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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006 - ISSN 1974-9562
CONSIGLIO DI STATO, Sez. VI - 9 febbraio 2009, n. 717
URBANISTICA ED EDILZIA - D.I.A. - Natura - Atto privato - Terzo
controinteressato - Strumenti di tutela giurisdizionale - Azione di annullamento
- Esclusione in ragione della natura non provvedimentale della d.i.a. - Azione
di accertamento autonomo - Termine di decadenza - 60 giorni - Decorrenza. La
d.i.a. è un atto di un soggetto privato e non di una pubblica amministrazione,
che ne è invece destinataria, e non costituisce, pertanto, esplicazione di una
potestà pubblicistica. Gli strumenti di tutela giurisdizionale offerti al terzo
controinteressato devono però rimanere sostanzialmente immutati anche laddove
l’intervento edilizio trovi fondamento nella d.i.a. anziché nel provvedimento:
l’effettività della tutela, in ragione della ricordata natura privatistica della
d.i.a., deve essere tuttavia assicurata al terzo mediante strumenti diversi
dall’azione di annullamento. Lo strumento di tutela non può quindi che essere
identificato nell’azione di accertamento autonomo che il terzo può esperire
innanzi al giudice amministrativo per sentire pronunciare che non sussistevano i
presupposti per svolgere l’attività sulla base di una semplice denuncia di
inizio di attività. Emanata la sentenza di accertamento, graverà
sull’Amministrazione l’obbligo di ordinare la rimozione degli effetti della
condotta posta in essere dal privato, sulla base dei presupposti che il giudice
ha ritenuto mancanti. L’’azione di accertamento in tal caso sarà sottoposta allo
stesso termine di decadenza (di sessanta giorni) previsto per l’azione di
annullamento che il terzo avrebbe potuto esperire se l’Amministrazione avesse
adottato un permesso di costruire, termine che inizia a decorrere dal momento in
cui le originarie ricorrenti sono venute a conoscenza della d.i.a. e della
lesività dell'intervento edilizio realizzato sulla base della stessa. Pres.
Varrone, Est. Giovagnoli - Comune di Verona (avv.ti Caineri e Clarich) c. L.P.
(avv.ti Gobbi e Gattamelata) e altro (n.c.)- Riforma T.a.r. Veneto, sez. II, n.
3045/2003 - CONSIGLIO DI STATO, Sez. VI - 9 febbraio 2009, n.717
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N.717/09
Reg.Dec.
N. 9524 Reg.Ric.
ANNO 2003
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la
seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 9524/2003 proposto dal COMUNE DI VERONA, in persona
del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Giovanni R. Caineri e
dall’avv. prof. Marcello Clarich, elettivamente domicialiato presso lo studio di
quest’ultimo in Roma, Piazza Montecitorio 115;
contro
LUCCHI PAOLA, rappresentata e difesa dagli avv.ti Donatella Gobbi e Stefano
Gattamelata, elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in Roma,
via di Monte Fiore n. 22;
RITA CAPPELLETTI, non costituitasi in giudizio;
e nei confronti di
SCUDELLARI GRAZIELLA e LUCCHI RENATA, rappresentate e difese dagli avv.ti
Gian Paolo Sardo Albertini e Luigi Manzi, elettivamente domiciliate presso lo
studio di quest’ultimo, in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5;
per l’annullamento e/o la riforma
della sentenza del T.a.r. Veneto, sez. II, n. 3045/2003, del 20/6/2003 resa
tra le parti;
Visto l’atto di appello con i relativi allegati;
Vista la memoria di costituzione in giudizio con appello incidentale di
Scudellari Graziella e Lucchi Renata;
Vista la memoria di costituzione di Lucchi Paola;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 25 novembre 2008, relatore il Consigliere Roberto
Giovagnoli ed uditi, altresì, gli avvocati Gattamelata e l’avv. Di Mattia per
delega dell’avv. Manzi;
FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Le signore Paola Lucchi e Rita Cappelletti, con ricorso al T.a.r. Veneto,
hanno chiesto:
- l’annullamento della D.I.A. n. 104741/2001, presentata al Comune di Verona il
5.1.22001 dalle signore Graziella Scudellari e Renata Lucchi per la
realizzazione di posti auto, cancello carraio e ingresso pedonale sull’area
condominiale scoperta dell’edificio sito in Verona, via Col. Fincato n. 182;
- l’annullamento di ogni altro atto conseguente e presupposto, compresa
l’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal dirigente del settore edilizia
privata con decreto B.A. n. 1038/200 del 18.1.2001, il parere del settore
traffico del Comune di Verona, il parere 28.12.2000 della Commissione edilizia
comunale integrata di cui al verbale n. 54 del 28.12.2000;
- in ogni caso, la pronuncia di illegittimità del comportamento tenuto dal
Comune di Verona sulla d.i.a. presenta il 5.12.2001 e sull’intervento edilizio
programmato;
- il risarcimento dei danni, anche in forma specifica.
2. Con la sentenza indicata in epigrafe, il T.a.r. Veneto ha accolto il ricorso,
ritenendo che le opere realizzate, pur rientrando fra quelle astrattamente
soggette a d.i.a., risultavano, in concreto, di rilevante entità e tali comunque
da alterare in modo sensibile il territorio.
In particolare, la sentenza appellata, respingendo l’eccezione di
inammissibilità del ricorso (fondata sulla considerazione che la d.i.a. è un
atto privato, come tale non impugnabile innanzi al Giudice amministrativo), ha
affermato che la d.i.a. ha natura provvedimentale, perché è un titolo
abilitativo che proviene dall’Amministrazione, sia pure in forma silenziosa o
per inerzia.
2.1. In ogni caso, ha aggiunto il Tribunale, anche a voler ritenere la d.i.a. un
atto privato, il ricorso non sarebbe comunque inammissibile, in quanto le
ricorrenti hanno chiesto, oltre all’annullamento del titolo, anche
l’accertamento dell’illegittimità del comportamento tenuto dalla p.a. in merito
alla d.i.a. medesima.
2.2. Il T.a.r. ha poi annullato anche il nulla osta ambientale, ritenendolo
privo della necessaria motivazione specificamente riferita all’entità e alle
caratteristiche dell’opera e alla sua incidenza sul bene tutelato.
