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CORTE
DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 06/05/2008 (Ud. 26/02/2008), Sentenza 17954
URBANISTICA E EDILIZIA - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Interventi soggetti a
D.I.A. su area paesaggisticamente vincolata - Configurabilità del reato edilizio
- Esclusione - Fondamento - Rapporti tra D.I.A. e la c.d. SUPER-D.I.A -
Fattispecie - D.P.R. n. 380/2001. Gli interventi di ristrutturazione
edilizia effettuabile anche con semplice d.i.a. in zone soggette a vincolo sono
realizzabili con la procedura semplificata della d.i.a. solo subordinatamente al
rilascio del parere o dell’autorizzazione dell’Autorità preposta alla tutela del
vincolo. Sicché, quando si tratta di interventi soggetti a semplice d.i.a. (art.
22, comma primo, d.P.R. n. 380 del 2001) la loro realizzazione senza titolo (o
per non aver presentato la d.i.a. ovvero per non aver conseguito il n.o.
dell’Autorità tutoria in caso di immobile vincolato) non è soggetta a sanzione
penale, essendo invece quest’ultima riservata (art. 44, comma secondo bis,
d.P.R. citato) ai soli interventi ammessi al regime della c.d. SUPER-D.I.A.
contemplati dall’art. 22, comma terzo, del d.P.R. n. 380 del 2001. Fattispecie
nella quale era contestato all’imputata di aver abusivamente ricostruito un
“porticato” con la stessa volumetria e sagoma del precedente in una zona
sottoposta a vincolo paesaggistico. Presidente C. Vitalone, Relatore P. Onorato.
CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 06/05/2008 (Ud. 26/02/2008), Sentenza
17954
BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Reato ambientale di cui all’art. 181 D.Lgs.
42/2004 - Condotta incriminata - Configurabilità. Il reato ambientale di cui
all’art. 181 D.Lgs. 42/2004, punisce "chiunque, senza la prescritta
autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su
beni ambientali" denotando che la condotta incriminata perdura sino a quando
prosegue la esecuzione dei lavori senza titolo. Presidente C. Vitalone, Relatore
P. Onorato. CORTE DI CASSAZIONE Penale Sez. III, 06/05/2008 (Ud. 26/02/2008),
Sentenza 17954
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UDIENZA DEL
SENTENZA N.
REG. GENERALE N.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. III Penale
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Omissis
Svolgimento del processo
1 - Con sentenza del 4.4.2007 la Corte d'appello di Palermo, parzialmente
riformando quella resa il 15.5.2006 dal locale tribunale:
- ha dichiarato non doversi procedere contro Rosaria Termini per il reato di cui
agli artt. 1, 2 e 20 della legge 64/1974 (capo C), per essere estinto per
prescrizione;
- ha assolto la stessa imputata dal reato di cui all'art. 734 c.p.(capo E) per
insussistenza del fatto;
- ha confermato il giudizio di responsabilità della medesima imputata in ordine
ai reati di cui all'art. 44 lett. b) D.P.R. 380/2001 (capo A), agli artt. 2, 13,
4 e 14 della legge 1086/1971 (capo C) e all'art. 163 D.Lgs. 29.10.1999 n. 490
(capo D), per aver realizzato una nuova costruzione in cemento armato (piano di
fondazione con nove pilastri), in zona sottoposta a vincolo di inedificabilità,
in assenza di concessione edilizia (ora permesso di costruire) e di nulla-osta
dell'autorità preposta al vincolo, senza progetto esecutivo, senza previa
denuncia dei lavori al Genio Civile e senza la direzione dei lavori da parte di
tecnico abilitato (accertati in Palermo in data 8.8.2003);
- e per l'effetto ha condannato la stessa Termini alla pena, condizionalmente
sospesa, di un mese di arresto ed euro 5.000 di ammenda, confermando l'ordine di
demolizione delle opere abusive.
