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CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 21/09/2007 (Ud. 21/06/2007), Ordinanza n. 35235



RIFIUTI - Obbligo di iscrizione all'albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento - Leggi penali speciali - Ius superveniens - Questione di costituzionalità. La Corte ripropone la questione di costituzionalità dell’art. 30, comma quarto, del D.Lgs. n. 22 del 1997 che consentiva l'esercizio della raccolta e trasporto dei rifiuti propri in forma professionale senza obbligo di iscrizione all'Albo, in aperto contrasto con la normativa comunitaria di cui all’art. 12 della Direttiva 91/156/CE. La questione, già sollevata dalla medesima Sezione - ord. n. 10328 del 2006 - non era stata però esaminata dalla Corte Costituzionale che aveva restituito gli atti al Giudice rimettente con ordinanza n. 126 del 2007, essendo stato medio tempore abrogato il D.Lgs. n.22 del 1997 dal cosiddetto Testo Unico Ambientale (D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152). Muovendo dall’orientamento espresso con la sentenza della Corte Cost. n. 394 del 2006 (sullo scrutinio di costituzionalità in malam partem delle cosiddette norme penali di favore), la Corte di Cassazione ritiene non applicabile ai fatti pregressi l’art. 212, comma ottavo, del D.Lgs. n.152 del 2006 (che oggi prevede un obbligo di iscrizione all’Albo regionale territorialmente competente anche per le imprese che esercitano la raccolta ed il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come “attività ordinaria e regolare”), in quanto norma che introduce una disciplina meno favorevole rispetto a quella prevista dall’abrogata disposizione. Il rinnovato controllo di costituzionalità richiesto al Giudice delle leggi, secondo l’ordinanza di rimessione, può dirigersi verso la disposizione abrogata che, escludendo una specifica tipologia di trasporti di rifiuti dall’obbligo di iscrizione all’Albo, ne determina la sottrazione all’applicazione della fattispecie incriminatrice. Presidente G. De Maio, Relatore L. Marini. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 21/09/2007 (Ud. 21/06/2007), Ordinanza n. 35235


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UDIENZA del 21/06/2007

SENTENZA N.

REG. GENERALE N.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. III Penale


Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:


Omissis


ha pronunciato la seguente:


ORDINANZA

omissis


RILEVA


1. Con atto depositato il 22 luglio 2005 il ricorrente ha proposto ricorso per cassazione avverso l'ordinanza del 4-12 luglio 2005 con cui il Tribunale di Messina ha respinto la richiesta di riesame presentata contro il provvedimento di sequestro preventivo emesso dal G.i.p. presso il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto relativo ad un autocarro che trasportava materiale edile di scarto senza le previste autorizzazioni.


Il G.i.p. ha ritenuto sussistere i presupposti del sequestro con riferimento al reato di trasporto non autorizzato di rifiuti previsto dall'art.51, comma primo, del d.lgs. n.22 del 1997, avendo riferimento anche alle diverse ipotesi di reato previste sia dal successivo comma terzo, e cioè l'ipotesi di gestione di discarica abusiva, reato cui concorrono anche le condotte di approvvigionamento del materiale poi conferito, sia dal comma secondo, sotto il profilo dello smaltimento abusivo di rifiuti derivanti da attività di impresa.


2. Avverso tale provvedimento l'odierno ricorrente ha proposto richiesta di riesame sostenendo, in primo luogo, che egli fu sottoposto a controllo da parte della Guardia di Finanza mentre era alla guida di un automezzo della propria ditta che percorreva una via centrale di Barcellona Pozzo di Gotto. Mancherebbe, dunque, qualsiasi elemento che relazioni il materiale trasportato con una qualche discarica abusiva, dovendosi piuttosto prendere atto del fatto che il materiale era destinato alla discarica autorizzata gestita dalla ditta L.F. Recuperambiente. In secondo luogo, si sarebbe in presenza di trasporto in proprio di rifiuti non pericolosi, così che non sussisterebbero i presupposti del reato previsto dal primo comma dell'art.51, citato, che si applica solo a chi trasporta materiale non pericoloso prodotto da terzi. Infine, contesta la legittimità del provvedimento in quanto costituirebbe reiterazione di atto di convalida di sequestro che aveva perduto efficacia perché decorsi inutilmente i termini di legge.