3. Avverso tale sentenza ha proposto appello il Comune di Verona, deducendo i
seguenti motivi:
1) l’irricevibilità del ricorso di primo grado, perché proposto oltre i sessanta
giorni da quanto le ricorrenti erano a conoscenza del progetto presentato dalle
signore Scudellari e Lucchi e, comunque, oltre i sessanta giorni dalla
conoscenza dell’avvenuto inizio dei lavori;
2) l’inammissibilità del ricorso di primo grado perché avente ad oggetto la
d.i.a. che, in quanto atto privato, non sarebbe impugnabile;
3) nel merito, la riconducibilità dell’intervento edilizio tra quelli soggetti a
d.i.a. sul presupposto che le opere realizzate, consistenti in una recinzione,
nella pavimentazione del piazzale interno con delimitazione degli spazi a
parcheggio ed interventi sul muro di cinta di contenimento, rientrassero
pacificamente tra quelle indicate dall’art. 2, comma 60, legge n. 662 del 1996;
4) con riferimento al nulla osta paesaggistico ambientale, ha dedotto che nei
casi di parere positivo, l’assenza di motivi che contrastino con i beni
sottoposti a vincolo può essere meramente enunciata, senza necessità di
ulteriori argomentazioni.
4. Si sono costituite in giudizio le signore Scudellari Graziella e Lucchi
Renata che hanno proposto anche appello incidentale improprio contenente censure
in gran parte analoghe a quelle già svolte dal Comune di Verona nell’appello
principale.
In particolare, le appellanti incidentali hanno dedotto:
1) che la d.i.a. è un atto privato e non un provvedimento impugnabile e che
l’unica tutela consentita al terzo che si ritenga leso dall’attività da altri
svolta sulla base della d.i.a. è quella di instaurare un giudizio avverso il
silenzio-rifiuto;
2) che le opere consistevano nella realizzazione di posti auto, cancello carraio
ed ingresso pedonale, in perfetta corrispondenza con quanto prevede l’art. 2,
comma 60, l. n. 662/1996;
3) con riferimento al difetto di motivazione del nulla osta ambientale, che una
motivazione adeguata è necessaria quando viene adottato dall’Amministrazione un
provvedimento negativo alla realizzazione dell’opera in una zona soggetta a
vincolo, mentre quando il nulla osta viene rilasciato è sufficiente una
motivazione anche succinta.
5. Si è costituita in giudizio, chiedendo la reiezione di entrambi gli appelli,
una delle originarie ricorrenti, la signora Lucchi Paola.
6. All’udienza del 25 novembre 2008, la causa è stata trattenuta per la
decisione.
7. In via preliminare, al fine di decidere sulle eccezioni di inammissibilità e
tardività dell’originario ricorso riproposte, con appositi motivi, negli appelli
principale e incidentale, occorre esaminare la questione relativa alla natura
giuridica della d.i.a..
Il tema della natura giuridica della d.i.a., e quello correlato della tutela dei
terzi che si oppongono ad intervento edilizio assentito a seguito di d.i.a., ha
sempre presentato profili teorici problematici.
7.1. Secondo un primo orientamento, la d.i.a. si tradurrebbe direttamente
nell'autorizzazione implicita all'effettuazione dell'attività in virtù di una
valutazione legale tipica, con la conseguenza che i terzi potrebbero agire
innanzi al giudice per chiedere l'annullamento della determinazione formatasi in
forma tacita (cfr., tra le più recenti, Cons. Stato, sez. IV, 25 novembre 2008 ,
n. 5811; Cons. Stato, sez. IV, 29 luglio 2008, n. 3742; Cons. Stato, sez. IV, 12
settembre 2007 , n. 4828; Cons. Stato, sez. VI, 05 aprile 2007 , n. 1550).
Si tratterebbe, quindi, di un istituto del tutto peculiare, comunque
assimilabile ad una istanza autorizzatoria, che, con il decorso del términe di
legge, provoca la formazione di un “titolo”, cioè di un provvedimento tacito di
accoglimento di una siffatta istanza, che rende lecito l'esercizio
dell'attività, (in questi termini, Cons. Stato, sez. IV, 25 novembre 2008, n.
5811).
Secondo questa impostazione, la d.i.a. non è uno strumento di liberalizzazione
dell'attività, ma rappresenta una semplificazione procedimentale che consente al
privato di conseguire un titolo abilitativo, sub specie dall'autorizzazione
implicita di natura provvedimentale, a seguito del decorso di un termine (30
giorni) della presentazione della denunzia.
7.2. Diversi gli argomenti invocati a sostegno di questa posizione.
7.2.1. In primo luogo, un forte indizio a favore della tesi provvedimentale è
oggi offerto dalla previsione espressa del potere dell'Amministrazione di
assumere determinazioni in via di autotutela ai sensi degli articoli
21-quinquies e 21-nonies (v. il comma 3 del nuovo art. 19): tale riferimento
all’autotutela sembra, invero, presupporre un provvedimento, o comunque un
titolo, su cui sono destinati ad incidere i provvedimenti di revoca o di
annullamento, quali atti di secondo grado.
Come è stato rilevato, inoltre, se è ammesso l'annullamento d’ufficio,
parimenti, e tanto più, deve essere consentita l'azione di annullamento davanti
al giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. VI, 05 aprile 2007 , n. 1550).
7.2.2. Ulteriori elementi a sostegno della natura provvedimentale si ricavano,
con particolare riferimento alla d.i.a in materia edilizia, da alcune norme
contenute nel testo unico dell’edilizia (approvato con D.P.R. n. 380/2001).
Viene, in primo luogo, in considerazione il comma 2-bis dell'art. 38 che,
prevedendo, la possibilità di “accertamento dell'inesistenza dei presupposti per
la formazione del titolo”, equipara detta ipotesi ai casi di “permesso
annullato”, avallando l’idea che la d.i.a. sia un titolo suscettibile di
annullamento
7.2.3. Sulla stessa linea si pone l'art. 39, comma 5-bis, che consente
l’annullamento straordinario della d.i.a. da parte della Regione, confermando,
così, che la d.i.a. viene considerata dal legislatore come un titolo
suscettibile di essere annullato (in sede amministrativa e, quindi, a maggior
ragione, in sede giurisdizionale).
