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CORTE
DI CASSAZIONE Sezioni Unite Penali, 21 gennaio 2009 (Ud. 18/12/2008), n. 2437
DIRITTO SANITARIO - Trattamento chirurgico - Omessa acquisizione del consenso
informato del paziente - Esito fausto dell'intervento eseguito nel rispetto dei
protocolli e delle leges artis
- Rilevanza penale ex artt. 582 e 610 c.p. - Esclusione. Nei casi in cui il
medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in
relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento,
eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso
con esito fausto, nel senso che dall’intervento stesso è derivato un
apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento, anche
alle eventuali alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero indicazioni
contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza
penale, tanto sotto il profilo della fattispecie di cui all’art. 582 cod. pen.,
che sotto quello del reato di violenza privata, di cui all’art. 610 cod. pen..
Presidente T. Gemelli, Relatore A. Macchia, Ric. Mazzini. CORTE DI CASSAZIONE
Sezioni Unite Penali, 21 gennaio 2009 (Ud. 18/12/2008), n. 2437
DIRITTO SANITARIO - Trattamento chirurgico - Mancato consenso del paziente -
Profili di responsabilità. Le “conseguenze” dell’intervento chirurgico ed i
correlativi profili di responsabilità, nei vari settori dell’ordinamento, non
potranno coincidere con l’atto operatorio in sè e con le “lesioni” che esso
“naturalisticamente” comporta, ma con gli esiti che quell’intervento ha
determinato sul piano della valutazione complessiva della salute. Il chirurgo,
in altri termini, non potrà rispondere del delitto di lesioni, per il sol fatto
di essere “chirurgicamente” intervenuto sul corpo del paziente, salvo ipotesi
teoriche di un intervento “coatto”; sibbene, proprio perchè la sua condotta è
rivolta a fini terapeutici, è sugli esiti dell’obiettivo terapeutico che andrà
misurata la correttezza dell’agere, in rapporto, anche, alle regole
dell’arte. E’, quindi, in questo contesto che andrà verificato l’esito, fausto o
infausto, dell’intervento e quindi parametrato ad esso il concetto di
“malattia”. Dunque, non potrà ritenersi integrato il delitto di cui all’art. 582
cod. pen, proprio per difetto del relativo “evento”. In tale ipotesi, che è
quella che ricorre nella specie, l’eventuale mancato consenso del paziente al
diverso tipo di intervento praticato dal chirurgo, rispetto a quello
originariamente assentito, potrà rilevare su altri piani, ma non su quello
penale. Presidente T. Gemelli, Relatore A. Macchia, Ric. Mazzini. CORTE DI
CASSAZIONE Sezioni Unite Penali, 21 gennaio 2009 (Ud. 18/12/2008), n. 2437
DIRITTO SANITARIO - Diritto alla salute - Tutela - Trattamenti sanitari e
assistenza ospedaliera - Diritto pieno e incondizionato costituzionalmente
garantito a prestazioni positive - Art. 32 Cost.. Il bene della salute è
tutelato dall’art. 32, primo comma, della Costituzione, «non solo come interesse
della collettività, ma anche e soprattutto come diritto fondamentale
dell’individuo» (sentenza n. 356 del 1991), che impone piena ed esaustiva tutela
(sentenze n. 307 e 455 del 1990), in quanto «diritto primario e assoluto,
pienamente operante anche nei rapporti tra privati» (sentenze n. 202 del 1991,
n. 559 del 1987, n. 184 del 1986, n. 88 del 1979). Il diritto ai trattamenti
sanitari è dunque tutelato come diritto fondamentale nel suo «nucleo
irrinunciabile del diritto alla salute, protetta dalla Costituzione come ambito
inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di
situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di
quel diritto» (v., fra le altre, sentenze n. 432 del 2005, n. 233 del 2003,
n.252 del 2001, n. 509 del 2000, n. 309 del 1999, n. 267 del 1998). Anche al di
fuori di tale nucleo, d’altra parte, il diritto a trattamenti sanitari «è
garantito a ogni persona come un diritto costituzionale condizionato alla
attuazione che il legislatore ordinario ne dà, attraverso il bilanciamento
dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi
costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso
legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse
organizzative e finanziarie di cui dispone al momento». Ciò comporta che, al
pari di ogni altro diritto costituzionale a prestazioni positive, il diritto a
trattamenti sanitari diviene per il cittadino «pieno e incondizionato» nei
limiti in cui lo stesso legislatore, attraverso una non irragionevole opera di
bilanciamento fra i valori costituzionali e di commisurazione degli obiettivi
conseguentemente determinati sulla falsariga delle risorse esistenti,
predisponga adeguate possibilità di fruizione delle prestazioni sanitaria (C.
Cost. sentenza n. 432 del 2005, n. 304 e 218 del 1994, n. 247 del 1992, n. 455
del 1990). Peraltro, proprio in attuazione del principio del supremo interesse
della collettività alla tutela della salute, consacrata come fondamentale
diritto dell’individuo dall’art. 32 Cost., «l’infermo assurge, nella nuova
concezione della assistenza ospedaliera, alla dignità di legittimo utente di un
pubblico servizio, cui ha pieno ed incondizionato diritto, e che gli vien reso,
in adempimento di un inderogabile dovere di solidarietà umana e sociale, da
apparati di personale e di attrezzature a ciò strumentalmente preordinati e che
in ciò trovano la loro stessa ragion d’essere» (sentenza n. 103 del 1977).
Presidente T. Gemelli, Relatore A. Macchia, Ric. Mazzini. CORTE DI CASSAZIONE
Sezioni Unite Penali, 21 gennaio 2009 (Ud. 18/12/2008), n. 2437
DIRITTO SANITARIO - Diritto alla salute e divieto di trattamenti sanitari
obbligatori - Funzione del consenso informato. Dal divieto di trattamenti
sanitari obbligatori, salvo i casi previsti dalla legge, secondo quanto previsto
dall’art. 32, secondo comma, Cost. e dal diritto alla salute, inteso come
libertà di curarsi, discende che il presupposto indefettibile che “giustifica”
il trattamento sanitario va rinvenuto nella scelta, libera e consapevole – salvo
i casi di necessità e di incapacità di manifestare il proprio volere – della
persona che a quel trattamento si sottopone. (Il «consenso informato, inteso
quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto
dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova
fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e
promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i
quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e
che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non
per disposizione di legge”» Corte costituzionale, sentenza n. 438 del 2008). Ove
manchi o sia viziato il consenso “informato” del paziente, e non si versi in
situazione di incapacità di manifestazione del volere ed in un quadro
riconducibile allo stato di necessità, il trattamento sanitario risulterebbe eo
ipso invasivo rispetto al diritto della persona di prescegliere se, come, dove e
da chi farsi curare. Presidente T. Gemelli, Relatore A. Macchia, Ric. Mazzini.
CORTE DI CASSAZIONE Sezioni Unite Penali, 21 gennaio 2009 (Ud. 18/12/2008),
n. 2437
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UDIENZA 18.12.2008
SENTENZA N.
REG. GENERALE n.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. Un. Penale
Composta dagli Ill.mi Signori
Omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Omissis
Ritenuto in fatto
1. – MAZZINI Roberta, ricoverata nel reparto di ginecologia dell’Ospedale di
Cattolica, il 20 novembre 1997 fu sottoposta dal dott. Nunzio GIULINI ad un
intervento di laparoscopia operativa e, senza soluzione di continuità, a
salpingectomia che determinò l’asportazione della tuba sinistra. Alla stregua
della ricostruzione operata dai giudici del merito, l’intervento demolitorio
risultò essere stato una scelta corretta ed obbligata, eseguita nel rispetto
della lex artis e con competenza superiore alla media; tuttavia, secondo
l’assunto accusatorio, senza il consenso validamente prestato dalla paziente,
informata soltanto della laparoscopia. Secondo i primi giudici, infatti, già in
fase di programmazione della laparoscopia erano prevedibili l’evoluzione di tale
intervento in operativo e l’elevata probabilità di asportazione della salpinge,
la non opportunità dell’interruzione dell’intervento e la mancanza del pericolo
di vita e, quindi, del presupposto dello stato di necessità, ai fini
dell’acquisizione del consenso. L’omissione sarebbe stata da ascrivere, in
ragione della elevata prevedibilità dell’intervento chirurgico, ad una scelta
consapevole e volontaria dell’imputato e non a colpa. Peraltro, ad avviso del
giudice di primo grado, ogni trattamento medico eseguito in assenza di un
consenso valido e specifico, integrerebbe lesione della libertà, garantita
dall’art. 32 della Costituzione, di autodeterminazione della persona circa le
decisioni mediche che la riguardano, comprensiva della facoltà di promuovere un
consulto o di scegliere altre strutture sanitarie. Ciò induceva pertanto il
Tribunale di Rimini a qualificare il reato di lesioni personali volontarie
aggravate, originariamente contestato al GIULINI, come violenza privata, in
ordine al quale ultimo l’imputato stesso veniva ritenuto colpevole e condannato
alla pena di mesi quattro di reclusione, sostituita con la pena di euro 6.000,00
di multa, con il beneficio della sospensione condizionale della pena.
Proposto appello da parte dell’imputato, la Corte di appello di Bologna, con
sentenza del 5 febbraio 2007, ha reputato contraddittoria ed insufficiente la
prova in ordine all’acquisizione del consenso informato della MAZZINI; sicché,
esclusa, da un lato, la ricorrenza della esimente dello stato di necessità e
respinta, dall’altro lato, la tesi difensiva secondo la quale è lecito ogni
intervento medico compiuto in mancanza di espresso dissenso, ha rilevato
l’intervenuta prescrizione del reato – così come qualificato nella sentenza di
primo grado – revocando le statuizioni civili, disposte in quella stessa
sentenza, stante l’assenza di una prova idonea circa la commissione del fatto.
2. – Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione i
difensori dell’imputato e della parte civile MAZZINI Roberta. La parte civile si
duole, in estrema sintesi, della revoca delle statuizioni civili, deducendo
inosservanza di legge e vizi motivazionali, per essere stato a proprio avviso
disatteso un dato fattuale certo (l’omessa acquisizione del consenso informato,
accertata attraverso la deposizione della persona offesa e dei suoi familiari,
ritenuti dalla stessa Corte territoriale pienamente attendibili) con il ricorso
ad una mera presunzione (quella desunta dalla «prassi informativa» cui ha fatto
riferimento una infermiera) e ad un elemento sicuramente insufficiente (tratto
dalla deposizione dell’aiuto medico).
