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CCORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. II, 25/05/2007 (Ud. 28/03/2007), Sentenza n. 20681



INQUINAMENTO IDRICO - Acque tutela dall'inquinamento - Scarico da cartiera - Degrado di un fiume - Conseguenza del reato - Successiva alluvione con mutamento dell'ecosistema - Stravolgimento dello stato dei luoghi e eliminazione delle tracce del reato - Obbligo risarcitorio - Permanenza - Quantificazione del danno in via equitativa.
Nelle questioni di reati di inquinamento ambientale, l'obbligazione risarcitoria per il danno da reato consistente nella situazione di degrado di un fiume non viene meno nel caso in cui un successivo fatto alluvionale determini l'irreversibile modificazione dello stato dei luoghi, facendo venire meno addirittura la traccia del danno stesso. (Nella specie, data l'impossibilità di una puntuale quantificazione del danno, può procedersi ad una determinazione equitativa del risarcimento). Pres. Cosentino Rel. Zappia Ric. Cuzzi e altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. II, 25/05/2007 (Ud. 28/03/2007), Sentenza n. 20681


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UDIENZA  Camera di consiglio  del 28/03/2007

SENTENZA N. 352

REG. GENERALE N. 014453/2006


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. II Penale



Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:


Dott. COSENTINO Giuseppe Maria - Presidente -
Dott. DI IORIO Giorgio - Consigliere -
Dott. ESPOSITO Antonio - Consigliere -
Dott. CARDELLA Fausto - Consigliere -
Dott. ZAPPIA Pietro - Consigliere -


ha pronunciato la seguente:

 
SENTENZA


sul ricorso proposto da:
1) CUZZI SERGIO N. IL 29/03/1951;
2) PILLININI VALENTINO N. IL 01/09/1963;
- avverso SENTENZA del 19/10/2005 CORTE APPELLO di TRIESTE;
- visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
- udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. ZAPPIA PIETRO;
- Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. FRATICELLI Mario, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione limitatamente alla contravvenzione, fatte salve le statuizioni civili; conferma nel resto;
- Udito, per la parte civile Associazione Italia Nostra Onlus l'avv. Donolato Francesco, il quale ha depositato nota spese e chiesto il rigetto del ricorso;
- Udita per la parte civile WWF ITALIA l'avv. Giadrossi Alessandro, il quale ha depositato nota spese e chiesto il rigetto del ricorso.


FATTO


Con sentenza in data 5.4.2004 il Tribunale di Tolmezzo, in composizione monocratica, a seguito di opposizione da parte degli imputati al decreto di condanna emesso dal giudice per le indagini preliminari di Tolmezzo in data 10.5.2002, affermava la penale responsabilità di Pillinini Valentino (quale responsabile dell'Ufficio Opere Pubbliche e Manutenzioni del Comune di Tolmezzo), Cuzzi Sergio (quale Sindaco del Comune di Tolmezzo) e Pevere Antonietta (quale legale rappresentante della società Ideal Service, gestore dell'impianto di depurazione comunale) con riferimento ai reati di effettuazione di scarico non autorizzato confluente nel fiume Tagliamento (D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59, comma 1, capo a) dell'originaria rubrica) e di danneggiamento aggravato del medesimo fiume e della fognatura comunale (art. 635 cpv. c.p., capo b) della rubrica) e, ritenuta cessata la permanenza nel febbraio 2002, unificati i reati nel vincolo della continuazione e concesse le circostanze attenuanti generiche dichiarate equivalenti alle aggravanti contestate, condannava il Pillinini ed il Cuzzi alla pena di mesi sette e giorni quindici di reclusione e la Pevere alla pena di mesi cinque e giorni quindici di reclusione, oltre al pagamento in solido delle spese processuali. Condannava inoltre i predetti alla esecuzione, a proprie spese, degli interventi di messa in sicurezza degli impianti, di bonifica e di ripristino delle aree inquinate D.Lgs. n. 152 del 1999, ex art. 53. Li condannava altresì al risarcimento del danno, in solido, in favore delle parti civili processualmente sostituite Regione Friuli - Venezia Giulia, Provincia di Udine e Comune di Tolmezzo, danno da liquidarsi in separato giudizio, disattendendo ogni altra richiesta delle parti civili;

 

- li condannava, sempre in solido, al pagamento di una provvisionale pari ad Euro 90.000,00 in favore della Regione Friuli - Venezia Giulia, ad Euro 20.000,00 in favore della Provincia di Udine e ad euro 20.000,00 in favore del Comune di Tolmezzo, nonché al pagamento in favore dello Stato delle spese anticipate alle associazioni ambientaliste W.W.F. Italia, Italia Nostra e Legambiente, costituitesi in sostituzione degli enti locali ed ammesse al patrocinio a spese dello Stato. Concedeva agli imputati il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinandolo al risarcimento del danno nonché all'esecuzione dei suddetti interventi ambientali, secondo le modalità indicate dall'Agenzia Regionale Protezione Ambiente (A.R.P.A.) e sotto la vigilanza del Nucleo Operativo per la tutela dell'ambiente dei Carabinieri. Assolveva i predetti imputati dai medesimi fatti relativi al periodo successivo al febbraio 2002 perché il fatto non costituisce reato e dalla contravvenzione di omessa adozione delle misure necessarie ad evitare l'aumento dell'inquinamento - capo c) della rubrica - perché il fatto non sussiste. Assolveva il coimputato Turchetti Gianfranco (Presidente del Consorzio depurazione acque Alto Tagliamento), dal reato di cui al capo b) perché il fatto non costituisce reato e da tutte le altre imputazioni ascrittegli perché il fatto non sussiste. In estrema sintesi il decidente, rilevato che il Comune di Tolmezzo produceva circa 1.900 metri cubi orari di acque reflue, di cui circa 1.800 provenienti dagli scarichi della Cartiera Burgo e circa 100 dagli ulteriori scarichi civili ed industriali, e rilevato altresì che una parte degli scarichi della cartiera (pari a circa 450 mc/h) veniva immessa dapprima nel depuratore consortile e da qui nella condotta che portava al depuratore comunale, mentre la maggior parte (pari a circa 1.350 mc/h) veniva inviata direttamente verso il depuratore comunale, ha evidenziato che di questi complessivi 1.900 mc/h di acque reflue solo 100 mc/h erano accolti nel depuratore comunale, mentre gli altri 1.800 mc/h pervenivano, non depurati, alla roggia che confluiva nel Tagliamento, mediante una artificiosa deviazione del flusso acque (by-pass) posta all'interno del pozzetto di sfioro del depuratore comunale ed effettuata in data antecedente al 1993: e pertanto il sistema di sfioro di cui era dotato tale depuratore, destinato ad entrare in funzione solo per deviare nel fiume acque piovane in caso di eventi alluvionali da cui conseguisse un aumento dei reflui superiore ai 500 mc/h, era invece attivo di continuo perché al suo interno erano state artificialmente introdotte delle tavole in cemento che permettevano l'ingresso nel depuratore di soli 100 mc/h di acque reflue.


Ha evidenziato il decidente che tale scarico non era stato mai autorizzato, nel senso che dopo il D.Lgs. n. 152 del 1999 e la L.R. n. 2 del 2000, sarebbe stato necessario chiedere alla Provincia, ente divenuto competente, l'autorizzazione allo scarico della fognatura comunale nel Tagliamento, non potendosi condividere l'assunto della difesa secondo cui lo scarico non trattato dal depuratore poteva qualificarsi come scarico esistente, soggetto quindi alla possibilità di adeguamento entro tre anni dall'entrata in vigore del suddetto decreto, ai sensi dell'art. 62, comma 11, di tale provvedimento; ed ha evidenziato altresì che il flusso condotto verso la roggia doveva ritenersi refluo industriale, ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 2, lett. h), atteso che lo scarico da depuratore non aveva una propria caratteristica diversa da quella dei reflui convogliati, ed andava qualificato come scarico industriale in caso di refluo misto, composto (come nel caso di specie) in prevalenza da acque da insediamenti produttivi, non potendo quindi essere accolta la tesi difensiva della riconduzione del fatto alla violazione amministrativa di cui all'art. 54 del detto provvedimento normativo sotto il profilo che si tratterebbe di scarico da fognatura, non potendo la fognatura dissimulare la connotazione industriale dello scarico.


Di conseguenza il giudicante ha ritenuto la responsabilità del Cuzzi e del Pillinini in ordine al reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59 rilevando che gli stessi avrebbero dovuto revocare le autorizzazioni alla cartiera, chiedere la autorizzazione alla Provincia per lo scarico nel Tagliamento e segnalare la situazione a tale ente.


Quanto ai profili del reato di danneggiamento aggravato ha ritenuto il decidente la sussistenza di tale reato in capo agli imputati predetti, evidenziando che il mancato diniego delle autorizzazioni chieste dalla Cartiera Burgo, la mancata revoca di quelle concesse, la mancata attivazione dei competenti organi di controllo costituivano condotte omissive che, pur inseritesi in un decorso causale in cui si erano innestate altre precedenti condotte omissive, avevano tuttavia materialmente contribuito a cagionare l'evento di danno. E ciò sia per quel che riguardava il deterioramento delle acque del fiume a valle del punto di scarico, sia per quel che riguardava il deterioramento della fognatura nella parte di condotta convogliante i reflui della cartiera al pozzetto di sfioro. Condannava quindi il Cuzzi, il Pillinini e la Pevere alle pene sopra indicate, mentre assolveva il Turchetti da tutte le imputazioni ascrittegli. Condannava altresì i tre imputati predetti al risarcimento del danno, in favore degli enti territoriali, rappresentati processualmente dalle associazioni ambientaliste costituitesi in loro sostituzione, e rimetteva le parti dinanzi al giudice civile per la quantificazione del danno, ritenendo raggiunta la prova dell'entità di tale danno nei limiti della somma liquidata in dispositivo a titolo di provvisionale.


In ordine invece al risarcimento del danno in favore delle associazioni ambientaliste, ha ritenuto che non fosse stata documentata alcuna attività da parte delle medesime volta a contrastare l'inquinamento della Cartiera Burgo, di talché non poteva ritenersi raggiunta la prova di un concreto danno all'immagine delle stesse.


Avverso tale sentenza proponevano appello le associazioni ambientaliste WWF Italia, Associazione Italia Nostra ed Associazione Legambiente Friuli - Venezia Giulia, dolendosi del rigetto della domanda di risarcimento del danno patrimoniale arrecato alle medesime. Proponeva appello l'imputata Pevere Antonietta chiedendo l'assoluzione dai reati ascrittile per non avere commesso il fatto e, in subordine, la riduzione della pena inflitta, la riforma della condizione cui era subordinato il beneficio della sospensione della pena, l'annullamento della costituzione delle parti civili e della condanna risarcitoria, la sospensione dell'esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale.

Proponevano altresì appello gli odierni ricorrenti Cuzzi Sergio e Pillinini Valentino, articolando la loro impugnazione in diciassette motivi di gravame, con cui chiedevano l'assoluzione dal reato di cui al capo a) perché il fatto non era previsto dalla legge come reato essendo stato depenalizzato con la L. n. 172 del 1995;

- l'assoluzione dal detto reato perché il fatto non sussiste essendo lo scarico del depuratore comunale esistente ed autorizzato;

- l'assoluzione dal reato di danneggiamento aggravato di cui al capo b) con formula ampiamente liberatoria;

- contestavano la sussistenza del danno alla fognatura ed al fiume Tagliamento, la violazione del D.Lgs. n. 152 del 1999, artt. 58 e 60 l'illegittimità nella determinazione della pena;

- contestavano l'ordinanza dibattimentale in data 24.2.2004 con cui il Tribunale, a fronte della modifica delle imputazioni, aveva disposto il differimento d'udienza anziché la restituzione degli atti al P.M., e quella in data 20.3.2004 con cui il medesimo giudice aveva rigettato l'istanza della difesa che chiedeva la revoca dell'ordinanza precedente; lamentavano la nullità o illegittimità dell'ordinanza in data 20.3.2004 con cui il Tribunale aveva rigettato l'istanza di ammissione di nuove prove testimoniali proposta dalla difesa in relazione ai capi modificati;

- contestavano la risarcibilità del danno all'immagine dell'ente pubblico;

- deducevano il difetto di legittimazione processuale delle parti civili Legambiente e WWF impugnando conseguentemente l'ordinanza in data 5.7.2003 con cui erano state respinte le eccezioni già formulate in primo grado; lamentavano che le associazioni ambientaliste non potevano essere ammesse a costituirsi parte civile in sostituzione della Regione Friuli - Venezia Giulia, impugnando conseguentemente l'ordinanza del 5.7.2003 con cui era stata ammessa tale sostituzione; rilevavano che le associazioni ambientaliste non potevano essere ammesse al patrocinio a spese dello Stato, e comunque non potevano essere a tale beneficio ammesse ai fini della costituzione di parte civile in sostituzione della Provincia di Udine e del Comune di Tolmezzo, impugnando le relative ordinanze di ammissione; lamentavano che erano state liquidate le spese legali in favore delle predette associazioni ambientaliste senza che le relative parcelle fossero state preventivamente sottoposte al parere dell'ordine professionale, rilevando altresì l'eccessività degli importi liquidati; deducevano che, in violazione dell'art. 100 c.p.p., ciascuna parte civile era stata rappresentata ed assistita da tre difensori; formulavano istanza di sospensione dell'esecuzione della condanna subordinata al pagamento della provvisionale.