In particolare, la Corte territoriale ha osservato e ritenuto quanto segue:
- a ridosso di un'antica palazzina posta al centro di un parco palermitano era
stato realizzata una fondazione in cemento armato, con numerosi pilastri
spiccati che sostenevano un solaio sempre in cemento armato, rispondente alla
tipologia di un porticato;
- l'area era soggetta a vincolo paesaggistico, ma l'intervento edilizio era
stata effettuato senza concessione edilizia o permesso di costruire e senza il
nulla-osta dell'autorità tutoria; - in seguito alla presentazione in data
15.1.2004 di una domanda di sanatoria ex art. 13 legge 47/1985 (ora art. 36 DPR
380/2001), non poteva accogliersi l'istanza di sospensione del processo penale
avanzata dal difensore, giacché era ormai abbondantemente trascorso il termine
di sessanta giorni oltre il quale, a norma di legge, la richiesta si intendeva
respinta; - anche la istanza di sanatoria ambientale, rectius l'istanza
per l'accertamento della compatibilità paesaggistica, presentata ex art. 1,
comma 37 della legge 15.12.2004 n. 308, in data 28.1.2005, non imponeva la
sospensione del processo, non essendo questa prevista dalla relativa norma di
legge;
- non era necessario accertare se il preesistente porticato avesse le stesse
caratteristiche tipologiche e volumetriche di quello in costruzione, di talché
secondo la nuova normativa non fosse più necessario il permesso di costruire, ma
fosse sufficiente la denuncia di inizio attività. Infatti, anche secondo la
detta normativa, quando l'area interessata - come nel caso di specie - è
sottoposta a vincolo, anche per gli interventi ammessi alla procedura
semplificata della denuncia di inizio attività, è necessaria la preventiva
autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, che concretamente
non era mai stata rilasciata.
2 - Il difensore dell'imputata, avv. Carmelo Franco, ha proposto ricorso per
cassazione, deducendo due motivi a sostegno.
2.1 - Col primo lamenta violazione dell'art. 521 c.p.p. laddove la Corte
palermitana, premesso che in caso di demolizione e ricostruzione di un
preesistente manufatto non è richiesto il permesso di costruire ma basta la
denuncia di inizio attività, e preso atto che nel caso di specie non era
possibile accertare se si trattava di demolizione e ricostruzione anziché di
nuova costruzione, ha ritenuto che comunque la questione non era decisiva in
quanto l'intervento edilizio era stato eseguito in zona vincolata senza la
previa autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela del vincolo. In tal
modo, secondo il ricorrente, la Corte, non solo ha invertito l'ordine della
prova, ma ha anche violato il principio di correlazione tra fatto contestato
(reato urbanistico) e fatto ritenuto in sentenza (reato ambientale).
2.2 - Col secondo motivo il ricorrente lamenta violazione dell'art. 157 c.p. e
delle norme incriminatrici, laddove la sentenza impugnata, pur riconoscendo la
natura di reati istantanei per i fatti contestati al capo C, ha ritenuto che per
la determinazione del tempus commissi delitti si doveva far riferimento
alla data dell'accertamento (8.8.2003), giacché l'imputata non aveva provato che
il reato era stato commesso in data antecedente. In tal modo, secondo il
ricorrente, la sentenza, non solo aveva ancora una volta invertito l'onere
probatorio, ma aveva anche surrettiziamente travisato la natura istantanea del
reato.
3 - Con memoria depositata il giorno 11.2.2008, altro difensore dell'imputata,
avv, Andrea Di Lieto, ha articolato nuovi motivi.
In particolare, deduce:
3.1 - violazione degli artt. 3, 22 e 37 DPR 380/2001, nonché difetto e
illogicità di motivazione sul punto. Sostiene al riguardo che se è vero che la
demolizione e ricostruzione di un manufatto in zona vincolata richiederebbe
l'autorizzazione paesaggistica, è altrettanto vero che tale tipologia d'
intervento non richiede più il permesso di costruire, sicché non è più possibile
la condanna per il reato di cui all'art. 44 DPR 380/2001. Peraltro, non è
nemmeno necessaria l'autorizzazione paesaggistica, e quindi esula anche il
contestato reato di cui all'art. 163 D.Lgs. 490/1999 (ora art. 181 D.Lgs.