7.2.4. Rilevante, infine, è l’art. 22 il quale stabilisce che il confine tra
l’ambito di operatività della d.i.a. e quello del permesso di costruire non sia
fisso: le Regioni possono ampliare o ridurre l'ambito applicativo dei due titoli
abilitativi, ferme restando le sanzioni penali (art. 22, comma 4), ed è comunque
fatta salva la facoltà dell'interessato di chiedere il rilascio di permesso di
costruire per la realizzazione degli interventi assoggettati a d.i.a. (art. 22,
comma 7).
Per la tesi in esame, una simile previsione dimostrerebbe che d.i.a. e permesso
di costruire sono di titoli abilitativi di analoga natura, che si diversificano
solo per il procedimento da seguire. Sarebbe, allora, irragionevole, oltre che
lesivo dell'effettività della tutela giurisdizionale, pensare che il terzo
controinteressato incontri limiti diversi a seconda del tipo di titolo
abilitativo, che può dipendere da una scelta della parte o da una diversa
normativa regionale.
Sarebbe, invece, preferibile ritenere che il formarsi di un determinato titolo
abilitativo, o di un altro, non comporti alcun cambiamento sotto il profilo
della tutela del terzo e del conseguente intervento del giudice, in alcun modo
limitato dalla decadenza del potere di intervento dell'amministrazione.
7.3. La tesi appena esposta, seppure spinta dal pregevole intento di evitare che
l’introduzione della d.i.a. possa avere l’effetto di diminuire le possibilità di
tutela giurisdizionale offerte al terzo controinteressato, si presta, tuttavia,
ad alcune considerazioni critiche.
7.3.1. Innanzitutto, dalla formulazione letterale dell’art. 19 l. n. 241/1990
(che rappresenta la norma generale cui fare riferimento per la disciplina e la
ricostruzione dell’istituto) emerge in maniera chiara come la d.i.a. venga dal
legislatore nettamente contrapposta al provvedimento amministrativo: è prevista
proprio la sostituzione con una dichiarazione del privato di ogni autorizzazione
comunque denominata (il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento
dei requisiti o presupposti di legge o di atti amministrativi a contenuto
generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici
strumenti di programmazione per il rilascio).
Già da questo primo dato normativo, si evince, quindi, che la principale
caratteristica e la vera novità dell’istituto consiste proprio nella
sostituzione dei tradizionali modelli procedimentali in tema di autorizzazione
con un nuovo schema ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche
private, con la conseguenza che per l’esercizio delle stesse non è più
necessaria l’emanazione di un titolo provvedimentale di legittimazione.
7.3.2. Come è stato bene evidenziato in dottrina, per effetto della previsione
della d.i.a. la legittimazione del privato all’esercizio dell’attività non è più
fondata, infatti, sull’atto di consenso della P.A., secondo lo schema “norma-potere-effetto”,
ma è una legittimazione ex lege, secondo lo schema “norma-fatto-effetto”, in
forza del quale il soggetto è abilitato allo svolgimento dell’attività
direttamente dalla legge, la quale disciplina l’esercizio del diritto eliminando
l’intermediazione del potere autorizzatorio della P.A.
A seguito della denuncia, il soggetto pubblico verifica la sussistenza dei
presupposti e dei requisiti di legge richiesti. Gli unici provvedimenti
rinvenibili nella fattispecie sono quelli meramente eventuali che la P.A. può
emanare nel termine di legge per impedire la prosecuzione dell’attività o per
imporre la rimozione degli effetti, ovvero quelli adottati in “autotutela”
successivamente alla scadenza di questo termine.
Il potere di verifica di cui dispone l’amministrazione, a differenza di quanto
accade nel regime a previo atto amministrativo, non è finalizzato all’emanazione
dell’atto amministrativo di consenso all’esercizio dell’attività, ma al
controllo, privo di discrezionalità, della corrispondenza di quanto dichiarato
dall’interessato rispetto ai canoni normativi stabiliti per l’attività in
questione.
Con la d.i.a, quindi, al principio autoritativo si sostituisce il principio
dell’autoresponsabiltà dell’amministrato che è legittimato ad agire in via
autonoma valutando l’esistenza dei presupposti richiesti dalla normativa in
vigore.
La d.i.a., in definitiva, è un atto di un soggetto privato e non di una pubblica
amministrazione, che ne è invece destinataria, e non costituisce, pertanto,
esplicazione di una potestà pubblicistica.
7.3.3. Del resto, la tesi del provvedimento amministrativo che si forma
tacitamente si scontra anche con la considerazione che il silenzio-assenso
rappresenta pur sempre rimedio all’inerzia della P.A. e, pertanto, presuppone il
potere-dovere di quest’ultima di provvedere con atto formale sull’istanza del
privato, accogliendola o respingendola, potere-dovere che, a fronte della
denuncia di inizio di attività, l’Amministrazione non possiede affatto. Sicché,
mentre a fondamento del valore provvedimentale del silenzio assenso si pone una
domanda dell’interessato, a fondamento della d.i.a. vi è una mera dichiarazione
o denuncia attestante l’esistenza delle condizioni richieste dalla legge per
l’esercizio dell’attività.
L’Amministrazione non rilascia nessun atto di assenso dovendo solo verificare la
sussistenza dei prescritti requisiti affinché l’interessato possa autonomamente
intraprendere la preannunciata attività quale espressione del suo diritto come
legislativamente prefigurato
7.3.4. E’ appena il caso di aggiungere che se la d.i.a. fosse davvero un atto
destinato ad avviare un procedimento destinato a concludersi con un
provvedimento di accoglimento per silentium, tra d.i.a. e silenzio-assenso
sarebbe arduo cogliere una sostanziale differenza. Al contrario, la legge n.
241/1990 delinea in due articoli differenti, il 19 e il 20, così mostrando di
voler tenere distinti i due istituti e di attribuire loro una diversa funzione:
mentre con la d.i.a. si attua una liberalizzazione dell’attività privata non più
soggetta ad autorizzazione, il silenzio assenso non incide in senso abrogativo
sul regime autorizzatorio, ma costituisce una mera semplificazione
procedimentale, prevedendo una modalità di conseguimento dell’autorizzazione
equipollente ad un provvedimento esplicito di accoglimento.
