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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006
CORTE
DI CASSAZIONE CIVILE, Sez. I, 06/08/2008, Sentenza n. 21249
RIFIUTI - Requisizione di cava successivamente adibita a discarica pubblica di
rifiuti - Irreversibile trasformazione - Non restituibilità dell'area - Diritto
del proprietario al risarcimento del danno. In materia di smaltimento di
rifiuti, nel caso di requisizione di una cava e sua destinazione a discarica
pubblica, l’area, oggetto di irreversibile trasformazione e conseguente acquisto
a titolo originario dall'ente occupante per effetto dell'accessione invertita,
non è restituibile al proprietario, il quale ha però diritto al risarcimento del
danno conseguente alla perdita della proprietà. Presidente U. R. Panebianco,
Relatore S. Del Core. CORTE DI CASSAZIONE CIVILE, Sez. I, 06/08/2008,
Sentenza n. 21249
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UDIENZA
SENTENZA N.
REG. GENERALE N.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. I Civile
composta dagli ill.mi Signori:
Omissis
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Omissis
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Nel febbraio 1996, Vito Clemente convenne davanti al tribunale di Foggia il
Comune di Orta Nova per sentirlo condannare alla restituzione nello stato quo
ante di una cava requisita con ordinanza sindacale del 20 febbraio 1991 per
destinarla a discarica di rifiuti solidi urbani e in seguito abbandonata
completamente ricolma di rifiuti, nonché al pagamento delle somme dovute a
titolo di indennità e risarcimento danni.
Nella resistenza del Comune di Orta Nova, il giudice adito, in parziale
accoglimento della proposta domanda, condannò l'ente convenuto a pagare
all'attore la somma di lire 14.000.000 (oltre interessi legali) quale indennità
di requisizione e la somma di lire 112.000.000 (oltre a svalutazione e interessi
legali) a titolo di risarcimento danni.
L'appello del Clemente fu rigettato dalla Corte di Bari con motivazione
articolata lungo le seguenti linee argomentative. La domanda di restituzione
della cava era stata, in realtà, respinta dal tribunale, per il quale
l'appellante ne aveva perduto la proprietà, acquisita dal Comune a seguito di
irreversibile trasformazione in discarica pubblica. L'attribuzione al
danneggiato del risarcimento per equivalente non viola il principio della
corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, in quanto il risarcimento per
equivalente, che il giudice di merito può disporre anche d'ufficio, costituisce
un minus rispetto alla reintegrazione in forma specifica, sicché la
relativa richiesta è implicita nella domanda giudiziale di reintegrazione. La
radicale trasformazione del fondo, con irreversibile destinazione ad opera
pubblica, che determina l'acquisto della proprietà a favore dell'ente occupante,
non comporta necessariamente un mutamento perpetuo e ineliminabile, non essendo
il requisito della irreversibilità incompatibile con la possibilità di
ripristinare l'originaria fisionomia del bene a mezzo di nuovi interventi
eversivi. L'assenza nella discarica delle opere indicate dal consulente tecnico
d'ufficio non precludeva l'acquisto per accessione invertita che del terreno
occupato aveva conseguito il Comune né costituiva prova della concreta ed
effettiva verificazione di un danno ambientale. D'altra parte, l'intervento di
bonifica e di ripristino ambientale non presuppone (né importa come conseguenza)
la restituzione del bene all'originario proprietario, trattandosi di bene del
quale la p.a. aveva a suo tempo definitivamente acquisito la proprietà; in ogni
caso, sussisteva la giurisdizione del giudice amministrativo in ordine alla
domanda proposta nei confronti del Comune, in quanto il diritto del proprietario
di un fondo occupato da un provvedimento contingibile e urgente emanato dal
sindaco per ragioni di igiene, di edilizia e di polizia locale, a norma
dell'art. 153 r.d. n. 148 del 1915 (nella specie, occupazione di un fondo
adibito dall'ente locale a discarica di rifiuti solidi urbani), non contenente
alcun termine finale di efficacia, rimane declassato ad interesse legittimo,
coincidente con l'interesse pubblico al ripristino, con apposito provvedimento,
della situazione antecedente nel momento in cui cessi l'esigenza di occupazione
del bene.