Con i nuovi motivi presentati nell'imminenza della celebrazione del giudizio di appello, la difesa degli appellanti deduceva la mancanza di dolo in relazione al contestato reato di danneggiamelo, l'insussistenza della legittimazione dell'associazione Legambiente a costituirsi parte civile, l'illegittimità della condanna al risarcimento del danno nonché al ripristino ambientale e l'illegittimità della subordinazione della sospensione condizionale della pena al risarcimento ed all'adempimento dell'obbligo di ripristino.


Con sentenza in data 19.10.2005 la Corte di Appello di Trieste, in parziale riforma dell'impugnata sentenza, assolveva tutti gli imputati dal reato di danneggiamene aggravato loro ascritto al capo b) della rubrica, limitatamente al contestato danneggiamento della fognatura comunale, perché il fatto non sussiste; assolveva Pevere Antonietta dagli altri reati alla stessa ascritti perché il fatto non costituisce reato; rideterminava per Cuzzi Sergio e Pillinini Valentino la pena in quella di mesi sei di reclusione ciascuno, sostituita con la pena di euro 6.840,00 di multa;

- revocava ad entrambi il beneficio della sospensione condizionale della pena;
- concedeva ad entrambi il beneficio della non menzione della condanna alle condizioni di legge;

- condannava il Cuzzi ed il Pillinini al risarcimento del danno cagionato alle parti civili costituite, da liquidarsi in separata sede; confermava nel resto l'impugnata sentenza;

- condannava il Cuzzi ed il Pillinini in solido al pagamento, in favore dello Stato, delle spese di patrocinio sostenute nel predetto giudizio di appello dalle parti civili costituite, che liquidava in complessivi Euro 3.000,00 per ciascuna di esse, oltre al rimborso forfetario delle spese generali ed oltre all'IVA e CNA come per legge.


Avverso tale sentenza gli imputati Cuzzi e Pillinini propongono, per mezzo del difensore, ricorso per cassazione lamentando la violazione di legge sotto diversi profili.


Col primo motivo di ricorso la difesa lamenta erronea applicazione del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59, comma 1, e dell'art. 2, lett. i) del medesimo decreto, avendo la Corte di Appello erroneamente ritenuto che una pubblica fognatura, la quale convogli reflui di origine prevalentemente, ma non esclusivamente, industriale, desse luogo ad uno scarico di acque reflue industriali anziché urbane, giungendo alla erronea conclusione che lo scarico non autorizzato da insediamento produttivo in fognatura costituisce sempre reato. Ed invero, ritenuta l'autonomia della nozione di scarico fognario avendo il legislatore qualificato la "rete fognaria" come "il sistema di condotte per la raccolta ed il convogliamento delle acque reflue urbane", alla stregua della definizione contenuta nel D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 2, comma 1, lett. aa), e ritenuto che tale autonoma nozione del sistema fognatura si contrappone alle categorie giuridiche - in precedenza utilizzate dalla giurisprudenza - dell'insediamento civile e dell'insediamento produttivo, osserva la difesa che la chiave di lettura dell'attuale disciplina in materia di scarichi è data dallo stesso legislatore il quale, al D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 2 ha fornito la definizione delle "acque reflue domestiche" intese come acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche; delle "acque reflue industriali" intese come qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici in cui si svolgono attività commerciali o industriali, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento; di "acque reflue urbane" intese come acque reflue domestiche o come il miscuglio di acque reflue civili, di acque reflue industriali ovvero meteoriche di dilavamento. Le acque reflue mantengono pertanto la loro individualità sino al momento in cui vengono convogliate nella fognatura, siccome si evince dal D.Lgs. predetto, art. 2, comma 1, lett. bb);
- una volta immesse in una fognatura che convogli anche acque reflue domestiche, le acque reflue industriali non sono più tali ma diventano, per definizione legislativa, acque reflue urbane, cui non è applicabile la norma del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59, comma 1.


Nel caso di specie le acque reflue industriali provenienti dalla Cartiera Burgo s.p.a. non pervengono direttamente al depuratore in questione, ma vengono immesse nella rete fognaria comunale molto a monte del punto in cui quest'ultima confluisce nel depuratore comunale: di conseguenza le acque che si immettono nell'impianto di depurazione sono costituite da un miscuglio di acque reflue industriali, acque meteoriche di dilavamento, acque reflue domestiche vere e proprie, acque domestiche provenienti da attività di servizi ed altre acque assimilate alle acque reflue domestiche. Col secondo motivo di ricorso la difesa lamenta la erronea applicazione del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 54, comma 1. Osserva la difesa che la norma suddetta ha confermato la depenalizzazione degli scarichi delle pubbliche fognature introdotta dalla legislazione del 1995, stabilendo che "chiunque apre o comunque effettua scarichi... di reti fognarie, servite o meno da impianti pubblici di depurazione, senza l'autorizzazione ... è punito con la sanzione amministrativa ...": la norma pertanto non distingue tra fognature di vario genere e dichiara irrilevante la circostanza che la fognatura sia dotata o meno di impianto di depurazione. Rileva pertanto la difesa che è assolutamente fuorviante chiedersi quale sia la natura dello scarico del depuratore comunale, cioè se esso abbia una sua autonomia e possa essere considerato come un insediamento produttivo, diverso e distinto rispetto ai singoli insediamenti ad esso collegati, atteso che alla stregua della nuova normativa il depuratore perde ogni autonomia e diventa parte integrante della rete fognaria. Diversamente opinando si perverrebbe alla illogica conclusione secondo cui lo scarico fognario non autorizzato non dotato di depuratore finale (e perciò in ipotesi più inquinante) sarebbe depenalizzato, mentre non lo sarebbe quello dotato di depuratore.


Col terzo motivo di ricorso la difesa lamenta erronea applicazione della L. n. 172 del 1995, art. 6 e del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 62, comma 11;

- violazione del principio di correlazione tra il fatto contestato e la decisione; mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione.


In particolare rileva la difesa che il capo di imputazione ipotizza l'esistenza di due scarichi: quello autorizzato dell'impianto di depurazione, ed un ulteriore scarico, non autorizzato, di acque che non confluiscono nell'impianto di depurazione; tale assunto è in realtà inesatto atteso che, per come evidenziato dal perito di parte (ing. Cristina Cecotti) e per come risultante dalle deposizioni testimoniali assunte (ing. Giorgio Procecco e tecnico comunale Marco Pascolini) e dagli atti pubblici del Comune, esiste un solo scarico realizzato attraverso una unica condotta che ha origine all'interno del depuratore comunale, scarico legittimamente autorizzato. Da tale considerazione deriva, per un verso, stante l'esistenza di un solo scarico, e cioè quello del depuratore sia pur comprendente anche le acque non depurate, che il fatto come delineato nel capo di imputazione non sussiste, considerato che nel detto capo di imputazione non è mai stato contestato che lo scarico del depuratore fosse sprovvisto di autorizzazione o provvisto di una autorizzazione invalida; e deriva altresì, per altro verso, che i giudici di merito, disquisendo sulla legittimità dello scarico definito principale (che in realtà è l'unico scarico), sono incorsi in una palese violazione del principio di correlazione tra la sentenza e l'accusa, atteso che il P.M. non aveva mai posto in dubbio la legittimità di tale scarico.


D'altronde rileva la difesa che la circostanza che una parte delle acque reflue che confluiscono nel depuratore comunale non venisse assoggettata a trattamenti depurativi, per l'inidoneità dell'impianto a trattare il quantitativo di acque che vi confluiscono, non vale ad integrare l'ipotesi di scarico in assenza di autorizzazione: ed invero la circostanza che la depurazione non avvenisse per carenza dell'impianto o altre cause non trasforma lo scarico in uno scarico non autorizzato potendo, al più, determinare la violazione amministrativa di cui al D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 54, comma 3.


E pertanto nel caso di specie deve conclusivamente ritenersi che il sistema fognario del Comune di Tolmezzo dava luogo ad un unico scarico di acque reflue urbane; tale scarico non abbisognava di autorizzazione prima dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 152 del 1999 in quanto autorizzato automaticamente ai sensi della L. n. 172 del 1995, art. 6 a seguito dell'approvazione del progetto; dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 152 del 1999 lo scarico doveva ottenere una nuova autorizzazione, la cui istanza poteva essere presentata, ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 62, comma 11, entro un termine variamente prorogato e poi fissato al 3.8.2004. Col quarto motivo di ricorso la difesa lamenta erronea applicazione dell'art. 635 c.p. e del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 62, comma 11, rilevando che erroneamente i giudici di merito avevano ritenuto gli imputati responsabili del danneggiamento del fiume Tagliamento per avere omesso di revocare le autorizzazioni in precedenza concesse dai loro predecessori alla Cartiera. In particolare rileva la difesa che il D.Lgs. in questione era entrato in vigore il 13.6.1999, e cioè anteriormente alla data del 28.6.1999 in cui il Cuzzi aveva assunto la carica di Sindaco ed alla data del 21.12.1999 in cui il Pillinini aveva assunto l'incarico di responsabile dell'Ufficio Opere Pubbliche Manutenzioni. Di conseguenza, posto che il D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 62, comma 11, prevedeva che "i titolari degli scarichi esistenti devono adeguarsi alla nuova disciplina entro tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto", e potevano comunque continuare nell'attività autorizzata sino alla data del 3.8.2004 (a seguito di proroga del termine originariamente fissato al 20.6.2002), essi non potevano revocare le autorizzazioni in precedenza rilasciate alla Cartiera Burgo s.p.a. perché quest'ultima, sino a tale data, aveva diritto di scaricare le proprie acque reflue in fognatura con l'obbligo di adeguarsi ai limiti previsti dal decreto legislativo. Col quinto motivo di ricorso la difesa ha lamentato erronea applicazione dell'art. 635 c.p., evidenziando che la Corte territoriale, con motivazione apparente, nonché manifestamente illogica e contraddittoria, aveva fondato la responsabilità degli imputati in ordine al reato predetto sulla documentazione fotografica che rappresentava le condizioni del fiume nell'anno 2001;

- di conseguenza, in mancanza di alcun elemento di raffronto antecedente alla data predetta, non poteva assolutamente affermarsi che la situazione del fiume fosse peggiorata a decorrere dalla data in cui i predetti imputati avevano assunto le loro funzioni istituzionali.


Col sesto motivo di ricorso la difesa lamenta erronea applicazione del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 58 atteso che la disposizione suddetta, nel prevedere la procedura per la messa in sicurezza, la bonifica ed il ripristino, non contempla affatto l'intervento del giudice penale.


Di conseguenza il Tribunale di Tolmezzo non poteva ordinare la bonifica D.Lgs. predetto, ex art. 58, e la Corte d'appello aveva erroneamente ritenuto infondato l'appello sul punto argomentando dalla circostanza, del tutto inconferente, che ai sensi del D.Lgs. in questione, art. 60 il giudice poteva subordinare la sospensione condizionale della pena all'esecuzione degli interventi di cui all'art. 58; ed invero tale possibilità non significava che il giudice poteva anche disporre l'esecuzione degli interventi medesimi, dovendo invece limitarsi a trasmettere la sentenza e gli atti al Ministero dell'Ambiente, secondo l'espressa previsione del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 58, comma 3.


Col settimo motivo di ricorso la difesa lamenta erronea applicazione ed inosservanza dell'art. 516 c.p.p.; nullità e/o abnormità dell'ordinanza pronunciata in data 24.2.2004 con cui il giudice monocratico del Tribunale di Tolmezzo, a fronte della modificazione dei capi di imputazione effettuata dal P.M., aveva disposto il differimento dell'udienza anziché la restituzione degli atti al P.M., e dell'ordinanza pronunciata in data 20.3.2004 con cui il medesimo giudice, a fronte della suddetta modificazione dei capi di imputazione effettuata dal P.M., aveva rigettato l'istanza della difesa che aveva chiesto la revoca dell'ordinanza che aveva ammesso la contestazione dei fatti nuovi e disposto il differimento dell'udienza, anziché la restituzione degli atti al P.M., con conseguente nullità della sentenza e necessità della restituzione degli atti al P.M.. Ciò in quanto con l'emissione del decreto penale di condanna si era verificata una sorta di "cristallizzazione dell'imputazione", la quale diveniva irrevocabile ed acquistava forza esecutiva in caso di mancata opposizione, ma che non poteva poi essere modificata qualora, sulla base di tale imputazione, l'imputato avesse proposto opposizione e nel conseguente giudizio ai sensi dell'art. 464 c.p.p. fosse emerso invece un fatto diverso. Con l'ottavo motivo di ricorso la difesa lamenta erronea applicazione ed inosservanza dell'art. 519 c.p.p., comma 2, seconda parte, e dell'art. 507 c.p.p.; mancata assunzione di una prova decisiva ex art. 495 c.p.p., comma 2. In particolare rileva la difesa la nullità e/o illegittimità dell'ordinanza pronunciata in data 20.3.2004 con cui il giudice monocratico del Tribunale di Tolmezzo aveva rigettato la richiesta di ammissione di nuove prove testimoniali avanzata dalla difesa in relazione ai capi di imputazione come modificati dal P.M.. Con tali prove gli imputati intendevano dimostrare che gli avvenimenti del febbraio 2002 (piena del fiume Tagliamento ed alluvione che aveva interessato non solo l'intero letto del fiume ma anche le zone circostanti) avevano provocato una irreversibile modificazione dello stato dei luoghi ed avevano determinato un assetto dell'ecosistema che nulla pertanto aveva a che vedere con l'assetto precedente. E tale circostanza, se non rilevava direttamente sotto il profilo della responsabilità penale, aveva invece forte rilevanza sotto il profilo della responsabilità civile:

- ciò in quanto, se l'attuale situazione del fiume Tagliamento non è più quella antecedente al febbraio 2002, si verifica una impossibilità di far risalire l'attuale situazione di fatto, in relazione alla quale soltanto possono essere adottati gli ordini di bonifica e ripristino, ad attività od omissioni imputabili ai ricorrenti, ciò in quanto se il presunto danno non è più esistente non può esservi alcuna condanna, neanche generica, al risarcimento dello stesso, e non può esservi condanna al ripristino ed alla bonifica.


