenti un esempio
paradigmatico e di solare evidenza di permanenza del reato (sul punto si rinvia,
tra le altre, alla sentenza di questa Sezione del 15-27 gennaio 2004, n.2662, PM
in proc.Zanoni, rv 227219; si veda anche Quinta Sezione Penale, sentenza 14
gennaio-25 marzo 2005, n.11924, Spagnolo e altri, rv 231704).
Diverso il discorso sulle conseguenze che la natura permanente del reato ha con
riferimento alla prescrizione del reato, discorso che sarà affrontato dopo avere
esaurito l'esame dei motivi di ricorso relativi agli altri capi di imputazione.
11. Il reato previsto al capo D) della rubrica (art.50, co.2 d.lgs. n.22 del
1997)
Se, dunque, la sentenza impugnata merita di essere confermata con riferimento
alla decisione sul capo A) della rubrica, questa Corte ritiene che essa, con
riferimento al reato contestato al Sig.Artese al capo D), abbia erroneamente
attribuito valore dirimente alla circostanza che le ordinanze sindacali del
maggio e novembre 1997 e, poi, del marzo 2001 furono indirizzate al solo
co-liquidatore e non anche al Sig.Artese.
Si è visto, in precedenza, che la Corte territoriale ha considerato il Sig.Artese
pienamente coinvolto nelle attività di liquidazione e ricoprire di fatto un
ruolo attivo nelle attività volte ad affrontare la complessa destinazione delle
aree e degli immobili della soc.Fibronit. Se ciò è vero ai fini della
responsabilità per il reato contestato al capo A) della rubrica, non appare né
coerente né logico concludere che il Sig.Artese fosse, invece, all'oscuro delle
ordinanze sindacali del 1997 e del 2001, ordinanze che comportavano per la
Finanziaria Fibronit il sorgere di impegni che erano sia strettamente
interessati alle trattative in corso con gli enti territoriali sia direttamente
rilevanti ai fini della bonifica che, si è visto, costituiva passaggio
essenziale per ogni futura lecita destinazione degli immobili a terzi
(destinazione di cui il Sig.Artese, come ripetutamente affermato dalla sua
stessa difesa, ebbe ad occuparsi direttamente).
L'ipotesi di reato prevista al capo D) della rubrica non può essere considerata
come meramente formale, quasi che la intestazione delle ordinanze in capo ad uno
solo degli amministratori della società interessata possa per ciò solo avere
come conseguenza l'assenza del sorgere di obblighi giuridici per gli altri
amministratori. Ritiene la Corte che per restare esenti da responsabilità questi
ultimi debbano risultare del tutto all'oscuro del provvedimento, mentre, come si
è visto, la stessa impostazione che la Corte territoriale ha dato alla
ricostruzione dei fatti sembra comportare nel caso di specie una conclusione ben
diversa.
Si è, dunque, in presenza di una contraddittorietà evidente della motivazione e
la sentenza va annullata sul punto.
12. Il reato contestato al capo B) della rubrica (art.674 c.p.)
Ritiene la Corte che anche con riferimento al capo B) della rubrica la sentenza
impugnata risulti viziata e debba essere annullata. Erroneamente, infatti, la
motivazione fa discendere la non sussistenza della violazione dal mancato
superamento dei valori contemplati dal DM 6 settembre 1994.
Sul punto appare, al contrario, accoglibile l'impostazione dei ricorrenti,
Procura generale della Repubblica e parti civili, che collegano la rilevanza
giuridica di quei valori esclusivamente allo svolgimento di attività autorizzate
e regolamentate. Infatti, sia la disciplina vigente all'epoca dei fatti
(operante nell'ambito dei principi fissati a partire dalla direttiva 80/1107/CEE
e ribaditi dalle Conclusioni del Consiglio in data 7 aprile 1998), sia quella
successiva (d.lgs. n.257 del 2006, avendo riguardo alla direttiva 2003/18/CE)
operano con riferimento al rispetto da parte dell'imprenditore dei limiti posti
a tutela delle persone che vengono professionalmente a contatto con l'amianto e
le fibre di amianto, in tal modo assicurando che un'attività regolamentata
riduca al massimo grado i rischi inevitabilmente connessi alle lavorazioni, al
trattamento e allo smaltimento di tale sostanza.
Diverso il discorso per la dispersione delle fibre nell'ambiente circostante,
dispersione che assume carattere di incontrollata pericolosità e riguarda una
platea non limitata di possibili destinatari. Ritiene pertanto la Corte che
quando tale situazione di pericolosità è collegata ad una situazione di
irregolare gestione di una discarica, il reato previsto dall'art.674 c.p.
risulti integrato dalla prova che la dispersione di fibre vi sia stata, senza
che assuma rilievo il superamento dei valori che le regole in vigore riferiscono
ad attività autorizzate e controllate e, come tali, poste all'interno di un
sistema di cautele che è capace di ridurre al massimo i rischi per le persone.