3. Il Tribunale, richiamate e fatte proprie integralmente le motivazioni del provvedimento emesso dal G.i.p., dopo avere respinto l'eccezione preliminare relativa alla reiterazione del provvedimento di sequestro da parte del Giudice, ha ritenuto sussistere il ,fumus del reato previsto dall'art.51 del d.lgs. n.22 del 1997. Afferma il Tribunale che le modalità non regolari del trasporto dei rifiuti (assenza del formulario recante, tra l'altro, le indicazioni circa la provenienza e la destinazione) risultano in contrasto con la possibilità che gli stessi venissero accettati da qualsiasi discarica autorizzata, e che le dichiarazioni della persona trasportata sul mezzo, un dipendente del Sig.Italiano, nella loro genericità non confermerebbero la prospettiva di un trasporto in discarica autorizzata.


4. Avverso l'ordinanza del Tribunale è stato presentato, in data 22 luglio 2005, ricorso per cassazione che si fonda su plurimi motivi.


Con primo motivo si lamenta violazione dell'art.606, lett.b) c.p.p. per errata applicazione dell'art.51 del d.lgs. n.22 del 1997 e violazione dell'art.606, lett.e) c.p.p. per manifesta illogicità del provvedimento. Posto che il Sig.Italiano trasportava in proprio materiali edili di scarto, e quindi rifiuti non pericolosi, non sussisterebbe per lui alcun obbligo di autorizzazione al trasporto, che, invece, sussiste con riferimento ai rifiuti pericolosi anche se trasportati da chi li produce.


Con secondo motivo si lamenta violazione dell'art.606, lett.b) c.p.p. con riferimento ai commi secondo e terzo dell'art.51 citato, nonché dell'art.606, lett.e) c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione. Il reato di discarica abusiva sussisterebbe solo in ipotesi di abbandono definitivo di prodotti di scarto in un'area a ciò destinata con carattere di stabilità (scarico abituale di rifiuti nello stesso luogo); di tale condotta mancherebbe nel caso di specie ogni elemento indiziante. Tale carenza risulterebbe dimostrata dal fatto che il provvedimento del G.i.p. finisce per considerare l'ipotesi di applicazione non del terzo, ma del secondo comma dell'art.51, e cioè l'ipotesi di abbandono di rifiuti da parte dell'imprenditore, mentre nel corso dell'udienza di riesame è stato dimostrato che il Sig.Italiano trasportava rifiuti derivanti da lavori presso una propria abitazione, e quindi agiva non come imprenditore, ma quale privato.


Con terzo motivo si lamenta violazione dell'art.606, lett.b) c.p.p. con riferimento agli artt.12 e 15 del d.lgs. n.22 del 1997, nonché dell'art.606, lett.e) c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione. Ai sensi dell'art.12,citato, infatti il Sig.Italiano avrebbe potuto compilare e consegnare il formulario al momento del conferimento in discarica o anche immediatamente dopo. Inoltre, il successivo art.15 prevede che non vi sia obbligo di formulario in caso di rifiuti prodotti in propri e trasportati senza eccedere i trenta chilogrammi o i trenta litri al giorno.


4. Chiamata a decidere sul ricorso, a seguito di camera di consiglio del 24 Novembre 2005, la Terza Sezione Penale della Corte ha emesso ordinanza (n.10328 del 2006) con cui ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale ravvisando la non manifesta infondatezza di una questione di legittimità della normativa in esame per contrasto con il diritto comunitario.


La motivazione dell'ordinanza, che per il suo contenuto costituisce l'antecedente logico della presente decisione, viene qui riportata:
3 - Dalla lettura del decreto dispositivo del sequestro preventivo e dalla impugnata ordinanza del tribunale del riesame, risulta in linea di fatto che l'autocarro sequestrato trasportava rifiuti speciali provenienti da attività di demolizione edilizia, ma non risulta che tali rifiuti fossero sicuramente destinati a una discarica.


In linea di diritto, inoltre, l'attività di trasporto e deposito di rifiuti in una discarica da parte di terzi estranei alla titolarità della discarica stessa configurerebbe solo un'operazione di smaltimento (compresa nella categoria D1 dell'Allegato B del D.Lgs. 22/1997), e non già una operazione di gestione della discarica, che invece è stata ipotizzata in via alternativa da entrambi i giudici di merito.


Sotto entrambi i profili, quindi, non può configurarsi il fumus del reato di cui all'art. 51, comma 3, del D.Lgs. 22/1997, ma solo quello del reato di cui all'art. 51, comma 1, dello stesso decreto, per trasporto di rifiuti da parte di soggetto non abilitato, che è del resto il reato che il g.i.p. aveva ravvisato, sia pure in via subordinata, nella sua ordinanza del 10.6.2005.


Neppure può configurarsi il fumus del reato di cui al secondo comma del medesimo art. 51, per abbandono o deposito incontrollato di rifiuti da parte di un titolare d'impresa, non perché l'indagato non agisce nella sua qualità di imprenditore, bensì perché la sua attività si era limitata al trasporto senza arrivare all'abbandono o al deposito incontrollato dei rifiuti trasportati.


