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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006



CORTE DI CASSAZIONE CIVILE, Sez. I, 06/08/2008, Sentenza n. 21249



RIFIUTI - Requisizione di cava successivamente adibita a discarica pubblica di rifiuti - Irreversibile trasformazione - Non restituibilità dell'area - Diritto del proprietario al risarcimento del danno.
In materia di smaltimento di rifiuti, nel caso di requisizione di una cava e sua destinazione a discarica pubblica, l’area, oggetto di irreversibile trasformazione e conseguente acquisto a titolo originario dall'ente occupante per effetto dell'accessione invertita, non è restituibile al proprietario, il quale ha però diritto al risarcimento del danno conseguente alla perdita della proprietà. Presidente U. R. Panebianco, Relatore S. Del Core. CORTE DI CASSAZIONE CIVILE, Sez. I, 06/08/2008, Sentenza n. 21249


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UDIENZA

SENTENZA N.

REG. GENERALE N.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. I Civile



composta dagli ill.mi Signori:


Omissis


ha pronunciato la seguente:


SENTENZA


Omissis


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO



Nel febbraio 1996, Vito Clemente convenne davanti al tribunale di Foggia il Comune di Orta Nova per sentirlo condannare alla restituzione nello stato quo ante di una cava requisita con ordinanza sindacale del 20 febbraio 1991 per destinarla a discarica di rifiuti solidi urbani e in seguito abbandonata completamente ricolma di rifiuti, nonché al pagamento delle somme dovute a titolo di indennità e risarcimento danni.


Nella resistenza del Comune di Orta Nova, il giudice adito, in parziale accoglimento della proposta domanda, condannò l'ente convenuto a pagare all'attore la somma di lire 14.000.000 (oltre interessi legali) quale indennità di requisizione e la somma di lire 112.000.000 (oltre a svalutazione e interessi legali) a titolo di risarcimento danni.


L'appello del Clemente fu rigettato dalla Corte di Bari con motivazione articolata lungo le seguenti linee argomentative. La domanda di restituzione della cava era stata, in realtà, respinta dal tribunale, per il quale l'appellante ne aveva perduto la proprietà, acquisita dal Comune a seguito di irreversibile trasformazione in discarica pubblica. L'attribuzione al danneggiato del risarcimento per equivalente non viola il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, in quanto il risarcimento per equivalente, che il giudice di merito può disporre anche d'ufficio, costituisce un minus rispetto alla reintegrazione in forma specifica, sicché la relativa richiesta è implicita nella domanda giudiziale di reintegrazione. La radicale trasformazione del fondo, con irreversibile destinazione ad opera pubblica, che determina l'acquisto della proprietà a favore dell'ente occupante, non comporta necessariamente un mutamento perpetuo e ineliminabile, non essendo il requisito della irreversibilità incompatibile con la possibilità di ripristinare l'originaria fisionomia del bene a mezzo di nuovi interventi eversivi. L'assenza nella discarica delle opere indicate dal consulente tecnico d'ufficio non precludeva l'acquisto per accessione invertita che del terreno occupato aveva conseguito il Comune né costituiva prova della concreta ed effettiva verificazione di un danno ambientale. D'altra parte, l'intervento di bonifica e di ripristino ambientale non presuppone (né importa come conseguenza) la restituzione del bene all'originario proprietario, trattandosi di bene del quale la p.a. aveva a suo tempo definitivamente acquisito la proprietà; in ogni caso, sussisteva la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla domanda proposta nei confronti del Comune, in quanto il diritto del proprietario di un fondo occupato da un provvedimento contingibile e urgente emanato dal sindaco per ragioni di igiene, di edilizia e di polizia locale, a norma dell'art. 153 r.d. n. 148 del 1915 (nella specie, occupazione di un fondo adibito dall'ente locale a discarica di rifiuti solidi urbani), non contenente alcun termine finale di efficacia, rimane declassato ad interesse legittimo, coincidente con l'interesse pubblico al ripristino, con apposito provvedimento, della situazione antecedente nel momento in cui cessi l'esigenza di occupazione del bene.