7.4. A fronte di queste considerazioni sistematiche, perdono in gran parte il
loro peso gli opposti argomenti invocati a sostegno della natura provvedimentale
della d.i.a.
Essi, come si è visto, si fondano soprattutto sulla constatazione che il
legislatore fa più volte riferimento all’esercizio di un potere di autotutela
(normalmente di annullamento di ufficio) che ha per oggetto proprio la denuncia
di inizio di attività. Ora, poiché l’autotutela decisoria è attività
amministrativa di secondo grado, che presuppone l’esistenza di un atto
amministrativo da rimuovere, da tali previsioni sembra facile argomentare nel
senso che la d.i.a. sia un provvedimento.
7.4.1. In realtà, il riferimento compiuto dal legislatore al potere di
autotutela non deve essere enfatizzato.
L’art. 19 l. n. 241/1990, che richiama gli artt. 21-quinquies e 21-nonies, e le
norme del T.U. edilizia sopra citate che prevedono l’annullamento d’ufficio
della d.i.a., non hanno, in realtà, voluto sancire implicitamente la natura
provvedimentale di tale fattispecie.
Evocando l’autotutela (e, in particolare, l’annullamento d’ufficio), il
legislatore, più che prendere posizione sulla natura giuridica dell’istituto, ha
voluto solo chiarire che, anche dopo la scadenza del termine perentorio di
trenta giorni per l’esercizio del potere inibitorio, la P.A. conserva un potere
residuale di autotutela, da intendere, però, come potere sui generis, che si
differenzia della consueta autotutela decisoria proprio perché non implica
un’attività di secondo grado insistente su un procedente provvedimento
amministrativo.
Come è stato bene evidenziato in dottrina, il riferimento agli artt.
21-quinquies e 21-nonies l. n. 241/1990, contenuto nella l. n. 241/1990 consente
alla P.A. di esercitare un potere che tecnicamente non è di secondo grado, in
quanto non interviene su una precedente manifestazione di volontà
dell’amministrazione, ma che con l’autotutela classica condivide soltanto i
presupposti e il procedimento. In questo senso, deve ritenersi che il richiamo
agli artt. 21 quinquies e 21 nonies vada riferito alla possibilità di adottare
non già atti di autotutela in senso proprio, ma di esercitare i poteri di
inibizione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti, nell’osservanza dei
presupposti sostanziali e procedimentali previsti dal tali norme.
In tal modo, il legislatore, nel recepire l’orientamento giurisprudenziale che
ammetteva la sussistenza in capo alla P.A. di un potere residuale di intervento
anche dopo la scadenza dl termine, si fa pure carico di tutelare l’affidamento
che può essere maturato in capo al privato per effetto del decorso del tempo.
Non vi è dubbio, invero, che la d.i.a., pur essendo un atto che proviene da un
privato, sia comunque suscettibile, a causa del decorso del tempo e del mancato
tempestivo esercizio del potere inibitorio da parte della P.A., di consolidare,
analogamente a quanto potrebbe fare un provvedimento espresso, una affidamento
meritevole di protezione.
Tale affidamento non è certamente così forte da escludere qualsiasi potere di
intervento da parte della P.A., anche perché altrimenti per effetto della d.i.a.,
si andrebbe a consolidare una posizione più stabile rispetto a quella che deriva
del provvedimento autorizzatorio (il quale, ricorrendo le condizioni di legge,
può essere appunto rimosso in via di autotutela).
Ed allora, superando anche i dubbi interpretativi in passato da qualcuno
sollevati circa l’esistenza di un residuo potere di intervento da parte della
p.a. una volta scaduto il termine perentorio di 30 gg., la legge n. 80/2005, nel
riformulare l’art. 19 l. n. 241/1990, ha precisato che la P.A. può vietare lo
svolgimento dell’attività ed ordinare l’eliminazione degli effetti già prodotti
anche dopo che è scaduto il termine perentorio. Lo potrà fare, però, soltanto se
vi sono i presupposti per l’esercizio del potere di autotutela (in particolare
dell’annullamento d’ufficio) e, quindi, entro un ragionevole lasso di tempo,
dopo aver valutato gli interessi in conflitto e sussistendone le ragioni di
interesse pubblico.
7.4.2. Il richiamo contenuto nell’art. 19 all’autotutela decisoria (o meglio
alle norme che la disciplinano e ne fissano le condizioni di esercizio) va,
quindi, ridimensionato. Quel riferimento, anzi, potrebbe addirittura essere
invocato contro la tesi del titolo abilitativo tacito: perché se la d.i.a. fosse
veramente un provvedimento non vi sarebbe nemmeno bisogno di prevedere un potere
di annullamento d’ufficio o di revoca, essendo a tal fine sufficiente le norma
generali di cui agli artt. 21-quinquies e 21-nonies.
7.5. Appurato che la d.i.a. non è un provvedimento amministrativo a formazione
tacita, ma un atto privato, si tratta ora di capire quale siano gli strumenti di
tutela a disposizione del terzo che si ritenga leso.
7.6. Alcuni ritengono che il terzo possa agire con lo strumento del
silenzio-rifiuto; ed è questa la tesi sostenuta dagli appellanti principale e
incidentale.
Secondo questa impostazione, il terzo, decorso il termine per l’esercizio del
potere inibitorio senza che la P.A. sia intervenuta, sarebbe legittimato a
richiedere all’Amministrazione di porre in essere i provvedimenti di
“autotutela” previsti, attivando in caso di inerzia il rimedio di cui all’art.
21-bis l. n. 1034/1971.
Questa soluzione non è, tuttavia, condivisibile, perché finisce per
compromettere notevolmente la possibilità di tutela del terzo.
Innanzitutto, questi avrebbe l’onere, prima di agire in giudizio, di presentare
apposita istanza sollecitatoria alla P.A.
Inoltre, e soprattutto, l’istanza sarebbe diretta a sollecitare non il potere
inibitorio di natura vincolata (che si estingue decorso il termine perentorio di
30 gg), ma il c.d. potere di autotutela evocato tramite il richiamo agli artt.