"4 - In conclusione, il sequestro preventivo dell'autocarro col carico di rifiuti speciali, guidato da Antonino Italiano, sarebbe legittimo ai sensi dell'art. 321 c.p.p. perché ricorrerebbe sia l'astratta configurabilità del reato di cui all'art. 51, comma 1, D.Lgs. 22/1997, sia il pericolo che la libera disponibilità dell'autocarro potesse facilitare la reiterazione del reato da parte del suo proprietario.


Non c'è dubbio, infatti, che Antonino Italiano, quando fu sorpreso mentre trasportava materiali derivanti da attività di demolizione, era nell'esercizio della sua qualità d'imprenditore edile. Sul punto, la tesi del ricorrente, secondo cui egli agiva invece come privato perché trasportava rifiuti provenienti dalla demolizione di un muro della sua abitazione, è una mera asserzione fattuale inammissibile in sede di legittimità.


Più in particolare, il predetto reato sarebbe integrato dal fatto che l'indagato trasportava rifiuti speciali non pericolosi senza essere iscritto nell'Albo nazionale delle imprese previsto dall'art. 30 del D.Lgs. 22/1997. Va quindi esaminato il primo motivo di ricorso.


Al riguardo bisogna osservare che il comma 4 dell'art. 30, così come modificato dall'art. 1, comma 19, della legge 9.12.1998 n. 426 impone l'obbligo dell'iscrizione solo per "le imprese che svolgono attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi" (escluse per queste ultime i trasporti inferiori a una determinata soglia quantitativa giornaliera).


Poiché non risulta che Antonino Italiano trasportasse rifiuti prodotti da terzi, ma risulta anzi che trasportava rifiuti derivanti dalla sua stessa attività d'imprenditore edile, egli non sarebbe obbligato alla iscrizione all'Albo nazionale e non avrebbe commesso il reato di cui al più volte citato art. 51, comma 1, D. Lgs. 22/1997.


"5 - Sennonché la predetta disposizione del comma 4 dell'art. 30, così come modificato dalla citata legge 426/1998, appare in contrasto con la direttiva 91/1 56/CEE che, nel suo art. 12, stabilisce che "gli stabilimenti o le imprese che provvedono alla raccolta o al trasporto di rifiuti a titolo professionale, o che provvedono allo smaltimento o al recupero di rifiuti per conto di terzi (commercianti o intermediari) devono essere iscritti presso le competenti autorità qualora non siano soggetti ad autorizzazione". Invero, le imprese che provvedono professionalmente al trasporto di rifiuti, contemplate dalla direttiva, comprendono anche quelle che professionalmente trasportano rifiuti da esse stesse prodotte, che invece la disposizione di legge italiana esclude.


Nel dare attuazione a questa direttiva comunitaria col D.Lgs. 22/1997, il legislatore nazionale


in un primo tempo si era perfettamente adeguato all'art. 12 della direttiva, stabilendo testualmente che "le imprese che svolgono a titolo professionale attività di raccolta e trasporto di rifiuti e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti pericolosi, anche se da esse prodotti (..) devono essere iscritte all'Albo". Ma in un secondo tempo, novellando la disposizione mediante l'art. 1, comma 19, legge 426/1998, ha violato l'art. 12, laddove ha escluso dall'obbligo d'iscrizione all'Albo nazionale l'imprenditore che a titolo professionale trasporti rifiuti (non pericolosi) per conto proprio, cioè rifiuti da lui stesso prodotti.


Questa conclusione è ora consacrata, con effetti vincolanti per l'ordinamento italiano, dalla recente sentenza 9.6.2005 della Corte di Giustizia europea (Terza Sezione), che, pronunciando ex art. 226 (già 169) Trattato CE in una procedura d'infrazione promossa dalla Commissione della Comunità contro la Repubblica italiana, ha testualmente statuito che "la Repubblica italiana, permettendo alle imprese, in forza dell'art. 30, comma 4, del decreto legislativo 5.2.1997 n. 22 (..) come modificato dall'art. 1, comma 19, della legge 9.12.1998 n. 426, (..) di esercitare la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e regolare senza obbligo di essere iscritte all'Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento rifiuti (...) è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell'art. 12 della direttiva del Consiglio 15.7.19975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18.3.1991, 91/156/CEE".