Vito Clemente ha chiesto la cassazione della sopra compendiata sentenza con ricorso articolato in dieci motivi, poi illustrati con memoria.


Resiste con controricorso il Comune di Orta Nova.


Motivi della decisione


Con il primo motivo, il Clemente denunzia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. in relazione agli artt.166, 167, 183 e 190 c.p.c. Nel fondare la decisione sulla fattispecie dell'accessione invertita, il tribunale prima e la corte territoriale dopo hanno deciso in violazione dei principio del contraddittorio. Nella comparsa di costituzione e nel corso di tutto l'iter istruttorio del processo di primo grado il Comune di Orta Nova, premesso che nella specie si trattava di requisizione in uso, non aveva contrastato la domanda di restituzione della cava, contestando unicamente la misura dell'indennizzo e, solo in comparsa conclusionale, aveva richiamato l'istituto dell'accessione invertita.


Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 111, comma 6, e 24, secondo comma, Cost., 132 n.4 c.p.c. e "inesistente o insufficiente e erronea motivazione". In maniera apodittica e con argomentazioni da cui non è possibile ricostruire il percorso logico-giuridico seguito per arrivare al convincimento espresso, la corte territoriale ha ritenuto che il primo giudice aveva statuito sulla domanda di restituzione della cava.


Con il terzo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 111, comma 6, Cost. e 132 n.4 c.p.c. e "carente e erronea motivazione" su punto decisivo della controversia. Erroneamente la corte barese ha inquadrato la fattispecie concreta nell'istituto dell'accessione invertita; invero, nel caso in esame, anziché un'occupazione in senso tecnico, vi è stato l'utilizzo, temporaneo e non preordinato ad alcuna espropriazione, di una depressione (cava) per lo sversamento dei rifiuti; analogamente, non vi è stato l'inizio di una procedura espropriativa, con la dichiarazione di pubblica utilità, né, in relazione alla cava, la realizzazione di alcuna opera o manufatto, ma il semplice riempimento e l'abbandono del sito da parte del Comune, una volta cessata l'emergenza.
Con il quarto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 7 legge 20 marzo 1865 n. 2248 e 112 c.p.c. oltre a "omessa, erronea e contraddittoria motivazione". Il provvedimento adottato dal sindaco ai sensi del d.P.R. n.915/1982 costituì un caso di requisizione in uso, istituto opposto all'espropriazione e insuscettibile di sfociare nell'accessione invertita.


Con il quinto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c. e "carenza e contraddittorietà" della motivazione. Ravvisando acriticamente nella fattispecie l'accessione invertita, la corte territoriale, al pari del tribunale, non ha tenuto conto delle conclusioni del c.t.u. il quale, in risposta ai peraltro puntuali quesiti rivoltigli, aveva constatato le gravi carenze presenti nella discarica rispetto alle norme di sicurezza e salvaguardia ambientale, ritenendo di conseguenza decaduto il concetto di irreversibilità delle modifiche apportate al sito e possibile la derequisizione del bene.


Con il sesto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa applicazione di una serie di norme del d.P.R. n.915/1982 e dei d.lgs. n.22/1997 e carenza di motivazione. La tesi della Corte d'appello di Bari per cui la restituzione della ex cava fu negata dal giudice di prime cure giacché il Clemente aveva perso la proprietà della cava medesima, avendola la P.A. irreversibilmente trasformata in discarica pubblica e acquisita al suo patrimonio, contrasta con la normativa disciplinante la gestione dello smaltimento dei rifiuti, la creazione e l'esercizio di una discarica; di vero, il sito in questione non ha mai posseduto i requisiti necessari per una discarica a carattere permanente né ricevuto alcuna delle molteplici e complesse autorizzazioni previste per l'esercizio di una discarica con tali caratteristiche. L'attività di smaltimento dei rifiuti di Orta Nova nella ex cava requisita in uso era stata disposta ai sensi dell'art.12 del d.P.R. n. 915 del 1982, i cui presupposti sono l'eccezionalità e l'urgenza - laddove caratteristica precipua di una discarica pubblica è la permanenza e definitività - che legittimano la deroga alle disposizioni vigenti e, una volta cessati, implicano il ripristino della situazione quo ante.