Vito Clemente ha chiesto la cassazione della sopra compendiata sentenza con
ricorso articolato in dieci motivi, poi illustrati con memoria.
Resiste con controricorso il Comune di Orta Nova.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, il Clemente denunzia la violazione e la falsa applicazione
dell'art. 112 c.p.c. in relazione agli artt.166, 167, 183 e 190 c.p.c. Nel
fondare la decisione sulla fattispecie dell'accessione invertita, il tribunale
prima e la corte territoriale dopo hanno deciso in violazione dei principio del
contraddittorio. Nella comparsa di costituzione e nel corso di tutto l'iter
istruttorio del processo di primo grado il Comune di Orta Nova, premesso che
nella specie si trattava di requisizione in uso, non aveva contrastato la
domanda di restituzione della cava, contestando unicamente la misura
dell'indennizzo e, solo in comparsa conclusionale, aveva richiamato l'istituto
dell'accessione invertita.
Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 111, comma 6, e 24, secondo comma, Cost., 132 n.4
c.p.c. e "inesistente o insufficiente e erronea motivazione". In maniera
apodittica e con argomentazioni da cui non è possibile ricostruire il percorso
logico-giuridico seguito per arrivare al convincimento espresso, la corte
territoriale ha ritenuto che il primo giudice aveva statuito sulla domanda di
restituzione della cava.
Con il terzo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 111, comma 6, Cost. e 132 n.4 c.p.c. e "carente e
erronea motivazione" su punto decisivo della controversia. Erroneamente la corte
barese ha inquadrato la fattispecie concreta nell'istituto dell'accessione
invertita; invero, nel caso in esame, anziché un'occupazione in senso tecnico,
vi è stato l'utilizzo, temporaneo e non preordinato ad alcuna espropriazione, di
una depressione (cava) per lo sversamento dei rifiuti; analogamente, non vi è
stato l'inizio di una procedura espropriativa, con la dichiarazione di pubblica
utilità, né, in relazione alla cava, la realizzazione di alcuna opera o
manufatto, ma il semplice riempimento e l'abbandono del sito da parte del
Comune, una volta cessata l'emergenza.
Con il quarto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa
applicazione degli artt. 7 legge 20 marzo 1865 n. 2248 e 112 c.p.c. oltre a
"omessa, erronea e contraddittoria motivazione". Il provvedimento adottato dal
sindaco ai sensi del d.P.R. n.915/1982 costituì un caso di requisizione in uso,
istituto opposto all'espropriazione e insuscettibile di sfociare nell'accessione
invertita.
Con il quinto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa
applicazione dell'art. 115 c.p.c. e "carenza e contraddittorietà" della
motivazione. Ravvisando acriticamente nella fattispecie l'accessione invertita,
la corte territoriale, al pari del tribunale, non ha tenuto conto delle
conclusioni del c.t.u. il quale, in risposta ai peraltro puntuali quesiti
rivoltigli, aveva constatato le gravi carenze presenti nella discarica rispetto
alle norme di sicurezza e salvaguardia ambientale, ritenendo di conseguenza
decaduto il concetto di irreversibilità delle modifiche apportate al sito e
possibile la derequisizione del bene.
Con il sesto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e la falsa
applicazione di una serie di norme del d.P.R. n.915/1982 e dei d.lgs. n.22/1997
e carenza di motivazione. La tesi della Corte d'appello di Bari per cui la
restituzione della ex cava fu negata dal giudice di prime cure giacché il
Clemente aveva perso la proprietà della cava medesima, avendola la P.A.
irreversibilmente trasformata in discarica pubblica e acquisita al suo
patrimonio, contrasta con la normativa disciplinante la gestione dello
smaltimento dei rifiuti, la creazione e l'esercizio di una discarica; di vero,
il sito in questione non ha mai posseduto i requisiti necessari per una
discarica a carattere permanente né ricevuto alcuna delle molteplici e complesse
autorizzazioni previste per l'esercizio di una discarica con tali
caratteristiche. L'attività di smaltimento dei rifiuti di Orta Nova nella ex
cava requisita in uso era stata disposta ai sensi dell'art.12 del d.P.R. n. 915
del 1982, i cui presupposti sono l'eccezionalità e l'urgenza - laddove
caratteristica precipua di una discarica pubblica è la permanenza e definitività
- che legittimano la deroga alle disposizioni vigenti e, una volta cessati,
implicano il ripristino della situazione quo ante.