Poiché non v'è dubbio che la direttiva 91/156/CEE, e in particolare il suo art. 12, non ha efficacia diretta nell 'ordinamento italiano, e poiché la sentenza dichiarativa della Corte di giustizia europea ha la stessa immediata efficacia della disposizione comunitaria interpretata (v. per tutte Corte costituzionale, 11.7.1989 n. 389), il giudice italiano, che è soggetto soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.), dovendo applicare una disposizione legislativa nazionale chiaramente incompatibile con una norma di diritto comunitario non self executing, non ha altro rimedio che sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione nazionale con riferimento agli artt. 11 e 117, comma 1, Cost., al fine di sentirne dichiarare l'abrogazione.


Nell'inerzia del legislatore, la dichiarazione d'incostituzionalità da parte del giudice delle leggi è il mezzo attraverso cui lo Stato italiano può dare esecuzione alla menzionata sentenza della Corte di giustizia europea.


"6 - La non manifesta infondatezza della questione risulta chiaramente dalle considerazioni precedenti, essendo indiscutibile - dopo la sentenza 9.6.2005 della Corte lussemburghese - che lo Stato italiano, novellando il comma 4 dell'art. 30 con l'art. 1, comma 19 della legge 426/1998, non ha rispettato i vincoli che gli derivavano dall'ordinamento comunitario attraverso il più volte menzionato art. 12 della direttiva 91/156/CEE, contravvenendo così agli artt. 11 e 117 della Carta fondamentale.


Altrettanto evidente è la rilevanza della questione, essendo la norma denunciata chiaramente inerente alla regiudicanda dedotta davanti a questo giudice di legittimità. Per valutare il fumus del reato di cui all'art. 51, comma 1, D.Lgs. 22/1997, infatti, è necessario applicare l'art. 30, comma 4, così come novellato dalla predetta norma della legge 426/1998, a meno che questa sia dichiarata incostituzionale.


La rilevanza diventa più problematica se si considera che la norma denunciata (nuovo testo dell'art. 30, comma 4), escludendo l'obbligo d'iscrizione all'Albo nazionale per gli imprenditori che esercitano la raccolta e il trasporto di rifiuti non pericolosi da essi stessi prodotti, ha modificato in senso favorevole al reo la precedente disposizione (testo originario dell'art. 30, comma 4), depenalizzando per i suddetti imprenditori non iscritti all'Albo il reato di cui all'art. 51, comma 1.


Emerge così il noto problema del sindacato di costituzionalità sulle norme penali di favore, cioè delle norme che, per determinati soggetti o ipotesi, abrogano o modificano in senso favorevole al reo precedenti norme incriminatrici.


"7 - Com'è ben noto a codesta Corte, muovendo dalla considerazione che l'eventuale accoglimento della eccezione d'illegittimità costituzionale della norma penale più favorevole non potrebbe influire sull'esito del giudizio a quo per il principio d'irretroattività di cui all'art. 25, comma 2, Cost. e all'art. 2, comma 1, cod. pen., si è tratta in passato la conclusione che le eccezioni d'incostituzionalità delle norme penali di favore sono "tipicamente" irrilevanti, con la conseguenza che dette norme restano sottratte al controllo costituzionale.


Ma in seguito il problema è stato diversamente risolto, a partire dalla sentenza 148/1983, che ha argomentato la rilevanza e l'ammissibilità delle questioni d'illegittimità costituzionale sulle norme penali di ,favore in base al duplice argomento secondo cui l'accoglimento della questione: a) verrebbe comunque a incidere sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale e si rifletterebbe sullo schema argomentativo della relativa motivazione; b) avrebbe comunque un "effetto di sistema" la cui valutazione spetta ai giudici comuni e non al giudice costituzionale. E ciò perché, senza vanificare la garanzia dell'art. 25 Cost., anche le norme penali di favore devono sottostare al sindacato di costituzionalità, "a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile".


Nel caso di specie, poi, va aggiunto un ulteriore, decisivo, argomento. L'eventuale sentenza di accoglimento cagionerebbe l'abrogazione della norma denunciata con effetto ex nunc, e quindi, in forza dell'art. 25, comma 2, Cost., non potrebbe portare alla condanna dell'indagato Antonino Italiano per il fatto anteriormente commesso. E tuttavia potrebbe portare alla conferma del sequestro preventivo dell'autocarro da lui utilizzato per il trasporto dei rifiuti, in forza della consolidata giurisprudenza secondo cui la misura cautelare di cui all'art. 321 c.p.p. ha carattere reale, in quanto prescinde dalla personale responsabilità della persona sottoposta alle indagini (v. fra le sentenze massimate Cass. Sez. III, n. 1428 del 21.6.1994, Menietti, rv. 198175; Cass. Sez. 11, n. 5472 del 21.12.1999, P.M. in proc. Coppola, rv. 215089; Cass. Sez. III, n. 11290 del 20.3.2002, P.M. in proc. Di Falco). Per conseguenza, la dichiarazione di incostituzionalità della norma denunciata avrebbe effetto immediato nel giudizio cautelare a quo senza che ciò costituisse violazione dell'art. 25, comma 2, Cost..