42/2004), giacché l'art. 152 D.Lgs. 490/1999 (ora art. 149 D.Lgs. 42/2004)
esonera dalla predetta autorizzazione gli interventi di manutenzione
straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non
alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici, tra i quali
rientra l'intervento contestato;
3.2 - violazione degli artt. 36 e 45 DPR 380/2001 (già artt. 13 e 22 legge
47/1985) e difetto della motivazione sul punto, laddove la sentenza impugnata ha
ritenuto che l'inutile decorso di sessanta giorni dalla presentazione della
istanza di sanatoria comportasse il silenzio rifiuto da parte della pubblica
amministrazione. Sostiene che, per le aree vincolate, il termine legale non
inizia a decorrere se non dopo acquisito l'assenso ai fini ambientali. Inoltre,
dopo l'entrata in vigore dell'art. 10 bis della legge 241/1990, il quale prevede
che nei procedimenti ad istanza di parte il provvedimento di rigetto deve essere
sempre preceduto dalla comunicazione all'interessato dei motivi ostativi
all'accoglimento della richiesta del privato, devono ritenersi abrogate tutte
quelle disposizioni che collegano alla decorrenza di un termine l'automatico
rigetto di una istanza di parte;
3.3 - violazione di legge e difetto della motivazione sul punto, laddove i
giudici di merito hanno dichiarata l'imputata colpevole del reato di cui
all'art. 163 D.Lgs. 490/1999 (capo D), senza considerare che la norma era stata
abrogata dall'art. 184 D.Lgs. 42/2004, e che la nuova norma sopravvenuta di cui
all'art. 181 dello stesso D.Lgs. 42/2004 non può ritenersi in continuità
normativa con la disposizione abrogata;
3.4 - prescrizione dei reati.
Motivi della decisione
4 - A norma dell'art. 585, comma 4, c.p.p. i motivi nuovi possono essere
presentati fino a quindici giorni prima dell'udienza fissata per il giudizio di
impugnazione.
Inoltre, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, i motivi nuovi
devono avere per oggetto i capi o i punti della decisione già investiti
dall'originario atto di impugnazione (v. per tutte Cass. Sez. Un. 25.2.1998,
Bono). In altri termini, i motivi nuovi devono essere delimitati entro i confini
del thema decidendum già devoluto con l'impugnazione principale: e ciò
sia per rispettare il tenore letterale dell'art. 167 disp. att. e coord. c.p.p.,
secondo cui i motivi nuovi devono specificare i capi e i punti enunciati
nell'impugnazione principale, ai quali i motivi stessi si riferiscono; sia per
impedire che la presentazione di nuovi motivi divenga un facile strumento per
eludere i termini perentori prescritti dai primi due commi dell'art. 585 c.p.p.
per la proposizione della impugnazione.
Tanto premesso, occorre osservare che l'avv. Di Lieto, depositando in
cancelleria la sua memoria in data 11.2.2008, ha rispettato il termine dilatorio
di quindici giorni rispetto alla odierna udienza del 26.2.2008, posto che il
quindicesimo giorno cadeva in di festivo (essendo domenica il 10.2.2008).
Tuttavia, il secondo e il terzo dei motivi nuovi sono inammissibili, perché
hanno per oggetto capi o punti della impugnata sentenza, che non erano stati
investiti dal ricorso principale.
Così, il motivo riferito al precedente paragrafo 3.3 riguarda il reato
ambientale di cui al capo D, che non era oggetto della impugnazione principale.
Peraltro, il motivo è anche infondato nel merito, giacché non v'è dubbio che -
secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità - esiste perfetta
continuità normativa tra la disposizione abrogata di cui all'art. 163, in
relazione all'art. 151, del D.Lgs. 490/1999, e la nuova norma incriminatrice di
cui agli artt. 146 e 181 del Digs. 42/2004.
Parimenti inammissibile è il motivo di cui al precedente paragrafo 3.2, in
quanto riguarda un punto della sentenza impugnata - cioè la mancata sospensione
del processo penale in pendenza della domanda di sanatoria presentata ai sensi
dell'art. 13 della legge 47/1985 - che non era stato censurato nel ricorso
originario.
Ad abundantiam si può peraltro osservare che anche questo motivo é privo
di fondamento giuridico. Il legislatore è infatti chiaro nello stabilire, sia
con l'art. 13, comma 2, legge 47/1985, sia con l'art. 36, comma 3, DPR 380/2001,
che l'autorità competente deve pronunciarsi entro sessanta giorni dalla
presentazione della domanda di sanatoria, trascorsi i quali la domanda si
intende rifiutata. Con la conseguenza che dopo la scadenza del termine viene
meno l'obbligo del giudice penale di sospendere il procedimento, anche se
permane il potere dell'autorità amministrativa di rilasciare tardivamente l'atto
di sanatoria, ove accerti oltre il termine dei sessanta giorni l'esistenza dei
relativi presupposti.