Col nono motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge sotto il profilo del difetto di legittimazione processuale dei soggetti che si erano costituiti in giudizio in rappresentanza delle associazioni ambientaliste Lega Ambiente e WWF. In particolare rileva la difesa che secondo lo statuto del WWF la competenza a deliberare le azioni giudiziarie spetta al Consiglio Direttivo dell'associazione, mentre nel caso di specie la costituzione di parte civile era sottoscritta da un soggetto delegato da un organo diverso, il Consiglio Nazionale; e parimenti, per quel che riguarda la Lega Ambiente, la costituzione di parte civile era sottoscritta dal Presidente dell'associazione che era legittimato esclusivamente a rappresentare in giudizio l'associazione nelle azioni deliberate dal Consiglio Direttivo, delibera nel caso di specie del tutto mancante. Ciò comporta il difetto di legitimatio ad processum in capo a coloro che avevano agito in nome e per conto dell'associazione ove si osservi, per quel che riguarda il WWF, che il Consiglio Nazionale non è l'organo statutariamente deputato ad autorizzare la costituzione di parte civile dell'associazione e neppure può sostituirsi, quale organo sovraordinato, all'organo competente; mentre, per quel che riguarda la Lega Ambiente, tale facoltà compete al Consiglio Direttivo e non al Consiglio Regionale come ritenuto dalla Corte triestina. Le due anzidette associazioni dovevano pertanto essere escluse dalla costituzione di parte civile, tanto iure proprio che in rappresentanza degli enti locali, per difetto di legittimazione ad processum.


Col decimo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge nonché palese contraddittorietà e/o illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta inammissibilità della questione relativa alla costituzione di parte civile della Regione Friuli - Venezia Giulia per essere detta questione preclusa in quanto non proposta nei termini di cui all'art. 491 c.p.p..


In particolare rileva la difesa che la norma suddetta stabilisce esclusivamente una regola di economia processuale volta a definire, in limine litis, la posizione delle parti nel processo, ma non preclude ed anzi obbliga il giudice a sindacare gli aspetti formali e sostanziali della costituzione di parte civile: ciò in base all'insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte le quali hanno evidenziato che il giudice è tenuto a sindacare, all'esito del dibattimento, sia le condizioni sostanziali di proponibilità che i presupposti formali di ammissibilità della domanda risarcitoria nel processo penale (Cass. Pen. Sez. Un., 19.5.1999, n. 12286.). E pertanto i giudici di merito dovevano escludere l'ammissibilità della costituzione di parte civile delle associazioni ambientaliste in sostituzione della Regione non essendo tale possibilità prevista dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 9 che contemplava esclusivamente la sostituzione del Comune e della Provincia.


Con l'undicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge in relazione alla erronea ammissione delle predette associazioni ambientaliste al patrocinio a spese dello Stato, atteso che il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 119 reca la rubrica "Disposizioni particolari sul patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, amministrativo, contabile e tributario", e quindi non prevede la possibilità di ammissione a tale beneficio nell'ipotesi di giudizio penale. Il giudice di merito era tenuto a verificare d'ufficio le condizioni per l'ammissione dei vari soggetti al patrocinio a spese dello Stato, e gli imputati hanno diritto a sollecitare l'esercizio di tale potere officioso.


Con il dodicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge in relazione alla erronea applicazione della disposizione di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 119 che prevede l'ipotesi della costituzione degli enti e delle associazioni iure proprio e non può essere utilizzata per consentire l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato delle associazioni che intendono costituirsi parte civile in sostituzione del Comune e della Provincia.


In proposito osserva la difesa che l'assunto della Corte territoriale secondo cui la norma in parola non distingue tra le ipotesi di costituzione di parte civile delle associazioni iure proprio o in rappresentanza degli enti locali si appalesa non condivisibile atteso che le ragioni che suffragano l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato di una associazione senza fini di lucro per la tutela dei propri interessi non ricorrono chiaramente allorché l'associazione sta in giudizio per tutelare soggetti diversi, che mai potrebbero ottenere il suddetto patrocinio da parte dello Stato. Col tredicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge in relazione alla erronea applicazione dell'art. 100 c.p.p. il quale prevede che la parte civile possa nominare un solo difensore. In particolare rileva la difesa che nel processo penale celebratosi dinanzi al Tribunale di Tolmezzo ciascuna parte civile sostituita era stata rappresentata ed assistita da ben tre difensori, e rileva altresì che le tre associazioni ambientaliste ammesse a costituirsi parte civile avevano esercitato, ciascuna per conto proprio, la medesima azione risarcitoria in sostituzione degli enti, in violazione della disposizione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 9, comma 3, che consente la proposizione dell'azione risarcitoria sostitutiva da parte di un solo soggetto, con la conseguenza che l'esercizio dell'azione di parte civile da parte di tale soggetto esaurisce la facoltà di sostituire l'ente con riferimento alla medesima azione.


In proposito osserva la difesa che l'assunto della Corte d'appello secondo cui la sostituzione multipla del medesimo ente territoriale sarebbe conforme alle previsioni del D.Lgs. n. 267 del 2000, predetto art. 9, comma 1 il quale ammette ciascun elettore a far valere in giudizio le azioni spettanti a ciascun ente territoriale, appare non condivisibile atteso che la norma di cui al terzo comma del predetto art. 9 è una norma speciale e non un'applicazione del principio generale di cui al primo comma, per come si evince anche dalla rubrica del medesimo articolo (Azione popolare e delle associazioni di protezione ambientale) e dalla circostanza che, mentre il primo comma si riferisce espressamente a ciascun elettore, il comma 3 non parla di ciascuna associazione, lasciando intendere che l'azione spetta indistintamente al complesso delle associazioni e che, una volta esercitata da parte di una di esse, deve ritenersi esaurita. Col quattordicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta erronea applicazione dell'art. 635 c.p., violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, evidenziando che i giudici di merito, con affermazione assolutamente apodittica, avevano ritenuto la sussistenza del dolo del delitto di danneggiamento sulla base dell'affermazione secondo cui gli imputati erano consapevoli dell'esistenza del by-pass e della circostanza che la maggior parte dei reflui non veniva depurata, sebbene nessuno dei testimoni assunti nel corso del dibattimento avesse fatto alcuna affermazione in tal senso. Nè poteva ritenersi la configurabilità dell'elemento soggettivo del reato in questione come dolo eventuale, sotto il profilo che i detti imputati, pur non volendolo, erano coscienti che il danno si sarebbe inevitabilmente verificato ed avevano accettato tale possibilità; rileva sul punto la difesa che per contro gli imputati non avevano motivo di ritenere che gli scarichi del depuratore avrebbero certamente procurato un danneggiamento del fiume atteso che il perdurare da diversi anni di tale situazione e l'assenza di interventi da parte della Regione o dell'Assessorato competente, legittimavano il convincimento che lo scarico autorizzato in deroga non comportasse una seria compromissione delle caratteristiche del fiume. Nè appariva conducente il richiamo, operato dalla Corte territoriale, al senso comune a tenore del quale l'immissione di una gran quantità di reflui industriali non trattati in un fiume ne determinava inevitabilmente il danneggiamento, non avendo la Corte suddetta preso in considerazione alcuno degli elementi, espressamente evidenziati nel primo dei motivi aggiunti di appello, che avevano indotto gli imputati a ritenere che lo scarico autorizzato in deroga non potesse comportare la compromissione delle caratteristiche del fiume. Col quindicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge nonché contraddittorietà manifesta della motivazione con riferimento alla costituzione in giudizio della Lega Ambiente tramite l'articolazione regionale del Friuli - Venezia Giulia. Rileva in proposito la difesa che la speciale legittimazione delle associazioni di protezione ambientale, riconosciuta dalla L. 8 luglio 1986, n. 349, riguarda l'associazione ambientalistica nazionale formalmente riconosciuta e non le sue propaggini territoriali, sicché queste ultime non sono munite di autonoma legittimazione. Alla stregua di quanto sopra deve ritenersi non corretto l'assunto della Corte di merito secondo cui l'articolazione regionale della Lega Ambiente costituisce essa stessa una autonoma associazione, stante l'intrinseca contraddittorietà di tale tesi ove si osservi che, se la Lega Ambiente Friuli - Venezia Giulia è una entità distinta rispetto alla Lega Ambiente Nazionale, unica ad essere riconosciuta L. 8 luglio 1986, n. 349, ex art. 13 non può costituirsi in sostituzione degli enti territoriali D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 9 in quanto quest'ultima norma riserva la possibilità di agire in sostituzione degli enti locali esclusivamente alle associazioni riconosciute ex art. 13.


Col sedicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge in relazione al capo della pronuncia della Corte d'appello che aveva erroneamente accolto gli appelli proposti dalle associazioni ambientaliste contro la parte della sentenza di primo grado che aveva rigettato le domande di risarcimento danni proposte dalle stesse iure proprio.


Innanzi tutto rileva la difesa che le associazioni ambientaliste appellanti non erano legittimate a costituirsi parte civile iure proprio, argomentando tra l'altro dalla circostanza che la L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 5, prevede che "le associazioni individuate in base all'art. 13 della presente legge, possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi". Il legislatore era ben conscio del significato tecnico del termine "intervento" utilizzato in detta legge, per come traspare dal lavori preparatori della stessa, dalla rilevante differenza terminologica con il coevo D.L. n. 282 del 1986, art. 109 bis, contenuto della direttiva n. 39 della Legge Delega n. 81 del 1987 che equipara esplicitamente gli enti e le associazioni predette "all'offeso dal reato non costituito parte civile" e non al danneggiato. Ciò evidenzia che la norma di cui alla L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 5 deve essere intesa in senso stretto, nel senso che detta norma autorizza le associazioni ambientaliste solo all'intervento stricto sensu ma non alla costituzione di parte civile: ed invero, poiché non sussiste in capo alle associazioni ambientaliste una posizione soggettiva classificabile come diritto, non sussiste di conseguenza neanche il diritto al risarcimento del danno in caso di lesione del medesimo a seguito di reato, e quindi non è data la possibilità di costituzione di parte civile. La costituzione di parte civile effettuata dalle associazioni ambientaliste iure proprio deve essere quindi dichiarata inammissibile.


Ha rilevato inoltre la difesa che erroneamente la Corte di appello aveva ritenuto di poter condannare gli imputati al risarcimento dei danni in favore delle associazioni ambientaliste pur in assenza della dimostrazione di un danno all'immagine da parte delle stesse, siccome correttamente ritenuto dal Tribunale di Tolmezzo: ciò in quanto le dette associazioni non avevano subito alcun danno nel senso sopra specificato non avendo esse svolto, prima del febbraio 2002, alcuna specifica attività di contrasto relativamente ai fatti contestati agli imputati, tale non potendosi ritenere la effettuazione da parte della Lega Ambiente delle analisi del fiume. Si imponeva pertanto la reiezione della domanda risarcitoria proposta dalle stesse e non una condanna generica, atteso che nel caso di specie manca non soltanto la possibilità di quantificare il danno, ma soprattutto la dimostrazione dei presupposti del danno.


Con il diciassettesimo motivo di ricorso la difesa lamenta la erronea applicazione dell'art. 635 c.p. in luogo dell'art. 639 c.p.. In particolare osserva, in via subordinata, la difesa che dalle risultanze processuali non emergevano conseguenze degli scarichi nel fiume Tagliamento tali da poter essere inquadrate nella fattispecie di cui all'art. 635 c.p., quanto piuttosto modificazioni temporanee e superficiali di una limitatissima parte del fiume, che potevano e dovevano essere sussunte sotto la fattispecie di cui all'art. 639 c.p.; ciò in quanto deve ritenersi assolutamente verosimile che nel periodo in relazione al quale gli imputati sono chiamati a rispondere, la situazione del Tagliamento non si era aggravata rispetto a quella determinatasi nel periodo dal 1988 al 1999. Col diciottesimo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge rilevando che era in procinto di entrare in vigore il D.Lgs. recante "Norme in materia ambientale", adottato sulla base delle delega contenuta nella L. 15 dicembre 2004, n. 308 e definitivamente approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 10.2.2006. L'art. 318 del predetto decreto abroga della L. n. 349 del 1986, l'art. 18 e del D.Lgs. n. 267 del 2000, l'art. 9;
- tale abrogazione comporta il venir meno della legittimazione processuale delle associazioni ambientaliste predette, sia all'intervento nel processo che alla costituzione di parte civile. Si impone quindi la declaratoria della sopravvenuta inammissibilità dell'intervento e della costituzione di parte civile di dette associazioni, sia iure proprio che in rappresentanza del Comune di Tolmezzo, della Provincia di Udine e della Regione Friuli - Venezia Giulia.