"8 - Questo approdo ermeneutico non è scalfito dalle numerose statuizioni di codesta Corte che hanno ribadito l'inammissibilità delle sentenze additive contra reum per rispetto dell'art. 25, comma 2, Cost., stante la strutturale diversità delle due ipotesi.


Infatti, quando è dedotta la questione di costituzionalità di una norma penale di favore, la sentenza di accoglimento ha carattere ablativo della deroga oggettiva o soggettiva introdotta, con l'effetto di ripristinare la piena portata normativa di una norma incriminatrice preesistente. Al contrario, la sentenza additiva di accoglimento (che dichiara incostituzionale la norma sospettata "nella parte in cui non prevede" etc.) ha l'effetto di creare ex novo una norma incriminatrice o di ampliare la portata di una fattispecie penale esistente, usurpando in entrambi i casi una prerogativa spettante alla discrezionalità del legislatore e violando il principio d'irretroattività dei reati e delle pene.


(Diverso sembra il caso della sentenza 440/1995, in cui, con un meccanismo di tipo ablatorio, il giudice delle leggi, in forze del principio di uguaglianza, ha esteso il reato di bestemmia della divinità anche a tutela delle religioni non cattoliche, creando così una nuova ,figura di reato, che però non era applicabile al fatto contestato nel processo a qua).


Per diversa ragione l'approdo della sentenza 148/1983 non appare intaccato neppure dalla recente sent. 161/2004 Corte cast., la quale ha escluso la possibilità di estendere l'ambito di applicazione della norma incriminatrice di cui all'art. 2621 cod. civ. (false comunicazioni sociali), come sostituito dall'art. 1 D.Lgs. 11.4.2002 n. 61, attraverso la rimozione delle soglie minime di punibilità ivi previste. Qui, infatti, la Corte ha escluso la possibilità di ampliare o aggravare la figura di un reato già esistente attraverso la "demolizione" delle soglie di punibilità, sul rilievo che queste soglie integrano requisiti essenziali di tipicità del fatto ovvero condizioni di punibilità, e cioè sono comunque "un elemento che "delimita" l'area d'intervento della sanzione prevista dalla norma incriminatrice, e non già "sottrae" determinati fatti all'ambito di applicazione di altra norma, più generale".


Tale essendo la ratio decidendi, essa non può essere applicata ai casi – come quello presente – in cui la norma denunciata per incostituzionalità è una norma penale di favore, la quale "sottrae" determinate ipotesi (nel caso specifico, il trasporto di rifiuti non pericolosi effettuato da un imprenditore per conto proprio) a una norma incriminatrice generale (derivante dal combinato disposto degli artt. 30 e 51, comma 1, D.Lgs. 22/1997 nel loro testo originario). In altri termini, facendo cadere per incostituzionalità la modifica che l'art. 1, comma 19, della legge 9.12.1998 n. 426 ha apportato all'art. 30, comma 4, D.Lgs. 22/1997, si ripristinerebbe la portata originaria di una norma incriminatrice già presente nell'ordinamento, che la novella del 1998 ha parzialmente derogato; facendo cadere le soglie di punibilità previste nell'art. 2621 cod. civ., invece, si amplierebbe la portata penale della stessa norma al di là dei limiti in cui il legislatore l'aveva configurata.


"9 – Analogo problema si è presentato alla Corte di giustizia europea, chiamata ex art. 234 (già 177) del Trattato CE a interpretare la nozione comunitaria di rifiuto, e a saggiarne la compatibilità con quella ridefinita dal legislatore italiano attraverso l'art. 14 del D.L. 8.7.2002 n. 138, convertito in legge 8.8.2002 n. 178, posto che la ricostruzione ermeneutica operata dalla Corte stessa poteva avere effetti tali da entrare in rotta di collisione con il principio di legalità e irretroattività dei reati e delle pene, che è ritenuto parte integrante anche del diritto comunitario (C. giustizia, Sez. H, dell' 11.11.2004, causa C-457/02, Niselli).


Al riguardo, la sentenza Niselli, premesso che "una direttiva non può avere l'effetto, di per sé e indipendentemente da una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni", preso atto che il fatto contestato all'imputato era stato commesso sotto il vigore delle disposizioni incriminatrici di cui al D.Lgs 22/1997, e prima dell'entrata in vigore dell'art. 14 D.L. 138/2002, ha concluso che non vi era "motivo di esaminare le conseguenze che potrebbero discendere dal principio di legalità delle pene per l'applicazione della direttiva 75/442" (parr. 29 e 30).