21-quinquies e 21-nonies.
Tale potere, tuttavia, è ampiamente discrezionale, dovendo l’Amministrazione
prima di intervenire valutare gli interessi in conflitto (tenendo conto anche
dell’affidamento ingeneratosi in capo al denunciante) e la sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale, che non coincide con il mero ripristino
della legalità violata.
Nell’eventuale giudizio avverso il silenzio-rifiuto, quindi, il G.A. non
potrebbe che limitarsi ad una mera declaratoria dell’obbligo di provvedere,
senza poter predeterminare il contenuto del provvedimento da adottare (Cons.
Stato, sez. V, 9 ottobre 2007, n. 5271), e tutto ciò renderebbe ancor più lunga
e faticosa la tutela del terzo.
7.7. Al contrario, per individuare gli strumenti di tutela che il terzo può
attivare, si deve partire da una premessa di fondo, che scaturisce dal principio
costituzionale dell’effettività della tutela giurisdizionale: quella secondo cui
la sostituzione del provvedimento espresso con la d.i.a. non può avere l’effetto
di diminuire le possibilità di tutela giurisdizionale offerte al terzo contro
interessato, costringendolo negli angusti limiti del giudizio contro il
silenzio-rifiuto.
Gli strumenti di tutela giurisdizionale del terzo debbono rimanere
sostanzialmente immutati anche laddove l’intervento edilizio (o, più ingenerale,
l’attività svolta) trovi fondamento nella d.i.a. anziché nel provvedimento.
Va, quindi, certamente condivisa la preoccupazione di assicurare al terzo
l’effettività della tutela giurisdizionale, preoccupazione che, come si è visto,
sta alla base della tesi che ammette l’azione di annullamento della d.i.a.
innanzi al Giudice amministrativo. Tale preoccupazione non può, tuttavia,
condurre allo stravolgimento della natura dell’istituto, trasformando quella che
è una dichiarazione privata in un atto dell’amministrazione o in una fattispecie
ibrida che nasce privata e. diventa pubblica per effetto del tempo trascorso e
del silenzio.
L’effettività della tutela deve essere assicurata al terzo mediante strumenti
diversi dall’azione di annullamento, che siano perfettamente compatibili con la
natura privatistica della d.i.a.
7.8. Tale strumento di tutela non può, allora, che essere identificato
nell’azione di accertamento autonomo che il terzo può esperire innanzi al
giudice amministrativo per sentire pronunciare che non sussistevano i
presupposti per svolgere l’attività sulla base di una semplice denuncia di
inizio di attività. Emanata la sentenza di accertamento, graverà
sull’Amministrazione l’obbligo di ordinare la rimozione degli effetti della
condotta posta in essere dal privato, sulla base dei presupposti che il giudice
ha ritenuto mancanti.
7.8.1. Non si ignora che in ordine all’ammissibilità innanzi al Giudice
amministrativo di un’azione di accertamento autonomo sono stati prospettati
numerosi dubbi, sia in dottrina, sia in giurisprudenza.
Sono dubbi che nascono, innanzi tutto, dalla considerazione secondo cui un
giudizio di accertamento sarebbe ammissibile solo in una controversia tra
soggetti in posizione di parità e rispetto ai quali il giudice detiene il potere
di fissare la disciplina puntuale del rapporto concreto. Quando, viceversa,
sussiste un soggetto in posizione di supremazia (la Pubblica Amministrazione),
la soluzione del conflitto di interessi sarebbe demandata a tale soggetto, che
detiene e gestisce il potere, ed il sindacato del giudice, in tali casi, non può
che assumere la struttura del controllo successivo dei modi di esercizio del
potere, laddove, viceversa, un giudizio di accertamento del rapporto comporrebbe
una inammissibile sostituzione all’Amministrazione nella titolarità e nella
gestione del potere.
Ancora, ulteriori ostacoli all’ammissione dell’azione di accertamento autonomo
nel processo amministrativo derivano, secondo l’insegnamento tradizionale: a)
dalla negazione, invalsa soprattutto in passato, che l’interesse legittimo sia
una posizione giuridica sostanziale avente la stessa dignità del diritto
soggettivo; b) dalla mancanza di un riconoscimento espresso dell’azione di
accertamento da parte del legislatore, a differenza di quanto accade negli
ordinamenti di altri Paesi che tale azione conoscono (par. 43 della VGeO
tedesca); c) dalla tradizionale configurazione del giudizio amministrativo come
giudizio sull’atto, e non sul rapporto, nell’ambito del quale, pertanto, al di
là dei casi espressamente previsti dalla legge, l’unica azione proponibile
sarebbe quella volta ad ottenere l’annullamento del provvedimento illegittimo;
d) dalla limitazione dei mezzi di prova utilizzabili dal giudice amministrativo,
il quale, pertanto, non sarebbe in grado, per la povertà dei suoi poteri
istruttori, di compiere un accertamento pieno del rapporto controverso.
7.9. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’ultimo decennio ha
determinato il superamento di una così rigida chiusura all’azione di
accertamento del processo amministrativo, offendo, al contempo, numerosi
argomenti che depongono a favore di una diversa soluzione.
7.9.1. In primo luogo, come hanno anche recentemente evidenziato le Sezioni
Unite della Corte di Cassazione con la nota sentenza 23 dicembre 2008, n. 30254,
“sono ormai definitivamente tramontate precedenti ricostruzioni della figura
dell’interesse legittimo e della giurisdizione amministrativa, che il primo
configuravano come situazione funzionale a rendere possibile l’intervento degli
organi della giustizia amministrativa, e della seconda predicavano la natura di
giurisdizione di tipo oggettivo, e dunque di mezzo direttamente volto a rendere
possibile, attraverso una nuova determinazione amministrativa, il ripristino
della legalità violata e solo indirettamente a realizzare l’interesse del
privato”.
