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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006 - ISSN 1974-9562
CCORTE
DI CASSAZIONE Penale, Sez. II, 25/05/2007 (Ud. 28/03/2007), Sentenza n. 20681
INQUINAMENTO IDRICO - Acque tutela dall'inquinamento - Scarico da cartiera -
Degrado di un fiume - Conseguenza del reato - Successiva alluvione con mutamento
dell'ecosistema - Stravolgimento dello stato dei luoghi e eliminazione delle
tracce del reato - Obbligo risarcitorio - Permanenza - Quantificazione del danno
in via equitativa. Nelle questioni di reati di inquinamento ambientale,
l'obbligazione risarcitoria per il danno da reato consistente nella situazione
di degrado di un fiume non viene meno nel caso in cui un successivo fatto
alluvionale determini l'irreversibile modificazione dello stato dei luoghi,
facendo venire meno addirittura la traccia del danno stesso. (Nella specie, data
l'impossibilità di una puntuale quantificazione del danno, può procedersi ad una
determinazione equitativa del risarcimento). Pres. Cosentino Rel. Zappia Ric.
Cuzzi e altri. CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. II, 25/05/2007 (Ud.
28/03/2007), Sentenza n. 20681
www.AmbienteDiritto.it
UDIENZA Camera di consiglio del 28/03/2007
SENTENZA N. 352
REG. GENERALE N. 014453/2006
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. II Penale
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. COSENTINO Giuseppe Maria - Presidente -
Dott. DI IORIO Giorgio - Consigliere -
Dott. ESPOSITO Antonio - Consigliere -
Dott. CARDELLA Fausto - Consigliere -
Dott. ZAPPIA Pietro - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) CUZZI SERGIO N. IL 29/03/1951;
2) PILLININI VALENTINO N. IL 01/09/1963;
- avverso SENTENZA del 19/10/2005 CORTE APPELLO di TRIESTE;
- visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
- udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. ZAPPIA
PIETRO;
- Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. FRATICELLI Mario, che ha
concluso per l'annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione
limitatamente alla contravvenzione, fatte salve le statuizioni civili; conferma
nel resto;
- Udito, per la parte civile Associazione Italia Nostra Onlus l'avv. Donolato
Francesco, il quale ha depositato nota spese e chiesto il rigetto del ricorso;
- Udita per la parte civile WWF ITALIA l'avv. Giadrossi Alessandro, il quale ha
depositato nota spese e chiesto il rigetto del ricorso.
FATTO
Con sentenza in data 5.4.2004 il Tribunale di Tolmezzo, in composizione
monocratica, a seguito di opposizione da parte degli imputati al decreto di
condanna emesso dal giudice per le indagini preliminari di Tolmezzo in data
10.5.2002, affermava la penale responsabilità di Pillinini Valentino (quale
responsabile dell'Ufficio Opere Pubbliche e Manutenzioni del Comune di
Tolmezzo), Cuzzi Sergio (quale Sindaco del Comune di Tolmezzo) e Pevere
Antonietta (quale legale rappresentante della società Ideal Service, gestore
dell'impianto di depurazione comunale) con riferimento ai reati di effettuazione
di scarico non autorizzato confluente nel fiume Tagliamento (D.Lgs. n. 152 del
1999, art. 59, comma 1, capo a) dell'originaria rubrica) e di danneggiamento
aggravato del medesimo fiume e della fognatura comunale (art. 635 cpv. c.p.,
capo b) della rubrica) e, ritenuta cessata la permanenza nel febbraio 2002,
unificati i reati nel vincolo della continuazione e concesse le circostanze
attenuanti generiche dichiarate equivalenti alle aggravanti contestate,
condannava il Pillinini ed il Cuzzi alla pena di mesi sette e giorni quindici di
reclusione e la Pevere alla pena di mesi cinque e giorni quindici di reclusione,
oltre al pagamento in solido delle spese processuali. Condannava inoltre i
predetti alla esecuzione, a proprie spese, degli interventi di messa in
sicurezza degli impianti, di bonifica e di ripristino delle aree inquinate
D.Lgs. n. 152 del 1999, ex art. 53. Li condannava altresì al risarcimento del
danno, in solido, in favore delle parti civili processualmente sostituite
Regione Friuli - Venezia Giulia, Provincia di Udine e Comune di Tolmezzo, danno
da liquidarsi in separato giudizio, disattendendo ogni altra richiesta delle
parti civili;
- li condannava, sempre in solido, al pagamento di una provvisionale pari ad Euro 90.000,00 in favore della Regione Friuli - Venezia Giulia, ad Euro 20.000,00 in favore della Provincia di Udine e ad euro 20.000,00 in favore del Comune di Tolmezzo, nonché al pagamento in favore dello Stato delle spese anticipate alle associazioni ambientaliste W.W.F. Italia, Italia Nostra e Legambiente, costituitesi in sostituzione degli enti locali ed ammesse al patrocinio a spese dello Stato. Concedeva agli imputati il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinandolo al risarcimento del danno nonché all'esecuzione dei suddetti interventi ambientali, secondo le modalità indicate dall'Agenzia Regionale Protezione Ambiente (A.R.P.A.) e sotto la vigilanza del Nucleo Operativo per la tutela dell'ambiente dei Carabinieri. Assolveva i predetti imputati dai medesimi fatti relativi al periodo successivo al febbraio 2002 perché il fatto non costituisce reato e dalla contravvenzione di omessa adozione delle misure necessarie ad evitare l'aumento dell'inquinamento - capo c) della rubrica - perché il fatto non sussiste. Assolveva il coimputato Turchetti Gianfranco (Presidente del Consorzio depurazione acque Alto Tagliamento), dal reato di cui al capo b) perché il fatto non costituisce reato e da tutte le altre imputazioni ascrittegli perché il fatto non sussiste. In estrema sintesi il decidente, rilevato che il Comune di Tolmezzo produceva circa 1.900 metri cubi orari di acque reflue, di cui circa 1.800 provenienti dagli scarichi della Cartiera Burgo e circa 100 dagli ulteriori scarichi civili ed industriali, e rilevato altresì che una parte degli scarichi della cartiera (pari a circa 450 mc/h) veniva immessa dapprima nel depuratore consortile e da qui nella condotta che portava al depuratore comunale, mentre la maggior parte (pari a circa 1.350 mc/h) veniva inviata direttamente verso il depuratore comunale, ha evidenziato che di questi complessivi 1.900 mc/h di acque reflue solo 100 mc/h erano accolti nel depuratore comunale, mentre gli altri 1.800 mc/h pervenivano, non depurati, alla roggia che confluiva nel Tagliamento, mediante una artificiosa deviazione del flusso acque (by-pass) posta all'interno del pozzetto di sfioro del depuratore comunale ed effettuata in data antecedente al 1993: e pertanto il sistema di sfioro di cui era dotato tale depuratore, destinato ad entrare in funzione solo per deviare nel fiume acque piovane in caso di eventi alluvionali da cui conseguisse un aumento dei reflui superiore ai 500 mc/h, era invece attivo di continuo perché al suo interno erano state artificialmente introdotte delle tavole in cemento che permettevano l'ingresso nel depuratore di soli 100 mc/h di acque reflue.
Ha evidenziato il decidente che tale scarico non era stato mai autorizzato, nel
senso che dopo il D.Lgs. n. 152 del 1999 e la L.R. n. 2 del 2000, sarebbe stato
necessario chiedere alla Provincia, ente divenuto competente, l'autorizzazione
allo scarico della fognatura comunale nel Tagliamento, non potendosi condividere
l'assunto della difesa secondo cui lo scarico non trattato dal depuratore poteva
qualificarsi come scarico esistente, soggetto quindi alla possibilità di
adeguamento entro tre anni dall'entrata in vigore del suddetto decreto, ai sensi
dell'art. 62, comma 11, di tale provvedimento; ed ha evidenziato altresì che il
flusso condotto verso la roggia doveva ritenersi refluo industriale, ai sensi
del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 2, lett. h), atteso che lo scarico da
depuratore non aveva una propria caratteristica diversa da quella dei reflui
convogliati, ed andava qualificato come scarico industriale in caso di refluo
misto, composto (come nel caso di specie) in prevalenza da acque da insediamenti
produttivi, non potendo quindi essere accolta la tesi difensiva della
riconduzione del fatto alla violazione amministrativa di cui all'art. 54 del
detto provvedimento normativo sotto il profilo che si tratterebbe di scarico da
fognatura, non potendo la fognatura dissimulare la connotazione industriale
dello scarico.
Di conseguenza il giudicante ha ritenuto la responsabilità del Cuzzi e del
Pillinini in ordine al reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59 rilevando
che gli stessi avrebbero dovuto revocare le autorizzazioni alla cartiera,
chiedere la autorizzazione alla Provincia per lo scarico nel Tagliamento e
segnalare la situazione a tale ente.
Quanto ai profili del reato di danneggiamento aggravato ha ritenuto il decidente
la sussistenza di tale reato in capo agli imputati predetti, evidenziando che il
mancato diniego delle autorizzazioni chieste dalla Cartiera Burgo, la mancata
revoca di quelle concesse, la mancata attivazione dei competenti organi di
controllo costituivano condotte omissive che, pur inseritesi in un decorso
causale in cui si erano innestate altre precedenti condotte omissive, avevano
tuttavia materialmente contribuito a cagionare l'evento di danno. E ciò sia per
quel che riguardava il deterioramento delle acque del fiume a valle del punto di
scarico, sia per quel che riguardava il deterioramento della fognatura nella
parte di condotta convogliante i reflui della cartiera al pozzetto di sfioro.
Condannava quindi il Cuzzi, il Pillinini e la Pevere alle pene sopra indicate,
mentre assolveva il Turchetti da tutte le imputazioni ascrittegli. Condannava
altresì i tre imputati predetti al risarcimento del danno, in favore degli enti
territoriali, rappresentati processualmente dalle associazioni ambientaliste
costituitesi in loro sostituzione, e rimetteva le parti dinanzi al giudice
civile per la quantificazione del danno, ritenendo raggiunta la prova
dell'entità di tale danno nei limiti della somma liquidata in dispositivo a
titolo di provvisionale.
In ordine invece al risarcimento del danno in favore delle associazioni
ambientaliste, ha ritenuto che non fosse stata documentata alcuna attività da
parte delle medesime volta a contrastare l'inquinamento della Cartiera Burgo, di
talché non poteva ritenersi raggiunta la prova di un concreto danno all'immagine
delle stesse.
Avverso tale sentenza proponevano appello le associazioni ambientaliste WWF
Italia, Associazione Italia Nostra ed Associazione Legambiente Friuli - Venezia
Giulia, dolendosi del rigetto della domanda di risarcimento del danno
patrimoniale arrecato alle medesime. Proponeva appello l'imputata Pevere
Antonietta chiedendo l'assoluzione dai reati ascrittile per non avere commesso
il fatto e, in subordine, la riduzione della pena inflitta, la riforma della
condizione cui era subordinato il beneficio della sospensione della pena,
l'annullamento della costituzione delle parti civili e della condanna
risarcitoria, la sospensione dell'esecuzione della condanna al pagamento della
provvisionale.
Proponevano altresì appello gli odierni ricorrenti Cuzzi Sergio e Pillinini Valentino, articolando la loro impugnazione in diciassette motivi di gravame, con cui chiedevano l'assoluzione dal reato di cui al capo a) perché il fatto non era previsto dalla legge come reato essendo stato depenalizzato con la L. n. 172 del 1995;
- l'assoluzione dal detto reato perché il fatto non sussiste essendo lo scarico del depuratore comunale esistente ed autorizzato;
- l'assoluzione dal reato di danneggiamento aggravato di cui al capo b) con formula ampiamente liberatoria;
- contestavano la sussistenza del danno alla fognatura ed al fiume Tagliamento, la violazione del D.Lgs. n. 152 del 1999, artt. 58 e 60 l'illegittimità nella determinazione della pena;
- contestavano l'ordinanza dibattimentale in data 24.2.2004 con cui il Tribunale, a fronte della modifica delle imputazioni, aveva disposto il differimento d'udienza anziché la restituzione degli atti al P.M., e quella in data 20.3.2004 con cui il medesimo giudice aveva rigettato l'istanza della difesa che chiedeva la revoca dell'ordinanza precedente; lamentavano la nullità o illegittimità dell'ordinanza in data 20.3.2004 con cui il Tribunale aveva rigettato l'istanza di ammissione di nuove prove testimoniali proposta dalla difesa in relazione ai capi modificati;
- contestavano la risarcibilità del danno all'immagine dell'ente pubblico;
- deducevano il difetto di legittimazione processuale delle parti civili Legambiente e WWF impugnando conseguentemente l'ordinanza in data 5.7.2003 con cui erano state respinte le eccezioni già formulate in primo grado; lamentavano che le associazioni ambientaliste non potevano essere ammesse a costituirsi parte civile in sostituzione della Regione Friuli - Venezia Giulia, impugnando conseguentemente l'ordinanza del 5.7.2003 con cui era stata ammessa tale sostituzione; rilevavano che le associazioni ambientaliste non potevano essere ammesse al patrocinio a spese dello Stato, e comunque non potevano essere a tale beneficio ammesse ai fini della costituzione di parte civile in sostituzione della Provincia di Udine e del Comune di Tolmezzo, impugnando le relative ordinanze di ammissione; lamentavano che erano state liquidate le spese legali in favore delle predette associazioni ambientaliste senza che le relative parcelle fossero state preventivamente sottoposte al parere dell'ordine professionale, rilevando altresì l'eccessività degli importi liquidati; deducevano che, in violazione dell'art. 100 c.p.p., ciascuna parte civile era stata rappresentata ed assistita da tre difensori; formulavano istanza di sospensione dell'esecuzione della condanna subordinata al pagamento della provvisionale.