Nel ricorso proposto nell’interesse dell’imputato si deduce, quale primo motivo,
vizio di motivazione in riferimento al mancato proscioglimento nel merito,
giacché, da un lato, andrebbe privilegiato l’orientamento che ritiene
applicabile il secondo comma dell’art. 129 cod. proc. pen., anche nei casi in
cui la prova della responsabilità sia insufficiente o contraddittoria;
dall’altro, la mancata adozione di una formula di merito sarebbe in contrasto
con la determinazione di revocare le statuizioni civili; infine – sottolinea il
ricorso - i giudici dell’appello avrebbero omesso di fornire risposta adeguata
circa la doglianza relativa alla esimente dello stato di necessità, quanto meno
a livello putativo. Si lamenta, poi, mancata assunzione di una prova decisiva,
in riferimento alla richiesta di assunzione di testi e consulenti, al fine di
contrastare l’assunto relativo alla non ricorrenza – reale o putativa - della
esimente dello stato di necessità, e si prospetta, infine, violazione di legge
in riferimento alla laconica asserzione per la quale i giudici a quibus
avrebbero disatteso la fondatezza dell’orientamento giurisprudenziale secondo il
quale sarebbe lecito ogni intervento medico compiuto in mancanza di un espresso
dissenso del paziente. Con successive, diffuse note, i difensori dell’imputato
hanno svolto articolate deduzioni volte a contestare la sussistenza, nella
ipotesi di specie, del reato di violenza privata e per ribadire, al contrario,
la ricorrenza della scriminante dello stato di necessità.
3. – La Quinta Sezione penale di questa Corte, cui i ricorsi erano stati
assegnati, avendo ravvisato la sussistenza di un contrasto di giurisprudenza sui
temi coinvolti , ha rimesso, a norma dell’art. 618 cod. proc. pen., a queste
Sezioni Unite la decisione sui ricorsi medesimi, con ordinanza pronunciata il 1
ottobre 2008, ritenendo pregiudiziale la risoluzione del quesito se abbia o meno
rilevanza penale, e, nel caso di risposta affermativa, quale ipotesi delittuosa
configuri la condotta del sanitario che in assenza di consenso informato del
paziente, sottoponga il medesimo ad un determinato trattamento chirurgico nel
rispetto delle “regole dell’arte” e con esito fausto. Quanto al primo aspetto –
osserva la Sezione rimettente – si registrano due diversi orientamenti . Secondo
una parte della giurisprudenza, infatti, il consenso del paziente fungerebbe da
indefettibile presupposto di liceità del trattamento medico, con la conseguenza
che la mancanza di un consenso opportunamente “informato” del malato, o la sua
invalidità per altre ragioni, determinerebbe la arbitrarietà del trattamento
medico e la sua rilevanza penale, salvo le ipotesi in cui ricorra lo stato di
necessità ovvero se specifiche previsioni di legge autorizzino il trattamento
sanitario obbligatorio ai sensi dell’art. 32 Cost. Secondo altro orientamento,
invece, in ambito giuridico, in genere, e penalistico in particolare, la volontà
del paziente svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia espressa in forma
negativa, essendo il medico – allo stato del quadro normativo attuale –
“legittimato” a sottoporre il paziente affidato alle sue cure al trattamento
terapeutico che giudica necessario alla salvaguardia della salute dello stesso
anche in assenza di un esplicito consenso, con conseguente irrilevanza del
problema della esistenza di eventuali scriminanti, in quanto è da escludere “in
radice” che la condotta del medico che intervenga in mancanza di consenso
informato possa corrispondere alla fattispecie astratta di un reato. Quanto,
poi, al tipo di reato eventualmente ipotizzabile, secondo una prima
interpretazione il medico, che intervenga su un paziente in assenza di congruo
interpello, risponde di lesioni volontarie, pur quando l’esito dell’intervento
sia favorevole. Ciò in quanto qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito
a scopo di cura e con esito fausto, implica necessariamente il compimento di
atti che nella loro materialità integrano il concetto di malattia di cui
all’art. 582 cod. pen.; precisandosi che il criterio di imputazione soggettiva
dovrà essere invece colposo, qualora il sanitario agisca nella convinzione, per
negligenza o imprudenza, della esistenza del consenso. Secondo altro indirizzo,
invece, l’arbitrarietà dell’intervento – che non potrà mai realizzare il delitto
di lesioni, essendo il trattamento medico chirurgico volto a rimuovere e non a
cagionare una malattia – può assumere rilevanza penale solo come attentato alla
libertà individuale del paziente e rendere perciò configurabile esclusivamente
il delitto di violenza privata. Il tutto – conclude l’ordinanza di rimessione -
non senza evocare la sussistenza di tesi intermedie, quale quella di ravvisare
la sussistenza dell’indicato delitto nel caso di trattamento non chirurgico, o
quella di ritenere che la violenza privata sia configurabile nella sola ipotesi
di trattamento chirurgico eseguito in presenza di un espresso, libero e
consapevole rifiuto del paziente.
Considerato in diritto
1. – Va preliminarmente dichiarata la inammissibilità del ricorso proposto dalla
parte civile. In esso, infatti, la ricorrente si è limitata a proporre una
critica, che non ha riguardato la conformità o meno dei parametri di delibazione
del compendio probatorio adottati dai giudici a quibus rispetto al
modello legale, o la effettiva coerenza del tessuto argomentativo svolto sul
punto nella sentenza impugnata, ma i risultati cui il motivato ragionamento
probatorio ha condotto. In tal modo devolvendosi, quindi, a questa Corte,
null’altro che un nuovo sindacato di merito, che le è precluso. La sentenza
impugnata, infatti, ha più che congruamente dato conto delle ragioni per le
quali, a fronte di variegate ricostruzioni testimoniali, tutte puntualmente
delibate, sia sul piano della relativa attendibilità, che delle reciproche,
contrapposte conferme, ha ritenuto nella sostanza non provata con certezza la
circostanza che della possibile necessità di un intervento di asportazione della
salpinge fosse stata adeguatamente resa edotta la paziente. Le censure
prospettate si rivelano, pertanto, inconferenti. Alla declaratoria di
inammissibilità del ricorso segue, pertanto, la condanna della ricorrente al
pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di
una somma che si stima equo determinare in euro mille, alla luce dei principi
affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.
2. – Di diverso spessore sono, invece, le questioni che coinvolge il ricorso
dell’imputato. L’enunciazione plurima e alternativa del quesito, sul quale
queste Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi, evoca, infatti, già di
per sè, pur nel circoscritto ambito della peculiare fattispecie che ha
contrassegnato l’iter del procedimento, la varietà dei piani su cui occorre
soffermarsi ed il delicato concatenarsi delle problematiche coinvolte. La
questione da esaminare riguarda il quesito se abbia o meno rilevanza penale,
sotto il profilo delle fattispecie di lesioni personali o di violenza privata,
la condotta del medico che sottoponga il paziente, in mancanza di valido
consenso informato, ad un trattamento chirurgico, pure eseguito nel rispetto dei
protocolli e delle leges artis e conclusosi con esito fausto.
Si tratta di problematica antica, mai univocamente risolta, anche perché
coinvolgente una gamma di questioni ad essa intimamente correlate, quali: il
fondamento giuridico e di legittimazione della attività medico-chirurgica; il
concetto di malattia che in relazione ad essa deve venire in rilievo; il valore
che, nel sistema, occorre riconoscere al consenso informato del paziente, alla
luce dei principi che, fra le altre, le fonti di rango costituzionale,
legislativo e deontologico dettano al riguardo, prendendo in considerazione il
bene della salute come diritto della persona.
D’altra parte, le disposizioni dettate dal codice penale del 1930, anche a voler
prescindere dai limiti insiti in un sistema punitivo precostituzionale,
contrassegnato dalla peculiare visione derivante dall’assetto
politico-istituzionale dell’epoca, si rivelano palesemente incongrue al fine di
individuare equilibrate soluzioni atte a fornire risposta a tutte le esigenze di
tutela che le varie ipotesi di fatto possono presentare. Non senza sottolineare,
per altro verso, come il presidio penale non possa che profilarsi, nella platea
dei possibili rimedi astrattamente ipotizzabili, quale extrema ratio, a
fronte, ad esempio, di eventuali meccanismi sanzionatori alternativi, operanti
sul terreno civilistico-risarcitorio o anche amministrativo-disciplinare.
Ciò spiega, da un lato, l’ampio ventaglio di tesi dottrinarie e
giurisprudenziali che si sono misurate sui vari aspetti della responsabilità del
medico e sulla tematica del consenso informato: talora – è necessario
riconoscerlo - con evidenti torsioni ermeneutiche, spintesi ai limiti estremi
della compatibilità con il principio di tassatività che deve presiedere alla
“costruzione” ed alla configurazione delle fattispecie penali; e, dall’altro
lato, si chiarisce la ratio di fondo che ha sostenuto i tentativi –
condotti anch’essi da giurisprudenza e dottrina – volti ad evitare , per un
verso, eccessi di “penalizzazione” o di “burocratizzazione” della attività
medica, ma al tempo stesso attenti a ricercare soluzioni ermeneutiche che si
presentassero in linea con la (in sè condivisibile) intentio di non
lasciare senza effettiva tutela condotte riguardabili come “dannose” da chi è
stato sottoposto al trattamento sanitario: e ciò non necessariamente in ragione
soltanto dell’esito infausto dello stesso.
Soffermarsi, dunque, sulle più significative sentenze di questa Corte, per
analizzarne le varie rationes e gli approdi cui le stesse sono pervenute
a proposito dei numerosi “nodi” che la questione sottoposta a queste Sezioni
unite coinvolge, rappresenta la ineludibile premessa, per focalizzare i temi sui
quali è indispensabile fornire univoca risposta.
3. – La prima sentenza che si è soffermata ex professo sul tema del
trattamento medico-chirurgico e del consenso informato del paziente, è stata la
nota sentenza Massimo (Cass., Sez. V, 21 aprile 1992, n. 5639, Massimo), oggetto
di diffusi rilievi, prevalentemente critici, svolti da larga parte della
dottrina. Tale sentenza ha in particolare affermato il principio per il quale il
chirurgo che, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, sottopone il
paziente ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello meno
cruento e comunque di più lieve entità del quale lo abbia informato
preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di
lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità
pur sempre curativa della sua condotta; sicchè egli risponde del reato di
omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni derivi la morte.