Nella specie va inoltre considerato che, la nozione di interesse legittimo serve
anche a contraddistinguere il nucleo di facoltà, inerenti al diritto di
proprietà il cui esercizio è ex lege subordinato al potere conformativo della
p.a.. Più propriamente alcune modalità di godimento (facoltà) a seguito
dell’intervenuta modifica legislativa non devono essere pregiudizialmente
assentite dalla p.a., ma presuppongono l’invio di una informativa (d.i.a.),
assistita da un progetto. Trascorso infruttuosamente il termine di 30 giorni, l’agere
licere del privato, titolare del bene, si riespande pienamente.
Rientra nel potere della p.a. accertare la corretta utilizzazione della misura
liberalizzatrice da parte del privato e di intervenire tempestivamente nei casi
di suo uso distorto.
Ciò significa che la nozione di interesse legittimo, utilizzata originariamente
per contrassegnare situazioni sostanziali che non raggiungevano la soglia di
tutela propria del diritto soggettivo, serve oggi anche a contrassegnare il
nucleo di facoltà che, all’interno del diritto soggettivo, possono essere
esercitate solo a seguito del positivo esercizio da parte della p.a. dal suo
potere conformativo.
In questi casi, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sulla
titolarità del diritto, quello amministrativo giudica dal suo contenuto, del suo
grado di tutela, a seconda che venga o meno in conflitto con interessi di
rilevanza pubblicistica (urbanistica, ambiente, paesaggio ecc.)
In tal senso si è chiaramente espressa la Corte Costituzionale con la sentenza 6
luglio 2004 n. 204. La Corte ha sottolineato che l’art. 24 della Costituzione
assicura agli interessi legittimi “le medesime garanzie assicurate ai diritti
soggettivi quanto alla possibilità di farli valere davanti al giudice ed alla
effettività della tutela che questi deve loro accordare”.
La stessa attribuzione al Giudice amministrativo del potere di disporre il
risarcimento del danno ingiusto anche nell’ambito della competenza generale di
legittimità (ex art. 7 della legge n. 205 del 2000) affonda le sua radici,
secondo la Corte, nell’art. 24 della Costituzione “il quale garantendo alle
situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed
effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri”.
Anche la Corte Costituzionale ha dato, dunque, il proprio avallo alla piena
parificazione tra diritti soggettivi e interessi legittimi quanto a possibilità
di farli valere in giudizio, all’effettività della tutela e all’adeguatezza dei
poteri del giudice.
Come attenta dottrina non ha mancato di rilevare, questo criterio interpretativo
generale deve presiedere alla ricostruzione delle disposizioni legislative oggi
vigenti in materia di processo amministrativo e, per quel che più rileva in
questa sede, deve rappresentare il punto di partenza nella risoluzione della
questione relativa all’ammissibilità di una azione di accertamento nel processo
amministrativo da parte del terzo che si ritenga leso dell’attività iniziata
sulla base della d.i.a.
7.9.2. In senso contrario all’azione atipica di accertamento, non pare
risolutiva nemmeno la tradizionale considerazione secondo cui il giudizio
amministrativo è un giudizio sull’atto e non sul rapporto.
In primo luogo, tale affermazione riguarda il giudizio di annullamento (che
presuppone che sia stato emanato un provvedimento di cui si contesta
l’illegittimità); non può invece assumere rilevanza nell’ambito di un giudizio
che non mira alla eliminazione del provvedimento, ma vuole, come nel caso di
specie, ottenere un accertamento giurisdizionale (di inesistenza dei presupposti
della d.i.a.) al fine di sollecitare il successivo esercizio del potere
amministrativo. In questo caso, mancando il provvedimento da scrutinare,
l’oggetto del giudizio non può che essere il rapporto che, secondo il ricorrente
dovrebbe essere poi recepito nel successivo provvedimento repressivo.
In secondo luogo, anche la tradizionale configurazione del giudizio di
annullamento come giudizio sull’atto (e non sul rapporto) non è più così
pacifica come era in passato.
Citando ancora la recente sentenza delle Sezioni Unite n. 30254/2008, più indici
normativi testimoniano la trasformazione in atto dello stesso giudizio sulla
domanda di annullamento, da giudizio sul provvedimento a giudizio sul rapporto.
Basti pensare: all’impugnazione con motivi aggiunti dei provvedimenti adottati
in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso
(art. 21, primo comma, l. Tar, modificato dall’art. 1 l. n. 205/2000); al potere
del giudice di negare l’annullamento dell’atto impugnato per vizi di violazione
di norme sul procedimento, quando giudichi palese, per la natura vincolata del
provvedimento, che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato (art. 21-octies l. n. 241/1990, introdotto dall’art. 21 bis
l. n. 15/2005); al potere del giudice amministrativo di conoscere la fondatezza
dell’istanza nel giudizio avverso il silenzio-rifiuto (art. 2, comma 5, l. n.
241/1990, come modificato dalla l. n. 80/2005 in sede di conversione del d.l. n.
35/2005).
Il giudizio amministrativo, rimane perciò, un giudizio sull’atto, ma in una
versione diversificata a seguito della normativa sopravvenuta, nella quale va
inclusa quella in esame, nel senso che il rapporto di cui il giudice
amministrativo accerta la legittimità o è quello già riflesso nell’atto
impugnato o è quello di cui il ricorrente pretende la trasfusione in un
successivo atto della p.a., mediante l’esecuzione del giudicato nel caso di
perdurante inerzia della p.a..
7.9.3. Non appare decisivo nemmeno l’ostacolo derivante dalla mancanza di una
norma espressa che preveda l’azione di accertamento nel processo amministrativo.
Come è stato efficacemente rilevato dalla dottrina che si è occupata del tema,
sotto questo profilo ricorre nel processo amministrativo una situazione del
tutto analoga a quella del processo civile, nel quale pure manca un esplicito
riconoscimento normativo generale dell’azione di accertamento (specifiche azioni
di accertamento sono previste nel codice civile solo per i diritti reali).
Ciò nonostante, nel processo civile l’azione di accertamento è pacificamente
ammessa. A tale pacifico riconoscimento dell’azione di accertamento nel giudizio
civile si giunge partendo dalla premessa concettuale che il potere di
accertamento del giudice sia connaturato al concetto stesso di giurisdizione,
sicché si può dire che non sussista giurisdizione e potere giurisdizionale se
l’organo decidente non possa quanto meno accertare quale sia il corretto assetto
giuridico di un determinato rapporto.