Con i nuovi motivi presentati nell'imminenza della celebrazione del giudizio di
appello, la difesa degli appellanti deduceva la mancanza di dolo in relazione al
contestato reato di danneggiamelo, l'insussistenza della legittimazione
dell'associazione Legambiente a costituirsi parte civile, l'illegittimità della
condanna al risarcimento del danno nonché al ripristino ambientale e
l'illegittimità della subordinazione della sospensione condizionale della pena
al risarcimento ed all'adempimento dell'obbligo di ripristino.
Con sentenza in data 19.10.2005 la Corte di Appello di Trieste, in parziale
riforma dell'impugnata sentenza, assolveva tutti gli imputati dal reato di
danneggiamene aggravato loro ascritto al capo b) della rubrica, limitatamente al
contestato danneggiamento della fognatura comunale, perché il fatto non
sussiste; assolveva Pevere Antonietta dagli altri reati alla stessa ascritti
perché il fatto non costituisce reato; rideterminava per Cuzzi Sergio e
Pillinini Valentino la pena in quella di mesi sei di reclusione ciascuno,
sostituita con la pena di euro 6.840,00 di multa;
- revocava ad entrambi il beneficio
della sospensione condizionale della pena;
- concedeva ad entrambi il beneficio della non menzione della condanna alle
condizioni di legge;
- condannava il Cuzzi ed il Pillinini al risarcimento del danno cagionato alle parti civili costituite, da liquidarsi in separata sede; confermava nel resto l'impugnata sentenza;
- condannava il Cuzzi ed il Pillinini in solido al pagamento, in favore dello Stato, delle spese di patrocinio sostenute nel predetto giudizio di appello dalle parti civili costituite, che liquidava in complessivi Euro 3.000,00 per ciascuna di esse, oltre al rimborso forfetario delle spese generali ed oltre all'IVA e CNA come per legge.
Avverso tale sentenza gli imputati Cuzzi e Pillinini propongono, per mezzo del
difensore, ricorso per cassazione lamentando la violazione di legge sotto
diversi profili.
Col primo motivo di ricorso la difesa lamenta erronea applicazione del D.Lgs. n.
152 del 1999, art. 59, comma 1, e dell'art. 2, lett. i) del medesimo decreto,
avendo la Corte di Appello erroneamente ritenuto che una pubblica fognatura, la
quale convogli reflui di origine prevalentemente, ma non esclusivamente,
industriale, desse luogo ad uno scarico di acque reflue industriali anziché
urbane, giungendo alla erronea conclusione che lo scarico non autorizzato da
insediamento produttivo in fognatura costituisce sempre reato. Ed invero,
ritenuta l'autonomia della nozione di scarico fognario avendo il legislatore
qualificato la "rete fognaria" come "il sistema di condotte per la raccolta ed
il convogliamento delle acque reflue urbane", alla stregua della definizione
contenuta nel D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 2, comma 1, lett. aa), e ritenuto che
tale autonoma nozione del sistema fognatura si contrappone alle categorie
giuridiche - in precedenza utilizzate dalla giurisprudenza - dell'insediamento
civile e dell'insediamento produttivo, osserva la difesa che la chiave di
lettura dell'attuale disciplina in materia di scarichi è data dallo stesso
legislatore il quale, al D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 2 ha fornito la
definizione delle "acque reflue domestiche" intese come acque reflue provenienti
da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente
dal metabolismo umano e da attività domestiche; delle "acque reflue industriali"
intese come qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici in cui si
svolgono attività commerciali o industriali, diverse dalle acque reflue
domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento; di "acque reflue urbane"
intese come acque reflue domestiche o come il miscuglio di acque reflue civili,
di acque reflue industriali ovvero meteoriche di dilavamento. Le acque reflue
mantengono pertanto la loro individualità sino al momento in cui vengono
convogliate nella fognatura, siccome si evince dal D.Lgs. predetto, art. 2,
comma 1, lett. bb);
- una volta immesse in una fognatura che convogli anche acque reflue domestiche,
le acque reflue industriali non sono più tali ma diventano, per definizione
legislativa, acque reflue urbane, cui non è applicabile la norma del D.Lgs. n.
152 del 1999, art. 59, comma 1.
Nel caso di specie le acque reflue industriali provenienti dalla Cartiera Burgo
s.p.a. non pervengono direttamente al depuratore in questione, ma vengono
immesse nella rete fognaria comunale molto a monte del punto in cui quest'ultima
confluisce nel depuratore comunale: di conseguenza le acque che si immettono
nell'impianto di depurazione sono costituite da un miscuglio di acque reflue
industriali, acque meteoriche di dilavamento, acque reflue domestiche vere e
proprie, acque domestiche provenienti da attività di servizi ed altre acque
assimilate alle acque reflue domestiche. Col secondo motivo di ricorso la difesa
lamenta la erronea applicazione del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 54, comma 1.
Osserva la difesa che la norma suddetta ha confermato la depenalizzazione degli
scarichi delle pubbliche fognature introdotta dalla legislazione del 1995,
stabilendo che "chiunque apre o comunque effettua scarichi... di reti fognarie,
servite o meno da impianti pubblici di depurazione, senza l'autorizzazione ... è
punito con la sanzione amministrativa ...": la norma pertanto non distingue tra
fognature di vario genere e dichiara irrilevante la circostanza che la fognatura
sia dotata o meno di impianto di depurazione. Rileva pertanto la difesa che è
assolutamente fuorviante chiedersi quale sia la natura dello scarico del
depuratore comunale, cioè se esso abbia una sua autonomia e possa essere
considerato come un insediamento produttivo, diverso e distinto rispetto ai
singoli insediamenti ad esso collegati, atteso che alla stregua della nuova
normativa il depuratore perde ogni autonomia e diventa parte integrante della
rete fognaria. Diversamente opinando si perverrebbe alla illogica conclusione
secondo cui lo scarico fognario non autorizzato non dotato di depuratore finale
(e perciò in ipotesi più inquinante) sarebbe depenalizzato, mentre non lo
sarebbe quello dotato di depuratore.
Col terzo motivo di ricorso la difesa lamenta erronea applicazione della L. n.
172 del 1995, art. 6 e del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 62, comma 11;
- violazione del principio di correlazione tra il fatto contestato e la decisione; mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione.
In particolare rileva la difesa che il capo di imputazione ipotizza l'esistenza
di due scarichi: quello autorizzato dell'impianto di depurazione, ed un
ulteriore scarico, non autorizzato, di acque che non confluiscono nell'impianto
di depurazione; tale assunto è in realtà inesatto atteso che, per come
evidenziato dal perito di parte (ing. Cristina Cecotti) e per come risultante
dalle deposizioni testimoniali assunte (ing. Giorgio Procecco e tecnico comunale
Marco Pascolini) e dagli atti pubblici del Comune, esiste un solo scarico
realizzato attraverso una unica condotta che ha origine all'interno del
depuratore comunale, scarico legittimamente autorizzato. Da tale considerazione
deriva, per un verso, stante l'esistenza di un solo scarico, e cioè quello del
depuratore sia pur comprendente anche le acque non depurate, che il fatto come
delineato nel capo di imputazione non sussiste, considerato che nel detto capo
di imputazione non è mai stato contestato che lo scarico del depuratore fosse
sprovvisto di autorizzazione o provvisto di una autorizzazione invalida; e
deriva altresì, per altro verso, che i giudici di merito, disquisendo sulla
legittimità dello scarico definito principale (che in realtà è l'unico scarico),
sono incorsi in una palese violazione del principio di correlazione tra la
sentenza e l'accusa, atteso che il P.M. non aveva mai posto in dubbio la
legittimità di tale scarico.
D'altronde rileva la difesa che la circostanza che una parte delle acque reflue
che confluiscono nel depuratore comunale non venisse assoggettata a trattamenti
depurativi, per l'inidoneità dell'impianto a trattare il quantitativo di acque
che vi confluiscono, non vale ad integrare l'ipotesi di scarico in assenza di
autorizzazione: ed invero la circostanza che la depurazione non avvenisse per
carenza dell'impianto o altre cause non trasforma lo scarico in uno scarico non
autorizzato potendo, al più, determinare la violazione amministrativa di cui al
D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 54, comma 3.
E pertanto nel caso di specie deve conclusivamente ritenersi che il sistema
fognario del Comune di Tolmezzo dava luogo ad un unico scarico di acque reflue
urbane; tale scarico non abbisognava di autorizzazione prima dell'entrata in
vigore del D.Lgs. n. 152 del 1999 in quanto autorizzato automaticamente ai sensi
della L. n. 172 del 1995, art. 6 a seguito dell'approvazione del progetto; dopo
l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 152 del 1999 lo scarico doveva ottenere una
nuova autorizzazione, la cui istanza poteva essere presentata, ai sensi del
D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 62, comma 11, entro un termine variamente prorogato
e poi fissato al 3.8.2004. Col quarto motivo di ricorso la difesa lamenta
erronea applicazione dell'art. 635 c.p. e del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 62,
comma 11, rilevando che erroneamente i giudici di merito avevano ritenuto gli
imputati responsabili del danneggiamento del fiume Tagliamento per avere omesso
di revocare le autorizzazioni in precedenza concesse dai loro predecessori alla
Cartiera. In particolare rileva la difesa che il D.Lgs. in questione era entrato
in vigore il 13.6.1999, e cioè anteriormente alla data del 28.6.1999 in cui il
Cuzzi aveva assunto la carica di Sindaco ed alla data del 21.12.1999 in cui il
Pillinini aveva assunto l'incarico di responsabile dell'Ufficio Opere Pubbliche
Manutenzioni. Di conseguenza, posto che il D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 62,
comma 11, prevedeva che "i titolari degli scarichi esistenti devono adeguarsi
alla nuova disciplina entro tre anni dalla data di entrata in vigore del
presente decreto", e potevano comunque continuare nell'attività autorizzata sino
alla data del 3.8.2004 (a seguito di proroga del termine originariamente fissato
al 20.6.2002), essi non potevano revocare le autorizzazioni in precedenza
rilasciate alla Cartiera Burgo s.p.a. perché quest'ultima, sino a tale data,
aveva diritto di scaricare le proprie acque reflue in fognatura con l'obbligo di
adeguarsi ai limiti previsti dal decreto legislativo. Col quinto motivo di
ricorso la difesa ha lamentato erronea applicazione dell'art. 635 c.p.,
evidenziando che la Corte territoriale, con motivazione apparente, nonché
manifestamente illogica e contraddittoria, aveva fondato la responsabilità degli
imputati in ordine al reato predetto sulla documentazione fotografica che
rappresentava le condizioni del fiume nell'anno 2001;
- di conseguenza, in mancanza di alcun elemento di raffronto antecedente alla data predetta, non poteva assolutamente affermarsi che la situazione del fiume fosse peggiorata a decorrere dalla data in cui i predetti imputati avevano assunto le loro funzioni istituzionali.
Col sesto motivo di ricorso la difesa lamenta erronea applicazione del D.Lgs. n.
152 del 1999, art. 58 atteso che la disposizione suddetta, nel prevedere la
procedura per la messa in sicurezza, la bonifica ed il ripristino, non contempla
affatto l'intervento del giudice penale.
Di conseguenza il Tribunale di Tolmezzo non poteva ordinare la bonifica D.Lgs.
predetto, ex art. 58, e la Corte d'appello aveva erroneamente ritenuto infondato
l'appello sul punto argomentando dalla circostanza, del tutto inconferente, che
ai sensi del D.Lgs. in questione, art. 60 il giudice poteva subordinare la
sospensione condizionale della pena all'esecuzione degli interventi di cui
all'art. 58; ed invero tale possibilità non significava che il giudice poteva
anche disporre l'esecuzione degli interventi medesimi, dovendo invece limitarsi
a trasmettere la sentenza e gli atti al Ministero dell'Ambiente, secondo
l'espressa previsione del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 58, comma 3.
Col settimo motivo di ricorso la difesa lamenta erronea applicazione ed
inosservanza dell'art. 516 c.p.p.; nullità e/o abnormità dell'ordinanza
pronunciata in data 24.2.2004 con cui il giudice monocratico del Tribunale di
Tolmezzo, a fronte della modificazione dei capi di imputazione effettuata dal
P.M., aveva disposto il differimento dell'udienza anziché la restituzione degli
atti al P.M., e dell'ordinanza pronunciata in data 20.3.2004 con cui il medesimo
giudice, a fronte della suddetta modificazione dei capi di imputazione
effettuata dal P.M., aveva rigettato l'istanza della difesa che aveva chiesto la
revoca dell'ordinanza che aveva ammesso la contestazione dei fatti nuovi e
disposto il differimento dell'udienza, anziché la restituzione degli atti al
P.M., con conseguente nullità della sentenza e necessità della restituzione
degli atti al P.M.. Ciò in quanto con l'emissione del decreto penale di condanna
si era verificata una sorta di "cristallizzazione dell'imputazione", la quale
diveniva irrevocabile ed acquistava forza esecutiva in caso di mancata
opposizione, ma che non poteva poi essere modificata qualora, sulla base di tale
imputazione, l'imputato avesse proposto opposizione e nel conseguente giudizio
ai sensi dell'art. 464 c.p.p. fosse emerso invece un fatto diverso. Con l'ottavo
motivo di ricorso la difesa lamenta erronea applicazione ed inosservanza
dell'art. 519 c.p.p., comma 2, seconda parte, e dell'art. 507 c.p.p.; mancata
assunzione di una prova decisiva ex art. 495 c.p.p., comma 2. In particolare
rileva la difesa la nullità e/o illegittimità dell'ordinanza pronunciata in data
20.3.2004 con cui il giudice monocratico del Tribunale di Tolmezzo aveva
rigettato la richiesta di ammissione di nuove prove testimoniali avanzata dalla
difesa in relazione ai capi di imputazione come modificati dal P.M.. Con tali
prove gli imputati intendevano dimostrare che gli avvenimenti del febbraio 2002
(piena del fiume Tagliamento ed alluvione che aveva interessato non solo
l'intero letto del fiume ma anche le zone circostanti) avevano provocato una
irreversibile modificazione dello stato dei luoghi ed avevano determinato un
assetto dell'ecosistema che nulla pertanto aveva a che vedere con l'assetto
precedente. E tale circostanza, se non rilevava direttamente sotto il profilo
della responsabilità penale, aveva invece forte rilevanza sotto il profilo della
responsabilità civile:
- ciò in quanto, se l'attuale situazione del fiume Tagliamento non è più quella antecedente al febbraio 2002, si verifica una impossibilità di far risalire l'attuale situazione di fatto, in relazione alla quale soltanto possono essere adottati gli ordini di bonifica e ripristino, ad attività od omissioni imputabili ai ricorrenti, ciò in quanto se il presunto danno non è più esistente non può esservi alcuna condanna, neanche generica, al risarcimento dello stesso, e non può esservi condanna al ripristino ed alla bonifica.