Con il settimo motivo, il ricorrente denunzia la violazione del punto 4.2.2. lett. i) della Delibera del Comitato Interministeriale 27 luglio 1984 recante "disposizioni per la prima applicazione dell'art. 4 del d.P.R. 10.9.1982 n.915 e dell'art. 17 del d.lgs. n.22 del 5 febbraio 1997 nonché dell'ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dip. della protezione civile del 22 marzo 2002 n. 3184 (in Gazz. Uff. 4.4 n.79), oltre a "insufficiente, erronea e contraddittoria motivazione" su un punto decisivo della controversia. In base al rubricato quadro normativo, una volta cessata l'esigenza impellente e transeunte, il Comune di Orta Nova avrebbe dovuto o provvedere direttamente alla bonifica della ex cava mediante rimozione dei rifiuti e smaltimento in discarica autorizzata, prima di restituire il sito al Clemente, ovvero procedere alla restituzione della ex cava, fornendo allo stesso i mezzi finanziari per provvedere alla obbligatoria bonifica. L'assenza nella discarica delle opere indicate dal c.t.u. non poteva determinare l'acquisto della ex cava per accessione invertita. Per sua stessa definizione, un'opera pubblica deve costituire una utilità per la comunità. L'ex cava, essendo stata colmata di rifiuti, non presentava e non presenta più alcun interesse per la pubblica amministrazione, unicamente obbligata alla sua bonifica, e non può rappresentare o costituire un'opera pubblica, mancando il pubblico interesse. La bonifica si appalesa perfettamente compatibile con la restituzione della ex cava in favore del suo proprietario, stante la temporaneità e la eccezionalità ab origine del suo utilizzo. Vi è invece incompatibilità assoluta tra l'ex cava ormai divenuta discarica abusiva e l'asserita accessione invertita: è un controsenso logico e giuridico affermare che possa divenire o costituire opera pubblica un bene avente i caratteri della abusività, illegalità e inutilità. Contrariamente a quanto opinato dalla corte, la mancanza delle opere indicate dal c.t.u. costituiva la prova concreta ed effettiva della verificazione di un danno ambientale.


Con l'ottavo motivo il ricorrente denunzia la violazione degli artt.112, 115 e 116 c.p.c. nonché errata e contraddittoria motivazione. Perpetuando un errore commesso dal primo giudice, la corte ha omesso di considerare come dalle deduzioni contenute nella comparsa di costituzione e da vari documenti acquisiti al giudizio si evincesse che il Comune aveva riconosciuto ampiamente la temporaneità del possesso e manifestato inequivocamente l'animus derelinquendi la cava allo scadere del periodo indicato, ovverosia nel 1994, e la volontà di provvedere alla sua bonifica in vista della restituzione in favore del proprietario.


Con il nono motivo, il ricorrente denunzia erronea e contraddittoria motivazione sul punto della giurisdizione, rilevando che, diversamente dal precedente citato dalla corte nella fattispecie, l'ordinanza contigibile e urgente di requisizione recava il termine finale di efficacia coincidente con il "completo utilizzo" della discarica (settembre 1994), come accertato dal c.t.u.


Con il decimo motivo, il ricorrente denunzia la violazione dell'art.112 c.p.c. per "omessa pronuncia e omessa motivazione" sulla domanda di condanna del Comune alla restituzione del bene nello stato di fatto e di diritto in cui si trovava al momento della requisizione e al pagamento delle spese occorrenti per la relativa bonifica come quantificate dall'ausiliare, nonché sulle domande subordinate.


Il primo motivo è infondato.