Con il settimo motivo, il ricorrente denunzia la violazione del punto 4.2.2.
lett. i) della Delibera del Comitato Interministeriale 27 luglio 1984 recante
"disposizioni per la prima applicazione dell'art. 4 del d.P.R. 10.9.1982 n.915 e
dell'art. 17 del d.lgs. n.22 del 5 febbraio 1997 nonché dell'ordinanza della
Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dip. della protezione civile del 22
marzo 2002 n. 3184 (in Gazz. Uff. 4.4 n.79), oltre a "insufficiente, erronea e
contraddittoria motivazione" su un punto decisivo della controversia. In base al
rubricato quadro normativo, una volta cessata l'esigenza impellente e
transeunte, il Comune di Orta Nova avrebbe dovuto o provvedere direttamente alla
bonifica della ex cava mediante rimozione dei rifiuti e smaltimento in discarica
autorizzata, prima di restituire il sito al Clemente, ovvero procedere alla
restituzione della ex cava, fornendo allo stesso i mezzi finanziari per
provvedere alla obbligatoria bonifica. L'assenza nella discarica delle opere
indicate dal c.t.u. non poteva determinare l'acquisto della ex cava per
accessione invertita. Per sua stessa definizione, un'opera pubblica deve
costituire una utilità per la comunità. L'ex cava, essendo stata colmata di
rifiuti, non presentava e non presenta più alcun interesse per la pubblica
amministrazione, unicamente obbligata alla sua bonifica, e non può rappresentare
o costituire un'opera pubblica, mancando il pubblico interesse. La bonifica si
appalesa perfettamente compatibile con la restituzione della ex cava in favore
del suo proprietario, stante la temporaneità e la eccezionalità ab origine
del suo utilizzo. Vi è invece incompatibilità assoluta tra l'ex cava ormai
divenuta discarica abusiva e l'asserita accessione invertita: è un controsenso
logico e giuridico affermare che possa divenire o costituire opera pubblica un
bene avente i caratteri della abusività, illegalità e inutilità. Contrariamente
a quanto opinato dalla corte, la mancanza delle opere indicate dal c.t.u.
costituiva la prova concreta ed effettiva della verificazione di un danno
ambientale.
Con l'ottavo motivo il ricorrente denunzia la violazione degli artt.112, 115 e
116 c.p.c. nonché errata e contraddittoria motivazione. Perpetuando un errore
commesso dal primo giudice, la corte ha omesso di considerare come dalle
deduzioni contenute nella comparsa di costituzione e da vari documenti acquisiti
al giudizio si evincesse che il Comune aveva riconosciuto ampiamente la
temporaneità del possesso e manifestato inequivocamente l'animus
derelinquendi la cava allo scadere del periodo indicato, ovverosia nel 1994,
e la volontà di provvedere alla sua bonifica in vista della restituzione in
favore del proprietario.
Con il nono motivo, il ricorrente denunzia erronea e contraddittoria motivazione
sul punto della giurisdizione, rilevando che, diversamente dal precedente citato
dalla corte nella fattispecie, l'ordinanza contigibile e urgente di requisizione
recava il termine finale di efficacia coincidente con il "completo utilizzo"
della discarica (settembre 1994), come accertato dal c.t.u.
Con il decimo motivo, il ricorrente denunzia la violazione dell'art.112 c.p.c.
per "omessa pronuncia e omessa motivazione" sulla domanda di condanna del Comune
alla restituzione del bene nello stato di fatto e di diritto in cui si trovava
al momento della requisizione e al pagamento delle spese occorrenti per la
relativa bonifica come quantificate dall'ausiliare, nonché sulle domande
subordinate.
Il primo motivo è infondato.
Nella narrativa in fatto, la corte barese riferisce che il Comune resistette
alla domanda di restituzione, chiedendone il rigetto. La circostanza è pacifica,
poiché lo stesso Clemente nel ricorso in esame (vedi pag. 2, primo capoverso),
nel rappresentare la vicenda processuale, specifica che, costituitosi in primo
grado, "il convenuto contestava la fondatezza della pretesa, chiedendone il
rigetto".