Col nono motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge sotto il
profilo del difetto di legittimazione processuale dei soggetti che si erano
costituiti in giudizio in rappresentanza delle associazioni ambientaliste Lega
Ambiente e WWF. In particolare rileva la difesa che secondo lo statuto del WWF
la competenza a deliberare le azioni giudiziarie spetta al Consiglio Direttivo
dell'associazione, mentre nel caso di specie la costituzione di parte civile era
sottoscritta da un soggetto delegato da un organo diverso, il Consiglio
Nazionale; e parimenti, per quel che riguarda la Lega Ambiente, la costituzione
di parte civile era sottoscritta dal Presidente dell'associazione che era
legittimato esclusivamente a rappresentare in giudizio l'associazione nelle
azioni deliberate dal Consiglio Direttivo, delibera nel caso di specie del tutto
mancante. Ciò comporta il difetto di legitimatio ad processum in capo a coloro
che avevano agito in nome e per conto dell'associazione ove si osservi, per quel
che riguarda il WWF, che il Consiglio Nazionale non è l'organo statutariamente
deputato ad autorizzare la costituzione di parte civile dell'associazione e
neppure può sostituirsi, quale organo sovraordinato, all'organo competente;
mentre, per quel che riguarda la Lega Ambiente, tale facoltà compete al
Consiglio Direttivo e non al Consiglio Regionale come ritenuto dalla Corte
triestina. Le due anzidette associazioni dovevano pertanto essere escluse dalla
costituzione di parte civile, tanto iure proprio che in rappresentanza degli
enti locali, per difetto di legittimazione ad processum.
Col decimo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge nonché palese
contraddittorietà e/o illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta
inammissibilità della questione relativa alla costituzione di parte civile della
Regione Friuli - Venezia Giulia per essere detta questione preclusa in quanto
non proposta nei termini di cui all'art. 491 c.p.p..
In particolare rileva la difesa che la norma suddetta stabilisce esclusivamente
una regola di economia processuale volta a definire, in limine litis, la
posizione delle parti nel processo, ma non preclude ed anzi obbliga il giudice a
sindacare gli aspetti formali e sostanziali della costituzione di parte civile:
ciò in base all'insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte le quali hanno
evidenziato che il giudice è tenuto a sindacare, all'esito del dibattimento, sia
le condizioni sostanziali di proponibilità che i presupposti formali di
ammissibilità della domanda risarcitoria nel processo penale (Cass. Pen. Sez.
Un., 19.5.1999, n. 12286.). E pertanto i giudici di merito dovevano escludere
l'ammissibilità della costituzione di parte civile delle associazioni
ambientaliste in sostituzione della Regione non essendo tale possibilità
prevista dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 9 che contemplava esclusivamente la
sostituzione del Comune e della Provincia.
Con l'undicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge in
relazione alla erronea ammissione delle predette associazioni ambientaliste al
patrocinio a spese dello Stato, atteso che il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 119
reca la rubrica "Disposizioni particolari sul patrocinio a spese dello Stato nel
processo civile, amministrativo, contabile e tributario", e quindi non prevede
la possibilità di ammissione a tale beneficio nell'ipotesi di giudizio penale.
Il giudice di merito era tenuto a verificare d'ufficio le condizioni per
l'ammissione dei vari soggetti al patrocinio a spese dello Stato, e gli imputati
hanno diritto a sollecitare l'esercizio di tale potere officioso.
Con il dodicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge in
relazione alla erronea applicazione della disposizione di cui al D.P.R. n. 115
del 2002, art. 119 che prevede l'ipotesi della costituzione degli enti e delle
associazioni iure proprio e non può essere utilizzata per consentire
l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato delle associazioni che intendono
costituirsi parte civile in sostituzione del Comune e della Provincia.
In proposito osserva la difesa che l'assunto della Corte territoriale secondo
cui la norma in parola non distingue tra le ipotesi di costituzione di parte
civile delle associazioni iure proprio o in rappresentanza degli enti locali si
appalesa non condivisibile atteso che le ragioni che suffragano l'ammissione al
patrocinio a spese dello Stato di una associazione senza fini di lucro per la
tutela dei propri interessi non ricorrono chiaramente allorché l'associazione
sta in giudizio per tutelare soggetti diversi, che mai potrebbero ottenere il
suddetto patrocinio da parte dello Stato. Col tredicesimo motivo di ricorso la
difesa lamenta violazione di legge in relazione alla erronea applicazione
dell'art. 100 c.p.p. il quale prevede che la parte civile possa nominare un solo
difensore. In particolare rileva la difesa che nel processo penale celebratosi
dinanzi al Tribunale di Tolmezzo ciascuna parte civile sostituita era stata
rappresentata ed assistita da ben tre difensori, e rileva altresì che le tre
associazioni ambientaliste ammesse a costituirsi parte civile avevano
esercitato, ciascuna per conto proprio, la medesima azione risarcitoria in
sostituzione degli enti, in violazione della disposizione del D.Lgs. n. 267 del
2000, art. 9, comma 3, che consente la proposizione dell'azione risarcitoria
sostitutiva da parte di un solo soggetto, con la conseguenza che l'esercizio
dell'azione di parte civile da parte di tale soggetto esaurisce la facoltà di
sostituire l'ente con riferimento alla medesima azione.
In proposito osserva la difesa che l'assunto della Corte d'appello secondo cui
la sostituzione multipla del medesimo ente territoriale sarebbe conforme alle
previsioni del D.Lgs. n. 267 del 2000, predetto art. 9, comma 1 il quale ammette
ciascun elettore a far valere in giudizio le azioni spettanti a ciascun ente
territoriale, appare non condivisibile atteso che la norma di cui al terzo comma
del predetto art. 9 è una norma speciale e non un'applicazione del principio
generale di cui al primo comma, per come si evince anche dalla rubrica del
medesimo articolo (Azione popolare e delle associazioni di protezione
ambientale) e dalla circostanza che, mentre il primo comma si riferisce
espressamente a ciascun elettore, il comma 3 non parla di ciascuna associazione,
lasciando intendere che l'azione spetta indistintamente al complesso delle
associazioni e che, una volta esercitata da parte di una di esse, deve ritenersi
esaurita. Col quattordicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta erronea
applicazione dell'art. 635 c.p., violazione di legge, mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, evidenziando che i
giudici di merito, con affermazione assolutamente apodittica, avevano ritenuto
la sussistenza del dolo del delitto di danneggiamento sulla base
dell'affermazione secondo cui gli imputati erano consapevoli dell'esistenza del
by-pass e della circostanza che la maggior parte dei reflui non veniva
depurata, sebbene nessuno dei testimoni assunti nel corso del dibattimento
avesse fatto alcuna affermazione in tal senso. Nè poteva ritenersi la
configurabilità dell'elemento soggettivo del reato in questione come dolo
eventuale, sotto il profilo che i detti imputati, pur non volendolo, erano
coscienti che il danno si sarebbe inevitabilmente verificato ed avevano
accettato tale possibilità; rileva sul punto la difesa che per contro gli
imputati non avevano motivo di ritenere che gli scarichi del depuratore
avrebbero certamente procurato un danneggiamento del fiume atteso che il
perdurare da diversi anni di tale situazione e l'assenza di interventi da parte
della Regione o dell'Assessorato competente, legittimavano il convincimento che
lo scarico autorizzato in deroga non comportasse una seria compromissione delle
caratteristiche del fiume. Nè appariva conducente il richiamo, operato dalla
Corte territoriale, al senso comune a tenore del quale l'immissione di una gran
quantità di reflui industriali non trattati in un fiume ne determinava
inevitabilmente il danneggiamento, non avendo la Corte suddetta preso in
considerazione alcuno degli elementi, espressamente evidenziati nel primo dei
motivi aggiunti di appello, che avevano indotto gli imputati a ritenere che lo
scarico autorizzato in deroga non potesse comportare la compromissione delle
caratteristiche del fiume. Col quindicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta
violazione di legge nonché contraddittorietà manifesta della motivazione con
riferimento alla costituzione in giudizio della Lega Ambiente tramite
l'articolazione regionale del Friuli - Venezia Giulia. Rileva in proposito la
difesa che la speciale legittimazione delle associazioni di protezione
ambientale, riconosciuta dalla L. 8 luglio 1986, n. 349, riguarda l'associazione
ambientalistica nazionale formalmente riconosciuta e non le sue propaggini
territoriali, sicché queste ultime non sono munite di autonoma legittimazione.
Alla stregua di quanto sopra deve ritenersi non corretto l'assunto della Corte
di merito secondo cui l'articolazione regionale della Lega Ambiente costituisce
essa stessa una autonoma associazione, stante l'intrinseca contraddittorietà di
tale tesi ove si osservi che, se la Lega Ambiente Friuli - Venezia Giulia è una
entità distinta rispetto alla Lega Ambiente Nazionale, unica ad essere
riconosciuta L. 8 luglio 1986, n. 349, ex art. 13 non può costituirsi in
sostituzione degli enti territoriali D.Lgs. n. 267 del 2000, ex art. 9 in quanto
quest'ultima norma riserva la possibilità di agire in sostituzione degli enti
locali esclusivamente alle associazioni riconosciute ex art. 13.
Col sedicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di legge in
relazione al capo della pronuncia della Corte d'appello che aveva erroneamente
accolto gli appelli proposti dalle associazioni ambientaliste contro la parte
della sentenza di primo grado che aveva rigettato le domande di risarcimento
danni proposte dalle stesse iure proprio.
Innanzi tutto rileva la difesa che le associazioni ambientaliste appellanti non
erano legittimate a costituirsi parte civile iure proprio, argomentando tra
l'altro dalla circostanza che la L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 5, prevede
che "le associazioni individuate in base all'art. 13 della presente legge,
possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di
giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi". Il
legislatore era ben conscio del significato tecnico del termine "intervento"
utilizzato in detta legge, per come traspare dal lavori preparatori della
stessa, dalla rilevante differenza terminologica con il coevo D.L. n. 282 del
1986, art. 109 bis, contenuto della direttiva n. 39 della Legge Delega n. 81 del
1987 che equipara esplicitamente gli enti e le associazioni predette "all'offeso
dal reato non costituito parte civile" e non al danneggiato. Ciò evidenzia che
la norma di cui alla L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 5 deve essere intesa in
senso stretto, nel senso che detta norma autorizza le associazioni ambientaliste
solo all'intervento stricto sensu ma non alla costituzione di parte
civile: ed invero, poiché non sussiste in capo alle associazioni ambientaliste
una posizione soggettiva classificabile come diritto, non sussiste di
conseguenza neanche il diritto al risarcimento del danno in caso di lesione del
medesimo a seguito di reato, e quindi non è data la possibilità di costituzione
di parte civile. La costituzione di parte civile effettuata dalle associazioni
ambientaliste iure proprio deve essere quindi dichiarata inammissibile.
Ha rilevato inoltre la difesa che erroneamente la Corte di appello aveva
ritenuto di poter condannare gli imputati al risarcimento dei danni in favore
delle associazioni ambientaliste pur in assenza della dimostrazione di un danno
all'immagine da parte delle stesse, siccome correttamente ritenuto dal Tribunale
di Tolmezzo: ciò in quanto le dette associazioni non avevano subito alcun danno
nel senso sopra specificato non avendo esse svolto, prima del febbraio 2002,
alcuna specifica attività di contrasto relativamente ai fatti contestati agli
imputati, tale non potendosi ritenere la effettuazione da parte della Lega
Ambiente delle analisi del fiume. Si imponeva pertanto la reiezione della
domanda risarcitoria proposta dalle stesse e non una condanna generica, atteso
che nel caso di specie manca non soltanto la possibilità di quantificare il
danno, ma soprattutto la dimostrazione dei presupposti del danno.
Con il diciassettesimo motivo di ricorso la difesa lamenta la erronea
applicazione dell'art. 635 c.p. in luogo dell'art. 639 c.p.. In particolare
osserva, in via subordinata, la difesa che dalle risultanze processuali non
emergevano conseguenze degli scarichi nel fiume Tagliamento tali da poter essere
inquadrate nella fattispecie di cui all'art. 635 c.p., quanto piuttosto
modificazioni temporanee e superficiali di una limitatissima parte del fiume,
che potevano e dovevano essere sussunte sotto la fattispecie di cui all'art. 639
c.p.; ciò in quanto deve ritenersi assolutamente verosimile che nel periodo in
relazione al quale gli imputati sono chiamati a rispondere, la situazione del
Tagliamento non si era aggravata rispetto a quella determinatasi nel periodo dal
1988 al 1999. Col diciottesimo motivo di ricorso la difesa lamenta violazione di
legge rilevando che era in procinto di entrare in vigore il D.Lgs. recante
"Norme in materia ambientale", adottato sulla base delle delega contenuta nella
L. 15 dicembre 2004, n. 308 e definitivamente approvato dal Consiglio dei
Ministri nella seduta del 10.2.2006. L'art. 318 del predetto decreto abroga
della L. n. 349 del 1986, l'art. 18 e del D.Lgs. n. 267 del 2000, l'art. 9;
- tale abrogazione comporta il venir meno della legittimazione processuale delle
associazioni ambientaliste predette, sia all'intervento nel processo che alla
costituzione di parte civile. Si impone quindi la declaratoria della
sopravvenuta inammissibilità dell'intervento e della costituzione di parte
civile di dette associazioni, sia iure proprio che in rappresentanza del Comune
di Tolmezzo, della Provincia di Udine e della Regione Friuli - Venezia Giulia.