Nella narrativa in fatto, la corte barese riferisce che il Comune resistette alla domanda di restituzione, chiedendone il rigetto. La circostanza è pacifica, poiché lo stesso Clemente nel ricorso in esame (vedi pag. 2, primo capoverso), nel rappresentare la vicenda processuale, specifica che, costituitosi in primo grado, "il convenuto contestava la fondatezza della pretesa, chiedendone il rigetto".


L'art 190, comma secondo, c.p.c., prescrivendo che le comparse conclusionali devono contenere le sole conclusioni già fissate dinanzi all'istruttore e il compiuto svolgimento delle ragioni di fatto e di diritto su cui esse si fondano, mira ad assicurare che non sia alterato, nella fase decisionale del procedimento, in pregiudizio dei diritti di difesa della controparte, l'ambito obiettivo della controversia, quale precisato nella fase istruttoria. Tale norma non impedisce, perciò, che la parte, senza apportare alcuna aggiunta o modifica alle già precisate conclusioni e, soprattutto, senza addurre nuovi fatti, esponga, nella comparsa conclusionale, una nuova ragione giustificativa della domanda o dell'eccezione rivolta al giudice adito, fondata su fatti in precedenza accertati o su acquisizioni processuali mai oggetto di contestazione tra le parti (cfr. Cass. n.19894/2005).


Specularmente, va ricordato che il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, fissato dall'art.112 c.p.c. - implicante il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda - deve ritenersi violato ogniqualvolta il giudice, interferendo
nel potere dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di identificazione dell'azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando a uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur mantenendosi nell'ambito del petitum, rilevi d'ufficio un'eccezione in senso stretto che, in quanto diretta a impugnare il diritto fatto valere in giudizio dall'attore, può essere sollevata soltanto dall'interessato, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, ossia non ritualmente acquisiti in giudizio come oggetto del contraddittorio e non tenuti in alcun conto dal primo giudice, introducendo per tale via nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda; nulla osta, invece, a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base a una ricostruzione dei fatti (emersi in corso di causa) autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, o all'applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall'istante (vedi Cass. nn. 2850/1973, 11455/1999, 14968/2000, 10542/2002, 3980/2004, 11455/2004, 6891/2005). La violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato non è, in sostanza, configurabile qualora il giudice, lasciando fermi il petitum e i fatti posti a giustificazione della domanda o dell'eccezione, abbia dato a questi ultimi una qualificazione giuridica diversa da quella loro attribuita dalla parte, purché non ne derivino effetti giuridici diversi o più ampi di quelli cui tende la domanda.


Ne deriva che in tema di eccezione diretta - come nella specie - a resistere alla domanda di restituzione di un bene, il giudice del merito, una volta rispettati il petitum - nel senso di attribuire o negare il bene della vita oggetto della domanda - e la piattaforma fattuale delineatasi nel corso del giudizio, resta libero, nell'esercizio della sua potestas decidendi, di determinare le basi giuridiche e logiche della pronuncia, avvalendosi anche di considerazioni di diritto e di merito diverse da quelle all'uopo prospettategli, nonché di ricercare e individuare la situazione legittimante o escludente il relativo diritto in capo all'attore. In sintesi, rientra tra i poteri ufficiosi del giudice identificare la fattispecie legale astratta all'interno della quale sussumere la fattispecie concreta, purché rispetti il suolo probatorio costruito dalle parti.


Dalle fatte considerazioni discende il rigetto pure dell'ottavo motivo; anche qualora, nelle prime difese, avesse manifestato l'intendimento di derequisire il bene, nel prosieguo del processo il Comune ha abbandonato tale linea difensiva, deducendo la impossibilità di restituire comunque il bene al proprietario stante la sua irreversibile trasformazione in discarica di rifiuti solidi urbani (id est il fenomeno dell'accessione invertita).


Assumono a questo punto carattere pregiudiziale, dal punto di vista logico, il terzo e il quarto motivo, del tutto sovrapponibili. Di essi va rilevata la infondatezza, anche se la motivazione della sentenza, conforme a diritto nel risultato finale, va integrata a norma del secondo comma, ultima parte, dell'art.384 c.p.c.