Aderendo, dunque, alla tesi secondo la quale soltanto il consenso, quale
manifestazione di volontà di disporre del proprio corpo, può escludere in
concreto la antigiuridicità del fatto e rendere questo legittimo. Da un lato,
infatti, occorreva assegnare il dovuto risalto alla circostanza che l’art. 39
del codice di deontologia medica allora vigente stabiliva che il consenso del
paziente deve obbligatoriamente essere richiesto per ogni atto medico;
dall’altro, doveva pure rammentarsi che, in tema di trattamento medico
chirurgico, l’antigiuridicità della lesione provocata, poteva, indipendentemente
dal consenso, essere esclusa soltanto dalla presenza di cause di
giustificazione; negandosi al tempo stesso validità alla tesi secondo la quale
quella attività rinverrebbe copertura in cause di giustificazione non
codificate, riferite alla finalità, pur sempre terapeutica, perseguita dal
chirurgo. Sottolineava la richiamata sentenza che «se il trattamento, eseguito a
scopo non illecito, abbia esito sfavorevole, si deve, pur sempre, distinguere
l’ipotesi in cui esso sia consentito dall’ipotesi in cui il consenso invece non
sia prestato. E si deve ritenere che se il trattamento non consentito ha uno
scopo terapeutico, e l’esito sia favorevole, il reato di lesioni sussiste, non
potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il proprio stato attuale
(art. 32, comma 2, Cost.), e che, a fortiori, il reato sussiste ove l’esito sia
sfavorevole». Nel contrastare, poi, la tesi sostenuta dal ricorrente, secondo la
quale l’oggetto di tutela dell’art. 50 cod. pen. sarebbe limitato alla libertà
di autodeterminazione, con conseguente possibilità di ritenere configurabile, in
relazione al trattamento medico eseguito senza il consenso, il reato di cui
all’art. 610 cod. pen., la medesima sentenza ha precisato che «la formulazione
di ordine generale del principio sancito dalla norma, non autorizza l’esclusione
della protezione del diritto alla integrità fisica (tra molti altri) e, semmai,
soltanto il trattamento medico senza il consenso che pur sempre non cagioni
lesioni potrebbe far ipotizzare fatti di violenza privata».
A conclusioni diverse perviene la successiva sentenza Barese (Cass., Sez. IV, 9
marzo 2001, n. 28132), ove si è affermato che, in tema di trattamento
medico-chirurgico, qualora, in assenza di urgente necessità, venga eseguita una
operazione chirurgica demolitiva, senza il consenso del paziente, prestato per
un intervento di dimensioni più ridotte rispetto a quello poi eseguito, che ne
abbia determinato la morte, non è configurabile il reato di omicidio
preterintenzionale, poichè, per integrare quest’ultimo, si richiede che l’agente
realizzi consapevolmente ed intenzionalmente una condotta diretta a provocare
una alterazione lesiva dell’integrità fisica della persona offesa. La disamina
si concentra, dunque, essenzialmente sull’elemento soggettivo, giacchè «se è
vero che la connotazione finalistica della condotta (la finalità terapeutica) è
irrilevante – non essendo richiesto il dolo specifico per i reati di lesioni
volontarie e percosse – è altrettanto vero che la formulazione dell’art. 584
cod. pen. (“atti diretti a”) fa propendere per la tesi, non da tutti condivisa,
che l’elemento soggettivo richiesto per l’omicidio preterintenzionale, quanto
all’evento voluto, sia costituito dal dolo diretto o intenzionale con esclusione
quindi del dolo eventuale».
D’altra parte – ha puntualizzato ancora la pronuncia in esame - se è vero che l’intentio
del medico mal si concilia con l’atteggiamento di chi persegue sin
dall’inizio una volontà lesiva, neppure sarebbe lecito affermare che il fine
terapeutico escluda siffatta volontà, giacchè, in tale ipotesi, si
presupporrebbe l’esistenza di un dolo specifico, al contrario non richiesto
dalla norma. Al tempo stesso, soggiunge la sentenza, «affermare l’intenzionalità
della condotta, ogni volta che non vi sia il consenso del paziente, significa,
in realtà, confondere il problema della natura del dolo richiesto per la
fattispecie criminosa in esame con l’esistenza della scriminante costituita dal
consenso dell’avente diritto». Quanto, poi, all’elemento psicologico del reato
di lesioni volontarie, la sentenza afferma che «si avrà l’elemento soggettivo
del delitto di lesioni volontarie, in tutti i casi in cui il chirurgo, o il
medico, pur animato da intenzioni terapeutiche, agisca essendo conscio che il
suo intervento produrrà una non necessaria menomazione dell’integrità fisica o
psichica del paziente. E poichè – afferma la richiamata pronuncia – l’omicidio
preterintenzionale si configura anche se la condotta è diretta a commettere il
delitto di percosse, non può escludersi, in astratto, anche se appare difficile
immaginare il concreto verificarsi di queste ipotesi, che l’evento morte non
voluto sia conseguente ad una condotta diretta, non a provocare una malattia nel
corpo o nella mente, ma ad una condotta qualificabile come percossa».
Alla luce di tale ricostruzione, il consenso del paziente verrebbe ad essere
ricondotto nel novero delle scriminanti, che, ad avviso della dottrina
prevalente, escludono la antigiuridicità della condotta; sicchè, sarebbe lecito
l’assunto secondo il quale il consenso stesso «per un verso precluda la
possibilità di configurare il delitto di lesioni volontarie, ma solo nel caso di
consenso validamente espresso nei limiti dell’art. 5 cod. civ., per l’efficacia
scriminante attribuita dall’art. 50 cod pen. al consenso della persona che può
validamente disporre del diritto; per altro verso, che, in presenza di ragioni
di urgenza terapeutica, o nelle ipotesi previste dalla legge, il consenso non
sia necessario». A sua volta, e sempre che non ricorrano le condizioni per
ritenere sussistente lo stato di necessità – che varrebbe ad escludere, anche
nella ipotesi di dissenso espresso il dolo diretto di lesioni, posto che il
medico, nell’intervenire malgrado il dissenso del paziente, mira comunque a
salvaguardarne la vita e la salute poste in pericolo - «l’esplicito dissenso del
paziente rende l’atto, asseritamente terapeutico, un’indebita violazione non
solo della libertà di autodeterminazione del paziente ma anche della sua
integrità, con conseguente applicazione delle ordinarie regole penali».
Puntualizza ancora la stessa sentenza, la circostanza che la condotta del medico
sia orientata a tutelare la salute del paziente e non a cagionare menomazioni
della sua integrità, fisica o psichica, permette di «escludere l’intenzionalità
della condotta nei casi, non infrequenti, nei quali il medico, nel corso
dell’intervento chirurgico, rilevi la presenza di una situazione che, pur non
essendo connotata da aspetti di urgenza terapeutica, potendo essere affrontata
in tempi diversi, venga invece affrontata immediatamente senza il consenso del
paziente; per es. per evitargli un altro intervento e altri successivi disagi o
anche soltanto per prevenire pericoli futuri». In tale ultima ipotesi – che
assume uno specifico interesse ai fini dell’odierno scrutinio - la medesima
sentenza ritiene non configurabile il reato di cui all’art. 610 cod. pen.,
giacchè una simile costruzione rinverrebbe un «ostacolo difficilmente superabile
nella previsione della necessità che la condotta dell’agente consista in
violenza o minaccia. Quest’ultima sembra proprio da escludere, mentre la
violenza potrebbe forse ipotizzarsi nei soli casi di dissenso espresso del
paziente al trattamento chirurgico».
L’asse delle riflessioni sembra in parte mutare nella sentenza Sez. IV, 27 marzo
2001, n. 36519, Cicarelli, anche se la portata delle affermazioni che vi
compaiono risulta fortemente condizionata dalle peculiarità del caso di specie,
nel quale ad un sanitario si addebitava, fra l’altro, di aver praticato un tipo
di anestesia diverso da quello preferibile secondo la lex artis, ma per
il quale il paziente aveva revocato il proprio consenso. In particolare, si
evidenzia come la liceità della condotta del medico, che si caratterizza per le
finalità terapeutiche che ne contraddistinguono l’agere, non possa
trovare «significanza solo nel consenso entro ovvero oltre la categoria di cui
all’art. 50 c.p., ma in coerenza con il principio da esso enunciato». Dunque,
«l’agire del chirurgo sulla persona del paziente contro la volontà di costui,
salvo l’imminente pericolo di morte o di danno sicuramente irreparabile ad esso
vicino, non altrimenti superabile, esita in una condotta illecita capace di
configurare più fattispecie di reato, quali violenza privata (art. 610 c.p., la
violenza essendo insita nella violazione della contraria volontà), lesione
personale dolosa (art. 582 c.p.) e, nel caso di morte, omicidio
preterintenzionale (art. 584 c.p.)». Ciò che rileva è la violazione del divieto
di manomissione del corpo dell’uomo e, quindi, «la violazione consapevole del
diritto della persona a preservare la sua integrità fisica nell’attualità – come
è ora, a nulla valendo, in simile situazione, il rilievo che questa possa
essere, eventualmente, migliorata – e il rispetto della sua determinazione a
riguardo del suo corpo», in aderenza al principio personalista della nostra
Costituzione, nella specie contrassegnato dagli artt. 2 e 32, secondo comma.
Donde l’assunto per il quale «il medico chirurgo non può manomettere l’integrità
fisica del paziente, salvo pericolo di vita o di altro danno irreparabile
altrimenti non ovviabile, quando questi abbia espresso dissenso».
Nella sentenza Sez. IV, 11 luglio 2001, n. 35822, Firenzani, trova eco, in campo
penale, la tesi – già da tempo affermatasi nella giurisprudenza civile – secondo
la quale l’attività medica rinverrebbe la propria autolegittimazione dagli artt.
13 e 32 della Costituzione, giacchè «sarebbe riduttivo [...] fondare la
legittimazione della attività medica sul consenso dell’avente diritto (art. 50
c.p.) che incontrerebbe spesso l’ostacolo di cui all’art. 5 c.c., risultando la
stessa di per sè legittima, ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente
garantito, quale il bene della salute, cui il medico è abilitato dallo Stato»;
ferma restando la necessità del consenso debitamente informato del paziente,
anch’esso costituzionalmente presidiato (cfr, fra le tante, Cass., Sez. III
civ., 25 novembre 1994, n. 10014; Sez. III civ., 15 gennaio 1997, n. 364, nonchè,
più di recente, Sez. I civ., 16 ottobre 2007, n. 21748; Sez. III civ., 28
novembre 2007, n. 24742; Sez. III civ., 15 settembre 2008, n. 23676).
Nell’affermare gli identici principi, la sentenza Firenzani sottolinea che la
«legittimità in sè dell’attività medica richiede per la sua validità e la sua
concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il
quale costituisce presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico»,
afferendo, esso, alla libertà morale del soggetto e dalla sua
autodeterminazione, nonchè alla sua libertà fisica, intesa come diritto al
rispetto della propria integrità corporea: tutti profili riconducibili al
concetto di libertà della persona, tutelato dall’art. 13 Cost. Non sarebbe
dunque configurabile, in capo al medico, un “diritto di curare” come espressione
di una posizione soggettiva qualificata, derivante dalla abilitazione
all’esercizio della professione, giacchè essa, per potersi estrinsecare,
comporta di regola il consenso della persona che deve sottoporsi al trattamento
sanitario, salvo i casi di trattamento obbligatorio ex lege, o le ipotesi
di incapacità a prestare il consenso o di stato di necessità. Pertanto «la
mancanza del consenso (opportunamente informato) del malato o la sua invalidità
per altre ragioni, determina l’arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e
la sua rilevanza penale, in quanto posto in violazione della sfera personale del
soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul
proprio corpo».