Con il diciannovesimo motivo di gravame la difesa rileva la erroneità del
mancato accoglimento della eccezione di prescrizione già sollevata.
In particolare, con riferimento alle sospensioni determinate dall'impedimento
dell'imputato Roberto Antonione rileva la difesa che le stesse non riguardano
gli altri coimputati non interessati dall'impedimento, ciò in quanto la speciale
causa di sospensione predetta, in analogia con quanto sostanzialmente
disciplinato dall'art. 304 c.p.p., comma 5, si applica ai soli imputati cui si
riferisce.
Con riferimento alla richiesta avanzata dagli imputati L. n. 134 del 2003, ex
art. 5 rileva la difesa che, alla stregua delle previsioni di tale legge, il
periodo massimo di sospensione della prescrizione computabile è quello di giorni
quarantacinque, indipendentemente dalla circostanza che il giudice, per esigenze
dell'ufficio o per altre cause, abbia rimandato il dibattimento ad una udienza
fissata in termini più ampi.
Con nota in data 22.3.2007 la parte civile WWF Italia ha chiesto il rigetto del
ricorso proposto dagli imputati con conferma di tutte le statuizioni civili.
DIRITTO
Ritiene il Collegio di dover procedere, per motivi di natura logico- espositiva,
ad una trattazione congiunta dei primi due motivi di gravame proposti dai
ricorrenti, anche in considerazione della intrinseca connessione esistente fra i
motivi suddetti. Orbene, il problema di fondo che la presente vicenda
giudiziaria pone è costituito dalla qualificazione della natura, industriale o
meno, dei reflui che confluiscono nella fognatura del Comune di Tolmezzo,
derivando in buona sostanza da tale qualificazione l'applicazione del D.Lgs. n.
152 del 1999, art. 59, comma 1, che sanziona penalmente l'effettuazione di
scarichi industriali senza autorizzazione, ovvero dell'art. 54, comma 2, del
medesimo decreto legislativo, che punisce con una sanzione amministrativa
l'effettuazione di scarichi di reti fognarie, servite o meno da impianti
pubblici di depurazione, senza autorizzazione.
Tale essendo il quadro normativo di riferimento, hanno rilevato i ricorrenti,
posto che le acque reflue provenienti dalla Cartiera Burgo s.p.a. venivano
immesse nella rete fognaria comunale molto a monte del punto in cui quest'ultima
confluiva nel depuratore comunale, che le acque che si immettono nell'impianto
di depurazione sono costituite da un miscuglio di acque reflue industriali,
acque meteoriche di dilavamento, acque reflue domestiche, e quindi non possono
essere più considerate acque reflue industriali ma diventano, per definizione
legislativa, acque reflue urbane. Ciò in quanto la definizione delle stesse
prescinde da ogni parametro quantitativo di talché, anche qualora l'apporto
delle acque reflue industriali sia sotto tale profilo preponderante, resta
interamente applicabile il regime relativo alle acque reflue urbane, con la
conseguenza, in questa sede rilevante, che lo scarico anzidetto non è
assoggettabile alle sanzioni penali previste dal D.Lgs. n. 152 del 1999, art.
59, bensì alle sanzioni amministrative previste dall'art. 54 del medesimo
decreto.
Ritiene invero il Collegio di dover prendere le mosse, nella trattazione della
presente vicenda giudiziaria, dal dato normativo costituito dal D.Lgs. n. 152
del 1999, art. 59, comma 1, laddove è previsto - per come detto - che viene
penalmente sanzionato "chiunque apre o comunque effettua nuovi scarichi di acque
reflue industriali, senza autorizzazione": il legislatore quindi pone un
principio di diritto, dal quale l'interprete non può prescindere. Tale norma va
integrata e coordinata con quella contenuta nell'art. 2 del detto decreto che al
comma 1, lett. bb), fornisce la definizione di "scarico" intendendo come tale
"qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide,
semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel
sottosuolo e in rete fognaria".
Quindi, alla stregua della normativa predetta, lo scarico di acque reflue
industriali, senza autorizzazione, è sempre penalmente sanzionato, quale che sia
il recapito finale, per come si ricava dal tenore letterale dell'art. 59
predetto, per cui anche lo scarico nella fognatura senza autorizzazione continua
a costituire reato, come peraltro ritenuto dalla giurisprudenza prevalente con
riferimento alla L. n. 319 del 1976, art. 21, comma 1.
Ciò in quanto la ratio della nuova normativa è quella di conseguire
obiettivi di qualità ambientale, che presuppongono un controllo preventivo
formale della P.A. competente per tutti gli scarichi di acque reflue
industriali, in considerazione della loro maggiore pericolosità,
indipendentemente alla loro destinazione finale (suolo, sottosuolo, acque
superficiali, acque marine, o altro), ed anche se recapitano in pubbliche
fognature. Anzi, il convogliamento delle acque di scarico industriali impone a
maggior ragione l'autorizzazione, onde assicurarne la depurazione ed evitare la
dispersione dell'inquinamento da un punto ad un altro del territorio. Alla
stregua di quanto sopra appare non più rilevante l'assunto dei ricorrenti
relativo al superamento, in relazione alla disciplina degli scarichi fognari,
dei criteri di differenziazione propri della L. 10 maggio 1976, n. 319 (c.d.
Legge Merli), basati sulle nozioni di "insediamento civile" e di "insediamento
produttivo", e cioè sulla fonte dei reflui: assunto fondato sul rilievo che nel
sistema previsto dalla attuale legislazione, la rete fognaria è costituita dal
"sistema di condotte per la raccolta ed il convogliamento delle acque reflue
urbane" (D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 2, comma 1, aa), dovendosi intendere per
tali, ai sensi del comma 1, lett. i), del decreto legislativo predetto, le
"acque reflue domestiche o il miscuglio di acque reflue civili, di acque reflue
industriali ovvero meteoriche di dilavamento".
Ed invero sul punto ritiene il Collegio di dove ribadire che lo "scarico" delle
acque reflue industriali avviene nel momento in cui esse sono convogliate nella
fognatura, e tale "scarico", se non autorizzato, costituisce sempre e tuttora
reato ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59, comma 1.
In questo senso è orientata la giurisprudenza dominante che ha avuto modo di
occuparsi della problematica in questione (siccome evidenziato con dovizia di
riferimenti dall'impugnata sentenza: Cass. sez. 3^, 8.11.1999 n. 14247; Cass.
sez. 3^, 1.12.2000 n. 4021; Cass. sez. 3^, 31.5.2002 n. 26614; Cass. sez. 3^,
24.10.2002 n. 42932; Cass. sez. 3^, 11.2.2004 n. 13967; Cass. sez. 3^, 1.7.2004
n. 35870), ed a tale orientamento ritiene senz'altro di aderire questo Collegio,
stante la assoluta coerenza dello stesso al dato legislativo ed allo spirito
della normativa; e pertanto lo scarico delle acque reflue industriali in
fognatura, senza autorizzazione, già costituente reato ai sensi della L. n. 319
del 1976, art. 21, comma 1, costituisce tuttora reato ai sensi del D.Lgs. n. 152
del 1999, art. 59, comma 1.
Ma alle stesse conclusioni ritiene il Collegio debba pervenirsi anche qualora si
ritenga di dover aderire al diverso orientamento, peraltro minoritario, in base
al quale le acque miste prelevate dalla rete fognaria, in cui confluiscono sia
acque reflue industriali, sia acque reflue domestiche, sia acque meteoriche,
costituiscono per definizione normativa acque reflue urbane, per le quali non è
ipotizzabile il reato previsto dal D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 59, comma 1; ciò
in quanto le acque reflue industriali, immettendosi nella rete fognaria e
mescolandosi con le altre acque, perderebbero tale loro natura divenendo ormai
non più distinguibili dalle diverse acque confluite nella rete fognaria.
Premesso invero che tale tesi non appare condivisibile atteso che lo "scarico"
delle acque reflue industriali avviene nel momento in cui esse vengono
convogliate nella fognatura, e tale "scarico", per come detto, se privo di
autorizzazione, è sempre penalmente sanzionato, osserva il Collegio che comunque
l'orientamento in parola, se pur corretto sotto il profilo della
indistinguibilità delle acque una volta convogliate nella rete fognaria, mostra
i suoi limiti laddove esclude qualsiasi rilievo al diverso apporto quantitativo
dei reflui industriali rispetto ai reflui domestici ed alle acque meteoriche. Ed
invero il concetto di "miscuglio", contrariamente a quanto rilevato dai
ricorrenti, non può prescindere da una comparazione quantitativa fra i diversi
tipi di acque che vengono a miscelarsi, perché solo in presenza di quantitativi
omogenei o comunque non sbilanciati può parlarsi di acque a natura mista.
Diversamente opinando si perverrebbe all'assurdo che anche un miscuglio composto
per il 99% da reflui industriali e per il rimanente 1% da reflui domestici
rientrerebbe nel concetto di "acque reflue urbane" previsto dal D.Lgs. predetto,
art. 2, comma 1, lett. i) inteso nel senso di acque a natura mista.
E la tesi della necessaria valutazione dei diversi apporti di acque, se pur con
qualche voce discorde (v. Cass. sez. 3^, 12.5.2004 n. 25477), è stata già
affermata da questa Corte (v. Cass. sez. 3^, 8.11.1999 n. 14247; Cass. sez. 3^,
21.9.2000 n. 2884; Cass. sez. 3^, 7.11.2002 n. 1547; Cass. sez. 3^, 6.4.2004 n.
23217) che, con riferimento agli scarichi misti, ha fatto riferimento al
criterio della prevalenza dei reflui.
Pertanto nel caso di specie, essendo la assoluta prevalenza della componente
industriale un dato incontroverso in punto di fatto posto che le acque reflue
immesse nella fognatura comunale sono costituite per il 95% dai reflui
industriali della Cartiera Burgo e solo per il rimanente 5% dai reflui
provenienti dall'insediamento urbano, deve escludersi l'esistenza di quel
"miscuglio" previsto dalla normativa predetta e che consente di qualificare i
detti reflui come "acque reflue urbane" con conseguente inapplicabilità, alla
stregua della tesi sostenuta dai ricorrenti, dell'art. 59, comma 1, della citata
normativa.
Da quanto sinora esposto consegue l'inapplicabilità, nel caso in esame, della
disposizione di cui al secondo comma dell'art. 54 del decreto legislativo
predetto, la quale punisce con una sanzione amministrativa chiunque "apre o
comunque effettua scarichi di acque reflue domestiche o di reti fognarie,
servite o meno da impianti pubblici di depurazione, senza l'autorizzazione di
cui all'art. 45". In proposito innanzi tutto giova evidenziare che il comma 3
dell'articolo predetto, che si riferisce all'ipotesi di chi "effettua o mantiene
uno scarico senza osservare le prescrizioni indicate nel provvedimento di
autorizzazione", è punito con una sanzione amministrativa "salvo che il fatto
costituisce reato", il che evidenzia il carattere sussidiario e residuale della
norma che prevede l'illecito amministrativo, la quale può trovare applicazione
solo nel caso in cui il fatto non costituisca, ai sensi dell'art. 59, comma 1,
illecito penale. E che di illecito penale si tratta risulta dalle argomentazioni
in precedenza espresse, dovendosi sul punto altresì evidenziare che nessuna
efficacia scriminante può attribuirsi alla circostanza che i reflui della
Cartiera Burgo venivano comunque introdotti nella fognatura comunale atteso che
tale introduzione era finalizzata non già alla depurazione dei medesimi - evento
impossibile date le dimensioni del depuratore comunale - ma a creare una
parvenza di regolarità rispetto alla situazione effettiva, che era costituita
dallo scarico di quei reflui nel fiume Tagliamento senza alcun trattamento
diverso da quello - parziale ed insufficiente - che era stato effettuato nel
depuratore consortile. In ordine alla asserita violazione del principio di
correlazione tra il fatto contestato e la decisione, di cui al terzo motivo del
ricorso, ed alla conseguente erronea applicazione della L. n. 172 del 1995, art.
6 e del D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 62, comma 11, rileva il Collegio che tale
motivo è in realtà inammissibile perché, sotto il profilo della violazione di
legge e del vizio di motivazione tenta di sottoporre a questa Corte un giudizio
di merito, non consentito neppure alla luce dei motivi nuovi presentati ai sensi
della L. n. 46 del 2006;
- tale motivo è inoltre manifestamente infondato.
Va premesso che la modifica normativa dell'art. 606 c.p.p., lett. e) di cui alla
L. 20 febbraio 2006, n. 46 lascia inalterata la natura del controllo demandato
alla Corte di cassazione, che può essere solo di legittimità e non può
estendersi ad una valutazione di merito.
Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, il cui vizio di
mancanza, illogicità o contraddittorietà può ora essere desunto non solo dal
testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo
specificamente indicati. È perciò possibile ora valutare il cosiddetto
travisamento della prova, che si realizza allorché si introduce nella
motivazione un'informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando
si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia.
Attraverso l'indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od
omessa si consente nel giudizio di cassazione di verificare la correttezza della
motivazione.
Ciò peraltro vale nell'ipotesi di decisione di appello difforme da quella di
primo grado, in quanto nell'ipotesi di doppia pronunzia conforme il limite del
devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità,
salva l'ipotesi in cui il giudice d'appello, al fine di rispondere alle critiche
contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non
esaminati dal primo giudice.