Con il diciannovesimo motivo di gravame la difesa rileva la erroneità del mancato accoglimento della eccezione di prescrizione già sollevata.


In particolare, con riferimento alle sospensioni determinate dall'impedimento dell'imputato Roberto Antonione rileva la difesa che le stesse non riguardano gli altri coimputati non interessati dall'impedimento, ciò in quanto la speciale causa di sospensione predetta, in analogia con quanto sostanzialmente disciplinato dall'art. 304 c.p.p., comma 5, si applica ai soli imputati cui si riferisce.
Con riferimento alla richiesta avanzata dagli imputati L. n. 134 del 2003, ex art. 5 rileva la difesa che, alla stregua delle previsioni di tale legge, il periodo massimo di sospensione della prescrizione computabile è quello di giorni quarantacinque, indipendentemente dalla circostanza che il giudice, per esigenze dell'ufficio o per altre cause, abbia rimandato il dibattimento ad una udienza fissata in termini più ampi.


Con nota in data 22.3.2007 la parte civile WWF Italia ha chiesto il rigetto del ricorso proposto dagli imputati con conferma di tutte le statuizioni civili.


DIRITTO


Ritiene il Collegio di dover procedere, per motivi di natura logico- espositiva, ad una trattazione congiunta dei primi due motivi di gravame proposti dai ricorrenti, anche in considerazione della intrinseca connessione esistente fra i motivi suddetti. Orbene, il problema di fondo che la presente vicenda giudiziaria pone è costituito dalla qualificazione della natura, industriale o meno, dei reflui che confluiscono nella fognatura del Comune di Tolmezzo, derivando in buona sostanza da tale qualificazione l'applicazione del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59, comma 1, che sanziona penalmente l'effettuazione di scarichi industriali senza autorizzazione, ovvero dell'art. 54, comma 2, del medesimo decreto legislativo, che punisce con una sanzione amministrativa l'effettuazione di scarichi di reti fognarie, servite o meno da impianti pubblici di depurazione, senza autorizzazione.


Tale essendo il quadro normativo di riferimento, hanno rilevato i ricorrenti, posto che le acque reflue provenienti dalla Cartiera Burgo s.p.a. venivano immesse nella rete fognaria comunale molto a monte del punto in cui quest'ultima confluiva nel depuratore comunale, che le acque che si immettono nell'impianto di depurazione sono costituite da un miscuglio di acque reflue industriali, acque meteoriche di dilavamento, acque reflue domestiche, e quindi non possono essere più considerate acque reflue industriali ma diventano, per definizione legislativa, acque reflue urbane. Ciò in quanto la definizione delle stesse prescinde da ogni parametro quantitativo di talché, anche qualora l'apporto delle acque reflue industriali sia sotto tale profilo preponderante, resta interamente applicabile il regime relativo alle acque reflue urbane, con la conseguenza, in questa sede rilevante, che lo scarico anzidetto non è assoggettabile alle sanzioni penali previste dal D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59, bensì alle sanzioni amministrative previste dall'art. 54 del medesimo decreto.


Ritiene invero il Collegio di dover prendere le mosse, nella trattazione della presente vicenda giudiziaria, dal dato normativo costituito dal D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59, comma 1, laddove è previsto - per come detto - che viene penalmente sanzionato "chiunque apre o comunque effettua nuovi scarichi di acque reflue industriali, senza autorizzazione": il legislatore quindi pone un principio di diritto, dal quale l'interprete non può prescindere. Tale norma va integrata e coordinata con quella contenuta nell'art. 2 del detto decreto che al comma 1, lett. bb), fornisce la definizione di "scarico" intendendo come tale "qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria".


Quindi, alla stregua della normativa predetta, lo scarico di acque reflue industriali, senza autorizzazione, è sempre penalmente sanzionato, quale che sia il recapito finale, per come si ricava dal tenore letterale dell'art. 59 predetto, per cui anche lo scarico nella fognatura senza autorizzazione continua a costituire reato, come peraltro ritenuto dalla giurisprudenza prevalente con riferimento alla L. n. 319 del 1976, art. 21, comma 1.


Ciò in quanto la ratio della nuova normativa è quella di conseguire obiettivi di qualità ambientale, che presuppongono un controllo preventivo formale della P.A. competente per tutti gli scarichi di acque reflue industriali, in considerazione della loro maggiore pericolosità, indipendentemente alla loro destinazione finale (suolo, sottosuolo, acque superficiali, acque marine, o altro), ed anche se recapitano in pubbliche fognature. Anzi, il convogliamento delle acque di scarico industriali impone a maggior ragione l'autorizzazione, onde assicurarne la depurazione ed evitare la dispersione dell'inquinamento da un punto ad un altro del territorio. Alla stregua di quanto sopra appare non più rilevante l'assunto dei ricorrenti relativo al superamento, in relazione alla disciplina degli scarichi fognari, dei criteri di differenziazione propri della L. 10 maggio 1976, n. 319 (c.d. Legge Merli), basati sulle nozioni di "insediamento civile" e di "insediamento produttivo", e cioè sulla fonte dei reflui: assunto fondato sul rilievo che nel sistema previsto dalla attuale legislazione, la rete fognaria è costituita dal "sistema di condotte per la raccolta ed il convogliamento delle acque reflue urbane" (D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 2, comma 1, aa), dovendosi intendere per tali, ai sensi del comma 1, lett. i), del decreto legislativo predetto, le "acque reflue domestiche o il miscuglio di acque reflue civili, di acque reflue industriali ovvero meteoriche di dilavamento".


Ed invero sul punto ritiene il Collegio di dove ribadire che lo "scarico" delle acque reflue industriali avviene nel momento in cui esse sono convogliate nella fognatura, e tale "scarico", se non autorizzato, costituisce sempre e tuttora reato ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59, comma 1.
In questo senso è orientata la giurisprudenza dominante che ha avuto modo di occuparsi della problematica in questione (siccome evidenziato con dovizia di riferimenti dall'impugnata sentenza: Cass. sez. 3^, 8.11.1999 n. 14247; Cass. sez. 3^, 1.12.2000 n. 4021; Cass. sez. 3^, 31.5.2002 n. 26614; Cass. sez. 3^, 24.10.2002 n. 42932; Cass. sez. 3^, 11.2.2004 n. 13967; Cass. sez. 3^, 1.7.2004 n. 35870), ed a tale orientamento ritiene senz'altro di aderire questo Collegio, stante la assoluta coerenza dello stesso al dato legislativo ed allo spirito della normativa; e pertanto lo scarico delle acque reflue industriali in fognatura, senza autorizzazione, già costituente reato ai sensi della L. n. 319 del 1976, art. 21, comma 1, costituisce tuttora reato ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59, comma 1.
Ma alle stesse conclusioni ritiene il Collegio debba pervenirsi anche qualora si ritenga di dover aderire al diverso orientamento, peraltro minoritario, in base al quale le acque miste prelevate dalla rete fognaria, in cui confluiscono sia acque reflue industriali, sia acque reflue domestiche, sia acque meteoriche, costituiscono per definizione normativa acque reflue urbane, per le quali non è ipotizzabile il reato previsto dal D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59, comma 1; ciò in quanto le acque reflue industriali, immettendosi nella rete fognaria e mescolandosi con le altre acque, perderebbero tale loro natura divenendo ormai non più distinguibili dalle diverse acque confluite nella rete fognaria.


Premesso invero che tale tesi non appare condivisibile atteso che lo "scarico" delle acque reflue industriali avviene nel momento in cui esse vengono convogliate nella fognatura, e tale "scarico", per come detto, se privo di autorizzazione, è sempre penalmente sanzionato, osserva il Collegio che comunque l'orientamento in parola, se pur corretto sotto il profilo della indistinguibilità delle acque una volta convogliate nella rete fognaria, mostra i suoi limiti laddove esclude qualsiasi rilievo al diverso apporto quantitativo dei reflui industriali rispetto ai reflui domestici ed alle acque meteoriche. Ed invero il concetto di "miscuglio", contrariamente a quanto rilevato dai ricorrenti, non può prescindere da una comparazione quantitativa fra i diversi tipi di acque che vengono a miscelarsi, perché solo in presenza di quantitativi omogenei o comunque non sbilanciati può parlarsi di acque a natura mista.


Diversamente opinando si perverrebbe all'assurdo che anche un miscuglio composto per il 99% da reflui industriali e per il rimanente 1% da reflui domestici rientrerebbe nel concetto di "acque reflue urbane" previsto dal D.Lgs. predetto, art. 2, comma 1, lett. i) inteso nel senso di acque a natura mista.
E la tesi della necessaria valutazione dei diversi apporti di acque, se pur con qualche voce discorde (v. Cass. sez. 3^, 12.5.2004 n. 25477), è stata già affermata da questa Corte (v. Cass. sez. 3^, 8.11.1999 n. 14247; Cass. sez. 3^, 21.9.2000 n. 2884; Cass. sez. 3^, 7.11.2002 n. 1547; Cass. sez. 3^, 6.4.2004 n. 23217) che, con riferimento agli scarichi misti, ha fatto riferimento al criterio della prevalenza dei reflui.


Pertanto nel caso di specie, essendo la assoluta prevalenza della componente industriale un dato incontroverso in punto di fatto posto che le acque reflue immesse nella fognatura comunale sono costituite per il 95% dai reflui industriali della Cartiera Burgo e solo per il rimanente 5% dai reflui provenienti dall'insediamento urbano, deve escludersi l'esistenza di quel "miscuglio" previsto dalla normativa predetta e che consente di qualificare i detti reflui come "acque reflue urbane" con conseguente inapplicabilità, alla stregua della tesi sostenuta dai ricorrenti, dell'art. 59, comma 1, della citata normativa.


Da quanto sinora esposto consegue l'inapplicabilità, nel caso in esame, della disposizione di cui al secondo comma dell'art. 54 del decreto legislativo predetto, la quale punisce con una sanzione amministrativa chiunque "apre o comunque effettua scarichi di acque reflue domestiche o di reti fognarie, servite o meno da impianti pubblici di depurazione, senza l'autorizzazione di cui all'art. 45". In proposito innanzi tutto giova evidenziare che il comma 3 dell'articolo predetto, che si riferisce all'ipotesi di chi "effettua o mantiene uno scarico senza osservare le prescrizioni indicate nel provvedimento di autorizzazione", è punito con una sanzione amministrativa "salvo che il fatto costituisce reato", il che evidenzia il carattere sussidiario e residuale della norma che prevede l'illecito amministrativo, la quale può trovare applicazione solo nel caso in cui il fatto non costituisca, ai sensi dell'art. 59, comma 1, illecito penale. E che di illecito penale si tratta risulta dalle argomentazioni in precedenza espresse, dovendosi sul punto altresì evidenziare che nessuna efficacia scriminante può attribuirsi alla circostanza che i reflui della Cartiera Burgo venivano comunque introdotti nella fognatura comunale atteso che tale introduzione era finalizzata non già alla depurazione dei medesimi - evento impossibile date le dimensioni del depuratore comunale - ma a creare una parvenza di regolarità rispetto alla situazione effettiva, che era costituita dallo scarico di quei reflui nel fiume Tagliamento senza alcun trattamento diverso da quello - parziale ed insufficiente - che era stato effettuato nel depuratore consortile. In ordine alla asserita violazione del principio di correlazione tra il fatto contestato e la decisione, di cui al terzo motivo del ricorso, ed alla conseguente erronea applicazione della L. n. 172 del 1995, art. 6 e del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 62, comma 11, rileva il Collegio che tale motivo è in realtà inammissibile perché, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione tenta di sottoporre a questa Corte un giudizio di merito, non consentito neppure alla luce dei motivi nuovi presentati ai sensi della L. n. 46 del 2006;


- tale motivo è inoltre manifestamente infondato.


Va premesso che la modifica normativa dell'art. 606 c.p.p., lett. e) di cui alla L. 20 febbraio 2006, n. 46 lascia inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito.


Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, il cui vizio di mancanza, illogicità o contraddittorietà può ora essere desunto non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati. È perciò possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si realizza allorché si introduce nella motivazione un'informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia.


Attraverso l'indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa si consente nel giudizio di cassazione di verificare la correttezza della motivazione.


Ciò peraltro vale nell'ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell'ipotesi di doppia pronunzia conforme il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l'ipotesi in cui il giudice d'appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice.