Quanto, poi, alle ipotesi delittuose di carattere doloso astrattamente
configurabili, le stesse potranno rinvenirsi negli artt. 610, 613 e 605 cod. pen.,
nel caso di trattamento terapeutico non chirurgico; nel caso, invece, di
intervento chirurgico, il reato ipotizzabile è quello previsto dall’art. 582
cod. pen., perchè «qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di
cura e con esito “fausto”, implica necessariamente il compimento di atti che
nella loro materialità estrinsecano l’elemento oggettivo di detto reato, ledendo
l’integrità corporea del soggetto», avuto riguardo al diritto di ciascuno di
privilegiare il proprio stato attuale. «Il criterio di imputazione dovrà essere,
invece, di carattere colposo – conclude la sentenza – qualora il sanitario, in
assenza di valido consenso dell’ammalato, abbia effettuato l’intervento
terapeutico nella convinzione, per negligenza o imprudenza a lui imputabile,
della esistenza del consenso».
La medesima linea prosegue, con ulteriori apporti argomentativi, anche nella
sentenza della Sez. I, 29 maggio 2002, n. 26446, P.G. in proc. Volterrani, nella
quale si afferma il principio secondo il quale in tema di attività
medico-chirurgica (in mancanza di attuazione della delega di cui all’art. 3
della legge 28 marzo 2001, n. 145, con la quale è stata ratificata la
Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 sui diritti dell’uomo e sulla
biomedicina), deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato ad effettuare
il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute
del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso,
dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto
eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorchè l’omissione
dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di
salute dell’infermo e, persino, la sua morte. In tale ultima ipotesi – ha
puntualizzato la sentenza – qualora il medico effettui ugualmente il trattamento
rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata ma non –
nel caso in cui il trattamento comporti lesioni chirurgiche ed il paziente muoia
– il diverso e più grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi
ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali all’intervento terapeutico,
possano rientrare nella previsione di cui all’art. 582 cod. pen. Infatti,
l’attività strumentale posta in essere dal chirurgo – quale l’incisione della
cute – è priva di una propria autonomia funzionale, rappresentando null’altro
che «un passaggio obbligato verso il raggiungimento dell’obiettivo principale
dell’intervento, quello di liberare il paziente dal male che lo affligge». Tale
attività si inserirebbe dunque «a pieno titolo, nell’esercizio dell’azione
terapeutica in senso lato, che corrisponde all’alto interesse sociale di cui si
è detto, interesse che lo Stato tutela in quanto attuazione concreta del diritto
alla salute riconosciuto a ogni individuo, per il bene di tutti, dall’art. 32
della Costituzione della Repubblica e lo fa autorizzando, disciplinando e
favorendo la creazione, lo sviluppo ed il perfezionamento degli organismi,delle
strutture e del personale occorrente. Per ciò stesso questa azione, ove
correttamente svolta, è esente da connotazioni di antigiuridicità, anche quando
abbia un esito infausto».
A proposito, poi, della sussistenza – nel caso di specie – della scriminante
dello stato di necessità di cui all’art. 54 cod. pen., la stessa pronuncia
rileva come nella pratica sanitaria, in genere, e di quella chirurgica, in
specie, salvo le ipotesi in cui non ricorra l’intento di tutela della salute
propriamente intesa, l’attività stessa sarebbe «sempre obbligata, per non dire
forzata. Il chirurgo preparato, coscienzioso, attento e rispettoso dei diritti
altrui non opera per passare il tempo o sperimentare le sue capacità: lo fa
perchè non ha scelta, perchè quello è l’unico giusto modo di salvare la vita del
paziente o almeno migliorane la qualità». Donde l’assunto per il quale sarebbe
ravvisabile uno stato di necessità ontologicamente intrinseco alla attività
terapeutica, con la conseguenza che «quando il giudice del merito riconosca in
concreto il concorso di tutti i requisiti occorrenti per ritenere l’intervento
chirurgico eseguito con la completa e puntuale osservanza delle regole proprie
della scienza e della tecnica medica, deve, solo per questa ragione, anche senza
fare ricorso a specifiche cause di liceità codificate, escludere comunque ogni
responsabilità penale dell’imputato, cui sia stato addebitato il fallimento
della sua opera».
La giurisprudenza più recente sembra abbandonare le posizioni più estreme – fra
quelle sin qui passate in rassegna - per collocarsi in linea con i principi
codificati nelle massime, per così dire, intermedie. Così, nella sentenza della
Sez. VI, 14 febbraio 2006, n. 11640, Caneschi, si ribadisce il principio secondo
cui «l’attività medica richiede per la sua validità e concreta liceità la
manifestazione del consenso del paziente, che non si identifica con quello di
cui all’art. 50 c.p., ma costituisce un presupposto di liceità del trattamento»;
derivandone da ciò che la mancanza o la invalidità del consenso «determinano la
arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e, quindi, la sua rilevanza
penale, in quanto compiuto in violazione della sfera personale del soggetto e
del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio
corpo».
Più articolato, anche se non perviene ad approdi sostanzialmente innovativi, si
presenta il percorso motivazionale che caratterizza la sentenza della Sez. IV,
16 gennaio 2008, n. 11335, p.c. in proc. Huscer, ove si ribadisce, in massima,
che, in tema di trattamento medico-chirurgico, qualora, in mancanza di un valido
consenso informato ovvero in presenza di un consenso prestato per un trattamento
diverso, il chirurgo esegua un intervento da cui derivi la morte del paziente,
non è configurabile il reato di omicidio preterintenzionale, poichè la finalità
curativa comunque perseguita dal medico deve ritenersi concettualmente
incompatibile con la consapevole intenzione di provocare un’alterazione lesiva
della integrità fisica della persona offesa invece necessaria per l’integrazione
degli atti diretti a commettere il reato di lesioni richiesti dall’art. 584 cod.
pen. Dunque, il consenso espresso da parte del paziente a seguito di una
informazione completa sugli effetti e le possibili controindicazioni di un
intervento chirurgico, è vero e proprio presupposto di liceità dell’attività del
medico che somministra il trattamento, al quale non è attribuibile un generale
diritto di curare a prescindere dalla volontà dell’ammalato. Il medico, infatti,
di regola e al di fuori di taluni casi eccezionali (allorchè il paziente non sia
in grado per le sue condizioni di prestare il proprio consenso o dissenso,
ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità
di cui all’art. 54 cod. pen.), non può intervenire senza il consenso o malgrado
il dissenso del paziente. In questa prospettiva, il consenso, per legittimare il
trattamento terapeutico, deve essere informato, cioè espresso a seguito di una
informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della
terapia o dell’intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e la
puntualizzazione della gravità degli effetti del trattamento. Il consenso
informato, infatti, ha come contenuto concreto la facoltà, non solo di scegliere
tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente di
rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le
fasi della vita, anche quella terminale. Tale conclusione, fondata sul rispetto
del diritto del singolo alla salute, tutelato dall’art. 32 della Costituzione
(per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi
espressamente previsti dalla legge), sta a significare che il criterio di
disciplina della relazione medico-malato è quello della libera disponibilità del
bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e
volitive, secondo una totale autonomia di scelte, che può comportare il
sacrificio del bene stesso della vita e che deve sempre essere rispettata dal
sanitario. Peraltro da tutto ciò «non può farsi discendere la conseguenza che
dall’intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in
modo invalido si possa sempre profilare la responsabilità a titolo di omicidio
preterintenzionale, in caso di esito letale, ovvero a titolo di lesioni
volontarie», giacchè il contenuto dell’elemento soggettivo di tali reati non è
di norma configurabile rispetto alla attività del medico, mentre «il consenso
eventualmente invalido perchè non consapevolmente prestato non può ex se
importare l’addebito a titolo di dolo».
Il medesimo ordine di idee è stato infine ribadito anche dalla sentenza Sez. IV,
24 giugno 2008, n. 37077, Ruocco, intervenuta, peraltro, su una ipotesi di
prescrizione di farmaci off label: vale a dire, la somministrazione di
medicinali per finalità terapeutiche diverse da quelle riconosciute ai farmaci
stessi. In tale sentenza si è, da un lato, confermato il fondamento
costituzionale del criterio di disciplina della relazione medico-malato, ed è
stato, dall’altro lato, ancora una volta escluso che dalla mancanza di valido
consenso possa farsi discendere la responsabilità del medico a titolo di lesioni
volontarie, o, nel caso di morte, di omicidio preterintenzionale. E ciò perchè
il sanitario si trova ad agire con una finalità curativa «che è concettualmente
incompatibile con il dolo delle lesioni»; salvo che si versi in situazioni
anomale e distorte, «nelle quali potrebbe ammettersi la configurabilità di tali
reati: per esempio, nei casi in cui la morte consegua ad una mutilazione
procurata in assenza di qualsiasi necessità o di menomazione inferta, con esito
mortale, per scopi esclusivamente scientifici». La valutazione penalistica del
comportamento del medico, che abbia cagionato un danno per il paziente, non
subisce variazioni a seconda che l’attività sia stata svolta con o in assenza
del consenso: «il giudizio sulla sussistenza della colpa e quello sulla
causalità tra la condotta colposa e l’evento dannoso non presenta differenze di
sorta a seconda che vi sia stato o non il consenso informato del paziente». Da
tutto ciò il corollario conclusivo, secondo il quale il consenso informato del
paziente alla somministrazione del trattamento sanitario non può costituire, ove
lo stesso trattamento abbia cagionato delle lesioni, un elemento per affermare
la responsabilità a titolo di colpa di quest’ultimo, a meno che la mancata
sollecitazione del consenso gli abbia impedito di acquisire la necessaria
conoscenza delle condizioni del paziente medesimo (sulla libertà di
autodeterminazione del paziente, come limite al dovere medico di intervenire, v.
Cass., Sez. IV, 4 luglio 2005, n. 38852, p.m. in proc. Del Re; Cass., Sez. IV,
23 gennaio 2008, n. 16375, p.c. in proc. Di Domenico. Per una posizione volta a
privilegiare la possibilità di risolvere i casi in cui l’atto medico è affetto
da vizi del consenso, facendo ricorso agli istituti della cosiddetta colpa
impropria, attraverso la utilizzazione delle «categorie dell’erronea
supposizione della causa di giustificazione (art. 59, c. 4, c.p.) e dell’eccesso
colposo nella causa stessa (art. 55 c.p.)», v. Cass., Sez. V, 16 settembre 2008,
n. 40252, Beretta).