Orbene, rilevano i ricorrenti che, nel mentre il capo di imputazione ipotizza
l'esistenza di due scarichi, ossia quello autorizzato dell'impianto di
depurazione ed un ulteriore scarico, non autorizzato, di acque che non
confluiscono nell'impianto di depurazione, le risultanze processuali avevano per
contro dimostrato che esisteva un unico scarico realizzato attraverso un'unica
condotta che aveva origine all'interno del depuratore comunale nel quale
venivano convogliati tutti i flussi delle acque; e pertanto i giudici di merito,
ritenendo irrilevante l'esistenza di uno o due scarichi, ed addentrandosi in
considerazioni riguardanti la legittimità dello scarico principale (ovvero
dell'unico scarico secondo la tesi della difesa) che non era mai stata posta in
dubbio, avevano violato apertamente il principio di correlazione tra la sentenza
e l'accusa formulata, la quale riguardava l'illegittimità del presunto secondo
scarico, in quanto non autorizzato.
In realtà nessuna violazione di tale principio di correlazione può ritenersi nel
caso di specie verificata ove si osservi che la Corte territoriale, preso atto
della divergenza fra i consulenti delle parti circa il percorso delle acque non
accolte nel depuratore, posto che secondo il consulente dell'accusa i reflui non
trattati convergerebbero direttamente nella roggia mentre secondo il consulente
della difesa essi si unirebbero a quelli trattati nella vasca V1 posta
all'uscita del depuratore, e rilevato che - siccome ritenuto dai giudici di
primo grado - tale divergenza si appalesava non decisiva ai fini della decisione
atteso che tutti i consulenti concordavano sul fatto che l'unico flusso depurato
era quello di 100 mc/h mentre gli altri 1.800 mc/h si immettevano nel
Tagliamento non depurati, ha rilevato che comunque non poteva dubitarsi
dell'esistenza di una seconda canalizzazione; ciò in quanto, secondo la tesi del
consulente dell'accusa, la sussistenza di una canalizzazione diversa da quella
del depuratore era in re ipsa. Ma, rileva la Corte territoriale, anche
privilegiando l'assunto del consulente della difesa esisterebbe pur sempre una
seconda canalizzazione la quale non entrerebbe nella parte dell'impianto
deputata al trattamento, ma si immetterebbe direttamente nella vasca V1 per ivi
unirsi alle acque uscenti da quella parte dell'impianto ove avveniva il
trattamento.
"Ma cos'è questa seconda canalizzazione, costruita in frode alla legge, se non
proprio il secondo scarico menzionato in imputazione?", si chiede retoricamente
la Corte territoriale.
Ed a questa impostazione ritiene di dover senz'altro aderire il Collegio,
rilevando che non può pertanto ravvisarsi alcuna discrasia fra la pronuncia
emessa ed i fatti contestati.
Il suddetto motivo di gravame non può pertanto trovare accoglimento;
mentre, per quel che riguarda l'ulteriore rilievo, svolto dalla difesa,
concernente la legittimità dello scarico principale, ritiene il Collegio di dove
rinviare la trattazione al successivo motivo di ricorso, in cui la questione
viene compiutamente esaminata. Col quarto motivo di gravame i ricorrenti hanno
infatti lamentato la erroneità dell'impugnata sentenza che aveva ritenuto gli
stessi responsabili del danneggiamento del fiume Tagliamento per non avere
revocato le autorizzazioni concesse dai loro predecessori alla Cartiera.
In particolare hanno rilevato che quando essi avevano assunto le rispettive
cariche, successivamente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 152 del 1999, si
erano trovati dinanzi a soggetti già da altri autorizzati allo scarico, e
dinanzi ad una normativa che consentiva a tali soggetti la possibilità di
continuare nell'attività autorizzata sino al 20.6.2002 (termine poi prorogato al
3.8.2004). Il motivo non è fondato atteso che i rilievi sollevati dai ricorrenti
muovono da un presupposto che, alla stregua di un corretto esame della
situazione giuridico - fattuale, non può che rivelarsi inesatto: e cioè la
regolarità dello scarico della Cartiera Burgo. Ed invero, date le dimensioni del
depuratore comunale avente una portata massima di 100 mc/h, la introduzione dei
reflui industriali provenienti dalla Cartiera (pari a 1.800 mc/h) era
finalizzata non già alla depurazione degli stessi ma solo a creare una parvenza
di regolarità rispetto alla situazione effettiva. Di conseguenza i reflui della
Cartiera Burgo, in quanto destinati a non essere trattati dal depuratore
comunale, non costituivano uno scarico regolarmente autorizzato atteso che, se
pur le autorizzazioni rilasciate dalle precedenti amministrazioni alla Cartiera
erano relative allo scarico in fognatura, e non nel depuratore comunale,
siffatta autorizzazione non poteva che riguardare i reflui convogliati (o
convogliatali) nel depuratore predetto. Il regime delle autorizzazioni è invero
finalizzato a conseguire obiettivi di qualità ambientale attraverso un controllo
preventivo della P.A. di tutti gli scarichi di acque reflue industriali,
costituendo tale controllo una sorta di difesa avanzata rispetto al pericolo di
inquinamento correlato allo scarico dei suddetti liquami, al fine di assicurare
la depurazione delle acque inquinanti: altrimenti l'autorizzazione diventa un
atto illegittimo, volto a creare soltanto una parvenza di regolarità
amministrativa rispetto alla situazione effettiva. Può pertanto conclusivamente
ritenersi che l'autorità comunale, sapendo che le acque provenienti dallo
scarico della cartiera non subivano alcun trattamento di depurazione (oltre
quello, parziale ed insufficiente, fornito dal depuratore consortile), non
avrebbe dovuto emettere alcuna autorizzazione: di talché deve ritenersi che i
reflui della cartiera, non trattati dal depuratore comunale, non costituivano
uno scarico regolarmente autorizzato, e non consentivano quindi l'applicazione
della disciplina transitoria prevista dal D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 62, comma
11;
correttamente pertanto la Corte di merito ha ritenuto, argomentando in tal
senso, che le pregresse autorizzazioni illegittime dovevano essere revocate.
Il gravame sul punto non può quindi trovare accoglimento. Col quinto motivo di
ricorso la difesa lamenta illogicità e contraddittorietà della motivazione
dell'impugnata sentenza in ordine al ritenuto danneggiamento del fiume
Tagliamento nel periodo rispetto al quale viene ipotizzata la responsabilità dei
ricorrenti. Rileva il Collegio che la difesa ha in buona sostanza proposto, con
il predetto motivo di gravame, una "rilettura" degli elementi di fatto su cui i
giudici di merito hanno fondato la loro sentenza di condanna, prospettando una
diversa valutazione delle risultanze processuali. In tal modo si sottopone a
questa Corte un diverso giudizio di merito, che non è consentito neanche alla
stregua della recente L. n. 46 del 2006.
A ciò si aggiunga che l'assunto della difesa non appare comunque condivisibile
ove si osservi che la Corte territoriale ha correttamente posto in rilievo la
situazione di degrado del fiume, evidenziata da numerosi elementi di prova che
rendono certa l'esistenza del danno, anche con riferimento al periodo preso in
considerazione nell'impugnata sentenza. Ed invero l'errore di fondo insito nel
predetto motivo di gravame è dato dal fatto che, al fine dell'accertamento del
danno nel periodo in questione, non è necessario accertare che vi sia stato un
peggioramento della situazione ambientale rispetto al periodo precedente, ma è
sufficiente riscontrare la persistente esistenza della situazione di degrado: ed
invero tale persistenza del degrado biologico, posta in relazione con il
fenomeno di autodepurazione delle acque correnti che avrebbe dovuto portare ad
un miglioramento della situazione, comprova il perdurare dell'attività di
deterioramento anche nel periodo in questione, e quindi la responsabilità degli
odierni imputati in ordine al reato di danneggiamento loro ascritto. E che la
qualità delle acque del fiume e la situazione di degrado ambientale fossero
rimaste quanto meno stazionarie rispetto al passato è confermato sia dalla
documentazione fotografica in atti che dalla deposizione della dott.ssa Franchi,
biologo dell'A.R.P.A. regionale, e dagli altri elementi indicati dal giudice di
primo grado e richiamati dalla Corte territoriale nell'impugnata sentenza.
Col sesto motivo di gravame la difesa lamenta l'erronea applicazione della norma
di cui al D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 58, deducendo che tale norma prevedeva
che la messa in sicurezza, la bonifica ed il ripristino fossero eseguiti secondo
il procedimento di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 17 il quale non
contemplava l'intervento del giudice penale, ed a maggior ragione non prevedeva
che il giudice potesse ordinare la bonifica secondo le disposizioni dell'A.R.P.A.
e sotto la sorveglianza dei N.O.E..
Il rilievo non è fondato.
Ed invero, per come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale,
l'argomento della difesa si pone in contrasto con il disposto del predetto
D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 60 il quale prevede che "con la sentenza di
condanna per reati previsti nel presente decreto, o con la decisione emessa ai
sensi dell'art. 444 c.p.p., il beneficio della sospensione condizionale della
pena può essere subordinato al risarcimento del danno ed alla esecuzione degli
interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino di cui all'art. 58".
Sul punto deve evidenziarsi che i criteri generali di messa in sicurezza,
bonifica e ripristino ambientale previsti dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22,
art. 17 si riferiscono all'ipotesi di soggetto che cagioni, in maniera anche
accidentale, l'inquinamento o un pericolo attuale e concreto di inquinamento, di
talché può ben affermarsi che la disposizione suddetta proceduralizza l'iter
burocratico prescindendo dall'eventuale rilievo penalistico della vicenda. Ciò
non toglie che in caso di accertamento in sede penale il giudice, nel
subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla
esecuzione degli interventi in questione, possa in concreto individuare le
modalità attraverso cui i suddetti interventi ripristinatori debbano avere
luogo, non essendo certamente vincolato alla procedura prevista dalla suddetta
disposizione normativa per la diversa ipotesi di bonifica e ripristino
ambientale, in sede di procedura amministrativa, dei siti inquinati.
E tali conclusioni sono suffragate da un elemento di carattere logico -
sistematico, ove si osservi che la trasmissione del provvedimento emesso dal
giudice penale al Ministero dell'Ambiente è prevista dal testo del D.Lgs. n. 152
del 1999, art. 58 che non contiene alcun riferimento alla sospensione
condizionale della pena subordinata alla esecuzione delle opere di messa in
sicurezza, bonifica e ripristino;
- per contro nessun obbligo di trasmissione è posto dal successivo art. 60 dello
stesso decreto legislativo, il quale prevede che il beneficio della sospensione
condizionale della pena possa essere subordinato alla esecuzione delle opere
predette (così come nessun obbligo di trasmissione è posto dal D.Lgs. 5 febbraio
1997, n. 22, art. 51 bis relativo alla attuazione delle direttive CE in tema di
rifiuti pericolosi, il quale prevede che la sentenza di condanna o la decisione
ex art. 444 c.p.p. pronunciata nei confronti di chiunque cagioni l'inquinamento
o un pericolo concreto ed attuale di inquinamento, possa subordinare il
beneficio della sospensione condizionale della pena alla esecuzione delle
suddette opere di messa in sicurezza, bonifica e ripristino).
Da ciò si desume che il giudice penale, nel subordinare il beneficio della
sospensione alla esecuzione delle opere in questione, ben può disporre
l'esecuzione degli interventi medesimi e fissarne le modalità ed il contenuto;
mentre, qualora il giudice si limiti alla condanna o alla emissione del
provvedimento ex art. 444 c.p.p., dovrà disporsi la trasmissione del
provvedimento al Ministero dell'Ambiente affinché venga attivata la procedura
amministrativa prevista dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 17.
Coerentemente a tali osservazioni, questa Sezione, con la sentenza n. 5138 del
25.1.2005, ha affermato che "tanto le misure riparatorie che il risarcimento ...
previsti in tema di danno ambientale dal D.Lgs. n. 152 del 1999, art. 58, si
atteggiano alla stregua di prescrizioni amministrative accessorie correlate
all'accertamento del fatto costituente reato, così da rendersi applicabili anche
in sede di patteggiamento, a prescindere da qualsiasi accordo sul punto".
Pertanto, se la statuizione di tale adempimento, in quanto prescrizione
amministrativa accessoria, è stata ritenuta legittima in tema di pena
patteggiata, a maggior ragione lo sarà in ipotesi di ordinaria sentenza di
condanna.
E parimenti legittima deve ritenersi l'indicazione delle modalità attraverso cui
gli interventi in parola devono essere eseguiti, attenendo tale ulteriore
prescrizione alla concreta e corretta esecuzione delle misure ripristinatorie
imposte.
Con il settimo motivo di gravame la difesa lamenta che erroneamente la Corte
territoriale aveva rigettato il motivo di appello concernente la nullità ovvero
abnormità dell'ordinanza in data 24.2.2004 con la quale il giudice monocratico
del Tribunale di Tolmezzo, a fronte della modificazione dei capi di imputazione
effettuata dal P.M., aveva disposto il differimento dell'udienza anziché la
restituzione degli atti a quest'ultimo, nonché il motivo di appello concernente
l'ordinanza del 20.3.2004 con cui il medesimo giudice aveva rigettato l'istanza
volta alla revoca dell'ordinanza predetta.
Il motivo non è fondato alla stregua delle motivazioni già espresse da questa
Corte (Cass. sez. 3^, 9.2.2005 n. 12293) a seguito di ricorso immediato proposto
dagli imputati, laddove è stato evidenziato, premesso che deve ritenersi fatto
pacifico che il giudizio immediato sorto a seguito di opposizione a decreto
penale di condanna abbia origini diverse da quello ordinario, che "da una
diversa origine e dall'inapplicabilità per ragioni di celerità al giudizio per
decreto delle norme dianzi indicate dettate per il giudizio ordinario, non si
può desumere anche una deroga alla disciplina del dibattimento una volta che il
giudizio sia stato instaurato a seguito di opposizione a decreto penale. Invero
il problema nella fattispecie consiste nello stabilire se il dibattimento del
giudizio immediato instaurato a seguito di opposizione a decreto penale debba o
no svolgersi nelle forme ordinarie.