Tale sistema di cautele, infatti, ricomprende la formazione delle persone che
vengono o possono venire a contatto con le fibre di amianto, la predisposizione
di strumenti e di abbigliamento atti a ridurre il pericolo che le fibre possano
venire respirate, la predisposizione di attività di decontaminazione: tutte
cautele che restano escluse nelle situazioni come quelle create dalla gestione
della soc.Fibronit e della Finanziaria Fibronit.
Se, dunque, vi è in atti la prova che una dispersione di fibre di amianto vi fu
(v. pag.101 della motivazione) e che polveri di amianto furono rinvenute nelle
pertinenze delle abitazioni adiacenti la ex fabbrica (ibidem), non vi è dubbio
che tali circostanze fossero "idonee a cagionare danni alla salute dei
cittadini", così come contestato al capo B) della rubrica. A parere di questa
Corte l'affermare, come ha fatto il giudice di prime cure, che si sia in
presenza di "emissioni" punibili ai sensi dell'art.674 c.p. non realizza alcuna
"operazione creativa" e costituisce corretta applicazione della disciplina
giuridica al caso concreto.
La sentenza impugnata deve pertanto essere sul punto annullata.
13. I reati contestati ai capi C) ed E) della rubrica (art.635, co.2 n.3 c.p.
e art.51 bis d.igs. n.22 del 1997)
La stessa sentenza merita, invece, conferma con riferimento ai reati contestati
ai capi C) ed E) della rubrica. Quanto al reato previsto dal comma secondo
dell'art.635 c.p., la motivazione dà conto di una situazione di fatto (pag.102)
che ragionevolmente impone di retrodatare il fatto lesivo ad epoca anteriore
alla data in cui il Sig.Artese assunse la qualità di liquidatore, non potendo
rilevare ai fini della sussistenza e dell'epoca del danneggiamento l'eventuale
successiva assenza di condotte riparatorie.
Quanto al reato previsto dall'art.5 i bis del d.lgs. n.22 del 1997, va preso
atto della circostanza che la Corte territoriale (pag.104-106 della motivazione)
ritiene non sussistere la prova del superamento dei limiti previsti dalla
normativa attuativa dell'art.17 del d.lgs. n.22 del 1997 richiamato nello stesso
capo d'imputazione. A differenza di quanto esposto con riferimento al capo
B)della rubrica, i valori di riferimento (DM 25 ottobre 199/n.471) non si
riferiscono ad attività autorizzate e regolamentate, bensì alle conseguenze di
attività comportanti inquinamento dell'ambiente o dei suoli, e cioè a situazioni
corrispondenti a quella che viene riferita alla responsabilità del Sig.Artese.
In tale contesto normativo e di fatto, la esistenza di un deficit probatorio su
cui la Corte territoriale ha fondato la pronuncia di assoluzione risulta
motivata il modo logico e non censurabile in questa sede.
14. La maturata prescrizione per i reati contestati ai capi A), B) e D)
E' così giunto il momento di esaminare il motivo di ricorso del Sig.Artese che
ha ad oggetto la maturazione del termine prescrizionale a seguito della
cessazione della permanenza del reato in coincidenza con il sequestro preventivo
disposto dall'autorità giudiziaria in data 12 gennaio 2002. Sostiene, infatti,
il ricorrente che l'eventuale permanenza del reato non avrebbe potuto protrarsi
oltre la data in cui iLSig.Artese, quale liquidatore della Finanziaria Fibronit,
ha perduto la disponibilità dell'intera area seguito dell'intervenuto sequestro.
Ritiene la Corte di dover muovere dalla considerazione, costantemente affermata
dalla giurisprudenza di legittimità, che la permanenza cessa nel momento in cui
l'offesa al bene protetto viene meno oppure nel momento in cui l'azione
prescritta viene realizzata oppure non è più esigibile, cessando in tal modo
l'antigiuridicità vuoi per fatto volontario dell'obbligato o per altra causa (si
vedano, tra le molte, Sezione Terza penale, sentenza Barucca, cit., rv 177178;
23 ottobre 1996-29 gennaio 1997, n.604, Salmeri, rv 207035; 16 aprile-23 maggio
1997, n.1721, PM in proc.Sciarrino, rv 208053; 27 marzo-14 maggio 2002, n.18198,
Pinori, rv 221995; 12 febbraio-18 marzo 2004, n.13204, Merico e altro, rv
227571; 24 settembre-12 novembre 2004, n.44249, PM in proc.Cascina, rv 230468).