4. – Dalla disamina testè compiuta emerge, dunque, come primo dato di
riflessione, il sostanziale recepimento in sede penale della tesi civilistica
della cosiddetta autolegittimazione della attività medica, la quale rinverrebbe
il proprio fondamento, non tanto nella scriminante tipizzata del consenso
dell’avente diritto, come definita dall’art. 50 cod. pen., quanto nella stessa
finalità, che le è propria, di tutela della salute, come bene costituzionalmente
garantito. Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale ha da tempo messo in
luce la circostanza che il bene della salute è tutelato dall’art. 32, primo
comma, della Costituzione, «non solo come interesse della collettività, ma anche
e soprattutto come diritto fondamentale dell’individuo» (sentenza n. 356 del
1991), che impone piena ed esaustiva tutela (sentenze n. 307 e 455 del 1990), in
quanto «diritto primario e assoluto, pienamente operante anche nei rapporti tra
privati» (sentenze n. 202 del 1991, n. 559 del 1987, n. 184 del 1986, n. 88 del
1979). Il diritto ai trattamenti sanitari è dunque tutelato come diritto
fondamentale nel suo «nucleo irrinunciabile del diritto alla salute, protetta
dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone
di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto
pregiudicare l’attuazione di quel diritto» (v., fra le altre, sentenze n. 432
del 2005, n. 233 del 2003, n.252 del 2001, n. 509 del 2000, n. 309 del 1999, n.
267 del 1998). Anche al di fuori di tale nucleo, d’altra parte, il diritto a
trattamenti sanitari «è garantito a ogni persona come un diritto costituzionale
condizionato alla attuazione che il legislatore ordinario ne dà, attraverso il
bilanciamento dell’interesse tutelato da quel diritto con gli altri interessi
costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi che lo stesso
legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle risorse
organizzative e finanziarie di cui dispone al momento». Ciò comporta che, al
pari di ogni altro diritto costituzionale a prestazioni positive, il diritto a
trattamenti sanitari diviene per il cittadino «pieno e incondizionato» nei
limiti in cui lo stesso legislatore, attraverso una non irragionevole opera di
bilanciamento fra i valori costituzionali e di commisurazione degli obiettivi
conseguentemente determinati sulla falsariga delle risorse esistenti,
predisponga adeguate possibilità di fruizione delle prestazioni sanitaria (cfr.,
ex plurimis, sentenza n. 432 del 2005, n. 304 e 218 del 1994, n. 247 del 1992,
n. 455 del 1990). Peraltro, proprio in attuazione del principio del supremo
interesse della collettività alla tutela della salute, consacrata come
fondamentale diritto dell’individuo dall’art. 32 Cost., «l’infermo assurge,
nella nuova concezione della assistenza ospedaliera, alla dignità di legittimo
utente di un pubblico servizio, cui ha pieno ed incondizionato diritto, e che
gli vien reso, in adempimento di un inderogabile dovere di solidarietà umana e
sociale, da apparati di personale e di attrezzature a ciò strumentalmente
preordinati e che in ciò trovano la loro stessa ragion d’essere» (sentenza n.
103 del 1977).
In tale quadro di riferimento, dunque, sarebbe davvero eccentrico continuare a
rinvenire nella sola scriminante del consenso dell’avente diritto, di cui
all’art. 50 cod. pen., la base di semplice “non antigiuridicità” della condotta
del medico; e ciò anche senza evocare le problematiche frizioni che una
siffatta, angusta prospettiva, potrebbe comportare rispetto ai limiti tracciati
dall’art. 5 del codice civile, il cui archetipo e la cui ratio di norma
precostituzionale, si saldavano all’esigenza di circoscrivere il diritto
dell’individuo di poter fare illimitato “mercimonio” del proprio corpo. E’
infatti significativa, a tal proposito, la circostanza che la Corte
costituzionale, nella sentenza n. 471 del 1990, nella quale ebbe a dichiarare la
illegittimità costituzionale dell’art. 696, primo comma, cod. proc. civ., nella
parte in cui non consentiva di disporre accertamento tecnico o ispezione
giudiziale sulla persona dell’istante, ebbe a fornire una ricostruzione del
valore costituzionale dell’inviolabilità della persona come “libertà”, nella
quale è postulata e attratta la sfera di esplicazione del potere della persona
di disporre del proprio corpo. Il che ha consentito alla dottrina di desumere
che l’entrata in vigore della Carta costituzionale avrebbe prodotto “modifiche
tacite” all’art. 5 cod. civ., in particolare attraverso la sostituzione del
concetto statico di integrità fisica, con quello dinamico di salute, di cui
all’art. 32 Cost., riconducendo, poi, il concetto ed il limite dell’ordine
pubblico ai principi generali dell’ordinamento, come tali non superabili dal
singolo, così come enucleati dalla stessa Carta fondamentale. Con l’entrata in
vigore della Costituzione, pertanto, e con l’affermarsi del principio
personalista ivi enunciato, la quaestio relativa alla portata dell’art. 5 del
codice civile non andrebbe più impostata in termini di “potere” di disporre, ma
di “libertà” di disporre del proprio corpo, stante il valore unitario e
inscindibile della persona come tale; e, quindi, in termini di libertà di
decidere e di autodeterminarsi in ordine a comportamenti che in vario modo
coinvolgono e interessano il proprio corpo.
L’attività sanitaria, pertanto, proprio perchè destinata a realizzare in
concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute, ed attuare – in tal
modo – la prescrizione, non meramente enunciativa, dettata dall’art. 2 della
Carta, ha base di legittimazione (fino a potersene evocare il carattere di
attività, la cui previsione legislativa, deve intendersi come
“costituzionalmente imposta”), direttamente nelle norme costituzionali, che,
appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale
dell’individuo. D’altra parte, non è senza significato la circostanza che l’art.
359 cod. pen. inquadri fra le persone esercenti un servizio di pubblica
necessità proprio i privati che esercitano la professione sanitaria, rendendo
dunque davvero incoerente l’ipotesi che una professione ritenuta, in sè, “di
pubblica necessità», abbisogni, per legittimarsi, di una scriminante tipizzata,
che escluda l’antigiuridicità di condotte strumentali al trattamento medico,
ancorchè attuate secondo le regole dell’arte e con esito favorevole per il
paziente. Se di scriminante si vuol parlare, dovrebbe, semmai, immaginarsi la
presenza, nel sistema, di una sorta di “scriminante costituzionale”, tale
essendo, per quel che si è detto, la fonte che “giustifica” l’attività
sanitaria, in genere, e medico chirurgica in specie, fatte salve soltanto le
ipotesi in cui essa sia rivolta a fini diversi da quelli terapeutici (è il caso,
come è noto, degli interventi a carattere sperimentale puro o scientifico, e
degli interventi che si risolvano in un trattamento di pura estetica). Come,
quindi, l’attività del giudice che adotti, secondo legge, una misura cautelare
personale non potrà integrare il delitto di sequestro di persona, e ciò non
perchè la sua condotta è “scriminata” “semplicemente” dall’art. 51 cod. pen., ma
in quanto direttamente “coperta” dall’art.13 Cost., allo stesso modo può dirsi
“garantita” dalla stessa Carta l’attività sanitaria, sempre che ne siano
rispettate le regole ed i presupposti.
5. – Dal divieto di trattamenti sanitari obbligatori, salvo i casi previsti
dalla legge, secondo quanto previsto dall’art. 32, secondo comma, Cost. e dal
diritto alla salute, inteso come libertà di curarsi, discende che il presupposto
indefettibile che “giustifica” il trattamento sanitario va rinvenuto nella
scelta, libera e consapevole – salvo i casi di necessità e di incapacità di
manifestare il proprio volere – della persona che a quel trattamento si
sottopone. Presupposto, anche questo, che rinviene base precettiva, e, per così
dire, “costitutiva”, negli stessi principi dettati dalla Carta fondamentale. Sul
punto, basterà richiamare una recentissima pronuncia della Corte costituzionale
(sentenza n. 438 del 2008), nella quale la tematica del consenso informato è
stata scandagliata ex professo, offrendosi dell’istituto del consenso al
trattamento medico un quadro definitorio dettagliato e del tutto sintonico con
gli approdi cui era già pervenuta, come si è fatto cenno, la giurisprudenza di
questa Corte. Il Giudice delle leggi ha infatti avuto modo di puntualizzare che
il «consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al
trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio
diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della
Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13
e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà
personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge”». D’altra parte, ha
osservato la Corte, anche numerose fonti internazionali prevedono la necessità
del consenso informato del paziente nell’ambito dei trattamenti sanitari. Così,
«l’art. 24 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20
novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176,
premesso che gli Stati aderenti “riconoscono il diritto del minore di godere del
miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di
riabilitazione”, dispone che “tutti i gruppi della società in particolare i
genitori ed i minori ricevano informazioni sulla salute e sulla nutrizione del
minore”». A sua volta, ha rammentato ancora la Corte, «l’art. 5 della
Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4
aprile 1997, ratificata dall’Italia con legge 28 marzo 2001, n. 145 (seppure
ancora non risulta depositato lo strumento di ratifica), prevede che “un
trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia
prestato il proprio consenso libero ed informato”; l’art. 3 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000,
sancisce, poi, che “ogni individuo ha il diritto alla propria integrità fisica e
psichica” e che nell’ambito della medicina e della biologia deve essere in
particolare rispettato, tra gli altri, “il consenso libero e informato della
persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge”». «La necessità
che il paziente sia posto in condizione di conoscere il percorso terapeutico –
ha ancora precisato la Corte – si evince, altresì, da diverse leggi nazionali
che disciplinano specifiche attività mediche: ad esempio, dall’art. 3 della
legge 21 ottobre 2005, n. 219 (Nuova disciplina delle attività trasfusionali e
della produzione nazionale di emoderivati), dall’art. 6 della legge 19 febbraio
2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nonché
dall’art. 33 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio
sanitario nazionale), il quale prevede che le cure sono di norma volontarie e
nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se ciò non è previsto
dalla legge».
La circostanza, dunque, che il consenso informato trovi il suo fondamento
direttamente nella Costituzione, e segnatamente negli artt. 2, 13 e 32 della
Carta, pone in risalto – secondo il Giudice delle leggi – la sua funzione di
sintesi di due diritti fondamentali della persona: «quello
all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni
individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di
ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi
del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonchè delle eventuali
terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili,
proprio per garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e,
quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo
comma, della Costituzione.
Discende da ciò – ha concluso la Corte – che il consenso informato deve essere
considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui
conformazione è rimessa alla legislazione statale».
6. – I principi enunciati dalla Corte costituzionale, scolpiti, alla luce della
pluralità di fonti che concorrono a rafforzarne gli enunciati, rappresentano,
dunque, la ineludibile base precettiva sulla quale poter configurare la
legittimità del trattamento sanitario in genere e della attività
medico-chirurgica in specie: con l’ovvia conseguenza che, ove manchi o sia
viziato il consenso “informato” del paziente, e non si versi in situazione di
incapacità di manifestazione del volere ed in un quadro riconducibile allo stato
di necessità, il trattamento sanitario risulterebbe eo ipso invasivo
rispetto al diritto della persona di prescegliere se, come, dove e da chi farsi
curare. Ed è proprio in quest’ultima prospettiva che assume uno specifico
risalto la normativa – non poco evolutasi nel corso del tempo – elaborata dagli
organismi professionali in campo di deontologia medica; giacchè da essa, per un
verso, si chiarisce la portata del “circuito informativo” che deve collegare fra
loro medico e paziente, in vista di un risultato che – riguardando diritti
fondamentali – non può non essere condiviso; e, dall’altro lato, è destinata a
concretare, sul terreno del diritto positivo, le regole che costituiscono il
“prescrizionale” per il medico, e la cui inosservanza è fonte di responsabilità,
non necessariamente di tipo penale.