Ad avviso di questo collegio, in mancanza di esplicite deroghe da parte del
legislatore, il dibattimento segue le regole ordinarie compresa la possibilità
di modificare l'imputazione ex art. 516 c.p.p. o di trasmettere gli atti al P.M.
nelle ipotesi di cui all'art. 521. Se il legislatore avesse voluto creare
deroghe al giudizio ordinario lo avrebbe detto. La riprova si trae dal fatto che
nel giudizio immediato conseguente all'opposizione a decreto penale non vige il
divieto della reformatio in peius. D'altra parte anche sotto la vigenza
del codice del 1930, dal quale tale rito speciale deriva sia pure con qualche
lieve modificazione, la giurisprudenza riteneva pacificamente che nel corso del
giudizio conseguente all'opposizione a decreto penale, l'imputazione potesse
essere modificata con contestazione suppletiva proprio perché le conseguenze
dell'opposizione non erano presidiate dal divieto della reformatio in peius
(cfr. Cass. 30 gennaio 1970, Cass. pen. 71, 627, 7 ottobre 1968, ivi 69,1393,
Cass. 21 settembre 1964, ivi 65, 822). Pertanto l'art. 516 c.p.p. che consente
al pubblico ministero di modificare l'imputazione è applicabile anche al
giudizio immediato sorto a seguito di opposizione a decreto penale".
Il ricorso va pertanto, sul punto, dichiarato inammissibile. Con l'ottavo motivo
di gravame la difesa lamenta la erroneità della decisione della Corte
territoriale che aveva rigettato il motivo di appello con cui si censurava
l'ordinanza in data 20.3.2004 del predetto giudice monocratico che, a fronte
della suddetta modifica dei capi di imputazione operata dal P.M., aveva
rigettato l'istanza degli imputati volta alla ammissione di nuove prove. Il
motivo non è fondato.
Osserva il Collegio che l'assunto della difesa si basa in buona sostanza sul
rilievo che, a seguito dei fatti alluvionali del febbraio 2002 che avevano
determinato una irreversibile modificazione dello stato dei luoghi, il danno in
ipotesi dagli stessi in precedenza cagionato non era più esistente, con la
conseguenza che non poteva esserci condanna al risarcimento di detto danno ed al
ripristino e bonifica dei luoghi.
Procedendo per gradi osserva innanzi tutto il Collegio che, per come evidenziato
in relazione al quinto motivo di gravame, la Corte territoriale ha ben posto in
rilievo la situazione di degrado del fiume, anche con riferimento al periodo
preso in considerazione nell'impugnata sentenza, ed il perdurare quindi anche in
tale periodo della condotta dannosa. Ritenuta pertanto l'esistenza di tale
danneggiamento, si pone il problema di valutare quali conseguenze sul piano
risarcitorio siano da attribuire al mutamento dell'assetto dell'ecosistema
determinato dai fatti alluvionali che hanno interessato il fiume Tagliamento nel
febbraio del 2002. Orbene il risarcimento è una conseguenza civilistica del
danneggiamento operato, è collegato alla verificazione di tale danno, ed ha
carattere e contenuto di sanzione civile correlata alla condotta posta in
essere. L'obbligazione risarcitoria prescinde quindi da qualsiasi evento
successivo che abbia potuto avere una qualsiasi refluenza o incidenza (in senso
positivo o negativo) sul danno cagionato ma è correlata esclusivamente alla
causazione di tale danno da parte del soggetto.
La circostanza che, nel caso di specie, a seguito dei successivi eventi
alluvionali si sia financo persa la traccia di tali danni, per lo stravolgimento
dello stato dei luoghi e dell'ecosistema, non determina certamente il venir meno
dell'obbligazione risarcitoria non comportando alcuna conseguenza in ordine alla
persistenza della stessa, atteso che l'unica conseguenza è data dalla
impossibilità di una precisa quantificazione del relativo danno: ma a tale
evenienza supplisce la disposizione contenuta nella L. n. 349 del 1986, art. 18,
comma 6, la quale prevede la possibilità che il danno possa essere determinato
in via equitativa.
La prova dedotta dagli appellanti si appalesa pertanto inconducente, di talché
correttamente non è stata ammessa dai giudici di merito. Ed analoghi rilievi
ritiene il Collegio di dove effettuare con riferimento all'ulteriore risvolto
del predetto motivo di gravame, concernente la condanna alla esecuzione degli
interventi di messa in sicurezza degli impianti, di bonifica e di ripristino
delle aree inquinate. Trattasi invero di una sanzione di carattere accessorio
correlata alla verificazione del fatto reato, o più esattamente di una
prescrizione amministrativa accessoria correlata all'accertamento del fatto
costituente reato, destinata in ipotesi a caducarsi qualora, in sede di
esecuzione, e non in sede di processo di cognizione, venga accertata
l'impossibilità di tali interventi a seguito del successivo, e per cause non
imputabili ai detti imputati, stravolgimento dello stato dei luoghi.
Anche sotto tale profilo il ricorso sul punto non appare fondato. Col nono
motivo di ricorso la difesa lamenta la erroneità della decisione impugnata che
aveva rigettato l'eccezione di difetto di legittimazione processuale dei
soggetti che si erano costituiti in giudizio in rappresentanza delle
associazioni ambientaliste WWF e Lega Ambiente.
Il motivo non è fondato.
Ed invero, per quel che riguarda il WWF Italia, rileva il Collegio che la Corte
territoriale ha correttamente evidenziato che l'attribuzione al Comitato
Direttivo, organismo ristretto eletto dal Consiglio Nazionale, della facoltà di
promuovere giudizi, non espropria di tale facoltà il Consiglio Nazionale, che è
il vertice amministrativo del sodalizio; ed ha riscontrato la conferma di tale
principio nella delibera in data 16.12.2000 del Consiglio Nazionale con cui
quest'ultimo aveva rilasciato delega generale al Presidente, o in sua assenza ai
vice - Presidenti, per tutte le forme di costituzione o intervento in giudizio
dell'Associazione, il che ribadiva la sostanziale equipollenza, in materia, fra
la delibera del Comitato Direttivo e quella del Consiglio Nazionale. E tale
conclusione trova conferma nella circostanza che il Comitato Direttivo è una
emanazione del Consiglio Nazionale, dal quale ripete i suoi poteri, di talché
deve escludersi che la attribuzione di una determinata facoltà al detto Comitato
privi l'organo sovraordinato della facoltà medesima. Sul punto rileva il
Collegio che senz'altro inconferente si appalesa il richiamo alle competenze
della Giunta Municipale e del Consiglio Comunale, ove si osservi che la prima
non costituisce emanazione del secondo, potendo alla stessa essere chiamati
anche soggetti non facenti parte del Consiglio, e che le competenze degli organi
predetti sono stabiliti per legge mentre quelle dell'associazione in parola si
fondano sull'accordo associativo che ben può essere adeguato ed integrato alla
stregua di una prassi consolidata.
Col decimo motivo di ricorso la difesa lamenta la erroneità della decisione
impugnata che aveva ritenuto preclusa la questione relativa alla costituzione di
parte civile della Regione Friuli - Venezia Giulia per non essere stata tale
questione proposta nei termini di cui all'art. 491 c.p.p., rilevando che la
norma suddetta stabiliva unicamente una regola di economia processuale volta a
definire, in limine litis, la posizione delle parti nel processo, ma non
precludeva, ed anzi obbligava il giudice a sindacare gli estremi formali e
sostanziali della costituzione di parte civile. Il motivo non è fondato.
Ed invero il chiaro disposto dell'art. 491 c.p.p. non consente di dubitare che
la mancata opposizione in limine alla tempestiva costituzione di parte civile,
impedisce la successiva proposizione di questioni relative alla predetta
costituzione, che non siano state dedotte nei termini, rendendo così stabile il
rapporto civilistico istauratosi tra le parti (in tal senso, Cass. sez. 5^,
22.12.1998/3.3.1999 n. 2911; Cass. sez. 6^, 25.9.95 n. 10714). In proposito
rileva il Collegio che la giurisprudenza delle SS.UU. di questa Corte (sent. n.
12 del 19.5.1999) citata dai ricorrenti afferisce alla diversa questione, che le
Sezioni Unite hanno risolto positivamente, della impugnazione differita e
"conglobata", unitamente alla sentenza, delle ordinanze dibattimentali ammissive
della parte civile, essendo tale conclusione senz'altro coerente sotto il
profilo logico - sistematico con il carattere meramente endoprocessuale dei
limiti di efficacia disegnati per questo tipo di provvedimento.
Ma, posto ciò, così si esprimono le Sezioni Unite della Corte:
"Risolto in senso positivo il problema pregiudiziale dell'impugnabilità differita e "conglobata" dell'ordinanza dibattimentale in esame insieme con la sentenza, ritiene il Collegio che meriti censura la declaratoria d'inammissibilità, sotto il profilo dell'intempestività, della richiesta di esclusione della parte civile - costituitasi per l'udienza preliminare - formulata dall'imputato solo nel corso degli atti introduttivi del dibattimento, oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nell'udienza preliminare. La tesi restrittiva recepita dal Tribunale di Camerino, secondo cui la richiesta di esclusione della parte civile dovrebbe essere avanzata, nel caso di costituzione della stessa all'udienza preliminare, entro il termine di cui all'art. 420 c.p.p., comma 2, non anche per la prima volta in limine judicii, non appare invero supportata dalla esegesi letterale della disposizione di cui all'art. 80, comma 2, che, nel prescrivere nel caso di costituzione di parte civile per l'udienza preliminare che "la richiesta è proposta, a pena di decadenza, non oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nella udienza preliminare o nel dibattimento", attribuisce all'imputato una facoltà di scelta alternativa circa il momento entro cui far valere le eccezioni relative alla costituzione di parte civile, sempreché tale opzione difensiva venga esercitata entro la fase degli atti preliminari al dibattimento".
E pertanto la Corte conferma il carattere preclusivo della disposizione
contenuta nel predetto art. 491 c.p.p., con la conclusione che la questione, se
non sollevata subito dopo l'accertamento per la prima volta della costituzione
delle parti, deve ritenersi ormai preclusa.
Ed in tale pronuncia devono ritenersi assorbite le ulteriori censure sollevate
dalla difesa nel predetto motivo di gravame, concernenti la inammissibilità da
parte delle associazioni ambientaliste della sostituzione della Regione Friuli -
Venezia Giulia, trattandosi di questioni parimenti precluse.
Con l'undicesimo motivo di ricorso la difesa lamenta la erroneità della
decisione impugnata che aveva illegittimamente ammesso le predette associazioni
ambientaliste al patrocinio a spese dello Stato.
Ritiene la Corte di dover esaminare tale motivo di ricorso unitamente al motivo
successivo con il quale la difesa lamenta, in via sostanzialmente subordinata,
l'erroneità della predetta decisione sul punto relativo alla ammissione delle
associazioni predette al patrocinio a spese dello Stato quanto meno in relazione
alla loro costituzione in sostituzione degli enti territoriali. Il primo rilievo
è manifestamente infondato.
Ed invero la questione è stata già affrontata da questa Corte la quale ha avuto
modo di evidenziare come le associazioni e gli enti che perseguono attività non
di lucro possono essere ammessi al patrocinio a spese dello Stato nell'ipotesi
in cui abbiano esercitato l'azione civile nel processo penale. Sul punto ha così
motivato la Corte: "Va in proposito ricordata la normativa di interesse. Il
D.P.R. n. 115 del 2002, art. 74 che prevede in via generale, al comma 1,
l'istituzione del patrocinio nel procedimento penale ed al comma 2 in quello
civile, amministrativo, contabile e tributario, va raccordato, in relazione alla
diversa natura dei procedimenti, agli artt. 90 e 119 stesso testo. Il citato
art. 90, compreso nel titolo relativo al processo penale, estende la tutela
prevista per il cittadino italiano allo straniero ed all'apolide residente in
Italia. L'art. 119, contenuto nel titolo concernente il processo civile,
amministrativo, contabile e tributario, estende, invece, espressamente la tutela
oltre che allo straniero ed all'apolide, agli enti ed associazioni che non
perseguono scopi di lucro e non esercitano attività economica. Non è revocabile
in dubbio che la previsione normativa (sia nel testo previgente, applicato nella
vicenda de qua, che nel testo attuale) si deve intendere nel senso che nel
procedimento penale le persone giuridiche non possono accedere al patrocinio a
spese dello Stato, salvo nei casi - e ciò in base ad una interpretazione di
carattere sistematico - in cui l'azione civile sia stata esercitata nel processo
penale". (Cass. sez. 4^, 14.1.2005 n. 11165).
E tale conclusione risulta suffragata dal contenuto del predetto D.P.R. n. 115
del 2002, art. 120 il quale, nel prevedere che la parte ammessa e rimasta
soccombente non può giovarsi dell'ammissione per proporre impugnazione, ha fatto
salvo il caso della "azione di risarcimento del danno nel processo penale".
In relazione al detto motivo deve altresì evidenziarsi una palesa carenza di
interesse in capo agli odierni ricorrenti ove si osservi, siccome altresì
rilevato dalla Corte territoriale, che in virtù del principio della soccombenza
di cui all'art. 541 c.p.p., gli stessi devono comunque rifondere le spese alla
parte civile vittoriosa, di talché del tutto irrilevante si appalesa la
circostanza che tale ordine di rifusione sia stato disposto in favore dello
Stato ovvero in favore del procuratore di controparte.