Con specifico riferimento al reato previsto dal citato art.51, comma 3 del
d.lgs. 5 febbraio 1997, n.22, merita segnalare che questa Sezione della Corte ha
già affrontato il tema della cessazione della permanenza con riferimento al
termine introdotto dal d.lgs. 13 gennaio 2003, n.36 (attuativo della direttiva
31/99/CE). Si tratta di termine che, in assenza di rimozione dei rifiuti o di
ottenimento della autorizzazione, viene fissato in dieci anni a far data
dall'ultimo conferimento (si veda la sentenza 15-27 gennaio 2004, n.2662, PM in
proc.Zanoni, rv 227219). Detto termine, indipendentemente dal tema se operi o
meno secondo il principio del favor rei, non assume rilievo diretto in questo
caso, ma conferma il legame esistente fra la persistenza degli effetti
pericolosi e nocivi e la permanenza del reato contestato al Sig.Artese.
15. Da tutto quanto si è detto, emerge con chiarezza che il reato previsto
dall'art.51, comma terzo del d.lgs. n.22 del 1997 non può sussistere in forma
del tutto indipendente dalla riferibilità alla condotta, anche solo omissiva,
della persona responsabile. In modo coerente, la giurisprudenza di questa
Sezione ha costantemente affermato il principio che il sequestro preventivo
dell'area o dei beni interessati fa cessare il loro legame con la persona e
comporta la cessazione della permanenza (tra le altre, Terza Sezione Penale,
sentenza 8 maggio-20 giugno 2003, n.26811, PG in proc.Orlando, rv 225734).
Questa Corte non può, peraltro, non rilevare che la Prima Sezione Penale, con
sentenza del 13 giugno-8 settembre 2006, n.29855, Pezzetti e altro (rv 235255)
ha, affermato il seguente principio: -In tema di reati ambientali, il reato di
inquinamento previsto dagli artt. 51 bis e 17, comma secondo, D.Lgs. 5 febbraio
1997 n. 22 - di natura permanente anche dopo l'entrata in vigore degli artt. 242
e 257 del D.Lgs. n. 152 del 2006 che ha abrogato (art. 264, comma primo lett. i)
il D.Lgs. n. 22 del 1997 - non cessa per effetto del sequestro del sito
inquinante, preordinato all'eliminazione del danno, ma persiste fino agli
interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale delle aree,
condotte riparatorie - queste - previste anche dal nuovo testo unico (art. 247
D.Lgs. n. 152 del 2006) che, ove poste in essere prima della pronuncia
giudiziale, fanno venire meno la punibilita' del reato."
Si legge nella motivazione di tale decisione che "deve escludersi che il
sequestro del sito faccia cessare la permanenza del reato, per gli effetti di
cui all'art.158 C.P. in relazione all'art. 157, la quale persiste fino a quando
non vengono fatte venire meno le conseguenze dannose o pericolose ovvero con la
sentenza di condanna anche non irrevocabile. Il sequestro infatti era ed è
preordinato alla eliminazione del danno e non impedisce, neppure dopo la entrata
in vigore del d.lgs. n.152 del 2006 (art,247), cosi come non impediva prima, gli
interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale delle aree
anche al fine di evitare la ulteriore propagazione degli inquinanti ed il
conseguente peggioramento della situazione ambientale. Sarebbe invero singolare
che il sequestro delle aree ... possa determinare la cessazione della permanenza
e cioè della antigiuridicità di una condotta che il responsabile della stessa è
tenuto a denunciare ed a riparare evitando pure il sequestro se si mette
immediatamente a disposizione e predispone gli interventi riparatori. ".
Conclude sul punto la motivazione che "soltanto la eliminazione del danno" -
che non risulta nel caso intervenuta - "avrebbe potuto determinare la cessazione
della permanenza".
16. A fronte di tale diversa impostazione, questa Corte ritiene, nei termini
che seguono, di dover condividere l'orientamento illustrato fin qui seguito
dalla Sezione.
Non vi è dubbio che la decisione assunta dalla prima Sezione Penale con la
sentenza Pezzetti e altro si fa carico di un rischio connesso alla
interpretazione che fa derivare dal sequestro la cessazione della permanenza del
reato: il rischio che proprio la condotta inerte dei responsabili del sito o
della discarica, costringendo l'autorità ad un intervento cautelare, finisca per
trasformarsi in un vantaggio ai fini del decorso dei termini prescrizionali. In
sostanza, coloro che si attivassero per porre rimedio alla situazione di
pericolo vedrebbero permanere il reato fino al momento in cui le attività
positive fanno cessare il pericolo stesso, mentre coloro che omettessero ogni
intervento vedrebbero cessare la permanenza in momento potenzialmente anticipato
grazie al doveroso intervento delle autorità.