Diverso è il caso affrontato più di recente dalla stessa Corte europea, Grande Sezione, chiamata a risolvere in via pregiudiziale la questione se il trattamento sanzionatorio più favorevole previsto dai novellati artt. 2621 (false comunicazioni sociali) e 2622 (false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori) cod.civ. ,fosse o meno adeguato in relazione all'art. 6 della prima direttiva comunitaria sul diritto societario (sentenza 3.5.2005, Cause riunite C-387/02, C-391/02 e C¬403/02, Berlusconi e altri).


La sentenza ha osservato che il principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite fa parte integrante delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e dei principi generali del diritto comunitario (parr. 68 e 69); e ha concluso che "la prima direttiva sul diritto societario non può essere invocata in quanto tale dalle autorità di uno Stato membro nei confronti di imputati nell'ambito di procedimenti penali, poiché una direttiva non può avere come effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale degli imputati" (par. 78 e dispositivo).


Basti rilevare in proposito che, nel caso esaminato dalla corte europea, né gli originari artt. 2621 e 2622 cod. civ., che prevedevano un trattamento sanzionatorio più severo, e sotto la vigenza dei quali erano stati commessi i reati contestati, né i nuovi artt. 2621 e 2622 cod. civ., che hanno introdotto un trattamento penale più mite, costituiscono attuazione di direttive comunitarie; sicché si comprende l'affermazione secondo cui una direttiva comunitaria, per se stessa e senza la mediazione di leggi nazionali di attuazione, non possa determinare o aggravare una responsabilità penale nella soggetta materia. Mentre nel caso della disciplina sui rifiuti, la direttiva comunitaria è stata trasposta nell'ordinamento nazionale attraverso il D.Lgs. 22/1997, che ha previsto in aggiunta un sistema sanzionatorio a presidio della disciplina stessa, sicché né la previsione della responsabilità penale, né la sua limitazione derivano direttamente dalla direttiva comunitaria, essendo, invece, state introdotte, la prima dall'art. 51 del D.Lgs. 22/1997, e la seconda dall'art. 1, comma 19, della legge 426/1998. Nella presente vicenda processuale, quindi, non può farsi ricorso al principio statuito nella suddetta sentenza comunitaria del 3.5.2005, proprio perché presupposto di questo principio è la mancanza di norme nazionali attuative della direttiva comunitaria.


"10 – Infine, la rilevanza e ammissibilità della questione di legittimità costituzionale del testo novellato dell'art. 34, comma 4, D.Lgs. 22/1997 trova conforto in numerose sentenze di codesta Corte, che, proprio in materia di rifiuti, hanno dichiarato la illegittimità costituzionale di varie leggi regionali che avevano depenalizzato lo stoccaggio provvisorio non espressamente autorizzato di rifiuti tossici e nocivi (n. 306/1992; n.437/1992; n. 194/1993) o l'accumulo temporaneo di rifiuti tossici e nocivi (sent. 213/1991), o che avevano escluso dagli impianti di smaltimento di rifiuti gli impianti di depurazione per conto terzi di rifiuti liquidi, così esonerando la loro gestione dall'obbligo di autorizzazione (sent. 173/1998).


In questi casi la caducazione delle norme legislative regionali per contrasto con fonti normative gerarchicamente superiori, costituzionali e comunitarie, è perfettamente sovrapponibile alla richiesta caducazione del testo novellato del richiamato art. 30 per contrasto col diritto comunitario; ed ha gli stessi effetti sul trattamento penale degli imputati nell'ambito dei processi principali.


Per tutte queste ragioni non sembra potersi dubitare della rilevanza della questione."


5. Con ordinanza n.126 del 7 marzo-19 aprile 2007, la Corte costituzionale ha deciso la questione sollevata, restituendo gli atti alla Corte di cassazione perché valuti se la questione stessa conserva o meno attualità alla luce dello jus superveniens rappresentato dall'entrata in vigore del d.lgs. 3 aprile 2006, n.152 che, nella parte quarta, reca in terna di rifiuti una disciplina integralmente sostitutiva di quella contenuta nel citato d.lgs. n.22 del 1997. In particolare, il Giudice delle leggi evidenzia che il comma 8 dell'art.212 fissa, con il presidio della sanzione penale prevista dall'art.51, comma primo del d.lgs. n.22 del 1997, l'obbligo dell'iscrizione all'Albo nazionale anche per le imprese che esercitano la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come "attività ordinaria e regolare", sia pure prefigurando un registro sensibilmente agevolato (che esclude la necessità di garanzie finanziarie e prevede l'iscrizione a seguito di semplice richiesta scritta da parte dell'impresa)