L’azione di accertamento nel nostro ordinamento non è quindi un’azione “tipica”
(come lo è, ad esempio, nel diritto processuale civile l’azione costitutiva ex
art. 2908 c.c.), in quanto non è necessario un espresso riconoscimento normativo
per ammetterne la vigenza. L’ammissibilità di tale azione discende di per sé
dall’esistenza della giurisdizione che implica appunto lo “ius dicere”.
Ad analoghe conclusioni può giungersi per il processo amministrativo: sulle orme
della dottrina prima evocata, si può ritenere che anche nel processo
amministrativo il potere di accertamento del giudice non possa essere limitato
alle sole ipotesi tipiche specificamente previste.
La tipicità dell’azione di annullamento era coerente con la visione originaria
del processo amministrativo come un processo impostato sulla tutela degli
interessi legittimi oppositivi ai quali corrispondeva una pretesa a un “non
facere” in capo all’amministrazione, cioè un dovere di astensione dall’emanare
il provvedimento restrittivo della sfera giuridica dell’interessato. L’art. 45
del T.U. e l’art. 26, comma 2, della legge istitutiva dei Tar che individuano
come unico dispositivo di accoglimento la sentenza di annullamento
rispecchiavano perfettamente tale visione.
Una siffatta visione non corrisponde più all’evoluzione legislativa e
giurisprudenziale che ha attribuito rilevanza e pari dignità agli interessi
legittimi pretensivi.
7.9.4. A favore dell’ammissibilità di una azione atipica di accertamento gioca
un ruolo decisivo anche l’art. art. 24 della Costituzione.
Tale norma sancisce il diritto di azione per la tutela degli interessi legittimi
in sé considerati, e dunque, indipendentemente dal problema dell’annullamento
dell’atto amministrativo. Viene così costituzionalizzato il carattere
strumentale del processo rispetto al diritto sostanziale, in linea con la nota
formula dottrinale secondo cui il processo deve dare per quanto è possibile
praticamente a chi ha un diritto tutto quelle e proprio quello ch’egli ha
diritto di conseguire.
Ne deriva che anche per gli interessi legittimi la garanzia costituzionale
impone di riconoscere l’esperibilità dell’azione di accertamento autonomo di
questa posizione sostanziale, almeno in tutti i casi in cui, mancando il
provvedimento da impugnare, una simile azione risulti necessaria per la
soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente.
A tale risultato non può opporsi il principio di tipicità delle azioni, in
quanto, come è stato di recente rilevato, uno dei corollari dell’effettività
della tutela è anche il principio della atipicità delle forme di tutela, non
diversamente da quello che accade nel processo civile.
E non vi è ragione di differenziare, in linea di principio, sotto il profilo
delle implicazioni che possono trarsi dall’art. 24 della Costituzione, il
processo amministrativo dal processo civile, soprattutto se si riconosce
all’interesse legittimo, com’è ormai pacifico, una rilevanza sostanziale analoga
a quella del diritto soggettivo.
Deve, allora, condividersi l’opinione di quanti sostengono che l’esigenza
dell’effettività della tutela non può dirsi soddisfatta solo perché
l’ordinamento consenta un rimedio giurisdizionale qualsiasi al diritto (o
all’interesse) che si assume violato o insoddisfatto: occorre invece che la
tutela assicuri in modo specifico l’attuazione della pretesa sostanziale. E
sarebbe una tutela non effettiva quella che, sulla base di una aprioristica e
indimostrata negazione dell’azione di accertamento, costringesse il terzo
controinteressato rispetto all’attività edilizia iniziata sulla base della
d.i.a. a presentare una istanza all’Amministrazione volta all’esercizio del c.d.
potere di autotutela per poi ricorrere, in caso di mancata risposta, al giudizio
contro il silenzio-rifiuto.
7.9.5. Né, in senso contrario, può assumere rilievo la considerazione, prima
ricordata, secondo cui un giudizio di accertamento del rapporto comporrebbe una
inammissibile sostituzione all’Amministrazione nella titolarità e nella gestione
del potere.
L’azione di accertamento prospettata in questa sede non scaturisce, infatti,
dalla mera esigenza di eliminare una incertezza sulla posizione giuridica
sostanziale, ma dalla più pregnante esigenza di eliminare una lesione già in
atto, determinata dalla difformità tra lo stato di fatto e lo situazione di
diritto, a causa della già intrapresa realizzazione di un intervento edilizio
non consentito in base alle semplice d.i.a.
Non si tratta, dunque, di una tutela preventiva dell’interesse legittimo del
terzo che sarebbe in contrasto con il fatto che l’ordinamento ha attribuito
all’Amministrazione la gestione di determinati rapporti. Si tratta, viceversa,
di una tutela a posteriori, richiesta a seguito della asserita lesione
dell’interesse legittimo del terzo contro interessato rispetto alla d.i.a.
7.10. Le considerazioni che precedono consentono di superare, sia pure con
motivazioni in parte diverse rispetto al giudice di primo grado, le eccezioni di
inammissibilità del ricorso originario riproposte in appello dal Comune di
Verona e dalle signore Scudellari Graziella e Lucchi Renata.
Ed invero, anche se deve escludersi il ricorso volto ad ottenere l’annullamento
della d.i.a., non vi sono ostacoli ad ammettere una azione diretta ad ottenere
l’accertamento, da parte del Giudice amministrativo, dell’inesistenza dei
presupposti per intraprendere l’attività in base alla d.i.a. medesima.
Poiché le originarie ricorrenti hanno proposto anche tale domanda di
accertamento, l’eccezione di inammissibilità in relazione a questa parte del
ricorso deve essere respinta.
7.11. Appurata l’ammissibilità anche nel giudizio amministrativo di una azione
di accertamento atipica, occorre ora, al fine di decidere sull’eccezione di
tardività pure riproposta dagli odierni appellanti, delineare con maggiore
dettaglio il regime giuridico di tale azione.
Anche a tal fine, si deve muovere dalla premessa concettuale secondo cui, il
terzo che si ritenga leso da una attività svolta sulla base di una d.i.a. deve
avere, in linea di principio, le stesse possibilità di tutela che avrebbe avuto
a fronte di un provvedimento di autorizzazione rilasciato dalla P.A.