A seguito, infatti, della Convenzione di Oviedo, anche il codice deontologico,
approvato dal Consiglio Nazionale della Federazione Italiana degli Ordini dei
Medici Chirurghi e Odontoiatri il 3 ottobre 1998, ha proceduto ad una revisione
del concetto di consenso informato, elaborando una definizione dello stesso più
in linea con i parametri interpretativi suggeriti dalla stessa Convenzione.
L’art. 30 del nuovo codice, infatti, ha previsto che il medico debba fornire al
paziente «la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle
prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle
prevedibili conseguenze delle scelte operate». Dietro esplicita richiesta del
paziente, inoltre, il medico dovrà fornire tutte le ulteriori informazioni che
gli siano richieste. L’art. 32 ha a sua volta stabilito che il medico non debba
intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza l’acquisizione del
consenso informato del paziente; con l’ulteriore necessità della forma scritta
per la manifestazione di tale consenso nell’ipotesi in cui la prestazione da
eseguire comporti possibili rischi per l’integrità fisica del soggetto. L’art.
34 ha infine stabilito che il «medico deve attenersi, nel rispetto della
dignità, della libertà e dell’indipendenza professionale, alla volontà di
curarsi, liberamente espressa dalla persona». Da simili principi, profondamente
innovativi rispetto a quelli enunciati nel precedente codice del 1995, si è
tratto, quindi, il convincimento che fosse ormai superata la configurazione
della attività del medico come promanante da soggetto detentore di una “potestà”
di curare, dovendosi invece inquadrare il rapporto medico-paziente (al di fuori
di qualsiasi visione paternalistica) nel contesto di quella che è stata definita
come una sorta di “alleanza terapeutica”; in sintonia, d’altra parte con una più
moderna concezione della salute, che trascende dalla sfera della mera dimensione
fisica dell’individuo per ricomprendere anche la sua sfera psichica.
Simili risultati sono stati poi ribaditi anche nel successivo codice
deontologico, approvato dalla medesima Federazione il 16 dicembre 2006, ed il
cui art. 35 conferma, appunto, che il «medico non deve intraprendere attività
diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e
informato del paziente», aggiungendo – quale ulteriore conferma del principio
della rilevanza della volontà del paziente come limite ultimo dell’esercizio
della attività medica – che «in presenza di un documentato rifiuto di persona
capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi,
non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della
persona».
Ferma restando, dunque, la sicura illiceità, anche penale, della condotta del
medico che abbia operato in corpore vili “contro” la volontà del
paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere
dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi
di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell’altrui
volere, l’ipotesi controversa, sulla quale occorre soffermarsi, riguarda invece
il caso in cui, anche se “in assenza” di consenso espresso allo specifico
trattamento praticato, il risultato dello stesso abbia prodotto un beneficio per
la salute del paziente. E ciò perché, non necessariamente il mancato rispetto
delle regole di deontologia medica e degli stessi principi affermati in tema di
consenso informato dalla Corte costituzionale e dalla stessa giurisprudenza di
legittimità determinano la automatica applicabilità delle fattispecie penali
che, “tradizionalmente”, sono state evocate a tale riguardo. Occorre, infatti,
verificare se quelle fattispecie, pur nell’ambito – e nei limiti – di un
percorso ermeneutico che adegui la peculiarità del caso alla struttura delle
norme (certo “pensate” per altri fini), siano o meno suscettibili di “attrarre”
nella propria sfera precettiva il “fatto” di cui qui si tratta, senza debordare
dai confini entro i quali è consentita l’interpretazione nel campo del diritto
penale sostanziale.
7. – In tale cornice, occorre, dunque, preliminarmente esaminare se – con
riferimento alla particolare vicenda che qui rileva - il mutamento del tipo di
intervento operatorio, effettuato (in ipotesi) senza che tale variatio
fosse stata in precedenza assentita dal paziente, malgrado il relativo esito
fausto, integri o meno il delitto di violenza privata che i giudici del doppio
grado di merito hanno ritenuto di ravvisare nella specie, riqualificando in tal
senso l’originaria imputazione di lesioni personali volontarie aggravate.
Al riguardo, non può non rilevarsi come gli orientamenti giurisprudenziali che
si sono espressi a favore di tale impostazione hanno scarsamente approfondito il
tema, mettendo piuttosto in luce il fatto che l’assenza del consenso
comprometterebbe, non il valore della integrità fisica in sè, quanto, piuttosto,
quello della libera formazione del volere: con la conseguenza di ritenere per
questa via praticabile la soluzione della violenza privata, non tanto sulla base
di argomentati rilievi circa la conformità del “fatto” al tipo normativo, quanto
per la ritenuta “ontologica” incompatibilità che è dato ravvisare tra l’attività
medico-chirurgica e il reato di lesioni volontarie.
Assai più articolata è, invece, la posizione della dottrina. A proposito,
infatti, del problema della sottoposizione del paziente ad un intervento
chirurgico diverso da quello che questi aveva in precedenza autorizzato –
paziente che dunque versa in stato di completa incoscienza per effetto della
anestesia totale praticatagli – si è osservato che, a differenza di quanto
stabiliva l’art. 154 del codice Zanardelli (e sulla base del quale era stata
elaborata una antica e autorevole dottrina), nell’art. 610 del codice vigente la
violenza non sarebbe più posta in rapporto con una perturbazione dell’altrui
libera formazione del volere, ma con un comportamento concreto – di azione, di
tolleranza o di omissione – non voluto dal soggetto passivo. Considerato,
quindi, che la “violenza” non richiederebbe alcuna mediazione intellettiva da
parte di chi la subisce e che essa è concepibile anche nei confronti di un
soggetto incapace di dissentire o consentire – come, appunto, il soggetto
anestetizzato – si afferma che il chirurgo, nell’eseguire un intervento diverso
da quello consentito, esplicherebbe una energia fisica sul corpo del paziente,
per tale via tenendo una condotta “violenta”, integrante una vis absoluta,
perchè il paziente, per le condizioni nelle quali si trova, non può opporre
alcuna resistenza.
Tale tesi non può essere condivisa. Al riguardo, va infatti rammentato,
anzitutto, che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte avuto modo di
puntualizzare che, ai fini della configurabilità del delitto di violenza
privata, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a
privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione ed azione, ben
potendo trattarsi di violenza fisica, propria, che si esplica direttamente nei
confronti della vittima, o di violenza impropria, che si attua attraverso l’uso
di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui,
impedendone la libera determinazione (v. in tal senso, Cass., Sez. V, 18
dicembre 2002, n. 5407/03, De Bortolo; Sez. V, 17 giugno 2002, n. 30175, P.G. in
proc. Rossello; Sez. V, 16 maggio 2002, n. 24175, P.G. in proc. Cardilli). E si
è pure puntualizzato, in proposito, che l’elemento oggettivo del reato di cui
all’art. 610, cod. pen., è costituito da una violenza o da una minaccia che
abbiano l’effetto di costringere taluno a fare, tollerare, od omettere una
determinata cosa. L’azione o l’omissione, che la violenza o la minaccia sono
rivolte ad ottenere dal soggetto passivo, devono però essere determinate, poichè,
ove manchi questa determinatezza, si avranno i singoli reati di minaccia,
molestie, ingiuria, ma non quello di violenza privata (Cass., Sez. V, 18 aprile
2000, n. 2480, P.M. in proc. Ciardo). D’altra parte, versandosi, nella specie,
in una ipotesi di violenza personale “diretta”, deve convenirsi con quanti
ritengono che la nota caratterizzante tale forma di violenza vada ravvisata
nella idea della aggressione “fisica”; vale a dire nella lesione o immediata
esposizione a pericolo dei beni più direttamente attinenti alla dimensione
fisica della persona, quali la vita, l’integrità fisica o la libertà di
movimento del soggetto passivo.
Il che sembra rendere del tutto impraticabile l’ipotesi che siffatti requisiti
possano ritenersi soddisfatti nella specifica ipotesi che qui interessa. La
violenza, infatti, è un connotato essenziale di una condotta che, a sua volta,
deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un evento
ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od
omettere qualche cosa; deve dunque trattarsi di “qualcosa” di diverso dal
“fatto” in cui si esprime la violenza. Ma poichè, nella specie, la violenza
sulla persona non potrebbe che consistere nella operazione; e poichè l’evento di
coazione risiederebbe nel fatto di “tollerare” l’operazione stessa, se ne deve
dedurre che la coincidenza tra violenza ed evento di “costrizione a tollerare”
rende tecnicamente impossibile la configurabilità del delitto di cui all’art.
610 cod. pen.
D’altra parte, anche il requisito della “costrizione” presenta, con riferimento
alla ipotesi del paziente anestetizzato che abbia acconsentito ad altro
intervento chirurgico ed alla relativa anestesia, elementi di intrinseca
problematicità, che vanno ben a di là della questione, dibattuta in dottrina, se
i delitti contro la libertà della persona possano essere commessi nei confronti
di un soggetto che versi in stato di incoscienza. Il concetto di costrizione,
postula, infatti, il dissenso della vittima, la quale subisce la condotta
dell’agente e per conseguenza di essa è indotta a fare, tollerare od omettere
qualche cosa, in contrasto con la propria volontà. Nei confronti del paziente
anestetizzato pleno iure, perchè nel quadro di un concordato intervento
terapeutico, il chirurgo che si discosti da quell’intervento e ne pratichi un
altro potrà dirsi commettere un fatto di abuso o di approfittamento di quella
condizione di “incapacitazione” del paziente, ma non certo di “costrizione”
della sua volontà, proprio perchè, nel frangente, difetta quel requisito di
contrasto di volontà fra soggetto attivo e quello passivo che costituisce
presupposto indefettibile, insito nel concetto stesso di coazione dell’essere
umano, “verso” (e, dunque, per realizzare consapevolmente) una determinata
condotta attiva, passiva od omissiva.