E' necessario premettere come non sia controverso il fatto che l'occupazione di urgenza del terreno in questione non fu preceduta da alcun provvedimento che configurasse un'opera pubblica e dichiarasse la pubblica utilità dell'intervento, ma fu disposta dal sindaco di Orta Nova nell'esercizio dei poteri di requisizione previsto in generale dall'art.7 legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, per far fronte a una esigenza impellente, ma temporanea, che non richiedeva il più oneroso procedimento espropriativo.


Tuttavia, anche se non può parlarsi di occupazione acquisitiva o accessione invertita conseguente a provvedimento finalizzato all'esproprio, non v'ha dubbio che, essendovi stata occupazione d'urgenza, ugualmente, a seguito della irreversibile trasformazione della cava in discarica pubblica, vi sia stata comunque l'acquisizione dell'area, a titolo originario, alla mano pubblica.


Costituisce, infatti, principio acquisito dalla giurisprudenza di questa Corte che, una volta scaduto il termine della requisizione o venute meno le esigenze temporanee sottese al provvedimento, il proprietario dell'area requisita ha diritto alla sua restituzione o, quando ciò non sia possibile per la irreversibile trasformazione derivante da una diversa e indebita destinazione permanente, al risarcimento del danno conseguente alla perdita definitiva della sua proprietà, a nulla rilevando la successiva emanazione del decreto di esproprio intervenuta dopo la scadenza del termine di requisizione e dopo l'acquisto a titolo originario della proprietà del suolo da parte dell'occupante (cfr. Cass. nn. 9695/2000, 12649/1997, 5723/1997, 6880/1996). Quindi, l'acquisto della proprietà in capo alla pubblica amministrazione si verifica perché la restituzione non è più giuridicamente possibile a causa della natura pubblica del nuovo bene, di cui solo l'ente pubblico occupante può essere titolare; e non già, all'inverso, nel senso che il bene non debba essere restituito perché acquisito dalla pubblica amministrazione. In altre parole, alla possibilità di reintegrare il privato nel dominio del bene si oppone la sua radicale trasformazione nell'opera pubblica realizzata.


In proposito è da osservare che tale principio si ricollega ad altro, affermato in tempi risalenti da questa Suprema Corte (cfr. sentt. nn. 2448/1960, 1352/1964, 1636/1964, 1676/1967, 5260/1977), in sintonia con autorevole dottrina e con l'orientamento del Consiglio di Stato (cfr. Sez. V 24 giugno 1976, n. 938). Si è, infatti, sostenuto che i provvedimenti con i quali, per qualsiasi ragione di grave e urgente necessità pubblica, l'autorità amministrativa può disporre della proprietà privata ai sensi dell'art. 7 della legge 20 marzo 1865, n. 2248 allegato E, sull'abolizione del contenzioso amministrativo e, in particolare, i provvedimenti di requisizione d'uso di immobili urbani sono da qualificare giuridicamente come occupazioni d'urgenza e trovano la loro disciplina normativa negli articoli 71 e segg. legge 25 giugno 1865 n. 2359, sulle espropriazioni per pubblica utilità. Trattasi, infatti, sia nell'ipotesi di cui al precitato art. 7, sia in quelle contemplate dal menzionato art. 71, di occupazioni urgenti di beni privati, imposte da ragioni imperiose di pubblica amministrazione. Pertanto, dato che né la legge sul contenzioso amministrativo né quella comunale e provinciale contengono norme per la disciplina di tali occupazioni, motivate da generiche ragioni d'urgenza, esse debbono intendersi regolate dagli art. 71, 72, 24 e segg. della legge sulle espropriazioni per pubblica utilità, che disciplinano particolari fattispecie d'occupazione d'urgenza. Se ne è intuitivamente dedotto dalla giurisprudenza citata per prima (sentt. nn. 9695/2000, 12649/1997, 5723/1997, 6880/1996) che provvedimenti di requisizione di immobili urbani in caso di gravi necessità pubbliche (motivate da generiche ragioni d'urgenza), se protratti oltre il termine ivi fissato o il venire meno dell'urgenza con contestuale irreversibile trasformazione, sono idonei a provocare il fenomeno dell'accessione invertita in maniera analoga a quella provocata dall'occupazione di urgenza di cui all'art.71 citato.