Nè si può sostenere - come fa il difensore ricorrente - che, quando occorre
anche il parere di compatibilità paesaggistica, il termine predetto inizi a
decorrere solo dopo l'acquisizione del parere, giacché una tesi siffatta è
contraria sia all'ineludibile tenore letterario della disposizione, che non fa
distinzione tra abusi urbanistici in zona vincolata e abusi urbanistici in zona
non vincolata; sia alla prassi corrente delle autorità amministrative, che sono
solite rilasciare l'atto di sanatoria appunto condizionandolo all'acquisizione
della futura autorizzazione paesaggistica (il che significa che tale
autorizzazione non segna il momento iniziale del procedimento).
Neppure può condividersi la seconda tesi prospettata sul punto, secondo cui
l'entrata in vigore dell'art. 10 bis della legge 7.8.1990 n. 241 (nuove norme in
materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi), introdotto con l'art. 6 della legge 11.2.2005 n. 15, laddove ha
stabilito che "nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del
procedimento o l'autorità competente, prima della formale adozione di un
provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che
ostano all'accoglimento della domanda", ha implicitamente abrogato tutte quelle
disposizioni che collegano alla decorrenza di un termine l'automatico rigetto
della istanza di parte, che cioè - in altri termini - stabiliscono fattispecie
di silenzio-diniego.
Infatti, a parte la decisiva considerazione che si tratta di norma processuale
entrata in vigore dopo il procedimento di sanatoria di cui trattasi, e quindi
inapplicabile al procedimento medesimo in base al principio tempus regit
actum, occorre osservare che la disposizione, per la sua formulazione
letterale, esclude dal suo ambito di applicabilità proprio i procedimenti
amministrativi che prevedono ipotesi di silienzio-assenso o di silienzio-diniego
(o rigetto o rifiuto). Invero, l'obbligo di comunicazione dei motivi ostativi
all'accoglimento della domanda è imposto solo per i casi in cui l'autorità
amministrativa intende adottare un provvedimento "formale" di diniego della
domanda, e quindi non è applicabile in tutti quei casi in cui il provvedimento
finale si forma solo in modo "tacito" attraverso il silenzio tenuto dalla
pubblica amministrazione per un determinato periodo di tempo.
Del resto, sembra andare nello stesso senso una recente decisione del Consiglio
di Stato, che ha affermato l'inapplicabilità dell'art. 10 bis della legge
241/1990 ai procedimenti che sono connotati ex lege da tratti di assoluta
specialità (come quello di condono edilizio straordinario), o il cui
provvedimento conclusivo abbia contenuto vincolato (Sez. IV, sent. n. 5214 del
10.10.2007, ud. 9.10.2007, R. c. Comune di San Mauro Cilento e altri).
Estranea al thema decidendum è la pronuncia prodotta dal difensore (Cons.
St. Sez V, n. 4565 del 23.8.2000), che ha soltanto affermato il carattere
meramente ordinatorio del diverso termine previsto dall'art. 22, comma 2, legge
47/1985 per la fissazione dei ricorsi giurisdizionali contro i dinieghi di
concessione in sanatoria.
Non è pertinente neppure la sentenza resa il 31.1.2008 dal Tar Campania
(anch'essa prodotta dal difensore), la quale ritiene applicabile al procedimento
per sanatoria urbanistica il (diverso) obbligo di concludere il procedimento con
un espresso provvedimento formale, stabilito dall'art. 2 della legge 241/1990.
Questo principio generale, infatti, deve ritenersi derogato dalla norma speciale
che prevede il silenzio-diniego, cioè dall'art. 13 legge 47/1985, non a caso
ripetuta anche dopo la legge 241/1990 con l'art. 36 DPR 380/2001.
5 - Occorre quindi affrontare il primo motivo principale (n. 2.1) e il primo
motivo nuovo (n. 3.1), che hanno per oggetto il reato urbanistico di cui al capo
A della rubrica e censurano con vari argomenti la motivazione con cui la
sentenza impugnata ha affermato la sussistenza del medesimo.
La censura è fondata per quanto di ragione.
Occorre premettere in linea di fatto che i lavori di costruzione del c.d.
porticato di cui trattasi erano ancora in corso alla data del sopralluogo,
avvenuto il giorno 8.8.2003, e che quindi per l'inizio dei medesimi,
verosimilmente risalente a vari mesi precedenti, non era ancora applicabile il
testo unico approvato con DPR 380/2001, la cui entrata in vigore - come noto - è
stata più volte prorogata sino al 30.6.2003. Doveva farsi quindi riferimento
alla legge 21.12.2001 n. 443, che, col sesto comma dell'art. 1, ha stabilito
che, in alternativa a concessioni e autorizzazione edilizie, possono essere
realizzati in base a semplice denuncia di inizio attività - tra l'altro - le
ristrutturazioni edilizie, comprensive della demolizione e ricostruzione con la
stessa volumetria e sagoma.