Orbene, rilevano i ricorrenti che, nel mentre il capo di imputazione ipotizza l'esistenza di due scarichi, ossia quello autorizzato dell'impianto di depurazione ed un ulteriore scarico, non autorizzato, di acque che non confluiscono nell'impianto di depurazione, le risultanze processuali avevano per contro dimostrato che esisteva un unico scarico realizzato attraverso un'unica condotta che aveva origine all'interno del depuratore comunale nel quale venivano convogliati tutti i flussi delle acque; e pertanto i giudici di merito, ritenendo irrilevante l'esistenza di uno o due scarichi, ed addentrandosi in considerazioni riguardanti la legittimità dello scarico principale (ovvero dell'unico scarico secondo la tesi della difesa) che non era mai stata posta in dubbio, avevano violato apertamente il principio di correlazione tra la sentenza e l'accusa formulata, la quale riguardava l'illegittimità del presunto secondo scarico, in quanto non autorizzato.


In realtà nessuna violazione di tale principio di correlazione può ritenersi nel caso di specie verificata ove si osservi che la Corte territoriale, preso atto della divergenza fra i consulenti delle parti circa il percorso delle acque non accolte nel depuratore, posto che secondo il consulente dell'accusa i reflui non trattati convergerebbero direttamente nella roggia mentre secondo il consulente della difesa essi si unirebbero a quelli trattati nella vasca V1 posta all'uscita del depuratore, e rilevato che - siccome ritenuto dai giudici di primo grado - tale divergenza si appalesava non decisiva ai fini della decisione atteso che tutti i consulenti concordavano sul fatto che l'unico flusso depurato era quello di 100 mc/h mentre gli altri 1.800 mc/h si immettevano nel Tagliamento non depurati, ha rilevato che comunque non poteva dubitarsi dell'esistenza di una seconda canalizzazione; ciò in quanto, secondo la tesi del consulente dell'accusa, la sussistenza di una canalizzazione diversa da quella del depuratore era in re ipsa. Ma, rileva la Corte territoriale, anche privilegiando l'assunto del consulente della difesa esisterebbe pur sempre una seconda canalizzazione la quale non entrerebbe nella parte dell'impianto deputata al trattamento, ma si immetterebbe direttamente nella vasca V1 per ivi unirsi alle acque uscenti da quella parte dell'impianto ove avveniva il trattamento.


"Ma cos'è questa seconda canalizzazione, costruita in frode alla legge, se non proprio il secondo scarico menzionato in imputazione?", si chiede retoricamente la Corte territoriale.


Ed a questa impostazione ritiene di dover senz'altro aderire il Collegio, rilevando che non può pertanto ravvisarsi alcuna discrasia fra la pronuncia emessa ed i fatti contestati.


Il suddetto motivo di gravame non può pertanto trovare accoglimento;


mentre, per quel che riguarda l'ulteriore rilievo, svolto dalla difesa, concernente la legittimità dello scarico principale, ritiene il Collegio di dove rinviare la trattazione al successivo motivo di ricorso, in cui la questione viene compiutamente esaminata. Col quarto motivo di gravame i ricorrenti hanno infatti lamentato la erroneità dell'impugnata sentenza che aveva ritenuto gli stessi responsabili del danneggiamento del fiume Tagliamento per non avere revocato le autorizzazioni concesse dai loro predecessori alla Cartiera.


In particolare hanno rilevato che quando essi avevano assunto le rispettive cariche, successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 152 del 1999, si erano trovati dinanzi a soggetti già da altri autorizzati allo scarico, e dinanzi ad una normativa che consentiva a tali soggetti la possibilità di continuare nell'attività autorizzata sino al 20.6.2002 (termine poi prorogato al 3.8.2004). Il motivo non è fondato atteso che i rilievi sollevati dai ricorrenti muovono da un presupposto che, alla stregua di un corretto esame della situazione giuridico - fattuale, non può che rivelarsi inesatto: e cioè la regolarità dello scarico della Cartiera Burgo. Ed invero, date le dimensioni del depuratore comunale avente una portata massima di 100 mc/h, la introduzione dei reflui industriali provenienti dalla Cartiera (pari a 1.800 mc/h) era finalizzata non già alla depurazione degli stessi ma solo a creare una parvenza di regolarità rispetto alla situazione effettiva. Di conseguenza i reflui della Cartiera Burgo, in quanto destinati a non essere trattati dal depuratore comunale, non costituivano uno scarico regolarmente autorizzato atteso che, se pur le autorizzazioni rilasciate dalle precedenti amministrazioni alla Cartiera erano relative allo scarico in fognatura, e non nel depuratore comunale, siffatta autorizzazione non poteva che riguardare i reflui convogliati (o convogliatali) nel depuratore predetto. Il regime delle autorizzazioni è invero finalizzato a conseguire obiettivi di qualità ambientale attraverso un controllo preventivo della P.A. di tutti gli scarichi di acque reflue industriali, costituendo tale controllo una sorta di difesa avanzata rispetto al pericolo di inquinamento correlato allo scarico dei suddetti liquami, al fine di assicurare la depurazione delle acque inquinanti: altrimenti l'autorizzazione diventa un atto illegittimo, volto a creare soltanto una parvenza di regolarità amministrativa rispetto alla situazione effettiva. Può pertanto conclusivamente ritenersi che l'autorità comunale, sapendo che le acque provenienti dallo scarico della cartiera non subivano alcun trattamento di depurazione (oltre quello, parziale ed insufficiente, fornito dal depuratore consortile), non avrebbe dovuto emettere alcuna autorizzazione: di talché deve ritenersi che i reflui della cartiera, non trattati dal depuratore comunale, non costituivano uno scarico regolarmente autorizzato, e non consentivano quindi l'applicazione della disciplina transitoria prevista dal D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 62, comma 11;


correttamente pertanto la Corte di merito ha ritenuto, argomentando in tal senso, che le pregresse autorizzazioni illegittime dovevano essere revocate.


Il gravame sul punto non può quindi trovare accoglimento. Col quinto motivo di ricorso la difesa lamenta illogicità e contraddittorietà della motivazione dell'impugnata sentenza in ordine al ritenuto danneggiamento del fiume Tagliamento nel periodo rispetto al quale viene ipotizzata la responsabilità dei ricorrenti. Rileva il Collegio che la difesa ha in buona sostanza proposto, con il predetto motivo di gravame, una "rilettura" degli elementi di fatto su cui i giudici di merito hanno fondato la loro sentenza di condanna, prospettando una diversa valutazione delle risultanze processuali. In tal modo si sottopone a questa Corte un diverso giudizio di merito, che non è consentito neanche alla stregua della recente L. n. 46 del 2006.


A ciò si aggiunga che l'assunto della difesa non appare comunque condivisibile ove si osservi che la Corte territoriale ha correttamente posto in rilievo la situazione di degrado del fiume, evidenziata da numerosi elementi di prova che rendono certa l'esistenza del danno, anche con riferimento al periodo preso in considerazione nell'impugnata sentenza. Ed invero l'errore di fondo insito nel predetto motivo di gravame è dato dal fatto che, al fine dell'accertamento del danno nel periodo in questione, non è necessario accertare che vi sia stato un peggioramento della situazione ambientale rispetto al periodo precedente, ma è sufficiente riscontrare la persistente esistenza della situazione di degrado: ed invero tale persistenza del degrado biologico, posta in relazione con il fenomeno di autodepurazione delle acque correnti che avrebbe dovuto portare ad un miglioramento della situazione, comprova il perdurare dell'attività di deterioramento anche nel periodo in questione, e quindi la responsabilità degli odierni imputati in ordine al reato di danneggiamento loro ascritto. E che la qualità delle acque del fiume e la situazione di degrado ambientale fossero rimaste quanto meno stazionarie rispetto al passato è confermato sia dalla documentazione fotografica in atti che dalla deposizione della dott.ssa Franchi, biologo dell'A.R.P.A. regionale, e dagli altri elementi indicati dal giudice di primo grado e richiamati dalla Corte territoriale nell'impugnata sentenza.


Col sesto motivo di gravame la difesa lamenta l'erronea applicazione della norma di cui al D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 58, deducendo che tale norma prevedeva che la messa in sicurezza, la bonifica ed il ripristino fossero eseguiti secondo il procedimento di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 17 il quale non contemplava l'intervento del giudice penale, ed a maggior ragione non prevedeva che il giudice potesse ordinare la bonifica secondo le disposizioni dell'A.R.P.A. e sotto la sorveglianza dei N.O.E..


Il rilievo non è fondato.


Ed invero, per come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, l'argomento della difesa si pone in contrasto con il disposto del predetto D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 60 il quale prevede che "con la sentenza di condanna per reati previsti nel presente decreto, o con la decisione emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p., il beneficio della sospensione condizionale della pena può essere subordinato al risarcimento del danno ed alla esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino di cui all'art. 58".


Sul punto deve evidenziarsi che i criteri generali di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale previsti dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 17 si riferiscono all'ipotesi di soggetto che cagioni, in maniera anche accidentale, l'inquinamento o un pericolo attuale e concreto di inquinamento, di talché può ben affermarsi che la disposizione suddetta proceduralizza l'iter burocratico prescindendo dall'eventuale rilievo penalistico della vicenda. Ciò non toglie che in caso di accertamento in sede penale il giudice, nel subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla esecuzione degli interventi in questione, possa in concreto individuare le modalità attraverso cui i suddetti interventi ripristinatori debbano avere luogo, non essendo certamente vincolato alla procedura prevista dalla suddetta disposizione normativa per la diversa ipotesi di bonifica e ripristino ambientale, in sede di procedura amministrativa, dei siti inquinati.


E tali conclusioni sono suffragate da un elemento di carattere logico - sistematico, ove si osservi che la trasmissione del provvedimento emesso dal giudice penale al Ministero dell'Ambiente è prevista dal testo del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 58 che non contiene alcun riferimento alla sospensione condizionale della pena subordinata alla esecuzione delle opere di messa in sicurezza, bonifica e ripristino;


- per contro nessun obbligo di trasmissione è posto dal successivo art. 60 dello stesso decreto legislativo, il quale prevede che il beneficio della sospensione condizionale della pena possa essere subordinato alla esecuzione delle opere predette (così come nessun obbligo di trasmissione è posto dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 51 bis relativo alla attuazione delle direttive CE in tema di rifiuti pericolosi, il quale prevede che la sentenza di condanna o la decisione ex art. 444 c.p.p. pronunciata nei confronti di chiunque cagioni l'inquinamento o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento, possa subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla esecuzione delle suddette opere di messa in sicurezza, bonifica e ripristino).


Da ciò si desume che il giudice penale, nel subordinare il beneficio della sospensione alla esecuzione delle opere in questione, ben può disporre l'esecuzione degli interventi medesimi e fissarne le modalità ed il contenuto; mentre, qualora il giudice si limiti alla condanna o alla emissione del provvedimento ex art. 444 c.p.p., dovrà disporsi la trasmissione del provvedimento al Ministero dell'Ambiente affinché venga attivata la procedura amministrativa prevista dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 17.


Coerentemente a tali osservazioni, questa Sezione, con la sentenza n. 5138 del 25.1.2005, ha affermato che "tanto le misure riparatorie che il risarcimento ... previsti in tema di danno ambientale dal D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 58, si atteggiano alla stregua di prescrizioni amministrative accessorie correlate all'accertamento del fatto costituente reato, così da rendersi applicabili anche in sede di patteggiamento, a prescindere da qualsiasi accordo sul punto". Pertanto, se la statuizione di tale adempimento, in quanto prescrizione amministrativa accessoria, è stata ritenuta legittima in tema di pena patteggiata, a maggior ragione lo sarà in ipotesi di ordinaria sentenza di condanna.


E parimenti legittima deve ritenersi l'indicazione delle modalità attraverso cui gli interventi in parola devono essere eseguiti, attenendo tale ulteriore prescrizione alla concreta e corretta esecuzione delle misure ripristinatorie imposte.


Con il settimo motivo di gravame la difesa lamenta che erroneamente la Corte territoriale aveva rigettato il motivo di appello concernente la nullità ovvero abnormità dell'ordinanza in data 24.2.2004 con la quale il giudice monocratico del Tribunale di Tolmezzo, a fronte della modificazione dei capi di imputazione effettuata dal P.M., aveva disposto il differimento dell'udienza anziché la restituzione degli atti a quest'ultimo, nonché il motivo di appello concernente l'ordinanza del 20.3.2004 con cui il medesimo giudice aveva rigettato l'istanza volta alla revoca dell'ordinanza predetta.


Il motivo non è fondato alla stregua delle motivazioni già espresse da questa Corte (Cass. sez. 3^, 9.2.2005 n. 12293) a seguito di ricorso immediato proposto dagli imputati, laddove è stato evidenziato, premesso che deve ritenersi fatto pacifico che il giudizio immediato sorto a seguito di opposizione a decreto penale di condanna abbia origini diverse da quello ordinario, che "da una diversa origine e dall'inapplicabilità per ragioni di celerità al giudizio per decreto delle norme dianzi indicate dettate per il giudizio ordinario, non si può desumere anche una deroga alla disciplina del dibattimento una volta che il giudizio sia stato instaurato a seguito di opposizione a decreto penale. Invero il problema nella fattispecie consiste nello stabilire se il dibattimento del giudizio immediato instaurato a seguito di opposizione a decreto penale debba o no svolgersi nelle forme ordinarie.