L'art 190, comma secondo, c.p.c., prescrivendo che le comparse conclusionali
devono contenere le sole conclusioni già fissate dinanzi all'istruttore e il
compiuto svolgimento delle ragioni di fatto e di diritto su cui esse si fondano,
mira ad assicurare che non sia alterato, nella fase decisionale del
procedimento, in pregiudizio dei diritti di difesa della controparte, l'ambito
obiettivo della controversia, quale precisato nella fase istruttoria. Tale norma
non impedisce, perciò, che la parte, senza apportare alcuna aggiunta o modifica
alle già precisate conclusioni e, soprattutto, senza addurre nuovi fatti,
esponga, nella comparsa conclusionale, una nuova ragione giustificativa della
domanda o dell'eccezione rivolta al giudice adito, fondata su fatti in
precedenza accertati o su acquisizioni processuali mai oggetto di contestazione
tra le parti (cfr. Cass. n.19894/2005).
Specularmente, va ricordato
che il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, fissato
dall'art.112 c.p.c. - implicante il divieto per il giudice di attribuire alla
parte un bene non richiesto o comunque di emettere una statuizione che non trovi
corrispondenza nella domanda - deve ritenersi violato ogniqualvolta il giudice,
interferendo nel potere
dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi obiettivi di
identificazione dell'azione (petitum e causa petendi), attribuendo
o negando a uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non
compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, ovvero, pur
mantenendosi nell'ambito del petitum, rilevi d'ufficio un'eccezione in senso
stretto che, in quanto diretta a impugnare il diritto fatto valere in giudizio
dall'attore, può essere sollevata soltanto dall'interessato, oppure ponga a
fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del
contendere, ossia non ritualmente acquisiti in giudizio come oggetto del
contraddittorio e non tenuti in alcun conto dal primo giudice, introducendo per
tale via nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello
enunciato dalla parte a sostegno della domanda; nulla osta, invece, a che il
giudice renda la pronuncia richiesta in base a una ricostruzione dei fatti
(emersi in corso di causa) autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, o
all'applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall'istante
(vedi Cass. nn. 2850/1973, 11455/1999, 14968/2000, 10542/2002, 3980/2004,
11455/2004, 6891/2005). La violazione del principio della corrispondenza tra il
chiesto e il pronunciato non è, in sostanza, configurabile qualora il giudice,
lasciando fermi il petitum e i fatti posti a giustificazione della domanda o
dell'eccezione, abbia dato a questi ultimi una qualificazione giuridica diversa da quella loro attribuita dalla parte, purché non ne
derivino effetti giuridici diversi o più ampi di quelli cui tende la domanda.
Ne deriva che in tema di eccezione diretta - come nella specie - a resistere
alla domanda di restituzione di un bene, il giudice del merito, una volta
rispettati il petitum - nel senso di attribuire o negare il bene della vita
oggetto della domanda - e la piattaforma fattuale delineatasi nel corso del
giudizio, resta libero, nell'esercizio della sua potestas decidendi, di
determinare le basi giuridiche e logiche della pronuncia, avvalendosi anche di
considerazioni di diritto e di merito diverse da quelle all'uopo prospettategli,
nonché di ricercare e individuare la situazione legittimante o escludente il
relativo diritto in capo all'attore. In sintesi, rientra tra i poteri ufficiosi
del giudice identificare la fattispecie legale astratta all'interno della quale
sussumere la fattispecie concreta, purché rispetti il suolo probatorio costruito
dalle parti.
Dalle fatte considerazioni discende il rigetto pure dell'ottavo motivo; anche
qualora, nelle prime difese, avesse manifestato l'intendimento di derequisire il
bene, nel prosieguo del processo il Comune ha abbandonato
tale linea difensiva, deducendo la impossibilità di restituire comunque il bene
al proprietario stante la sua irreversibile trasformazione in discarica di
rifiuti solidi urbani (id est il fenomeno dell'accessione invertita).
Assumono a questo punto carattere pregiudiziale, dal punto di vista logico, il
terzo e il quarto motivo, del tutto sovrapponibili. Di essi va rilevata la
infondatezza, anche se la motivazione della sentenza, conforme a diritto nel
risultato finale, va integrata a norma del secondo comma, ultima parte,
dell'art.384 c.p.c.