OSSERVA


1. Le condotte contestate al Sig.Italiano risalgono all'anno 2005 e, come evidenziato nell'ordinanza di questa Corte n.10328/2006, sono successive alla modifica apportata al comma quarto dell'art.30 d.lgs. n.22 del 1997 dal comma diciannovesimo dell'art.l legge n.426 del 1998. Tale modifica escludeva dal novero delle condotte punibili il trasporto operato senza iscrizione all'Albo nazionale di rifiuti non pericolosi prodotti nell'ambito della propria attività di impresa. Deve concludersi che la condotta di trasporto di rifiuti effettuata dal Sig.Italiano, correttamente qualificata ai sensi del comma primo dell'art.51 d.lgs. n.22 del 1997 dalla citata ordinanza, non risultava penalmente rilevante secondo la normativa in vigore.


2. L'esclusione delle condotte di trasporti dei propri rifiuti non pericolosi dal novero dei comportamenti vietati contrastava con le disposizioni comunitarie, giusta la chiara lettera dell'art.12 della direttiva 91/156/CE e l'interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia con la citata sentenza del 9 Giugno 2005. Di qui la questione di legittimità costituzionale sollevata con l'ordinanza n.10328 del 2006.


3. L'ordinanza della Corte costituzionale n.126 del 2007 non ha considerato detta questione inammissibile, ma ha preso atto dell'emanazione da parte del legislatore italiano di una nuova e complessiva normativa in tema di rifiuti, circostanza che ha indotto a restituire gli atti a questa Corte perché valuti il permanere della rilevanza della questione alla luce dello jus superveniens


4. Ritiene la Corte di dover rilevare a tale proposito anche la circostanza che l'art.264, comma 1, lett.i) del d.lgs. n.152 del 2006 include espressamente il d.lgs. n.22 del 1997 tra le disposizioni di legge abrogate a seguito dell'entrata in vigore della nuova disciplina.


5. Con riferimento alla materia oggetto del presente giudizio e con riferimento alla indicazione fornita dal Giudice delle leggi, si deve evidenziare che l'art.212 del d.lgs. n.152 del 2006 prevede una nuova disciplina dell'Albo nazionale dei gestori ambientali, ed in particolare stabilisce: - al comma quinto che "L'iscrizione all'Albo è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi, di bonifica di siti, di bonifica...";


- al comma settimo che "le imprese che effettuano attività di raccolta e trasporto dei rifiuti ...devono prestare idonee garanzie finanziarie a favore dello Stato...";


- al comma ottavo che "le imprese che esercitano la raccolta e il trasporto di propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e regolare nonché le imprese che trasportano i propri rifiuti pericolosi in quantità che non eccedano... non sono sottoposte alle garanzie finanziarie di cui al comma sette e sono iscritte all'Albo regionale territorialmente competente senza che la richiesta stessa sia soggetta a valutazione ... e senza che vi sia l'obbligo di nomina del responsabile tecnico..."


6. Può, dunque, affermarsi che la disciplina contenuta nel d.lgs. n.152 del 2006 re-introduce un obbligo di iscrizione all'Albo, seppure secondo formalità e requisiti semplificati, per le imprese che trasportano in proprio i rifiuti non pericolosi da esse stesse prodotti, così che risulta superato il contrasto con la disciplina comunitaria che aveva costituito oggetto della questione di costituzionalità sollevata con l'ordinanza 10328/2006.


7. Può affermarsi, altresì, che sotto un profilo di ordine generale l'abrogazione dell'intero d.lgs. n.22 del 1997 rende, anche sotto questo aspetto, non più attuale il contrasto della disciplina nazionale con quella comunitaria.

8. Va, peraltro, osservato, che il d.lgs. n.152 del 2006 ha avuto cura di evitare problemi di coordinamento e di continuità rispetto al regime degli atti amministrativi e delle posizioni giuridiche formatesi sotto la vigenza del d.lgs. n.22 del 1997 (si veda la citata lett.i dell'art.264), ma non ha inteso intervenire sul tema della successione delle leggi penali nel tempo, così che devono ritenersi applicabili gli ordinari principi fissati dall'art.2 del Codice penale e prima ancora quanto stabilito dall'art.25, comma secondo della Costituzione.