Ad avviso di questo collegio, in mancanza di esplicite deroghe da parte del legislatore, il dibattimento segue le regole ordinarie compresa la possibilità di modificare l'imputazione ex art. 516 c.p.p. o di trasmettere gli atti al P.M. nelle ipotesi di cui all'art. 521. Se il legislatore avesse voluto creare deroghe al giudizio ordinario lo avrebbe detto. La riprova si trae dal fatto che nel giudizio immediato conseguente all'opposizione a decreto penale non vige il divieto della reformatio in peius. D'altra parte anche sotto la vigenza del codice del 1930, dal quale tale rito speciale deriva sia pure con qualche lieve modificazione, la giurisprudenza riteneva pacificamente che nel corso del giudizio conseguente all'opposizione a decreto penale, l'imputazione potesse essere modificata con contestazione suppletiva proprio perché le conseguenze dell'opposizione non erano presidiate dal divieto della reformatio in peius (cfr. Cass. 30 gennaio 1970, Cass. pen. 71, 627, 7 ottobre 1968, ivi 69,1393, Cass. 21 settembre 1964, ivi 65, 822). Pertanto l'art. 516 c.p.p. che consente al pubblico ministero di modificare l'imputazione è applicabile anche al giudizio immediato sorto a seguito di opposizione a decreto penale".


Il ricorso va pertanto, sul punto, dichiarato inammissibile. Con l'ottavo motivo di gravame la difesa lamenta la erroneità della decisione della Corte territoriale che aveva rigettato il motivo di appello con cui si censurava l'ordinanza in data 20.3.2004 del predetto giudice monocratico che, a fronte della suddetta modifica dei capi di imputazione operata dal P.M., aveva rigettato l'istanza degli imputati volta alla ammissione di nuove prove. Il motivo non è fondato.


Osserva il Collegio che l'assunto della difesa si basa in buona sostanza sul rilievo che, a seguito dei fatti alluvionali del febbraio 2002 che avevano determinato una irreversibile modificazione dello stato dei luoghi, il danno in ipotesi dagli stessi in precedenza cagionato non era più esistente, con la conseguenza che non poteva esserci condanna al risarcimento di detto danno ed al ripristino e bonifica dei luoghi.


Procedendo per gradi osserva innanzi tutto il Collegio che, per come evidenziato in relazione al quinto motivo di gravame, la Corte territoriale ha ben posto in rilievo la situazione di degrado del fiume, anche con riferimento al periodo preso in considerazione nell'impugnata sentenza, ed il perdurare quindi anche in tale periodo della condotta dannosa. Ritenuta pertanto l'esistenza di tale danneggiamento, si pone il problema di valutare quali conseguenze sul piano risarcitorio siano da attribuire al mutamento dell'assetto dell'ecosistema determinato dai fatti alluvionali che hanno interessato il fiume Tagliamento nel febbraio del 2002. Orbene il risarcimento è una conseguenza civilistica del danneggiamento operato, è collegato alla verificazione di tale danno, ed ha carattere e contenuto di sanzione civile correlata alla condotta posta in essere. L'obbligazione risarcitoria prescinde quindi da qualsiasi evento successivo che abbia potuto avere una qualsiasi refluenza o incidenza (in senso positivo o negativo) sul danno cagionato ma è correlata esclusivamente alla causazione di tale danno da parte del soggetto.


La circostanza che, nel caso di specie, a seguito dei successivi eventi alluvionali si sia financo persa la traccia di tali danni, per lo stravolgimento dello stato dei luoghi e dell'ecosistema, non determina certamente il venir meno dell'obbligazione risarcitoria non comportando alcuna conseguenza in ordine alla persistenza della stessa, atteso che l'unica conseguenza è data dalla impossibilità di una precisa quantificazione del relativo danno: ma a tale evenienza supplisce la disposizione contenuta nella L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 6, la quale prevede la possibilità che il danno possa essere determinato in via equitativa.


La prova dedotta dagli appellanti si appalesa pertanto inconducente, di talché correttamente non è stata ammessa dai giudici di merito. Ed analoghi rilievi ritiene il Collegio di dove effettuare con riferimento all'ulteriore risvolto del predetto motivo di gravame, concernente la condanna alla esecuzione degli interventi di messa in sicurezza degli impianti, di bonifica e di ripristino delle aree inquinate. Trattasi invero di una sanzione di carattere accessorio correlata alla verificazione del fatto reato, o più esattamente di una prescrizione amministrativa accessoria correlata all'accertamento del fatto costituente reato, destinata in ipotesi a caducarsi qualora, in sede di esecuzione, e non in sede di processo di cognizione, venga accertata l'impossibilità di tali interventi a seguito del successivo, e per cause non imputabili ai detti imputati, stravolgimento dello stato dei luoghi.


Anche sotto tale profilo il ricorso sul punto non appare fondato. Col nono motivo di ricorso la difesa lamenta la erroneità della decisione impugnata che aveva rigettato l'eccezione di difetto di legittimazione processuale dei soggetti che si erano costituiti in giudizio in rappresentanza delle associazioni ambientaliste WWF e Lega Ambiente.


Il motivo non è fondato.


Ed invero, per quel che riguarda il WWF Italia, rileva il Collegio che la Corte territoriale ha correttamente evidenziato che l'attribuzione al Comitato Direttivo, organismo ristretto eletto dal Consiglio Nazionale, della facoltà di promuovere giudizi, non espropria di tale facoltà il Consiglio Nazionale, che è il vertice amministrativo del sodalizio; ed ha riscontrato la conferma di tale principio nella delibera in data 16.12.2000 del Consiglio Nazionale con cui quest'ultimo aveva rilasciato delega generale al Presidente, o in sua assenza ai vice - Presidenti, per tutte le forme di costituzione o intervento in giudizio dell'Associazione, il che ribadiva la sostanziale equipollenza, in materia, fra la delibera del Comitato Direttivo e quella del Consiglio Nazionale. E tale conclusione trova conferma nella circostanza che il Comitato Direttivo è una emanazione del Consiglio Nazionale, dal quale ripete i suoi poteri, di talché deve escludersi che la attribuzione di una determinata facoltà al detto Comitato privi l'organo sovraordinato della facoltà medesima. Sul punto rileva il Collegio che senz'altro inconferente si appalesa il richiamo alle competenze della Giunta Municipale e del Consiglio Comunale, ove si osservi che la prima non costituisce emanazione del secondo, potendo alla stessa essere chiamati anche soggetti non facenti parte del Consiglio, e che le competenze degli organi predetti sono stabiliti per legge mentre quelle dell'associazione in parola si fondano sull'accordo associativo che ben può essere adeguato ed integrato alla stregua di una prassi consolidata.


Col decimo motivo di ricorso la difesa lamenta la erroneità della decisione impugnata che aveva ritenuto preclusa la questione relativa alla costituzione di parte civile della Regione Friuli - Venezia Giulia per non essere stata tale questione proposta nei termini di cui all'art. 491 c.p.p., rilevando che la norma suddetta stabiliva unicamente una regola di economia processuale volta a definire, in limine litis, la posizione delle parti nel processo, ma non precludeva, ed anzi obbligava il giudice a sindacare gli estremi formali e sostanziali della costituzione di parte civile. Il motivo non è fondato.


Ed invero il chiaro disposto dell'art. 491 c.p.p. non consente di dubitare che la mancata opposizione in limine alla tempestiva costituzione di parte civile, impedisce la successiva proposizione di questioni relative alla predetta costituzione, che non siano state dedotte nei termini, rendendo così stabile il rapporto civilistico istauratosi tra le parti (in tal senso, Cass. sez. 5^, 22.12.1998/3.3.1999 n. 2911; Cass. sez. 6^, 25.9.95 n. 10714). In proposito rileva il Collegio che la giurisprudenza delle SS.UU. di questa Corte (sent. n. 12 del 19.5.1999) citata dai ricorrenti afferisce alla diversa questione, che le Sezioni Unite hanno risolto positivamente, della impugnazione differita e "conglobata", unitamente alla sentenza, delle ordinanze dibattimentali ammissive della parte civile, essendo tale conclusione senz'altro coerente sotto il profilo logico - sistematico con il carattere meramente endoprocessuale dei limiti di efficacia disegnati per questo tipo di provvedimento.
Ma, posto ciò, così si esprimono le Sezioni Unite della Corte:

"Risolto in senso positivo il problema pregiudiziale dell'impugnabilità differita e "conglobata" dell'ordinanza dibattimentale in esame insieme con la sentenza, ritiene il Collegio che meriti censura la declaratoria d'inammissibilità, sotto il profilo dell'intempestività, della richiesta di esclusione della parte civile - costituitasi per l'udienza preliminare - formulata dall'imputato solo nel corso degli atti introduttivi del dibattimento, oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nell'udienza preliminare. La tesi restrittiva recepita dal Tribunale di Camerino, secondo cui la richiesta di esclusione della parte civile dovrebbe essere avanzata, nel caso di costituzione della stessa all'udienza preliminare, entro il termine di cui all'art. 420 c.p.p., comma 2, non anche per la prima volta in limine judicii, non appare invero supportata dalla esegesi letterale della disposizione di cui all'art. 80, comma 2, che, nel prescrivere nel caso di costituzione di parte civile per l'udienza preliminare che "la richiesta è proposta, a pena di decadenza, non oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nella udienza preliminare o nel dibattimento", attribuisce all'imputato una facoltà di scelta alternativa circa il momento entro cui far valere le eccezioni relative alla costituzione di parte civile, sempreché tale opzione difensiva venga esercitata entro la fase degli atti preliminari al dibattimento".


E pertanto la Corte conferma il carattere preclusivo della disposizione contenuta nel predetto art. 491 c.p.p., con la conclusione che la questione, se non sollevata subito dopo l'accertamento per la prima volta della costituzione delle parti, deve ritenersi ormai preclusa.


Ed in tale pronuncia devono ritenersi assorbite le ulteriori censure sollevate dalla difesa nel predetto motivo di gravame, concernenti la inammissibilità da parte delle associazioni ambientaliste della sostituzione della Regione Friuli - Venezia Giulia, trattandosi di questioni parimenti precluse.


Con l'undicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta la erroneità della decisione impugnata che aveva illegittimamente ammesso le predette associazioni ambientaliste al patrocinio a spese dello Stato.
Ritiene la Corte di dover esaminare tale motivo di ricorso unitamente al motivo successivo con il quale la difesa lamenta, in via sostanzialmente subordinata, l'erroneità della predetta decisione sul punto relativo alla ammissione delle associazioni predette al patrocinio a spese dello Stato quanto meno in relazione alla loro costituzione in sostituzione degli enti territoriali. Il primo rilievo è manifestamente infondato.


Ed invero la questione è stata già affrontata da questa Corte la quale ha avuto modo di evidenziare come le associazioni e gli enti che perseguono attività non di lucro possono essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato nell'ipotesi in cui abbiano esercitato l'azione civile nel processo penale. Sul punto ha così motivato la Corte: "Va in proposito ricordata la normativa di interesse. Il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 74 che prevede in via generale, al comma 1, l'istituzione del patrocinio nel procedimento penale ed al comma 2 in quello civile, amministrativo, contabile e tributario, va raccordato, in relazione alla diversa natura dei procedimenti, agli artt. 90 e 119 stesso testo. Il citato art. 90, compreso nel titolo relativo al processo penale, estende la tutela prevista per il cittadino italiano allo straniero ed all'apolide residente in Italia. L'art. 119, contenuto nel titolo concernente il processo civile, amministrativo, contabile e tributario, estende, invece, espressamente la tutela oltre che allo straniero ed all'apolide, agli enti ed associazioni che non perseguono scopi di lucro e non esercitano attività economica. Non è revocabile in dubbio che la previsione normativa (sia nel testo previgente, applicato nella vicenda de qua, che nel testo attuale) si deve intendere nel senso che nel procedimento penale le persone giuridiche non possono accedere al patrocinio a spese dello Stato, salvo nei casi - e ciò in base ad una interpretazione di carattere sistematico - in cui l'azione civile sia stata esercitata nel processo penale". (Cass. sez. 4^, 14.1.2005 n. 11165).


E tale conclusione risulta suffragata dal contenuto del predetto D.P.R. n. 115 del 2002, art. 120 il quale, nel prevedere che la parte ammessa e rimasta soccombente non può giovarsi dell'ammissione per proporre impugnazione, ha fatto salvo il caso della "azione di risarcimento del danno nel processo penale".


In relazione al detto motivo deve altresì evidenziarsi una palesa carenza di interesse in capo agli odierni ricorrenti ove si osservi, siccome altresì rilevato dalla Corte territoriale, che in virtù del principio della soccombenza di cui all'art. 541 c.p.p., gli stessi devono comunque rifondere le spese alla parte civile vittoriosa, di talché del tutto irrilevante si appalesa la circostanza che tale ordine di rifusione sia stato disposto in favore dello Stato ovvero in favore del procuratore di controparte.