Peraltro, se i lavori fossero iniziati dopo la suddetta entrata in vigore del
DPR 380/2001 (30.6.2003), si doveva fare riferimento alla disposizione non
sostanzialmente diversa di cui all'art. 22 dello stesso testo unico (come
sostituito dall'art. 1 del D.Lgs. 27.12.2002 n. 301). Secondo il primo comma di
questo articolo, sono realizzabili mediante denuncia di inizio attività gli
interventi non riconducibili all'elenco di cui all'art. 10, e quindi anche gli
interventi di ristrutturazione edilizia che non comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle
superfici, ma che (secondo la definizione di cui all'art. 3, lett d), ultimo
periodo) consistono nella demolizione e nella ricostruzione con la stessa
volumetria e sagoma dell'edificio preesistente.
Per conseguenza, se - come sembra - la Corte panormita riteneva che l'imputata
avesse ricostruito il vecchio porticato con la stessa volumetria e sagoma, non
poteva limitarsi a escludere l'applicabilità del regime della denuncia di inizio
attività sol perché era anche necessaria l'autorizzazione paesaggistica.
E' vero infatti che gli interventi edilizi in zone soggette a vincolo
(storico-artistico o paesaggistico-ambientale) possono essere realizzati con la
procedura della denuncia di inizio attività solo subordinatamente al rilascio
del parere o dell'autorizzazione dell'autorità preposta alla tutela del vincolo
(comma 6 dell'art. 22 DPR 380/2001, e comma 8 dell'art. 1 legge 443/2001). Ma è
anche vero che, quando si tratti di interventi ammessi al regime DIA di cui al
citato primo comma dell'art. 22, la realizzazione senza titolo (quindi senza
aver presentato denuncia di inizio attività; o senza aver conseguito il
nulla-osta dell'autorità tutoria quando si tratta di immobile soggetto a
vincolo) non è soggetta a sanzione penale; giacché questa è solo riservata (ex
art. 44, comma 2 bis DPR 380/2001) agli interventi ammessi al regime DIA di cui
al terzo comma del medesimo art. 22 (cd. SUPERDIA), e in particolare alle
ristrutturazioni edilizie con aumenti di unità abitative, volumi, superfici
etc., cioè a quegli interventi più impegnativi in cui il regime della denuncia
di inizio attività è considerato alternativo al permesso di costruire, di talché
la costruzione senza titolo o in difformità dal titolo incorre nello stesso
trattamento sanzionatorio.
Concludendo sul punto, ritiene il collegio che la corte di merito doveva
assolvere l'imputata dal reato urbanistico sub A per insussistenza del fatto,
nella considerazione che il porticato ristrutturato senza aver presentato
denuncia di inizio attività e senza aver conseguito il nulla osta paesaggistico
configurava un illecito amministrativo soggetto alla sanzioni ripristinatorie e
pecuniarie di cui all'art. 37, ma non un reato soggetto alle sanzioni di cui
all'art. 44 D.P.R. 380/2001.
Ne deriva l'annullamento senza rinvio della impugnata sentenza limitatamente al
reato sub A, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione
della pena per i reati residui, che questa Corte può quantificare ex art. 620
lett. 1) c.p.p. in complessivi venticinque giorni di arresto ed euro 4.500 di
ammenda, sulla falsariga del computo di pena operato dai giudici di merito.
Va solo precisato che l'assoluzione dal reato urbanistico per le ragioni
suddette non esclude il potere dell'autorità competente di applicare le sanzioni
ripristinatorie previste dalla legge (v. art. 37 DPR 380/2001; così come resta
fermo l'ordine giudiziale di demolizione e riduzione in pristino conseguente
alla condanna per il reato ambientale di cui al capo D.
6 - Restano infine da esaminare il secondo motivo principale (n. 2.2) e il
quarto motivo nuovo (n. 3.4), con i quali si sostiene l'estinzione dei residui
reati per prescrizione.