9. Ciò significa che le condotte poste in essere nel periodo ricompreso tra la modifica introdotta con l'art.1, comma diciannovesimo della legge n.426 del 1998 e la data di entrata in vigore del d.lgs. n.152 del 2006, e pertanto anche quelle contestate all'odierno ricorrente, restano disciplinate dal quarto comma dell'art.30 del d.lgs. n.22 del 1997 nel testo ritenuto non conforme alla normativa comunitaria. E' pacifico, infatti, che la normativa introdotta nel 2006 risulta per il Sig.ltaliano meno favorevole, con la conseguenza che questa Corte dovrebbe esaminare il presente ricorso applicando la normativa in vigore al momento del fatto. Tale conclusione sembra conservare attualità alla questione di legittimità sollevata con la citata ordinanza n.10328/2006.


10. A tal proposito si deve considerare che con sentenza n.394 del 2006 la Corte costituzionale ha affrontato esplicitamente il tema delle pronunce che rimuovono una normativa sopravvenuta e restituiscono vigenza a disposizioni aventi, sul piano penale, effetti meno favorevoli per la parte privata. Premessa la centralità del principio fissato dall'art.25, comma secondo, della Costituzione, il giudice delle leggi ha ribadito (in linea con la giurisprudenza formatasi a partire dalla sentenza n.148 del 1983) che "lo scrutinio di costituzionalità anche in malam partem, delle c.d. norme penali di favore ... si connette all'ineludibile esigenza di evitare la creazione di «zone franche» dell'ordinamento ..sottratte al controllo di costituzionalità". La sentenza prosegue evidenziando che "il principio di legalità impedisce certamente alla Corte di configurare nuove norme penali; ma non le preclude decisioni ablative di norme che sottraggono determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque piu' generale, accordando loro un trattamento piu' benevolo"; in tali casi, infatti, "l'effetto in malam partem non discende dall'introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, invece, una conseguenza dell'automatica riespansione della norma generale o comune..."


Il Giudice delle leggi, nella sentenza citata, ha avuto modo di chiarire che le norme penali di favore non sono quelle che "delimitano" l'area di intervento di una norma incriminatrice e in tal modo "concorrono alla definizione della fattispecie di reato", bensì "quelle che 'sottraggono' una certa classe di soggetti o di condotte all'ambito di applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva."


11. Ritiene questo Giudice che i principi così affermati dalla Corte costituzionale consentano di concludere che, nel caso in esame, il controllo di legittimità ben potrebbe dirigersi verso la disposizione introdotta nel 1998 che, escludendo la disciplina di rigore nei confronti di una specifica tipologia di trasporti di rifiuti, ha "sottratto" quelle e solo quelle condotte all'ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice e si è posta in contrasto con la disciplina comunitaria, meritando con ciò le in equivoche censure della Corte di Giustizia.


12. Ritiene inoltre che l'attualità della questione di legittimità non possa essere esclusa con l'argomento che l'intera normativa contenuta nel d.lgs. n.22 del 1997 è stata abrogata dal d.lgs. n.152 del 2006. Infatti, per quanto esposto in precedenza, l'applicazione al caso in esame delle regole fissate da quest'ultimo provvedimento legislativo deve essere ritenuta non percorribile in quanto meno favorevole (art.2, comma quarto c.p.) e potenzialmente contrastante con i principi fissati dall'art.25 della Costituzione. Da ciò consegue che la posizione del Sig.Italiano va ancora esaminata alla luce della disposizione contenuta nel comma quarto dell'art.30 del d.lgs. n.22 del 1997, come modificato dalla citata legge n.426 del 1998, e quindi nella formulazione oggetto dei rilievi di legittimità sollevati da questa Corte con l'ordinanza n.10328 del 2006.


In altri termini, preso atto che la motivazione e le conclusioni dell'ordinanza n.126 del 2006 della Corte Costituzionale sembrano presupporre la rilevanza della questione sollevata da questa Corte con l'ordinanza n.10328/2006, deve ritenersi che tale rilevanza conservi nel caso in esame la propria attualità in quanto non risulta in concreto applicabile lo jus superveniens che ha costituito, secondo le indicazioni della Corte Costituzionale, l'oggetto del nuovo esame di questo Giudice.


13. Va ritenuto, infine, che la questione conservi il carattere di non manifesta infondatezza nei termini ampiamente illustrati con la citata ordinanza n.10328/2006 di questa Corte, che è stata in precedenza integralmente riportata nella sua parte motiva.


P.Q.M.


Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.30, comma quarto del decreto legislativo n.22 del 1997, modificato dall'art.1, comma diciannovesimo della legge n.426 del 1998, per violazione degli artt.11 e 117, comma primo, della Costituzione.


Sospende il giudizio e ordina la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, mandando alla Cancelleria per gli adempimenti come per legge.


Così deciso in Roma il 21 Giugno 2007.


 


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