Del pari manifestamente infondato deve ritenersi l'altro motivo di ricorso concernente la inammissibilità del patrocinio a spese dello Stato delle predette associazioni ambientaliste allorché agiscono non iure proprio ma esercitano un diritto nomine alieno. L'assunto di parte ricorrente si fonda sul rilievo che gli enti sostituiti non potrebbero ottenere mai l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, di talché, agendo in tale ipotesi le associazioni ambientaliste a tutela di un diritto dei predetti soggetti giuridici, ne deriva che, in tale veste, non possono beneficiare del patrocinio suddetto. La tesi non appare condivisibile ove si osservi che anche in tal caso le associazioni ambientaliste agiscono sempre in proprio, anche se per esercitare un altrui diritto, in virtù di una norma di carattere eccezionale che deroga alla disciplina generale in tema di legittimazione processuale, e non a seguito di conferimento dei poteri di rappresentanza da parte dell'ente sostituito. L'azione proposta dall'associazione di protezione ambientale ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 9, comma 3, è quindi un'azione di tipo sostitutivo o suppletivo, ma rimane pur sempre un'azione propria dell'associazione ambientalista, e non dell'ente locale sostituito:

- tant'è che le spese sono liquidate sempre a favore o a carico dell'associazione; e pertanto, non prevedendo la norma di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 119 relativa all'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, alcuna distinzione tra le ipotesi in cui le dette associazioni, proponendo l'azione risarcitoria, esercitano un diritto iure proprio o nomine alieno, il ricorso proposto non può trovare sul punto accoglimento.


Col tredicesimo motivo la difesa lamenta la erroneità della decisione impugnata che aveva ammesso ben tre associazioni a costituirsi quali sostituti processuali della Regione, della Provincia e del Comune, esercitando quindi ciascuna per proprio conto la medesima azione risarcitoria in sostituzione dei predetti enti territoriali, con la conseguenza che ciascun ente sostituito era rappresentato da tre difensori, in violazione della norma di cui all'art. 100 c.p.p. la quale prevede che la parte civile possa nominare un solo difensore.


Il motivo è manifestamente infondato.


Ed invero l'assunto di parte ricorrente, secondo cui l'azione spetterebbe indistintamente al complesso delle associazioni, con la conseguenza che una volta esercitata da una di esse deve ritenersi esaurita, non pare trovare alcun fondamento ne' nella formulazione della norma ne' tanto meno nella logica del sistema.


Ed invero, l'argomento che la difesa ritiene di ravvisare nella formulazione dell'ultima parte della disposizione di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 9 laddove è previsto che "le spese processuali sono liquidate in favore o a carico dell'associazione" singolarmente considerata, si appalesa in realtà inconsistente, ove si osservi che la norma in questione prevede, immediatamente prima, che "l'eventuale risarcimento è liquidato in favore dell'ente sostituito", utilizzando anche in tal caso la forma "singolare", se pur non possa dubitarsi, essendo tale situazione espressamente prevista dall'art. 9, stesso comma 3 che l'azione risarcitoria può essere esercitata dall'associazione in sostituzione di più enti territoriali. Si tratta per come evidente di una questione di tecnica normativa, atteso che con il predetto inciso il legislatore ha inteso porre in rilievo, con la ovvia utilizzazione del "singolare", la differenza del destinatario del risarcimento del danno rispetto al destinatario delle spese liquidate, e non certamente evidenziare che l'azione può essere esercitata da una sola associazione e, portando ad ulteriore sviluppo la tesi esposta dalla difesa, in sostituzione di un solo ente.


Ed anche sotto il profilo logico - sistematico la tesi della difesa non appare condivisibile atteso che l'esegesi della norma di cui all'art. 9 del decreto legislativo predetto, con la previsione al comma 1 che "ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni ..." ed al comma 3 che "le associazioni di protezione ambientale ... possono proporre le azioni...", evidenzia che il legislatore con la norma suddetta ha previsto una forma di sostituzione multipla e del singolo elettore e del medesimo ente territoriale.


Da ciò consegue che senz'altro legittima deve ritenersi l'ammissione alla costituzione di parte civile di ciascuna associazione ambientalista, con un solo difensore, in sostituzione della Regione, della Provincia e del Comune, e di conseguenza legittima deve ritenersi l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato e la liquidazione delle spese di giudizio in favore di ciascuna delle associazioni predette. Nè, come correttamente rilevato nell'impugnata sentenza, può ritenersi che gli enti territoriali abbiano beneficiato di un illegittimo effetto moltiplicatore dovuto al fatto che le associazioni ambientaliste costituite parte civile erano in numero di tre, avendo il Tribunale statuito la condanna generica al risarcimento del danno in favore di ciascuno dei tre enti territoriali interessati, ed a carico solidale degli imputati condannati.


Col quattordicesimo motivo di gravame la difesa lamenta la erroneità dell'impugnata sentenza che era pervenuta all'affermazione di responsabilità degli odierni ricorrenti in ordine al reato di danneggiamene pur in assenza di alcuna prova dell'esistenza in capo ai medesimi del dolo richiesto per la sussistenza del reato in parola.


Il motivo è manifestamente infondato.


Ed invero, per quel che riguarda il Cuzzi, la Corte territoriale, con motivazione assolutamente logica e del tutto coerente con le risultanze processuali, ha evidenziato come nel settembre-ottobre del 1993, l'allora responsabile dei servizi tecnici del Comune di Tolmezzo, arch. Zilli, avesse informato gli organi comunali, ed in particolare la Giunta Municipale della quale faceva parte il Cuzzi, dello stato effettivo degli scarichi della cartiera;


e pertanto il detto imputato non poteva non considerasi personalmente edotto del problema.


Analogamente, per quel che riguarda il Pillinini, la Corte territoriale ha ben posto in evidenza che lo stesso, quale dirigente dell'Ufficio Opere Pubbliche, era il responsabile del procedimento di richiesta dell'autorizzazione regionale allo scarico del depuratore comunale in deroga ai limiti tabellari, aveva posto mano alla progettazione generale delle fognature e partecipava regolarmente alle riunioni periodiche stabilite per tentare di risolvere il problema, di talché anche il predetto non poteva non essere a conoscenza del problema.


Orbene, le conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale in ordine alla conoscenza da parte sia del Cuzzi che del Pillinini della situazione di fatto relativa allo scarico della Cartiera, contrariamente a quanto rilevato nel proposto gravame, non si basano su argomentazioni generiche ma sul corretto riscontro degli esiti della compiuta istruttoria, e risultano altresì correttamente e compiutamente motivate, di talché sul punto l'impugnata sentenza si sottrae ai rilievi mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione.


Nè può sostenersi che gli imputati, a fronte del perdurare da anni della situazione in questione e della mancanza di interventi da parte della Regione e del competente Assessorato Regionale, potevano ritenere che lo scarico non comportasse una seria compromissione delle caratteristiche del fiume, di talché nella condotta degli stessi potevano tutt'al più ravvisarsi gli estremi della colpa cosciente ma non certamente quelli del dolo eventuale, siccome ritenuto in sentenza.


Anche in tal caso la Corte di appello ha correttamente rilevato che la immissione di una gran quantità di reflui industriali non trattati nel fiume determina inevitabilmente il danneggiamento dello stesso.
Trattasi invero di circostanza assiomatica, che non necessita di alcuna motivazione essendo insita nel fatto medesimo, di talché non può ritenersi che la verificazione dell'evento (compromissione delle caratteristiche del fiume) fosse una ipotesi astratta, trattandosi di evento inevitabile del quale si ignorava solo la portata e l'entità. Ma l'incertezza sulla entità del danno non vale certamente a scriminare la responsabilità dell'agente, nel senso che l'elemento soggettivo avrebbe assunto le connotazioni della colpa cosciente e non quella del dolo (inteso quale dolo eventuale), atteso che nella colpa cosciente la verificabilità dell'evento rimane una ipotesi astratta, mentre nel caso in esame siffatta verificabilità dell'evento costituiva una ipotesi probabile, anzi certa. E pertanto sotto tale profilo il proposto gravame si appalesa decisamente infondato.


E parimenti non può ritenersi fondato il rilievo secondo cui nessuna argomentazione avrebbe addotto la Corte territoriale a fondamento dell'assunto che gli imputati sarebbero stati consapevoli che i reflui immessi nel Tagliamento non venivano trattati, avendo le risultanze processuali evidenziato che la situazione esistente nel momento in cui gli stessi avevano assunto i rispettivi incarichi si protraeva sin dal 1988 e che la Regione aveva sempre autorizzato il Comune a scaricare in deroga ai limiti tabellari. Sul punto questo Collegio non può che richiamarsi a quanto già evidenziato circa la piena consapevolezza da parte sia del Cuzzi che del Pillinini della situazione di fatto relativa allo scarico della Cartiera, ritenendo di dover solo aggiungere, a proposito del rilascio delle autorizzazioni regionali in deroga, che la Corte d'Appello ha altresì posto in rilievo che dalle dichiarazioni del funzionario della Regione Friuli - Venezia Giulia ing. Procecco Giorgio era emerso che l'amministrazione Regionale era stata edotta solo in occasione della riunione tenutasi il 23.7.2001 della circostanza che il depuratore comunale non aveva capacità sufficiente a trattare la acque della cartiera, e dell'espediente (by -pass) posto in essere per evitare l'immissione delle acque reflue della cartiera nel depuratore comunale ed il conseguente danneggiamelo dello stesso. Col quindicesimo motivo di gravame la difesa lamenta la erroneità della decisione impugnata che aveva riconosciuto la legittimazione processuale della Legambiente quale articolazione regionale del Friuli - Venezia Giulia, sebbene la speciale legittimazione delle associazioni di protezione ambientale, prevista dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 9 del riguardasse l'associazione ambientalistica nazionale formalmente riconosciuta ai sensi della L. n. 349 del 1986, art. 13 e non le sue propaggini territoriali.


Il motivo è inammissibile sia perché, siccome rilevato dalla Corte territoriale, non era stato coltivato nei motivi di appello ma proposto solo con i nuovi motivi presentati successivamente, sia perché la relativa questione non era stata dedotta immediatamente dopo la costituzione di parte civile nel giudizio di primo grado. In proposito ritiene il Collegio di doversi riportare a quanto già evidenziato con riferimento al decimo morivo di gravame, circa la preclusione, alla stregua del contenuto dell'art. 491 c.p.p., derivante dalla mancata opposizione alla costituzione di parte civile entro la fase degli atti preliminari al dibattimento, e segnatamente subito dopo l'accertamento per la prima volta della costituzione delle parti.


Col sedicesimo motivo di gravame la difesa lamenta la erroneità dell'impugnata sentenza che, in accoglimento degli appelli proposti dalle associazioni ambientaliste, aveva ritenuto le stesse legittimate a costituirsi iure proprio ed aveva quindi condannato gli imputati al risarcimento del danno in favore delle predette. Il rilievo non è fondato.


Sul punto osserva innanzi tutto il Collegio che l'argomento che parte ricorrente intende ricavare dalla L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 5, il quale prevede che "le associazioni individuate in base all'art. 13 della presente legge, possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi", si appalesa in realtà inconferente.


La tesi sostenuta dalla difesa si inserisce in quel filone dottrinario, invero minoritario, per cui la facoltà di intervento, prevista dalla norma suddetta, consente alle associazioni solo l'ingresso nel processo alle condizioni e con i limiti di cui agli artt. 91 c.p.p. e ss.; tale tesi è sostenuta con riferimento al testo letterale della norma ed ai lavori preparatori da cui emergerebbe una volontà del legislatore in tale senso. Il Collegio non ritiene corretta siffatta lettura restrittiva della norma in questione, da cui deriverebbe una legittimazione, a titolo esclusivo, dello Stato e degli enti territoriali alla costituzione di parte civile in base alla L. n. 349 del 1986, art. 18 mentre le associazioni di cui all'art. 13 potrebbero solo "intervenire" nei giudizi per danno ambientale.


La norma dettata dalla predetta L. n. 349 del 1986, art. 18 ha introdotto una nuova figura di azione ed ha considerato il danno ambientale nella sua dimensione pubblica tipizzando, appunto, una fattispecie di illecito a carattere pubblicistico quale lesione del diritto delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze ambientali alla salvaguardia del patrimonio ambientale. Il rilievo che lo Stato, il Comune e la Regione - in virtù del loro rapporto di immedesimazione con il territorio - sono considerati massimi enti esponenziali della collettività ed accentrano la titolarità del ristoro del danno pubblico all'ambiente non priva altri soggetti della legittimazione diretta a rivolgersi al Giudice penale per la tutela di altri diritti patrimoniali o personali compresi nel degrado ambientale: l'art. 18 citato integra e non esclude i principi generali in materia del risarcimento del danno e di costituzione di parte civile.