La soluzione adottata con tale sentenza non può essere criticata affermando,
secondo l'impostazione generale del ricorso del Sig.Artese, che in tal modo la
situazione giuridica dell'indagato/imputato diverrebbe incerta in quanto il
decorso del termine prescrizionale dipenderebbe da circostanza a lui estranea, e
cioè dalla adozione o non adozione di misure cautelari da parte delle autorità.
Si tratta di obiezione che non considera che l'intervento cautelare
dell'autorità costituisce, innanzitutto, una misura a tutela degli interessi
offesi o messi in pericolo dalla condotta del responsabile e si trasforma, poi,
in un (immeritato) vantaggio per il responsabile stesso in relazione
all'estinzione del reato per prescrizione. Nessuna conseguenza pregiudizievole,
dunque, per la posizione giuridica della persona indagata o imputata.
Osserva a questo punto la Corte che nel caso in esame il sequestro conservativo
disposto dall'autorità giudiziaria barese dopo alcuni anni dall'inizio delle
indagini si fonda proprio sulla inerzia dei responsabilità della Finanziaria
Fibronit rispetto alla esigenza di interventi operativi effettivi che facessero
cessare la situazione di gravissimo pericolo e di attuale danno protraentesi
ormai da moltissimo tempo.
Occorre dunque chiedersi se, il Sig.Artese, qualora avesse inteso dare
finalmente corso alle necessarie attività, avrebbe potuto ancora farlo. La
risposta, alla luce degli atti, non può essere univocamente positiva. L'atto di
sequestro preventivo adottato dal giudice delle indagini preliminari il 12
gennaio 2002 nei confronti di Galvani, Cuniolo, Artese e altri, non prevede in
alcuna forma la prosecuzione delle attività o comunque la possibilità per gli
indagati di accedere all'area e agli immobili, così definitivamente facendo
cessare per essi la disponibilità dei beni. Deve ritenersi, in conclusione, che
le condotte penalmente rilevanti trovino nel sequestro preventivo un momento
discriminante e debbano considerarsi esaurite.
E' ben vero che gli indagati avrebbero potuto attivarsi per richiedere le
opportune modifiche del provvedimento giudiziale anche al fine di porre in
essere nuove condotte attive, ma si tratta di elementi che, oggi probabilmente
rilevanti ai sensi degli artt.242 ss. del d.lgs. 3 aprile 2006, n.152, non
sembrano avere valore decisivo nella vigenza della precedente nomativa.
Ritiene conclusivamente la Corte che il reato debba intendersi cessato alla data
del 12 gennaio 2002 e che il termine massimo di prescrizione, non essendosi in
presenza di motivi inammissibili, sia oggi definitivamente maturato.
17. Osserva la Corte che risultano prescritti anche i reati contestati ai
capi B) e D) della rubrica.
Per il primo di essi la contestazione deve ritenersi cessata al momento del
sequestro preventivo dell'area e degli immobili. Una volta ritenuto che la
perdita della disponibilità dei beni comporti l'interruzione del rapporto tra la
condotta e la lesione del bene protetto, non vi è dubbio che ciò vale a maggior
ragione per la contravvenzione prevista dall'art.674 c.p., le cui
caratteristiche sono state in precedenza esaminate.
Per il reato contestato al capo D), emerge dalla stessa rubrica che a condotta
punibile conseguente all'ultima ordinanaza sindacale in ordine di tempo va
collocata non oltre la data del 2 maggio 2001.
18. Le statuizioni civili.
Così esaminati i motivi di ricorso relativi ai reati contestati al Sig.Artese,
la Corte deve prendere in considerazione i motivi di ricorso relativi alle
statuizioni civili, così come disposto dall'art.578 c.p.p. che fa obbligo alla
corte di appello e a quella di cassazione di pronunciare su tali aspetti anche
nel caso in cui dichiarino l'estinzione del reato per amnistia o prescrizione.
La Corte ha, come si è visto, confermato le conclusioni cui la sentenza
impugnata è giunta relativamente al capo A), con annullamento per essere nel
frattempo maturato il termine prescrizionale, mentre ha disposto l'annullamento
della stessa sentenza con riferimento all'assoluzione del Sig. Artese per i
reati contestati ai capi B) e D) della rubrica, anche in questo caso accertando
l'intervenuta prescrizione dei reati. Ha, invece, confermato la sentenza
impugnata nella parte in cui ha assolto il Sig.Artese per i reati contestati ai
capi C) ed E).