Del pari manifestamente infondato deve ritenersi l'altro motivo di ricorso
concernente la inammissibilità del patrocinio a spese dello Stato delle predette
associazioni ambientaliste allorché agiscono non iure proprio ma esercitano un
diritto nomine alieno. L'assunto di parte ricorrente si fonda sul rilievo che
gli enti sostituiti non potrebbero ottenere mai l'ammissione al patrocinio a
spese dello Stato, di talché, agendo in tale ipotesi le associazioni
ambientaliste a tutela di un diritto dei predetti soggetti giuridici, ne deriva
che, in tale veste, non possono beneficiare del patrocinio suddetto. La tesi non
appare condivisibile ove si osservi che anche in tal caso le associazioni
ambientaliste agiscono sempre in proprio, anche se per esercitare un altrui
diritto, in virtù di una norma di carattere eccezionale che deroga alla
disciplina generale in tema di legittimazione processuale, e non a seguito di
conferimento dei poteri di rappresentanza da parte dell'ente sostituito.
L'azione proposta dall'associazione di protezione ambientale ai sensi del D.Lgs.
n. 267 del 2000, art. 9, comma 3, è quindi un'azione di tipo sostitutivo o
suppletivo, ma rimane pur sempre un'azione propria dell'associazione
ambientalista, e non dell'ente locale sostituito:
- tant'è che le spese sono liquidate sempre a favore o a carico dell'associazione; e pertanto, non prevedendo la norma di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 119 relativa all'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, alcuna distinzione tra le ipotesi in cui le dette associazioni, proponendo l'azione risarcitoria, esercitano un diritto iure proprio o nomine alieno, il ricorso proposto non può trovare sul punto accoglimento.
Col tredicesimo motivo la difesa lamenta la erroneità della decisione impugnata
che aveva ammesso ben tre associazioni a costituirsi quali sostituti processuali
della Regione, della Provincia e del Comune, esercitando quindi ciascuna per
proprio conto la medesima azione risarcitoria in sostituzione dei predetti enti
territoriali, con la conseguenza che ciascun ente sostituito era rappresentato
da tre difensori, in violazione della norma di cui all'art. 100 c.p.p. la quale
prevede che la parte civile possa nominare un solo difensore.
Il motivo è manifestamente infondato.
Ed invero l'assunto di parte ricorrente, secondo cui l'azione spetterebbe
indistintamente al complesso delle associazioni, con la conseguenza che una
volta esercitata da una di esse deve ritenersi esaurita, non pare trovare alcun
fondamento ne' nella formulazione della norma ne' tanto meno nella logica del
sistema.
Ed invero, l'argomento che la difesa ritiene di ravvisare nella formulazione
dell'ultima parte della disposizione di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 9
laddove è previsto che "le spese processuali sono liquidate in favore o a carico
dell'associazione" singolarmente considerata, si appalesa in realtà
inconsistente, ove si osservi che la norma in questione prevede, immediatamente
prima, che "l'eventuale risarcimento è liquidato in favore dell'ente
sostituito", utilizzando anche in tal caso la forma "singolare", se pur non
possa dubitarsi, essendo tale situazione espressamente prevista dall'art. 9,
stesso comma 3 che l'azione risarcitoria può essere esercitata dall'associazione
in sostituzione di più enti territoriali. Si tratta per come evidente di una
questione di tecnica normativa, atteso che con il predetto inciso il legislatore
ha inteso porre in rilievo, con la ovvia utilizzazione del "singolare", la
differenza del destinatario del risarcimento del danno rispetto al destinatario
delle spese liquidate, e non certamente evidenziare che l'azione può essere
esercitata da una sola associazione e, portando ad ulteriore sviluppo la tesi
esposta dalla difesa, in sostituzione di un solo ente.
Ed anche sotto il profilo logico - sistematico la tesi della difesa non appare
condivisibile atteso che l'esegesi della norma di cui all'art. 9 del decreto
legislativo predetto, con la previsione al comma 1 che "ciascun elettore può far
valere in giudizio le azioni ..." ed al comma 3 che "le associazioni di
protezione ambientale ... possono proporre le azioni...", evidenzia che il
legislatore con la norma suddetta ha previsto una forma di sostituzione multipla
e del singolo elettore e del medesimo ente territoriale.
Da ciò consegue che senz'altro legittima deve ritenersi l'ammissione alla
costituzione di parte civile di ciascuna associazione ambientalista, con un solo
difensore, in sostituzione della Regione, della Provincia e del Comune, e di
conseguenza legittima deve ritenersi l'ammissione al patrocinio a spese dello
Stato e la liquidazione delle spese di giudizio in favore di ciascuna delle
associazioni predette. Nè, come correttamente rilevato nell'impugnata sentenza,
può ritenersi che gli enti territoriali abbiano beneficiato di un illegittimo
effetto moltiplicatore dovuto al fatto che le associazioni ambientaliste
costituite parte civile erano in numero di tre, avendo il Tribunale statuito la
condanna generica al risarcimento del danno in favore di ciascuno dei tre enti
territoriali interessati, ed a carico solidale degli imputati condannati.
Col quattordicesimo motivo di gravame la difesa lamenta la erroneità
dell'impugnata sentenza che era pervenuta all'affermazione di responsabilità
degli odierni ricorrenti in ordine al reato di danneggiamene pur in assenza di
alcuna prova dell'esistenza in capo ai medesimi del dolo richiesto per la
sussistenza del reato in parola.
Il motivo è manifestamente infondato.
Ed invero, per quel che riguarda il Cuzzi, la Corte territoriale, con
motivazione assolutamente logica e del tutto coerente con le risultanze
processuali, ha evidenziato come nel settembre-ottobre del 1993, l'allora
responsabile dei servizi tecnici del Comune di Tolmezzo, arch. Zilli, avesse
informato gli organi comunali, ed in particolare la Giunta Municipale della
quale faceva parte il Cuzzi, dello stato effettivo degli scarichi della
cartiera;
e pertanto il detto imputato non poteva non considerasi personalmente edotto del
problema.
Analogamente, per quel che riguarda il Pillinini, la Corte territoriale ha ben
posto in evidenza che lo stesso, quale dirigente dell'Ufficio Opere Pubbliche,
era il responsabile del procedimento di richiesta dell'autorizzazione regionale
allo scarico del depuratore comunale in deroga ai limiti tabellari, aveva posto
mano alla progettazione generale delle fognature e partecipava regolarmente alle
riunioni periodiche stabilite per tentare di risolvere il problema, di talché
anche il predetto non poteva non essere a conoscenza del problema.
Orbene, le conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale in ordine alla
conoscenza da parte sia del Cuzzi che del Pillinini della situazione di fatto
relativa allo scarico della Cartiera, contrariamente a quanto rilevato nel
proposto gravame, non si basano su argomentazioni generiche ma sul corretto
riscontro degli esiti della compiuta istruttoria, e risultano altresì
correttamente e compiutamente motivate, di talché sul punto l'impugnata sentenza
si sottrae ai rilievi mancanza, contraddittorietà ed illogicità della
motivazione.
Nè può sostenersi che gli imputati, a fronte del perdurare da anni della
situazione in questione e della mancanza di interventi da parte della Regione e
del competente Assessorato Regionale, potevano ritenere che lo scarico non
comportasse una seria compromissione delle caratteristiche del fiume, di talché
nella condotta degli stessi potevano tutt'al più ravvisarsi gli estremi della
colpa cosciente ma non certamente quelli del dolo eventuale, siccome ritenuto in
sentenza.
Anche in tal caso la Corte di appello ha correttamente rilevato che la
immissione di una gran quantità di reflui industriali non trattati nel fiume
determina inevitabilmente il danneggiamento dello stesso.
Trattasi invero di circostanza assiomatica, che non necessita di alcuna
motivazione essendo insita nel fatto medesimo, di talché non può ritenersi che
la verificazione dell'evento (compromissione delle caratteristiche del fiume)
fosse una ipotesi astratta, trattandosi di evento inevitabile del quale si
ignorava solo la portata e l'entità. Ma l'incertezza sulla entità del danno non
vale certamente a scriminare la responsabilità dell'agente, nel senso che
l'elemento soggettivo avrebbe assunto le connotazioni della colpa cosciente e
non quella del dolo (inteso quale dolo eventuale), atteso che nella colpa
cosciente la verificabilità dell'evento rimane una ipotesi astratta, mentre nel
caso in esame siffatta verificabilità dell'evento costituiva una ipotesi
probabile, anzi certa. E pertanto sotto tale profilo il proposto gravame si
appalesa decisamente infondato.
E parimenti non può ritenersi fondato il rilievo secondo cui nessuna
argomentazione avrebbe addotto la Corte territoriale a fondamento dell'assunto
che gli imputati sarebbero stati consapevoli che i reflui immessi nel
Tagliamento non venivano trattati, avendo le risultanze processuali evidenziato
che la situazione esistente nel momento in cui gli stessi avevano assunto i
rispettivi incarichi si protraeva sin dal 1988 e che la Regione aveva sempre
autorizzato il Comune a scaricare in deroga ai limiti tabellari. Sul punto
questo Collegio non può che richiamarsi a quanto già evidenziato circa la piena
consapevolezza da parte sia del Cuzzi che del Pillinini della situazione di
fatto relativa allo scarico della Cartiera, ritenendo di dover solo aggiungere,
a proposito del rilascio delle autorizzazioni regionali in deroga, che la Corte
d'Appello ha altresì posto in rilievo che dalle dichiarazioni del funzionario
della Regione Friuli - Venezia Giulia ing. Procecco Giorgio era emerso che
l'amministrazione Regionale era stata edotta solo in occasione della riunione
tenutasi il 23.7.2001 della circostanza che il depuratore comunale non aveva
capacità sufficiente a trattare la acque della cartiera, e dell'espediente (by
-pass) posto in essere per evitare l'immissione delle acque reflue della
cartiera nel depuratore comunale ed il conseguente danneggiamelo dello stesso.
Col quindicesimo motivo di gravame la difesa lamenta la erroneità della
decisione impugnata che aveva riconosciuto la legittimazione processuale della
Legambiente quale articolazione regionale del Friuli - Venezia Giulia, sebbene
la speciale legittimazione delle associazioni di protezione ambientale, prevista
dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 9 del riguardasse l'associazione
ambientalistica nazionale formalmente riconosciuta ai sensi della L. n. 349 del
1986, art. 13 e non le sue propaggini territoriali.
Il motivo è inammissibile sia perché, siccome rilevato dalla Corte territoriale,
non era stato coltivato nei motivi di appello ma proposto solo con i nuovi
motivi presentati successivamente, sia perché la relativa questione non era
stata dedotta immediatamente dopo la costituzione di parte civile nel giudizio
di primo grado. In proposito ritiene il Collegio di doversi riportare a quanto
già evidenziato con riferimento al decimo morivo di gravame, circa la
preclusione, alla stregua del contenuto dell'art. 491 c.p.p., derivante dalla
mancata opposizione alla costituzione di parte civile entro la fase degli atti
preliminari al dibattimento, e segnatamente subito dopo l'accertamento per la
prima volta della costituzione delle parti.
Col sedicesimo motivo di gravame la difesa lamenta la erroneità dell'impugnata
sentenza che, in accoglimento degli appelli proposti dalle associazioni
ambientaliste, aveva ritenuto le stesse legittimate a costituirsi iure proprio
ed aveva quindi condannato gli imputati al risarcimento del danno in favore
delle predette. Il rilievo non è fondato.
Sul punto osserva innanzi tutto il Collegio che l'argomento che parte ricorrente
intende ricavare dalla L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 5, il quale prevede
che "le associazioni individuate in base all'art. 13 della presente legge,
possono intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di
giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atti illegittimi", si
appalesa in realtà inconferente.
La tesi sostenuta dalla difesa si inserisce in quel filone dottrinario, invero
minoritario, per cui la facoltà di intervento, prevista dalla norma suddetta,
consente alle associazioni solo l'ingresso nel processo alle condizioni e con i
limiti di cui agli artt. 91 c.p.p. e ss.; tale tesi è sostenuta con riferimento
al testo letterale della norma ed ai lavori preparatori da cui emergerebbe una
volontà del legislatore in tale senso. Il Collegio non ritiene corretta siffatta
lettura restrittiva della norma in questione, da cui deriverebbe una
legittimazione, a titolo esclusivo, dello Stato e degli enti territoriali alla
costituzione di parte civile in base alla L. n. 349 del 1986, art. 18 mentre le
associazioni di cui all'art. 13 potrebbero solo "intervenire" nei giudizi per
danno ambientale.
La norma dettata dalla predetta L. n. 349 del 1986, art. 18 ha introdotto una
nuova figura di azione ed ha considerato il danno ambientale nella sua
dimensione pubblica tipizzando, appunto, una fattispecie di illecito a carattere
pubblicistico quale lesione del diritto delle istituzioni centrali e periferiche
con specifiche competenze ambientali alla salvaguardia del patrimonio
ambientale. Il rilievo che lo Stato, il Comune e la Regione - in virtù del loro
rapporto di immedesimazione con il territorio - sono considerati massimi enti
esponenziali della collettività ed accentrano la titolarità del ristoro del
danno pubblico all'ambiente non priva altri soggetti della legittimazione
diretta a rivolgersi al Giudice penale per la tutela di altri diritti
patrimoniali o personali compresi nel degrado ambientale: l'art. 18 citato
integra e non esclude i principi generali in materia del risarcimento del danno
e di costituzione di parte civile.