Va inoltre considerato – come la difesa dell’imputato ha puntualmente messo in
luce nella memoria difensiva – che la non riconduciblità nel perimetro
applicativo dell’art. 610 cod. pen., della condotta del chirurgo che
“approfitti” della condizione di anestetizzato del paziente per mutare il tipo
di intervento chirurgico concordato, si desume, univocamente, anche dalle
precise scelte legislative operate in riferimento alla fattispecie,
strutturalmente “omologa”, dettata dall’art. 609-bis cod. pen. In essa, infatti,
il legislatore ha ritenuto di introdurre una espressa equiparazione normativa
tra l’ipotesi di costringimento, con violenza o minaccia, a subire atti
sessuali, e l’ipotesi del compimento dell’atto sessuale «abusando delle
condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa»: eventualità,
quest’ultima, che certamente si realizza anche nell’ipotesi in cui la vittima
sia – come nel caso di paziente anestetizzato – in condizioni di totale
incoscienza. Ciò sta dunque a significare che lo stesso legislatore, nel dettare
la disciplina relativa ad altra ipotesi di violenza personale, ha dovuto dettare
una apposita disposizione per equiparare condotte evidentemente fra loro non
sovrapponibili, così da escludere che l’approfittamento della condizione di
incapacità, possa, naturalisticamente e giuridicamente, equivalere ad un fatto
di per sè integrante violenza.
Per altro verso, una ulteriore conferma della impraticabilità della tesi che
ritiene configurabile, nella specie, il delitto di violenza privata, può
desumersi pure dalle prospettive coltivate al riguardo de iure condendo.
E’ significativo, infatti, che nella bozza di articolato presentata il 25
ottobre 1991 dalla Commissione istituita dal Ministro della Giustizia con
decreto dell’8 febbraio 1988 per la predisposizione di un disegno di legge
delega per l’emanazione di un nuovo codice penale (cosiddetta Commissione
Pagliaro) si sia avvertita la necessità di prevedere, all’ art. 70, comma 1, n.
4), una specifica disposizione, nel capo relativo ai reati contro la libertà
morale (ma in piena autonomia – ed è proprio questo l’aspetto che qui rileva –
dal delitto di violenza privata, previsto nel punto n. 1) - destinata a porre
come direttiva la previsione, quale delitto, della «attività medica o chirurgica
su persona non consenziente, consistente nel compimento di un’attività medica o
chirurgica, anche sperimentale, su una persona senza il consenso dell’avente
diritto (e sussistente se il fatto non costituisce un reato più grave).
Escludere la punibilità – prevedeva ancora la ipotesi di norma di delega –
quando il fatto comporti vantaggi senza alcun effettivo pregiudizio alla
persona».
L’esistenza, quindi, di un “vuoto normativo” da colmare era stata sin da
quell’epoca lucidamente avvertita.
8. – Esclusa, quindi, la possibilità di ritenere integrato, nel caso di specie,
il delitto di violenza privata, occorre esaminare quella che è stata ritenuta
per lungo tempo l’alternativa “naturalisticamente” privilegiata: vale a dire il
reato di lesioni di cui all’art. 582 cod. pen. E ciò non solo per completare la
risposta al quesito in ordine al quale queste Sezioni Unite sono state chiamate
a pronunciarsi; ma anche perchè la tematica è stata direttamente trattata nel
procedimento a quo, in quanto il delitto originariamente contestato all’imputato
era stato proprio il reato di lesioni personali volontarie aggravato.
Ebbene, una significativa parte della giurisprudenza e della dottrina, è
concorde nel mettere in luce un dato assolutamente incontestabile: vale a dire
la sostanziale incompatibilità concettuale che è possibile cogliere tra lo
svolgimento della attività sanitaria, in genere, e medico-chirurgica in specie,
e l’elemento soggettivo che deve sussistere perchè possa ritenersi integrato il
delitto di lesioni volontarie. Una condotta “istituzionalmente” rivolta a curare
e, dunque, a rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una
condotta destinata a cagionare quel “male”. Ciò non esclude, però, che l’atto
chirurgico integri – ove isolato dal contesto del trattamento medico-terapeutico
- la tipicità del fatto lesivo, rispetto al quale l’antigiuridicità non può che
ricondursi alla disamina del corretto piano relazionale tra medico e paziente:
in una parola, al consenso informato, che compone la “istituzionalità” della
condotta “strumentale” del chirurgo, costretto a “ledere” per “curare”. Il
versante problematico si sposta, dunque, dalla antigiutidicità, derivante dal
mancato consenso al diverso tipo di intervento chirurgico in origine assentito,
alla “tipicità” delle lesioni dell’intervento in sè e delle conseguenze che da
tale intervento sono scaturite: giacchè, se l’atto operatorio ha in definitiva
prodotto non un danno, ma un beneficio per la salute, è proprio la tipicità del
fatto, sub specie di conformità al modello delineato dall’art. 582 cod.
pen., a venire seriamente in discussione.
La questione, pertanto, finisce per coinvolgere direttamente la disamina della
nozione stessa di “malattia”, ai sensi dell’art. 582 cod. pen., giacchè anche a
questo riguardo le interpretazioni offerte da giurisprudenza e dottrina si sono
non poco evolute nel corso del tempo.
Per lungo tempo, infatti, specie in giurisprudenza, il concetto di malattia ha
fortemente risentito di quanto era stato al riguardo precisato nella Relazione
ministeriale sul progetto del codice penale, giacchè in essa si era
puntualizzato che era stato fatto uso della «espressione , correttamente
scientifica, di malattia, anzichè quella di danno nel corpo o perturbazione
della mente, [ l’art. 372 del codice Zanardelli, puniva, infatti, a titolo di
lesione personale, la condotta di chi, «senza il fine di uccidere, cagiona ad
alcuno un danno nel corpo o nella salute o una perturbazione nella mente»],
giacchè una malattia è indistintamente qualsiasi alterazione anatomica o
funzionale dell’organismo, ancorchè localizzata e non impegnativa delle
condizioni organiche generali».
Simile approccio definitorio è stato, infatti, pedissequamente recepito dalla
giurisprudenza di legittimità, rimasta, sino ad epoca recente, consolidata
nell’affermare che, in tema di lesioni personali volontarie, costituisce
malattia qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorchè
localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche
generali, onde lo stato di malattia perdura fino a quando è in atto il suddetto
processo di alterazione, malgrado il ritorno della persona offesa al lavoro
(cfr., ex plurimis, Cass., Sez. V, 2 febbraio 1984, n. 5258, De Chirico; Sez. V,
14 novembre 1979, n. 2650, Miscia; Sez. I, 30 novembre 1976, n. 7254, Saturno;
Sez. I, 11 ottobre 1976, n. 2904, Carchedi).
Sul punto, però, non può non convenirsi con quanti ritengono che il concetto di
“malattia”, più che evocare l’impiego di un elemento descrittivo della
fattispecie, rinvia ad un parametro normativo extragiuridico, di matrice
chiaramente tecnico-scientifica, tale da far sì che il fenomeno morboso,
altrimenti apprezzabile da chiunque in termini soggettivi e del tutto
indistinti, presenti, invece, i connotati definitori e di determinatezza propri
del settore della esperienza – quella medica, appunto - da cui quel concetto
proviene. Poichè, dunque, la scienza medica può dirsi da tempo concorde – al
punto da essere stata ormai recepita a livello di communis opinio –
nell’intendere la “malattia” come un processo patologico evolutivo
necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione
dell’assetto funzionale dell’organismo, ne deriva che le mere alterazioni
anatomiche che non interferiscano in alcun modo con il profilo funzionale della
persona non possono integrare la nozione di “malattia”, correttamente intesa.
Pertanto, la semplice alterazione anatomica non rappresenta, in sè, un
presupposto indefettibile della malattia, giacchè ben possono ammettersi
processi patologici che non si accompagnino o derivino da una modificazione di
tipo anatomico, così come, all’inverso, una modificazione di quest’ultimo tipo
che non determini alcuna incidenza sulla normale funzionalità dell’organismo si
presenta, secondo tale condivisibile impostazione, insuscettibile di integrare
la nozione di “malattia”, quale evento naturalistico del reato di cui all’art.
582 cod. pen.
Per altro verso, non è senza significato la circostanza che nel codice, la
lesione non sia definita in sè – quale semplice “rottura” della unità organica –
ma in relazione all’”evento” che essa deve determinare: e cioè, appunto, una
“malattia” del corpo o della mente. La circostanza, quindi, che la malattia può
riguardare tanto l’aspetto fisico che quello psichico dell’individuo, e poichè
tali due aspetti sono stati fra loro alternativamente considerati dal
legislatore (attraverso l’uso della disgiuntiva “o”), se ne può desumere che,
unitario dovendo essere il concetto di malattia e considerato che non può
evocarsi una alterazione “anatomica” della mente, l’unica alterazione che è
possibile immaginare, come comune ai due accennati aspetti, è proprio – e
soltanto – quella funzionale. D’altra parte, il concetto stesso di “durata”
della malattia - sulla cui base è parametrata la procedibilità e la gravità del
reato - non può che confermare una propensione al recepimento normativo della
nozione “funzionalistica” della malattia, del tutto in linea con i tradizionali
approdi definitori cui è pervenuta, anche se con varietà di accenti, la medicina
legale.
A tale impostazione mostra, d’altra parte, di aderire anche un significativo
filone di giurisprudenza di questa Corte, attento a ricondurre il concetto di
“malattia” nell’ambito di un paradigma di offensività strutturalmente coeso con
la nozione scientifica del concetto stesso, secondo la dichiarata intentio
legis fatta palese dal Guardasigilli, nella richiamata Relazione
ministeriale sul progetto del codice penale, ma poi “tradita” nel contenuto
definitorio trasfuso in quel documento e supinamente recepito dalla
giurisprudenza prevalente.
Una prima, sensibile innovazione interpretativa rispetto alla tesi tradizionale
è stata, infatti, offerta dalla sentenza Sez. IV, 14 novembre 1996, n. 10643,
P.C. in proc. Francolini, ove si è affermato che il concetto clinico di malattia
richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di
funzionalità, cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello
di un fatto morboso in evoluzione, a breve o lunga scadenza, verso un esito che
potrà essere la guarigione perfetta, l’adattamento a nuove condizioni di vita
oppure la morte. Deriva da ciò – ha concluso la pronuncia – che non
costituiscono malattia, e quindi non possono integrare il reato di lesioni
personali, le alterazioni anatomiche, cui non si accompagni una riduzione
apprezzabile della funzionalità.
In linea con simili affermazioni si collocano anche Sez. V, 15 ottobre 1998, n.
714, Rocca, Sez. IV, 28 ottobre 2004, n. 3448, Perna, e la più recente sentenza
Cass., Sez. IV, 19 marzo 2008, n. 17505, Pagnani, la quale, all’esito di un
percorso ricostruttivo delle diverse opinioni misuratesi sul tema, ha anch’essa
conclusivamente ribadito che, ai fini della configurabilità del delitto di
lesioni personali, la nozione di malattia giuridicamente rilevante non comprende
tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono in realtà anche mancare,
bensì solo quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un
significativo processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni
dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa.