Da ciò discende, ad avviso del Collegio, che l’azione di accertamento in tal
caso sarà sottoposta allo stesso termine di decadenza (di sessanta giorni)
previsto per l’azione di annullamento che il terzo avrebbe potuto esperire se
l’Amministrazione avesse adottato un permesso di costruire. Non si ritiene
applicabile un diverso termine di natura prescrizionale in quanto l’azione,
ancorché di accertamento, non è diretta alla tutela di un diritto soggettivo, ma
di un interesse legittimo.
7.12. Quanto alla decorrenza di tale termine, è utile richiamare la
giurisprudenza amministrativa in merito al dies a quo per impugnare la
concessione edilizia (ora permesso di costruire).
Secondo la tesi tradizionale, al fine della decorrenza del termine per
l'impugnazione di una concessione edilizia rilasciata a terzi, l’effettiva
conoscenza dell'atto si ha quando la costruzione realizzata rivela in modo certo
ed univoco le essenziali caratteristiche dell’opera e l'eventuale non conformità
della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, sicché, in mancanza di
altri ed inequivoci elementi probatori, il termine decorre non con il mero
inizio dei lavori, bensì con il loro completamento, a meno che non si deducano
l'assoluta inedificabilità dell'area o analoghe censure, nel qual caso risulta
sufficiente la conoscenza dell'iniziativa in corso (Consiglio Stato , sez. IV, 8
luglio 2002 , n. 3805).
7.12.1. Mutatis mutandis, deve, allora, ritenersi che il termine decadenziale
per proporre l’azione di accertamento oggetto del presente giudizio sia iniziato
a decorrere solo dal momento in cui le originarie ricorrenti sono venute a
conoscenza della d.i.a. e della lesività dell'intervento edilizio realizzato
sulla base della stessa.
Non assume, pertanto, valore decisivo la circostanza, dedotta dal Comune di
Verona, che le ricorrenti fossero a conoscenza del progetto presentato dalle
signore Scudellari e Lucchi ben oltre i sessanta giorni antecedenti, perché ciò
che rileva, come correttamente osserva il T.a.r., non è la conoscenza del
progetto, ma la conoscenza del titolo sulla cui base l’intervento è realizzato.
Né il dies a quo può essere fatto coincidere con la data in cui i lavori hanno
avuto inizio, in quanto, come la giurisprudenza ha già specificato per
l’impugnazione dei titoli abilitativi edilizi, il termine inizia a decorrere
quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali
caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o
alla disciplina urbanistica, sicché, in mancanza di altri ed inequivoci elementi
probatori, il termine decorre non con il mero inizio dei lavori, bensì con il
loro completamento.
L’eccezione di tardività va, pertanto, respinta.
8. Gli appelli, sia il principale che l’incidentale, devono essere, invece,
accolti nel merito.
8.1. Gli interventi realizzati dalle signore Scudellari e Lucchi Renata
consistono nella realizzazione di posti auto, cancello carraio ed ingresso
pedonale.
Si tratta di opere edilizie che rientrano tra quelle assoggettate a d.i.a.,
senza che possa assumere rilevanza la circostanza, valorizzata invece dal T.a.r.,
che si trattava “di interventi di rilevanti entità e tali comunque da alterare
in modo sensibile il territorio”.
Giova, al riguardo, precisare che i “due bastioni di cemento armato”, cui fa
riferimento l’odierna appellata, erano in realtà rappresentati dal muro di
recinzione e non costituivano, quindi una nuova costruzione soggetto alle
distanze minime tra edifici. I parcheggi, ottenuti a raso, non coperti, non
necessitano, quindi, del permesso di costruire.
8.2. In ordine al nulla osta paesaggistico ambientale, il Collegio rileva che il
provvedimento sia adeguatamente motivato: trattandosi di parere positivo, è,
infatti, sufficiente anche una motivazione succinta che dia atto dell’assenza di
motivi che contrastino con i beni sottoposto a vincolo.
8.3. Infondati sono anche gli altri motivi del ricorso di primo grado, non
esaminati dal T.a.r. e riproposti, sia pure non esplicitamente, in appello.
In particolare, le originarie ricorrenti lamentavano la violazione delle norme
in materia di legittimazione a richiedere il titolo abilitativo o comunque ad
effettuare opere edilizie.
Il motivo è infondato.
Come questo Consiglio ha già avuto modo di rilevare, è facoltà del singolo
condomino eseguire opere che, ancorché incidano su parti comuni dell'edificio,
siano strettamente pertinenti alla sua unità immobiliare, sotto i profili
funzionale e spaziale, con la conseguenza che egli va considerato come soggetto
avente titolo per ottenere a nome proprio l'autorizzazione o la concessione
edilizia relativamente a tali opere (Cons. Stato, sez. Consiglio Stato , sez. V,
9 novembre 1998 , n. 1583).
Va inoltre osservato che ove la realizzazione di opere in attuazione di una
d.i.a. interessino anche il condominio, il mancato assenso di quest'ultimo, la
cui porzione immobiliare inerisce, concerne esclusivamente tematiche
privatistiche, cui resta estranea l'Amministrazione (T.A.R. Veneto, sez. II, 2
luglio 2007 , n. 2139).
9. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello principale proposto
dal Comune di Verona e l’appello incidentale proposto dalle signore Scudellari
Graziella e Lucchi Renata debbono essere accolti; per l’effetto, in riforma
della sentenza appellata, il ricorso di primo grado va respinto.
La complessità delle questioni esaminate giustificano la compensazione integrale
delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente
pronunciando, accoglie l’appello principale e l’appello incidentale; per
l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso proposto in
primo grado.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del 25 novembre 2008 con
l’intervento dei Sigg.ri:
Claudio Varrone Presidente
Paolo Buonvino Consigliere
Aldo Scola Consigliere
Roberto Garofoli Consigliere
Roberto Giovagnoli Consigliere Est. e Rel.
Presidente
CLAUDIO VARRONE
Consigliere
ROBERTO GIOVAGNOLI
Segretario
GLAUCO SIMONINI
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 09/02/2009
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
MARIA RITA OLIVA
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