Nella specie, dunque, alla luce dei cennati principi giurisprudenziali, scaduto il termine della occupazione disposta per una temporanea utilizzazione della cava e constatata la irreversibile trasformazione del bene stesso impiegato in funzione di una diversa e indebita destinazione permanente, il Clemente aveva diritto al solo risarcimento del danno conseguente alla perdita della proprietà dell'area acquisita a titolo originario dall'ente occupante e, quindi, non restituibile.


Segue nell'ordine logico l'esame del quinto motivo. Che é anch'esso infondato.


In proposito va tenuto conto che la radicale trasformazione del fondo, con irreversibile destinazione ad opera pubblica, da cui deriva l'acquisto della relativa proprietà da parte dell'ente occupante, non comporta necessariamente un mutamento perpetuo e ineliminabile, non essendo il requisito della irreversibilità incompatibile con la possibilità di ripristinare l'originaria fisionomia del bene a mezzo di nuovi interventi eversivi (cfr. Cass. nn. 5166/1999, 12868/1993). Determinante per l'irreversibile destinazione del suolo occupato a finalità di interesse generale, appare la realizzazione di opere che abbiano trasformato fisicamente l'immobile occupato facendogli perdere i caratteri originari. La trasformazione del fondo privato con irreversibile destinazione all'opera pubblica, quale (ratione temporis consentito) modo di acquisto della proprietà a titolo originario, non presuppone, infatti, necessariamente una profonda modifica materiale del fondo, cioè l'assunzione di struttura, forme e consistenza diverse, essendo sufficiente la sola sua diversa collocazione nella realtà giuridica (vedi Cass. nn. 7532/1997, 12416/1995, 6388/1994), che trova la sua massima espressione nella sostituzione del fine pubblico a quello privato, indipendentemente dalle forme in concreto assunte dalla iniziativa della pubblica amministrazione.


Nella specie, attesa la ricostruzione del fatto operata dal giudice del merito, la irreversibile trasformazione si era concretizzata nella destinazione impressa dal Comune in modo duraturo e stabile alla cava, che aveva ormai privato definitivamente il proprietario del suo diritto domenicale, e cioè di tutte quelle facoltà di godimento e di utilizzazione che ne costituiscono il contenuto economico.


Il giudice a quo si è mosso nel solco dei cennati principi, peraltro espressamente richiamandoli in motivazione. L'accertato mutamento strutturale, non temporaneo né contingente, seppure non necessariamente perpetuo e ineliminabile, della cava occupata, con la scomparsa della sua primigenia identità giuridica, confusasi strutturalmente e funzionalmente, senza più possibilità di distinzione, con quella della discarica pubblica, é sufficiente a configurare il concetto di irreversibilità delle modifiche apportate al sito, e simmetricamente il fenomeno dell'accessione invertita, null'altro essendo richiesto al riguardo. Per il resto, le critiche sono rivolte ad apprezzamenti di fatto che, in quanto sufficientemente motivati, si sottraggono al sindacato di legittimità.


Il sesto e il settimo motivo, congiuntamente esaminabili, sono inammissibili per un duplice ordine di ragioni.


La corte pugliese, con accertamento di fatto insindacabile in questa sede, ha in primo luogo rilevato che l'assenza nella discarica delle opere (recinzione, impermeabilizzazione del fondo, drenaggio, captazione gas) indicate dal consulente tecnico d'ufficio non precludeva l'acquisto per accessione invertita che del terreno occupato aveva conseguito il Comune né costituiva prova della concreta ed effettiva verificazione di un danno ambientale. D'altra parte, l'intervento di bonifica e di ripristino ambientale non presuppone (né importa come conseguenza) la restituzione del bene all'originario proprietario, trattandosi di bene del quale la p.a. aveva a suo tempo definitivamente acquisito la proprietà, sicché a detti interventi avrebbe potuto in futuro attendere la stessa p.a.