Sul punto questa Corte ha avuto già modo di evidenziare che la norma di cui alla
L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 5 non esclude la possibilità di costituzione
di parte civile, iure proprio, delle associazioni ambientaliste, nell'ipotesi di
danno all'ambiente:
"Ora il nocumento in oggetto ha dimensioni diversificate. La Corte
Costituzionale, con sentenza 641/1987, ha rilevato che l'ambiente è bene
primario ed assoluto e la sua protezione è "elemento determinante per la qualità
della vita", "non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti,
bensì esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce
e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini"; in tale modo,
la Consulta ha riconosciuto che il danno ambientale può recare lesione alla
posizione giuridica dei singoli. La giurisprudenza di legittimità è andata oltre
questo principio è ed ha rilevato che il danno ambientale presenta, oltre a
quella pubblica, una dimensione personale e sociale quale lesione del diritto
fondamentale all'ambiente salubre di ogni uomo e delle formazioni sociali in cui
si sviluppa la personalità; il danno in oggetto, in quanto lesivo di un bene di
rilevanza costituzionale, quanto meno indiretta, reca una offesa alla persona
umana nella sua sfera individuale e sociale. Tale rilievo porta alla conclusione
che la legittimazione a costituirsi parte civile per danno ambientale non spetta
solo ai soggetti pubblici, in nome dell'ambiente come interesse pubblico, ma
anche alle persone singole o associate in nome dell'ambiente come diritto
fondamentale di ogni uomo. Di conseguenza la legittimazione in oggetto spetta
anche alle associazioni ecologiche quando hanno subito dal reato una lesione di
un diritto di natura patrimoniale (ad esempio, per i costi sostenuti nello
svolgimento della attività dirette ad impedire pregiudizio al territorio o per
la propaganda) o non patrimoniale (ad esempio, attinente alla personalità del
sodalizio per il discredito derivante dal mancato raggiungimento dei fini
istituzionali che potrebbe indurre gli associati a privare l'ente del loro
sostegno personale e finanziario)" (Cass. sez. 3^, 21.10.2004 n. 46746).
Ed ha rilevato che sulla possibilità delle associazioni ambientaliste a
costituirsi parte civile, nel caso in esame, si è pronunciata la prevalente
giurisprudenza di legittimità sia pure con differenti motivazioni (Cass. sez.
6^, 10.1.1990, n 59; Cass. sez. 3^, 26.2.1990, n. 2603; Cass. sez. 3^,
11.4.1992, n. 4487; Cass. sez. 3^, 13.11.1992, n. 10956; Cass. sez. 3^,
21.5.1993, n. 5230; Cass. sez. 3^, 28.10.1993, n. 9727; Cass. sez. 3^,
19.1.1994, n. 439; Cass. sez. 3^, 6.4.1996, n. 3503; Cass. sez. 3^, 19.11.1996,
n. 9837; Cass. sez. 3^, 26.9.1996, n. 8699; Cass. sez. 3^, 10.6.2002, n. 22539).
Nè per contrastare questa ricostruzione potrebbero essere addotti i lavori
preparatori della L. n. 349 del 1986 e l'attuale disciplina dell'intervento,
poiché quest'ultima è successiva all'introduzione della disciplina del danno
ambientale, sicché non può essere utilizzata per interpretare una normativa
anteriore. I lavori preparatori impongono invece una diversa lettura, giacché
l'intervenuta modifica in Senato del testo dell'attuale art. 18 proposto dalla
Camera dei deputati, in cui era prevista la possibilità di costituirsi parte
civile delle associazioni ambientaliste, deve essere considerata nel complessivo
mutamento di tutta la norma, che ha attribuito la competenza per dette
controversie all'autorità giudiziaria ordinaria invece che alla Corte dei Conti,
sicché non era necessario ribadire detta ammissibilità, recepita da parte della
dottrina e della giurisprudenza.
Con lo stesso motivo di gravame parte ricorrente ha rilevato che erroneamente la
Corte territoriale aveva condannato gli imputati al risarcimento del danno in
favore delle associazioni ambientaliste in assenza della dimostrazione di un
danno patrimoniale ovvero di un danno all'immagine o alla personalità.
Neanche sul punto il rilievo è fondato.
In materia ritiene il Collegio di dover ribadire, rifacendosi a quanto
evidenziato nella sentenza n. 22539 del 5.4.2002, che "il danno ambientale
presenta una triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto
fondamentale all'ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto
fondamentale all'ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la
personalità umana, ex art. 2 Cost.) pubblica (quale lesione del diritto - dovere
pubblico spettante alle istituzioni centrali e periferiche) (vedi Cass. sez. 3^,
19.1.1994, n. 439, .....). All'affermazione che il danno ambientale non consiste
soltanto in una compromissione dell'ambiente in violazione di leggi ambientali
(nel senso dianzi specificato) ma anche, contestualmente ed inscindibilmente, in
una "offesa della persona umana nella sua dimensione individuale e sociale"
consegue che la legittimazione a costituirsi parte civile non spetta solo ai
soggetti pubblici (Stato, Regione, Province, Comuni, Enti parco, etc.), in nome
dell'ambiente come interesse pubblico, ma anche alla persona singola o
associata, in nome dell'ambiente come diritto fondamentale di ogni uomo e valore
di rilevanza costituzionale (vedi Cass. sez. 3^, 19.11.1996, n. 9837, .....e
23.11.1989, n. 16247, .....).
La costituzione di parte civile delle associazioni di protezione ambientale è
ammissibile quando l'interesse diffuso alla tutela dell'ambiente non è
astrattamente connotato ma si concretizza in una determinata realtà storica di
cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo e che è diventata la ragione e,
perciò, elemento costitutivo di esso, purché - comunque - dal reato sia derivata
una lesione di un diritto soggettivo inerente lo scopo specifico perseguito.
Deve ritenersi perciò configurabile, in capo alle associazioni ecologiste (come
affermato da Cass. sez. 3^, 26.9.1996, n. 8699, .....e altri), la titolarità:
- di un diritto soggettivo individuabile nella salubrità dell'ambiente (la cui
lesione comporta un danno "aquiliano" risarcibile), sempre che un'articolazione
territoriale colleghi le associazioni medesime ai beni lesi;
- di un diritto della personalità dell'ente (la cui lesione comporta la facoltà di agire per il risarcimento dei danni morali e materiali relativi all'offesa, diretta ed immediata, dello scopo sociale che costituisce la finalità propria del sodalizio)".
In questa prospettiva appare senz'altro corretta la determinazione della Corte
territoriale la quale, rilevato che la tutela dell'ambiente costituiva il fine
statutario essenziale delle associazioni, che le stesse erano radicate sul
territorio (non essendo a tal fine necessario che gli associati avessero la
propria residenza nella zona oggetto dell'illecito ambientale), che
rappresentavano un gruppo significativo di consociati, che avevano fornito degli
indubbi e rilevanti contributi, anche conoscitivi, sulla vicenda in questione,
ha ritenuto legittima la costituzione di parte civile iure proprio ed ha
condannato gli imputati al risarcimento del danno da liquidarsi in separata
sede, evidenziando, se pur genericamente trattandosi di condanna risarcitoria
generica, gli elementi che andavano a costituire il danno patrimoniale ed il
danno non patrimoniale dalle stesse subito.
Orbene, le argomentazioni poste dalla Corte territoriale a fondamento della
propria decisione si appalesano senz'altro condivisibili avendo la stessa
correttamente evidenziato le poste di danno patrimoniale risarcibile e la
lesione di quelle finalità di salvaguardia dell'ambiente proprie delle
associazioni medesime. Sul punto rileva il Collegio che, argomentando da quanto
evidenziato dalla Corte Costituzionale nelle sentenza n. 210 e 641 del 1987,
secondo cui il danno ambientale costituisce anche una "offesa della persona
umana nella sua dimensione individuale e sociale", è configurabile in capo alle
associazioni ambientaliste, quali portatrici di un interesse diffuso,
l'esistenza di un diritto soggettivo e di un danno risarcibile individuabile nel
pregiudizio alla qualità della vita della comunità di riferimento e nell'offesa,
diretta ed immediata, dello scopo sociale che costituisce la finalità propria
del sodalizio.
Col diciassettesimo motivo di gravame la difesa lamenta, in via subordinata, la
erroneità della decisione dei giudici di merito che avevano ritenuto la
sussistenza del reato di cui all'art. 635 c.p. mentre la fattispecie in esame
doveva essere sussunta nell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 639 c.p..
Il motivo è manifestamente infondato oltre che inammissibile in quanto con lo
stesso si propone, ai fini della qualificazione giuridica della condotta
contestata, una rilettura degli elementi di fatto, non consentita a questa Corte
neanche alla stregua della recente L. n. 46 del 2006.
Devesi comunque evidenziare che chiaramente non condivisibile si appalesa
l'assunto della difesa secondo cui nella fattispecie si sarebbe in presenza di
modificazioni temporanee e superficiali. Questo Collegio non può che riportarsi
a quanto evidenziato con riferimento al quinto di motivo di ricorso, per
ribadire che, siccome rilevato dalla Corte territoriale, dalla compiuta
istruttoria era emerso un quadro decisamente grave della situazione di degrado
ambientale e della persistenza della situazione di degrado biologico del fiume
anche nel periodo preso in esame al fine dell'accertamento della responsabilità
degli imputati, di talché deve correttamente parlarsi non già di modificazioni
temporanee e superficiali bensì di modificazioni persistenti e profonde (ove si
osservi che la situazione di degrado biologico, nonostante il fenomeno di
autodepurazione delle acque, nel periodo in questione non era ne' venuta meno
ne' migliorata). E pertanto la fattispecie in esame rientra senz'altro nella
previsione normativa di cui all'art. 635 c.p. avendo sul punto questa Corte
evidenziato che ricorre l'ipotesi di deterioramento di cui all'art. 639 c.p. e
non quella di danneggiamento di cui all'art. 635 c.p. solo "quando l'alterazione
apportata sia temporanea e superficiale sicché, per quanto costoso possa essere
il restauro, l'aspetto originario del bene è facilmente reintegrabile" (Cass.
sez. 2^, 10.5.2002 n. 22370; in senso conforme, Cass. Sez. 2^, 16.6.2005 n.
28793); ipotesi che, per i motivi in precedenza esposti, non è ravvisabile
certamente nel caso di specie. Col diciottesimo motivo di ricorso la difesa
rileva che era in procinto di entrare in vigore il decreto legislativo recante
"norme in materia ambientale", che attribuiva al Ministero dell'Ambiente la
legittimazione esclusiva all'esercizio delle azioni risarcitorie in materia di
danno ambientale, anche in sede penale, e prevedeva l'abrogazione della L. n.
349, del 1986, l'art. 18, e del D.Lgs. n. 267 del 2000 l'art. 9: ciò comportava
la conseguente caducazione della legittimazione processuale della associazioni
ambientaliste e quindi sopravvenuta inammissibilità della costituzione di parte
civile.
Il motivo è manifestamente infondato.
Ed invero il Collegio, nel rilevare che con il D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 è
stata effettivamente attribuita al Ministero dell'Ambiente la legittimazione
esclusiva all'esercizio delle azioni risarcitorie in subiecta materia (art. 311)
ed è stata disposta l'abrogazione delle norme sopra indicate (art. 318), deve
tuttavia evidenziare che nel procedimento penale vige, ai sensi dell'art. 11
delle disposizioni sulla legge in generale, il principio della irretroattività,
per cui la legge non dispone che per l'avvenire. Quindi per gli atti già posti
in essere si applica la legge vigente al momento del compimento degli stessi, e
tali atti mantengono la loro efficacia per tutto il processo, in base al
principio operante sul piano processuale del "tempus regit actum": e tale
principio comporta, secondo una regola generale, logica prima che giuridica, che
la nuova normativa troverà applicazione solo nei nuovi giudizi iniziati a
partire dalla data di entrata in vigore della nuova legge. Quindi la
costituzione di parte civile, effettuata dalle associazioni ambientaliste in
base alla legittimazione loro attribuita dalla legislazione all'epoca vigente,
mantiene la sua efficacia per l'intero corso del giudizio, non essendo alla
situazione predetta applicabile, ratione temporis, la nuova normativa dettata
dal D.Lgs. n. 152 del 2006.
Con l'ultimo motivo di gravame la difesa censura l'opinione espressa dalla Corte
territoriale circa la sospensione ex lege dei termini prescrizionali.
I rilievi sono manifestamente infondati.
Ed invero, per quel che riguarda le sospensioni determinate dall'impedimento
dell'imputato Antonione Roberto, rileva il Collegio che le stesse, in base al
disposto dall'art. 161 c.p., si estendono anche agli altri imputati non
interessati dall'impedimento;
nè può ritenersi che il regime della sospensione non si applichi agli altri
imputati in analogia alla previsione dell'art. 304 c.p.p., comma 5, atteso che
tale norma prevede, ai fini della non applicabilità della sospensione, che gli
altri coimputati chiedano "che si proceda nei loro confronti previa separazione
dei processi". E parimenti, per quel che riguarda la richiesta avanzata dagli
imputati ai sensi della L. n. 134 del 2003, art. 5 osserva il Collegio che la
norma in parola, disponendo che "il dibattimento è sospeso per un periodo non
inferiore a quarantacinque giorni", prevede non già un periodo "massimo" bensì
un periodo "minimo" di sospensione del dibattimento; e di conseguenza deve
ritenersi che la consequenziale sospensione della decorrenza della prescrizione
è operante non già limitatamente al suddetto periodo di quarantacinque giorni,
ma per tutto il periodo di intervallo fra una udienza e l'altra, non potendosi
prescindere dalle esigenze del ruolo dell'ufficio.
Consegue da quanto sopra esposto il rigetto del ricorso, cui segue la condanna
dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.
I detti ricorrenti vanno altresì condannati in solido al pagamento, in favore
dello Stato, delle spese di patrocinio sostenute dalle parti civili costituite
WWF Italia e Italia Nostra Onlus che si liquidano, per la prima, in complessivi
Euro 2.500,00, e per la seconda in complessivi Euro 2.000,00, oltre IVA e CPA.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese
processuali. Condanna, altresì, i ricorrenti in solido al pagamento, in favore
dello Stato, delle spese di patrocinio sostenute dalle parti civili costituite
WWF Italia e Italia Nostra Onlus che liquida in complessivi Euro 2.500,00 per la
prima ed in complessivi Euro 2.000,00 per la seconda, oltre IVA e CPA. Così
deciso in Roma, nella Pubblica udienza, il 28 marzo 2007.
Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2007
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