Come ha rilevato l'avv. Carmelo Franco, certamente incorre in errore giuridico
la sentenza impugnata, laddove ha ritenuto che, pur trattandosi di reati
istantanei, il tempus commissi delicti coincide con la data
dell'accertamento (8.8.2003), giacché l'imputata <non ha fornito elementi che
dimostrino una diversa data di consumazione>.
Ma la tesi dei difensori è ugualmente infondata.
Infatti, entrambi i reati residui (cioè quelli di cui agli artt. 2 e 13, 4 e 14
legge 1086/1971, e quello di cui all'art. 163 D.Lgs. 490/1999) sono reati
permanenti, che perdurano sino a quando continua l'esecuzione dei lavori
abusivi.
Nessun dubbio sussiste per il reato ambientale di cui al predetto art. 163 (ora
art. 181 D.Lgs. 42/2004), giacché lo stesso tenore letterale della norma
incriminatrice (che punisce "chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in
difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni ambientali")
denota che la condotta incriminata perdura sino a quando prosegue la esecuzione
dei lavori senza titolo.
Ma la stessa conclusione si impone per le contravvenzioni alla legge sulle opere
in conglomerato cementizio armato (n. 1086/1971).
La prima è prevista dal combinato disposto degli artt. 2 e 13, che punisce
chiunque commette, dirige o, in qualità di costruttore, esegue le opere in
conglomerato cementizio armato senza la progettazione esecutiva e la direzione
dei lavori da parte di un professionista abilitato (la stessa formulazione è
ripetuta negli arti. 64 e 71 del DPR 380/2001). Ciò significa che la condotta
incriminata perdura sino a quando prosegue la esecuzione dei lavori senza la
progettazione e la direzione richieste. Infatti, sino a che i lavori vengono
proseguiti senza la garanzia di un professionista abilitato permane la lesione
all'interesso tutelato dalla norma. La seconda contravvenzione è prevista dal
combinato disposto degli artt. 4 e 14, che punisce il costruttore che omette o
ritarda la denuncia che deve presentare prima dell'inizio dei lavori (la stessa
formulazione è ripetuta dagli artt. 65 e 72 DPR 380/2001). Il che evidentemente
significa che la condotta incriminata ha inizio quando si incominciano i lavori
senza presentare preventivamente la denuncia, ma perdura sino a quando si
proseguono i lavori stessi senza provvedere a presentare (tardivamente) la
denuncia prescritta. In altri termini, la prosecuzione dei lavori senza
presentare la denuncia prolunga nel tempo la offesa del bene giuridico tutelato,
che consiste nell'interesse dell'ufficio tecnico destinatario della denuncia a
controllare l'ortodossia costruttiva delle opere in conglomerato cementizio
armato. Per queste ragioni, insieme di carattere letterale e teleologico, non si
può condividere la tesi di Cass. Sez. III, n. 2289 del 10.12.1998, Bordonaro, rv.
213007, che configura il reato de quo come istantaneo ad effetti
permanenti.
Alla luce di questi principi, si deve osservare che, nel caso di specie, i
lavori erano in corso sino alla data dell'8.8.2003 (v. sentenza di primo grado),
senza che fosse stata ottenuta l'autorizzazione paesaggistica, senza che fosse
presentata la denuncia prescritta per le opere in conglomerato cementizio armato
e senza che vi fosse progettazione esecutiva e direzione da parte di
professionista abilitato per opere siffatte. Ai sensi degli artt. 157 e 161 c.p.
(nel testo vigente dopo la novella 5.12.2005 n. 251, applicabile alla presente
fattispecie), il termine prescrizionale massimo di quattro anni e mezzo,
comprensivo degli atti interruttivi, scadeva quindi l'8.2.2008. Ma si devono
anche computare una sospensione processuale di sessanta giorni (ex art. 159 c.p.
novellato) per il rinvio del dibattimento dal 20.7.2005 al 30.10.2005, e
un'altra sospensione di quattordici giorni per il rinvio dal 3 al 17 ottobre
2005, sempre disposti su richieste per impedimento dei difensori. Per
conseguenza per nessuno dei reati residui é ancora maturata la prescrizione.
P.Q.M.
la Corte suprema di cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata
limitatamente al reato di cui all'art. 44 lett. b) D.P.R. 380/2001, e
ridetermina la pena complessiva in giorni venticinque di arresto ed euro 4.500
di ammenda.
Rigetta il ricorso nel resto.
Così deciso in Roma il 26.2.2008.
Depositato in Cancelleria 6 MAG. 2008
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