A fronte di tali conclusioni, che accolgono parzialmente i motivi di ricorso
delle parti civili costituite, la Corte non può che disporre la condanna del
Sig.Artese al risarcimento dei danni causati alle parti civili, danni che
andranno liquidati in separata sede, così come disposto dalla sentenza della
Corte territoriale.
Della richiesta di risarcimento avanzata dal Sig.Artese nei confronti di alcune
delle parti civili già si sono esposte le ragioni che ne impediscono
l'accoglimento.
Per quanto concerne i motivi di ricorso relativi alla provvisionale, ritiene la
Corte che erroneamente la sentenza impugnata abbia escluso dal beneficio le
parti civili WWF e CODACONS. Il fatto che la quantificazione effettuata dal
giudice di prime cure sia avvenuta "in via equitativa" per tutte le parti civili
(pag.108 della motivazione della sentenza della Corte di Appello), non consente
di ritenere che ciò comporti l'assenza di qualsiasi prova in ordine all'entità
del danno, che sarà legittimamente accertata in separata sede, e comporti
l'arbitrarietà della soluzione adottata dal Tribunale stesso. Ciò è tanto vero
che per la parte civile Ministero dell'ambiente la Corte territoriale ha
ritenuto la quantificazione fatta del Tribunale compatibile con una valutazione
anch'essa equitativa.
Venendo così alla provvisionale disposta nei confronti del Ministero
dell'ambiente, ritiene la Corte che debba essere accolta la richiesta di
correzione di errore avanzata dall'Avvocatura dello Stato alla Corte
territoriale e qui reiterata a seguito della decisione di quella. Risulta
pacificamente dalla lettura di pag.108 della motivazione che la Corte ha
ritenuto corretta e fondata la quantificazione in Euro cinque milioni effettuata
dal giudice di prime cure; lettura che non lascia dubbi, proprio perché contiene
un riferimento "a contrario" alla scelta della Corte di Appello di non
confermare la provvisionale in favore delle altre parti civili.
Inoltre, il riferimento esplicito della motivazione ai costi di bonifica ed ai
decreti ministeriali 18 settembre 2001 e 8 luglio 2002 (valutati come
provvedimenti doverosi ed efficaci), alla quantificazione iniziale operata
dall'Avvocatura dello Stato in oltre sei milioni di Euro ed alla mancata
contestazione da parte della difesa concordano in modo in equivoco con la
soluzione che vuole la Corte territoriale confermare la provvisionale disposta
dal Tribunale nella misura di cinque milioni di Euro.
Così stando le cose, e non sussistendo su questo punto il minimo dubbio, deve
ritenersi ineqivoco che la indicazione di soli cinque mila Euro contenuta nel
dispositivo è frutto di errore materiale. Tale errore che non può in alcun modo
riferirsi alla quantificazione che l'Avvocatura dello Stato ha indicato, sul
punto nelle proprie conclusioni, anche in tal caso realizzando un contrasto con
la richiesta di conferma della sentenza di primo grado; si osserva a tale
proposito che delle conclusioni dell'Avvocatura dello Stato la sentenza non fa
parola e che in motivazione non si affronta in alcun modo l'eventuale contrasto
tra le diverse entità su cui la difesa ha insistito in sede di discussione
davanti a questa Corte.
19. La confisca
L'annullamento della sentenza impugnata con riferimento al capo A) della rubrica
comporta il venire meno dei presupposti per il mantenimento della confisca
disposta con riferimento all'area ex Fibronit, che va pertanto restituita nella
disponibilità degli aventi diritto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio in ordine ai reati di cui agli
artt.674 c.p., nonché 51, comma 3 e 50, comma 2 del d.lgs. n.22 del 1997 perché
estinti per prescrizione.
Conferma le statuizioni civili relativamente al risarcimento dei danni da
liquidarsi in separata sede. Annulla la sentenza impugnata relativamente alla
mancata liquidazione di provvisionale in favore delle parti civili WWF Onlus e
CODACONS, con rinvio alla Corte di Appello di Bari in sede civile. Corregge il
dispositivo della sentenza impugnata nel senso che la provvisionale in favore
del Ministero dell'ambiente deve intendersi determinata in Euro cinque milioni.
Annulla altresì la sentenza impugnata senza rinvio in ordine alla disposta
confisca e dispone la restituzione agli aventi diritto delle cose confiscate.
Respinge nel resto i ricorsi.
Dichiara manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
sollevata nel ricorso Artese.
Così deciso, in Roma il 27 Marzo 2007.
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