E' necessario premettere come non sia controverso il fatto che l'occupazione di
urgenza del terreno in questione non fu preceduta da alcun provvedimento che
configurasse un'opera pubblica e dichiarasse la pubblica utilità
dell'intervento, ma fu disposta dal sindaco di Orta Nova nell'esercizio dei
poteri di requisizione previsto in generale dall'art.7 legge 20 marzo 1865, n.
2248, all. E, per far fronte a una esigenza impellente, ma temporanea, che non
richiedeva il più oneroso procedimento espropriativo.
Tuttavia, anche se non può parlarsi di occupazione acquisitiva o accessione
invertita conseguente a provvedimento finalizzato all'esproprio, non v'ha dubbio che, essendovi stata
occupazione d'urgenza, ugualmente, a seguito della irreversibile trasformazione
della cava in discarica pubblica, vi sia stata comunque l'acquisizione
dell'area, a titolo originario, alla mano pubblica.
Costituisce, infatti, principio acquisito dalla giurisprudenza di questa Corte
che, una volta scaduto il termine della requisizione o venute meno le esigenze
temporanee sottese al provvedimento, il proprietario dell'area requisita ha
diritto alla sua restituzione o, quando ciò non sia possibile per la
irreversibile trasformazione derivante da una diversa e indebita destinazione
permanente, al risarcimento del danno conseguente alla perdita definitiva della
sua proprietà, a nulla rilevando la successiva emanazione del decreto di
esproprio intervenuta dopo la scadenza del termine di requisizione e dopo
l'acquisto a titolo originario della proprietà del suolo da parte dell'occupante
(cfr. Cass. nn. 9695/2000, 12649/1997, 5723/1997, 6880/1996). Quindi, l'acquisto
della proprietà in capo alla pubblica amministrazione si verifica perché la
restituzione non è più giuridicamente possibile a causa della natura pubblica
del nuovo bene, di cui solo l'ente pubblico
occupante può essere titolare; e non già, all'inverso, nel senso che il bene non
debba essere restituito perché acquisito dalla pubblica amministrazione. In
altre parole, alla possibilità di reintegrare il privato nel dominio del bene si
oppone la sua radicale trasformazione nell'opera pubblica realizzata.
In proposito è da osservare che tale principio si ricollega ad altro, affermato
in tempi risalenti da questa Suprema Corte (cfr. sentt. nn. 2448/1960,
1352/1964, 1636/1964, 1676/1967, 5260/1977), in sintonia con autorevole dottrina
e con l'orientamento del Consiglio di Stato (cfr. Sez. V 24 giugno 1976, n.
938). Si è, infatti, sostenuto che i provvedimenti con i quali, per qualsiasi
ragione di grave e urgente necessità pubblica, l'autorità amministrativa può
disporre della proprietà privata ai sensi dell'art. 7 della legge 20 marzo 1865,
n. 2248 allegato E, sull'abolizione del contenzioso amministrativo e, in
particolare, i provvedimenti di requisizione d'uso di immobili urbani sono da
qualificare giuridicamente come occupazioni d'urgenza e trovano la loro
disciplina normativa negli articoli 71 e segg. legge 25 giugno 1865 n. 2359,
sulle espropriazioni per pubblica utilità. Trattasi, infatti, sia nell'ipotesi
di cui al precitato
art. 7, sia in quelle contemplate dal menzionato art. 71, di occupazioni urgenti
di beni privati, imposte da ragioni imperiose di pubblica amministrazione.
Pertanto, dato che né la legge sul contenzioso amministrativo né quella comunale
e provinciale contengono norme per la disciplina di tali occupazioni, motivate
da generiche ragioni d'urgenza, esse debbono intendersi regolate dagli art. 71,
72, 24 e segg. della legge sulle espropriazioni per pubblica utilità, che
disciplinano particolari fattispecie d'occupazione d'urgenza. Se ne è
intuitivamente dedotto dalla giurisprudenza citata per prima (sentt. nn.