Nel contrastare tali argomentazioni, le censure si risolvono nella prospettazione di un apprezzamento dei fatti e delle prove diverso da quello compiuto dalla corte territoriale, non consentita in sede di legittimità.


In secondo luogo, una volta accertata la perdita del diritto dominicale sulla cava per il fenomeno della accessione invertita, il ricorrente non ha interesse a far valere eventuali difetti strutturali, assenze di requisiti, difformità da norme di legge o carenze igieniche nella discarica. E' di tutta evidenza, infatti, che di tali irregolarità, se sussistenti, risponderà direttamente il Comune, ormai proprietario della discarica pubblica.


Il secondo motivo e il primo profilo del decimo, parzialmente ripetitivi, sono infondati.


Di vero, è palese che, ravvisando nei fatti l'istituto dell'accessione invertita, il giudice del merito ha implicitamente deciso, negandola, sulla domanda di restituzione dell'ex cava. Ora, come è noto, non è configurabile il vizio di omessa pronuncia quando il rigetto di una domanda sia implicito nella costruzione logico-giuridica della sentenza, con la quale venga accolta una tesi incompatibile con tale domanda. Non sussiste omissione di pronuncia, dovendo invece ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto, quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione logico-giuridica della pronuncia. Il vizio di omessa pronunzia sussiste quando manchi la decisione su uno dei capi della domanda, autonomamente apprezzabile, ovverosia quando sia omesso il provvedimento indispensabile con riferimento al caso concreto. Pertanto, il vizio di omessa pronunzia può utilmente essere fatto valere solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine a una domanda, che richieda una pronuncia di accoglimento o di rigetto e va escluso ove ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della domanda o di un suo assorbimento in altre statuizioni (Cass. nn. 10052/2006, 264/2006, 10001/2003, 3435/2001, 12984/1999).


Quanto al secondo profilo del decimo motivo, il ricorrente, in ispreto al principio di autosufficienza del ricorso, non specifica le domande subordinate in ordine alle quali il giudice di seconde cure avrebbe omesso di delibare.


Il nono motivo è inammissibile per difetto di interesse.


Come si è andato esponendo, la corte territoriale, al pari del tribunale, ha respinto nel merito la domanda di restituzione della cava in quanto resa impossibile dalla irreversibile trasformazione del bene. Ha soggiunto la corte barese che l'esame della domanda di restituzione era addirittura preclusa, rientrando nella giurisdizione amministrativa. Quindi, la sentenza si fonda su due autonome rationes decidendi al fine di rigettare la domanda attorea e l'appello: la prima è che vi è stata acquisizione a titolo originario della cava al patrimonio del Comune; la seconda, che non vi sarebbe comunque giurisdizione ordinaria sulla domanda di restituzione di un bene oggetto di requisizione non contenente termine di scadenza. Una volta rigettati i motivi di ricorso avverso la prima delle rationes decidendi, il motivo (in esame volto) avverso la seconda ragione diventa inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse. Infatti, va osservato che, in tema di ricorso per cassazione, qualora la decisione impugnata si fondi su una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse a una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto la loro eventuale fondatezza non potrebbe comunque condurre, stante l'intervenuta definitività delle altre, all'annullamento della decisione stessa (cfr. Cass. nn. 20454/2005, 9449/2000, 3951/1998, 10555/1994).


Infondato in tutte le sue articolazione, il ricorso va, in definitiva, rigettato.


Le spese del presente giudizio fanno carico ai Clemente, in ossequio al principio della soccombenza.


P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in € 2.700, 00 di cui € 2.500,00 per onorari d'avvocato, oltre spese generali e accessori di legge.
 

Così deciso in Roma, il 18 giugno 2008


 


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