Sul punto questa Corte ha avuto già modo di evidenziare che la norma di cui alla L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 5 non esclude la possibilità di costituzione di parte civile, iure proprio, delle associazioni ambientaliste, nell'ipotesi di danno all'ambiente:
"Ora il nocumento in oggetto ha dimensioni diversificate. La Corte Costituzionale, con sentenza 641/1987, ha rilevato che l'ambiente è bene primario ed assoluto e la sua protezione è "elemento determinante per la qualità della vita", "non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, bensì esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini"; in tale modo, la Consulta ha riconosciuto che il danno ambientale può recare lesione alla posizione giuridica dei singoli. La giurisprudenza di legittimità è andata oltre questo principio è ed ha rilevato che il danno ambientale presenta, oltre a quella pubblica, una dimensione personale e sociale quale lesione del diritto fondamentale all'ambiente salubre di ogni uomo e delle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità; il danno in oggetto, in quanto lesivo di un bene di rilevanza costituzionale, quanto meno indiretta, reca una offesa alla persona umana nella sua sfera individuale e sociale. Tale rilievo porta alla conclusione che la legittimazione a costituirsi parte civile per danno ambientale non spetta solo ai soggetti pubblici, in nome dell'ambiente come interesse pubblico, ma anche alle persone singole o associate in nome dell'ambiente come diritto fondamentale di ogni uomo. Di conseguenza la legittimazione in oggetto spetta anche alle associazioni ecologiche quando hanno subito dal reato una lesione di un diritto di natura patrimoniale (ad esempio, per i costi sostenuti nello svolgimento della attività dirette ad impedire pregiudizio al territorio o per la propaganda) o non patrimoniale (ad esempio, attinente alla personalità del sodalizio per il discredito derivante dal mancato raggiungimento dei fini istituzionali che potrebbe indurre gli associati a privare l'ente del loro sostegno personale e finanziario)" (Cass. sez. 3^, 21.10.2004 n. 46746).


Ed ha rilevato che sulla possibilità delle associazioni ambientaliste a costituirsi parte civile, nel caso in esame, si è pronunciata la prevalente giurisprudenza di legittimità sia pure con differenti motivazioni (Cass. sez. 6^, 10.1.1990, n 59; Cass. sez. 3^, 26.2.1990, n. 2603; Cass. sez. 3^, 11.4.1992, n. 4487; Cass. sez. 3^, 13.11.1992, n. 10956; Cass. sez. 3^, 21.5.1993, n. 5230; Cass. sez. 3^, 28.10.1993, n. 9727; Cass. sez. 3^, 19.1.1994, n. 439; Cass. sez. 3^, 6.4.1996, n. 3503; Cass. sez. 3^, 19.11.1996, n. 9837; Cass. sez. 3^, 26.9.1996, n. 8699; Cass. sez. 3^, 10.6.2002, n. 22539). Nè per contrastare questa ricostruzione potrebbero essere addotti i lavori preparatori della L. n. 349 del 1986 e l'attuale disciplina dell'intervento, poiché quest'ultima è successiva all'introduzione della disciplina del danno ambientale, sicché non può essere utilizzata per interpretare una normativa anteriore. I lavori preparatori impongono invece una diversa lettura, giacché l'intervenuta modifica in Senato del testo dell'attuale art. 18 proposto dalla Camera dei deputati, in cui era prevista la possibilità di costituirsi parte civile delle associazioni ambientaliste, deve essere considerata nel complessivo mutamento di tutta la norma, che ha attribuito la competenza per dette controversie all'autorità giudiziaria ordinaria invece che alla Corte dei Conti, sicché non era necessario ribadire detta ammissibilità, recepita da parte della dottrina e della giurisprudenza.


Con lo stesso motivo di gravame parte ricorrente ha rilevato che erroneamente la Corte territoriale aveva condannato gli imputati al risarcimento del danno in favore delle associazioni ambientaliste in assenza della dimostrazione di un danno patrimoniale ovvero di un danno all'immagine o alla personalità.


Neanche sul punto il rilievo è fondato.


In materia ritiene il Collegio di dover ribadire, rifacendosi a quanto evidenziato nella sentenza n. 22539 del 5.4.2002, che "il danno ambientale presenta una triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto fondamentale all'ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto fondamentale all'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana, ex art. 2 Cost.) pubblica (quale lesione del diritto - dovere pubblico spettante alle istituzioni centrali e periferiche) (vedi Cass. sez. 3^, 19.1.1994, n. 439, .....). All'affermazione che il danno ambientale non consiste soltanto in una compromissione dell'ambiente in violazione di leggi ambientali (nel senso dianzi specificato) ma anche, contestualmente ed inscindibilmente, in una "offesa della persona umana nella sua dimensione individuale e sociale" consegue che la legittimazione a costituirsi parte civile non spetta solo ai soggetti pubblici (Stato, Regione, Province, Comuni, Enti parco, etc.), in nome dell'ambiente come interesse pubblico, ma anche alla persona singola o associata, in nome dell'ambiente come diritto fondamentale di ogni uomo e valore di rilevanza costituzionale (vedi Cass. sez. 3^, 19.11.1996, n. 9837, .....e 23.11.1989, n. 16247, .....).


La costituzione di parte civile delle associazioni di protezione ambientale è ammissibile quando l'interesse diffuso alla tutela dell'ambiente non è astrattamente connotato ma si concretizza in una determinata realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo e che è diventata la ragione e, perciò, elemento costitutivo di esso, purché - comunque - dal reato sia derivata una lesione di un diritto soggettivo inerente lo scopo specifico perseguito. Deve ritenersi perciò configurabile, in capo alle associazioni ecologiste (come affermato da Cass. sez. 3^, 26.9.1996, n. 8699, .....e altri), la titolarità:
- di un diritto soggettivo individuabile nella salubrità dell'ambiente (la cui lesione comporta un danno "aquiliano" risarcibile), sempre che un'articolazione territoriale colleghi le associazioni medesime ai beni lesi;

- di un diritto della personalità dell'ente (la cui lesione comporta la facoltà di agire per il risarcimento dei danni morali e materiali relativi all'offesa, diretta ed immediata, dello scopo sociale che costituisce la finalità propria del sodalizio)".


In questa prospettiva appare senz'altro corretta la determinazione della Corte territoriale la quale, rilevato che la tutela dell'ambiente costituiva il fine statutario essenziale delle associazioni, che le stesse erano radicate sul territorio (non essendo a tal fine necessario che gli associati avessero la propria residenza nella zona oggetto dell'illecito ambientale), che rappresentavano un gruppo significativo di consociati, che avevano fornito degli indubbi e rilevanti contributi, anche conoscitivi, sulla vicenda in questione, ha ritenuto legittima la costituzione di parte civile iure proprio ed ha condannato gli imputati al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede, evidenziando, se pur genericamente trattandosi di condanna risarcitoria generica, gli elementi che andavano a costituire il danno patrimoniale ed il danno non patrimoniale dalle stesse subito.


Orbene, le argomentazioni poste dalla Corte territoriale a fondamento della propria decisione si appalesano senz'altro condivisibili avendo la stessa correttamente evidenziato le poste di danno patrimoniale risarcibile e la lesione di quelle finalità di salvaguardia dell'ambiente proprie delle associazioni medesime. Sul punto rileva il Collegio che, argomentando da quanto evidenziato dalla Corte Costituzionale nelle sentenza n. 210 e 641 del 1987, secondo cui il danno ambientale costituisce anche una "offesa della persona umana nella sua dimensione individuale e sociale", è configurabile in capo alle associazioni ambientaliste, quali portatrici di un interesse diffuso, l'esistenza di un diritto soggettivo e di un danno risarcibile individuabile nel pregiudizio alla qualità della vita della comunità di riferimento e nell'offesa, diretta ed immediata, dello scopo sociale che costituisce la finalità propria del sodalizio.


Col diciassettesimo motivo di gravame la difesa lamenta, in via subordinata, la erroneità della decisione dei giudici di merito che avevano ritenuto la sussistenza del reato di cui all'art. 635 c.p. mentre la fattispecie in esame doveva essere sussunta nell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 639 c.p..


Il motivo è manifestamente infondato oltre che inammissibile in quanto con lo stesso si propone, ai fini della qualificazione giuridica della condotta contestata, una rilettura degli elementi di fatto, non consentita a questa Corte neanche alla stregua della recente L. n. 46 del 2006.


Devesi comunque evidenziare che chiaramente non condivisibile si appalesa l'assunto della difesa secondo cui nella fattispecie si sarebbe in presenza di modificazioni temporanee e superficiali. Questo Collegio non può che riportarsi a quanto evidenziato con riferimento al quinto di motivo di ricorso, per ribadire che, siccome rilevato dalla Corte territoriale, dalla compiuta istruttoria era emerso un quadro decisamente grave della situazione di degrado ambientale e della persistenza della situazione di degrado biologico del fiume anche nel periodo preso in esame al fine dell'accertamento della responsabilità degli imputati, di talché deve correttamente parlarsi non già di modificazioni temporanee e superficiali bensì di modificazioni persistenti e profonde (ove si osservi che la situazione di degrado biologico, nonostante il fenomeno di autodepurazione delle acque, nel periodo in questione non era ne' venuta meno ne' migliorata). E pertanto la fattispecie in esame rientra senz'altro nella previsione normativa di cui all'art. 635 c.p. avendo sul punto questa Corte evidenziato che ricorre l'ipotesi di deterioramento di cui all'art. 639 c.p. e non quella di danneggiamento di cui all'art. 635 c.p. solo "quando l'alterazione apportata sia temporanea e superficiale sicché, per quanto costoso possa essere il restauro, l'aspetto originario del bene è facilmente reintegrabile" (Cass. sez. 2^, 10.5.2002 n. 22370; in senso conforme, Cass. Sez. 2^, 16.6.2005 n. 28793); ipotesi che, per i motivi in precedenza esposti, non è ravvisabile certamente nel caso di specie. Col diciottesimo motivo di ricorso la difesa rileva che era in procinto di entrare in vigore il decreto legislativo recante "norme in materia ambientale", che attribuiva al Ministero dell'Ambiente la legittimazione esclusiva all'esercizio delle azioni risarcitorie in materia di danno ambientale, anche in sede penale, e prevedeva l'abrogazione della L. n. 349, del 1986, l'art. 18, e del D.Lgs. n. 267 del 2000 l'art. 9: ciò comportava la conseguente caducazione della legittimazione processuale della associazioni ambientaliste e quindi sopravvenuta inammissibilità della costituzione di parte civile.


Il motivo è manifestamente infondato.


Ed invero il Collegio, nel rilevare che con il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 è stata effettivamente attribuita al Ministero dell'Ambiente la legittimazione esclusiva all'esercizio delle azioni risarcitorie in subiecta materia (art. 311) ed è stata disposta l'abrogazione delle norme sopra indicate (art. 318), deve tuttavia evidenziare che nel procedimento penale vige, ai sensi dell'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, il principio della irretroattività, per cui la legge non dispone che per l'avvenire. Quindi per gli atti già posti in essere si applica la legge vigente al momento del compimento degli stessi, e tali atti mantengono la loro efficacia per tutto il processo, in base al principio operante sul piano processuale del "tempus regit actum": e tale principio comporta, secondo una regola generale, logica prima che giuridica, che la nuova normativa troverà applicazione solo nei nuovi giudizi iniziati a partire dalla data di entrata in vigore della nuova legge. Quindi la costituzione di parte civile, effettuata dalle associazioni ambientaliste in base alla legittimazione loro attribuita dalla legislazione all'epoca vigente, mantiene la sua efficacia per l'intero corso del giudizio, non essendo alla situazione predetta applicabile, ratione temporis, la nuova normativa dettata dal D.Lgs. n. 152 del 2006.


Con l'ultimo motivo di gravame la difesa censura l'opinione espressa dalla Corte territoriale circa la sospensione ex lege dei termini prescrizionali.


I rilievi sono manifestamente infondati.


Ed invero, per quel che riguarda le sospensioni determinate dall'impedimento dell'imputato Antonione Roberto, rileva il Collegio che le stesse, in base al disposto dall'art. 161 c.p., si estendono anche agli altri imputati non interessati dall'impedimento;
nè può ritenersi che il regime della sospensione non si applichi agli altri imputati in analogia alla previsione dell'art. 304 c.p.p., comma 5, atteso che tale norma prevede, ai fini della non applicabilità della sospensione, che gli altri coimputati chiedano "che si proceda nei loro confronti previa separazione dei processi". E parimenti, per quel che riguarda la richiesta avanzata dagli imputati ai sensi della L. n. 134 del 2003, art. 5 osserva il Collegio che la norma in parola, disponendo che "il dibattimento è sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni", prevede non già un periodo "massimo" bensì un periodo "minimo" di sospensione del dibattimento; e di conseguenza deve ritenersi che la consequenziale sospensione della decorrenza della prescrizione è operante non già limitatamente al suddetto periodo di quarantacinque giorni, ma per tutto il periodo di intervallo fra una udienza e l'altra, non potendosi prescindere dalle esigenze del ruolo dell'ufficio.


Consegue da quanto sopra esposto il rigetto del ricorso, cui segue la condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.


I detti ricorrenti vanno altresì condannati in solido al pagamento, in favore dello Stato, delle spese di patrocinio sostenute dalle parti civili costituite WWF Italia e Italia Nostra Onlus che si liquidano, per la prima, in complessivi Euro 2.500,00, e per la seconda in complessivi Euro 2.000,00, oltre IVA e CPA.


P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali. Condanna, altresì, i ricorrenti in solido al pagamento, in favore dello Stato, delle spese di patrocinio sostenute dalle parti civili costituite WWF Italia e Italia Nostra Onlus che liquida in complessivi Euro 2.500,00 per la prima ed in complessivi Euro 2.000,00 per la seconda, oltre IVA e CPA. Così deciso in Roma, nella Pubblica udienza, il 28 marzo 2007.


Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2007

 
 


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