9695/2000, 12649/1997, 5723/1997, 6880/1996) che provvedimenti di requisizione
di immobili urbani in caso di gravi necessità pubbliche (motivate da generiche
ragioni d'urgenza), se protratti oltre il termine ivi fissato o il venire meno
dell'urgenza con contestuale irreversibile trasformazione, sono idonei a
provocare il fenomeno dell'accessione invertita in maniera analoga a quella
provocata dall'occupazione di urgenza di cui all'art.71 citato.
Nella specie, dunque, alla luce dei cennati principi giurisprudenziali, scaduto
il termine della occupazione disposta per una temporanea utilizzazione della
cava e constatata la irreversibile trasformazione del
bene stesso impiegato in funzione di una diversa e indebita destinazione
permanente, il Clemente aveva diritto al solo risarcimento del danno conseguente
alla perdita della proprietà dell'area acquisita a titolo originario dall'ente
occupante e, quindi, non restituibile.
Segue nell'ordine logico l'esame del quinto motivo. Che é anch'esso infondato.
In proposito va tenuto conto che la radicale trasformazione del fondo, con
irreversibile destinazione ad opera pubblica, da cui deriva l'acquisto della
relativa proprietà da parte dell'ente occupante, non comporta necessariamente un
mutamento perpetuo e ineliminabile, non essendo il requisito della
irreversibilità incompatibile con la possibilità di ripristinare l'originaria
fisionomia del bene a mezzo di nuovi interventi eversivi (cfr. Cass. nn.
5166/1999, 12868/1993). Determinante per l'irreversibile destinazione del suolo
occupato a finalità di interesse generale, appare la realizzazione di opere che
abbiano trasformato fisicamente l'immobile occupato facendogli perdere i
caratteri originari. La trasformazione del fondo privato con irreversibile
destinazione all'opera pubblica, quale (ratione temporis consentito) modo di
acquisto della proprietà a titolo originario, non presuppone, infatti,
necessariamente una profonda modifica materiale del fondo, cioè l'assunzione di
struttura, forme e consistenza diverse, essendo sufficiente la sola sua diversa
collocazione nella realtà giuridica (vedi Cass. nn. 7532/1997, 12416/1995,
6388/1994), che trova la sua massima espressione nella sostituzione del fine
pubblico a quello privato, indipendentemente dalle forme in concreto assunte
dalla iniziativa della pubblica amministrazione.
Nella specie, attesa la ricostruzione del fatto operata dal giudice del merito,
la irreversibile trasformazione si era concretizzata nella destinazione impressa
dal Comune in modo duraturo e stabile alla cava, che aveva ormai privato
definitivamente il proprietario del suo diritto domenicale, e cioè di tutte
quelle facoltà di godimento e di utilizzazione che ne costituiscono il contenuto
economico.
Il giudice a quo si è mosso nel solco dei cennati principi, peraltro
espressamente richiamandoli in motivazione. L'accertato mutamento strutturale,
non temporaneo né contingente, seppure non necessariamente perpetuo e
ineliminabile, della cava occupata, con la scomparsa della sua primigenia
identità giuridica, confusasi strutturalmente e funzionalmente, senza più possibilità di distinzione,
con quella della discarica pubblica, é sufficiente a configurare il concetto di
irreversibilità delle modifiche apportate al sito, e simmetricamente il fenomeno
dell'accessione invertita, null'altro essendo richiesto al riguardo. Per il
resto, le critiche sono rivolte ad apprezzamenti di fatto che, in quanto
sufficientemente motivati, si sottraggono al sindacato di legittimità.
Il sesto e il settimo motivo, congiuntamente esaminabili, sono inammissibili per
un duplice ordine di ragioni.
La corte pugliese, con accertamento di fatto insindacabile in questa sede, ha in
primo luogo rilevato che l'assenza nella discarica delle opere (recinzione,
impermeabilizzazione del fondo, drenaggio, captazione gas) indicate dal
consulente tecnico d'ufficio non precludeva l'acquisto per accessione invertita
che del terreno occupato aveva conseguito il Comune né costituiva prova della
concreta ed effettiva verificazione di un danno ambientale. D'altra parte,
l'intervento di bonifica e di ripristino ambientale non presuppone (né importa
come conseguenza) la restituzione del bene all'originario proprietario,
trattandosi di bene del
quale la p.a. aveva a suo tempo definitivamente acquisito la proprietà, sicché a
detti interventi avrebbe potuto in futuro attendere la stessa p.a.