Accedendo, dunque, ad una impostazione per così dire “funzionalistica” del
concetto di malattia, se ne devono trarre i necessari riverberi anche per ciò
che attiene all’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 582 cod. pen.,
giacchè, se si ritiene che non possa integrare il reato la lesione che coincida,
come evento causalmente derivato, in una mera alterazione anatomica senza alcuna
apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo, se ne deve dedurre che
l’elemento psicologico non potrà non proiettarsi a “coprire” anche la
conseguenza “funzionale” che dalla condotta illecita è derivata. Per la verità,
la giurisprudenza di questa Corte si è mostrata propensa a ritenere che per la
sussistenza del dolo nel delitto di lesioni personali non è necessario che la
volontà dell’agente sia diretta alla produzione di conseguenze lesive, essendo
sufficiente l’intenzione di infliggere all’altrui persona una violenza fisica;
basta quindi – secondo tale impostazione – il dolo generico, che deve reputarsi
sussistere – sia pure nella forma eventuale – anche in ipotesi di azione
commessa ioci causa allorchè l’agente abbia previsto come probabile (e
quindi ne abbia accettata la verificazione concreta) l’evento lesivo (cfr., ex
multis, Cass, Sez. I, 7 giugno 1996, n. 6773, P.M. in proc. Poma; Sez. VI, 13
ottobre 1989, n.3103, Lavera; Sez. V, 25 novembre 1986, n. 3038/87, Zito; Sez.
V, 12 aprile 1983, n. 4419, Negovetich). Discende, poi, da tale orientamento la
tesi della identità del dolo delle lesioni volontarie rispetto a quello delle
percosse (Cass., Sez. V, 12 ottobre 1983, n. 9448, Ferrario; Sez. V, 3 febbraio
1984, n. 1564, Dal Pozzo).
Anche a voler prescindere dalla dubbia condivisibilità teorica di siffatta
ricostruzione dell’elemento soggettivo del reato di lesioni volontarie, resta il
fatto che essa oblitera un dato normativo di ineludibile risalto, quale è quello
rappresentato dal fatto che l’evento naturalistico del delitto di cui all’art.
582 cod. pen. si compone di un frammento “definitorio” – la lesione – che si
specifica in un altro evento che dal primo deriva: appunto, la malattia, a sua
volta da intendersi nel senso che si è dianzi delineato. Se, dunque, si cagiona
sul derma dell’individuo una soluzione di continuo che può integrare la nozione
di “lesione”, ciò è ancora in conferente, sul versante del trattamento
medico-chirurgico, agli effetti della integrazione del precetto, se ad essa non
consegua una alterazione funzionale dell’organismo. Pensare che questa
“conseguenza” sia estranea alla sfera dell’elemento psicologico, equivale ad
estrapolare dall’evento del reato un solo elemento definitorio, frantumandone,
arbitrariamente, l’unitarietà che ad esso ha ritenuto di imprimere il
legislatore. Sotto questo profilo, dunque, una diversa interpretazione non solo
appare inaccettabile da un punto di vista di disamina “strutturale” della
fattispecie – giacchè la malattia finirebbe per atteggiarsi alla stregua di una
“eccentrica” condizione obiettiva di punibilità – ma anche in grave frizione con
il principio di colpevolezza, sancito dall’art. 27, primo comma, della
Costituzione, per il quale – secondo la costante interpretazione ad esso data
dalla Corte costituzionale (v. da ultimo, la sentenza n. 322 del 2007 e le altre
ivi richiamate) – è postulato un coefficiente di partecipazione psichica del
soggetto al fatto, rappresentato quantomeno dalla colpa, in relazione agli
elementi più significativi della fattispecie tipica, fra i quali non può non
essere annoverata proprio la “malattia”.
9. – Alla stregua dei riferiti rilievi è dunque possibile trarre alcune
conclusioni. Una prima considerazione, che appare per molti aspetti dirimente
agli specifici fini che qui interessano, riguarda le peculiarità che
caratterizzano, rispetto alla attività sanitaria in genere, l’intervento
medico-chirurgico realizzato per fini terapeutici. In quest’ultimo frangente,
infatti, la condotta del medico è non soltanto teleologicamente orientata al
raggiungimento di uno specifico obiettivo “prossimo”, quale può essere, in
ipotesi, la riuscita, sul piano tecnico-scientifico, dell’atto operatorio in sè
e per sè considerato, quanto – e soprattutto – per realizzare un beneficio per
la salute del paziente. E’ quest’ultimo, infatti, il vero bene da preservare; ed
è proprio il relativo risalto costituzionale a fornire copertura costituzionale
alla legittimazione dell’atto medico. L’atto operatorio in sè, dunque,
rappresenta solo una “porzione” della condotta terapeutica, giacchè essa, anche
se ha preso avvio con quell’atto, potrà misurarsi, nelle sue conseguenze,
soltanto in ragione degli esiti “conclusivi” che dall’intervento chirurgico sono
scaturiti sul piano della salute complessiva del paziente che a quell’atto si è
– di regola volontariamente - sottoposto.
Ecco già, dunque, un primo approdo. Le “conseguenze” dell’intervento chirurgico
ed i correlativi profili di responsabilità, nei vari settori dell’ordinamento,
non potranno coincidere con l’atto operatorio in sè e con le “lesioni” che esso
“naturalisticamente” comporta, ma con gli esiti che quell’intervento ha
determinato sul piano della valutazione complessiva della salute. Il chirurgo,
in altri termini, non potrà rispondere del delitto di lesioni, per il sol fatto
di essere “chirurgicamente” intervenuto sul corpo del paziente, salvo ipotesi
teoriche di un intervento “coatto”; sibbene, proprio perchè la sua condotta è
rivolta a fini terapeutici, è sugli esiti dell’obiettivo terapeutico che andrà
misurata la correttezza dell’agere, in rapporto, anche, alle regole
dell’arte. E’, quindi, in questo contesto che andrà verificato l’esito, fausto o
infausto, dell’intervento e quindi parametrato ad esso il concetto di “malattia”
di cui si è detto. E’ ben vero, a questo riguardo, che la dottrina ha
puntualmente evidenziato le difficoltà che - a cagione della pluralità di
considerazioni, di ordine clinico e di altro genere, che tale giudizio comporta
- possono compromettere una valutazione certa e obiettiva in ordine ai risultati
scaturiti, per la salute del paziente, dall’intervento medico-chirurgico. Ma si
tratta di rilevi che, pur se non trascurabili, pertengono ad aspetti di merito
che vanno affrontati e risolti nella competente sede.
Pertanto, ove l’intervento chirurgico sia stato eseguito lege artis, e
cioè come indicato in sede scientifica per contrastare una patologia ed abbia
raggiunto positivamente tale effetto, dall’atto così eseguito non potrà dirsi
derivata una malattia, giacchè l’atto, pur se “anatomicamente” lesivo, non
soltanto non ha provocato – nel quadro generale della “salute” del paziente –
una diminuzione funzionale, ma è valso a risolvere la patologia da cui lo stesso
era affetto. Dunque, e per concludere sul punto, non potrà ritenersi integrato
il delitto di cui all’art. 582 cod. pen, proprio per difetto del relativo
“evento”. In tale ipotesi, che è quella che ricorre nella specie, l’eventuale
mancato consenso del paziente al diverso tipo di intervento praticato dal
chirurgo, rispetto a quello originariamente assentito, potrà rilevare su altri
piani, ma non su quello penale.
Proprio sul versante della “opinabilità” della valutazione dei risultati
conseguiti dall’intervento chirurgico effettuato per fini terapeutici, una parte
significativa della dottrina ha fatto leva per desumere come il difetto del
consenso informato allo specifico atto operatorio eseguito possa, in fin dei
conti, far ritenere che il concetto stesso di “salute” e di esito più o meno
fausto del trattamento chirurgico dovrebbe necessariamente postulare anche
l’apprezzamento e la scelta consapevole dello stesso paziente: il quale ben può
avere, della propria salute, una opinio affatto diversa da quella del
medico e che, come tale, deve essere –trattandosi di diritto inviolabile della
persona – adeguatamente cautelata e rispettata.
Il rilievo coglie senz’altro nel segno, ma soltanto in una (auspicabile)
prospettiva de iure condendo. Sul piano del fatto tipico descritto
dall’art. 582 cod. pen., infatti, il concetto di malattia – e di tutela della
salute – non può che ricevere una lettura “obiettiva”, quale è quella che deriva
dai dettami della scienza medica, che necessariamente prescinde dai diversi
parametri di apprezzamento della eventuale parte offesa. E’ evidente, comunque,
che per esito fausto dovrà intendersi soltanto quel giudizio positivo sul
miglioramento apprezzabile delle condizioni di salute del paziente, ragguagliato
non soltanto alle regole proprie della scienza medica, ma anche alle alternative
possibili, nelle quali devono necessariamente confluire le manifestazioni di
volontà positivamente o indirettamente espresse dal paziente: ad evitare –
quindi – che possa essere soltanto la “monologante” scelta del medico ad
orientare e tracciare gli obiettivi terapeutici da perseguire, negligendo ciò
che il paziente abbia potuto indicare al riguardo.
Ove, invece, l’esito dell’intervento non sia stato fausto, nei sensi dianzi
delineati, la condotta del sanitario, avendo cagionato una “malattia”,
realizzerà un fatto conforme al tipo: e rispetto ad essa potrà dunque operarsi
lo scrutinio penale, nella ipotesi in cui, difettando il consenso informato,
l’atto medico sia fuoriuscito dalla innanzi evidenziata “copertura
costituzionale”. Ciò non toglie, peraltro, che, nell’ambito della imputazione
del fatto a titolo soggettivo – trattandosi pur sempre di condotta volta a fini
terapeutici – accanto a quella logica incoerenza di siffatto atteggiamento
psicologico con il dolo delle lesioni di cui all’art. 582 cod. pen., già posta
in luce dalla prevalente dottrina e dai più recenti approdi giurisprudenziali di
questa Corte potranno assumere un particolare risalto le figure di colpa
impropria, nelle ipotesi in cui – a seconda dei casi e delle varianti che può
assumere il “vizio” del consenso informato – si possa configurare un errore
sulla esistenza di una scriminante, addebitabile ad un atteggiamento colposo,
ovvero allorchè i limiti della scriminante vengano superati, sempre a causa di
un atteggiamento rimproverabile a titolo di colpa (artt. 55 e 59, quarto comma,
cod. pen.).
10. - Può quindi concludersi nel senso che, ove il medico sottoponga il paziente
ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato
prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei
protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, nel senso che
dall’intervento stesso è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni
di salute, in riferimento, anche alle eventuali alternative ipotizzabili, e
senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale
condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo della fattispecie
di cui all’art. 582 cod. pen., che sotto quello del reato di violenza privata,
di cui all’art. 610 cod. pen.
Alla stregua di tali rilievi la sentenza impugnata deve essere annullata senza
rinvio perchè il fatto non sussiste.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso della parte civile che condanna al pagamento
delle spese processuali e della somma di euro mille alla Cassa delle ammende.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.
Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2008
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