Nel contrastare tali argomentazioni, le censure si risolvono nella
prospettazione di un apprezzamento dei fatti e delle prove diverso da quello
compiuto dalla corte territoriale, non consentita in sede di legittimità.
In secondo luogo, una volta accertata la perdita del diritto dominicale sulla
cava per il fenomeno della accessione invertita, il ricorrente non ha interesse
a far valere eventuali difetti strutturali, assenze di requisiti, difformità da
norme di legge o carenze igieniche nella discarica. E' di tutta evidenza,
infatti, che di tali irregolarità, se sussistenti, risponderà direttamente il
Comune, ormai proprietario della discarica pubblica.
Il secondo motivo e il primo profilo del decimo, parzialmente ripetitivi, sono
infondati.
Di vero, è palese che, ravvisando nei fatti l'istituto dell'accessione
invertita, il giudice del merito ha implicitamente deciso, negandola, sulla
domanda di restituzione dell'ex cava. Ora, come è noto, non è configurabile il
vizio di omessa pronuncia quando
il rigetto di una domanda sia implicito nella costruzione logico-giuridica della
sentenza, con la quale venga accolta una tesi incompatibile con tale domanda.
Non sussiste omissione di pronuncia, dovendo invece ravvisarsi una statuizione
implicita di rigetto, quando la pretesa avanzata col capo di domanda non
espressamente esaminato risulti incompatibile con l'impostazione
logico-giuridica della pronuncia. Il vizio di omessa pronunzia sussiste quando
manchi la decisione su uno dei capi della domanda, autonomamente apprezzabile,
ovverosia quando sia omesso il provvedimento indispensabile con riferimento al
caso concreto. Pertanto, il vizio di omessa pronunzia può utilmente essere fatto
valere solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in
ordine a una domanda, che richieda una pronuncia di accoglimento o di rigetto e
va escluso ove ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della domanda o
di un suo assorbimento in altre statuizioni (Cass. nn. 10052/2006, 264/2006,
10001/2003, 3435/2001, 12984/1999).
Quanto al secondo profilo del decimo motivo, il ricorrente, in ispreto al
principio di autosufficienza del ricorso, non specifica le domande subordinate
in ordine alle quali il giudice di seconde cure avrebbe
omesso di delibare.
Il nono motivo è inammissibile per difetto di interesse.
Come si è andato esponendo, la corte territoriale, al pari del tribunale, ha
respinto nel merito la domanda di restituzione della cava in quanto resa
impossibile dalla irreversibile trasformazione del bene. Ha soggiunto la corte
barese che l'esame della domanda di restituzione era addirittura preclusa,
rientrando nella giurisdizione amministrativa. Quindi, la sentenza si fonda su
due autonome rationes decidendi al fine di rigettare la domanda attorea e
l'appello: la prima è che vi è stata acquisizione a titolo originario della cava
al patrimonio del Comune; la seconda, che non vi sarebbe comunque giurisdizione
ordinaria sulla domanda di restituzione di un bene oggetto di requisizione non
contenente termine di scadenza. Una volta rigettati i motivi di ricorso avverso
la prima delle rationes decidendi, il motivo (in esame volto) avverso la seconda
ragione diventa inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse. Infatti, va
osservato che, in tema di ricorso per cassazione, qualora la decisione impugnata
si fondi su una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome e
singolarmente idonee a sorreggerla sul piano
logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse a una delle
rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse,
le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di
doglianza, in quanto la loro eventuale fondatezza non potrebbe comunque
condurre, stante l'intervenuta definitività delle altre,
all'annullamento della decisione stessa (cfr. Cass. nn.
20454/2005, 9449/2000, 3951/1998, 10555/1994).
Infondato in tutte le sue articolazione, il ricorso va, in definitiva,
rigettato.
Le spese del presente giudizio fanno carico ai Clemente, in ossequio al
principio della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di
cassazione, liquidate in € 2.700, 00 di cui € 2.500,00 per onorari d'avvocato,
oltre spese generali e accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 18 giugno 2008
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