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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006 - ISSN 1974-9562
CONSIGLIO DI STATO, Sez.
IV - 13 luglio 2010, n. 4545
DIRITTO URBANISTICO - Strumenti urbanistici - Principio di tipicità e
nominatività - Numerus clausus - Amministrazione comunale - Varianti e modifiche
nella disciplina di dettaglio - Limiti - Deviazione dal modello legale rispetto
alla causa o al contenuto. In forza del principio di tipicità e nominatività
degli strumenti urbanistici, che discende dal più generale principio di legalità
e di tipicità degli atti amministrativi, l’Amministrazione non può dotarsi di
piani urbanistici i quali, per “nome, causa e contenuto”, si discostino dal
numerus clausus previsto dalla legge (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. II, 10
dicembre 2003, parere nr. 454; Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2001, nr. 5721).
L’Amministrazione comunale può pertanto introdurre varianti e modifiche nella
disciplina di dettaglio degli strumenti urbanistici, a condizione che ciò non
comporti una deviazione di essi dal modello legale rispetto alla “causa” (ossia
alla loro funzione tipica quale individuata dal legislatore) ovvero al
“contenuto” (ossia a quello che dovrebbe essere l’oggetto dell’attività di
pianificazione, sempre alla stregua del dato normativo di riferimento); tale
facoltà trova il proprio fondamento, a livello costituzionale, nell’ultimo comma
dell’art. 117 Cost., laddove ai Comuni è attribuita la potestà regolamentare
nelle materie di loro competenza. Pres. Trotta, Est. Greco - Comune di Roma
(avv.ti D’Ottavi, Raimondo e Sabato) c. A.C. (avv.ti Lavitole e Zerboni) -
CONSIGLIO DI STATO, Sez. IV - 13 luglio 2010, n. 4545
DIRITTO URBANISTICO - Pianificazione del territorio - Potere conformativo
dell’amministrazione- Imposizione di condizioni e limiti al potere di godimento
di categorie e tipologie di immobili in conseguenza della loro specifica
destinazione - Qualificazione in termini di vincolo espropriativo - Esclusione -
Vincoli conformativi - Asservimento ad obiettivi di interesse generale -
Carattere ablatorio - Esclusione. Il potere conformativo spettante
all’amministrazione nella propria attività di pianificazione del territorio, è
stato individuato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale come
espressione della potestà amministrativa di governo del territorio, alla quale è
connaturata la facoltà di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di
proprietà non di singoli individui, ma di intere categorie e tipologie di
immobili identificati in termini generali e astratti; non possono quindi
qualificarsi in termini di vincolo espropriativo tutte le condizioni e i limiti
che possono essere imposti ai suoli in conseguenza della loro specifica
destinazione (ivi compresi i limiti di cubatura connessi agli indici di
fabbricabilità previsti dal P.R.G. per le varie categorie di zone in cui il
territorio viene suddiviso), e - a maggior ragione - non hanno carattere
ablatorio a quei vincoli (c.d. “conformativi”) attraverso i quali, seppure la
proprietà viene asservita al perseguimento di obiettivi di interesse generale
quali la realizzazione di opere pubbliche o infrastrutture, non è escluso che la
realizzazione di tali interventi possa avvenire ad iniziativa privata o mista
pubblico-privata, e comunque la concreta disciplina impressa al suolo non
comporti il totale svuotamento di ogni sua vocazione edificatoria (cfr., fra le
tante, la sent. Corte Cost. nr. 179 del 20 maggio 1999). Pres. Trotta, Est.
Greco - Comune di Roma (avv.ti D’Ottavi, Raimondo e Sabato) c. A.C. (avv.ti
Lavitole e Zerboni) -
CONSIGLIO DI STATO, Sez. IV - 13 luglio 2010, n. 4545
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Procedimento amministrativo - Art. 11 L. n. 241/1990
- Strumenti consensuali - Novella del 2005 - Assoluta fungibilità con gli
strumenti autoritativi - Principio di tipicità dei provvedimenti - Permanenza.
Con la “novella” del 2005 il legislatore ha optato per una piena e assoluta
fungibilità dello strumento consensuale rispetto a quello autoritativo, sul
presupposto della maggiore idoneità del primo al perseguimento degli obiettivi
di pubblico interesse: essendo venuta meno la previgente riserva alla legge dei
casi in cui alle amministrazioni è consentito ricorrere ad accordi in
sostituzione di provvedimenti autoritativi, tale possibilità deve ritenersi
sempre e comunque sussistente (salvi i casi di espresso divieto normativo); col
che, secondo l’opinione preferibile, non è stato affatto introdotto il principio
della atipicità degli strumenti consensuali in contrapposizione a quello di
tipicità e nominatività dei provvedimenti, atteso che lo strumento convenzionale
dovrà pur sempre prendere il posto di un provvedimento autoritativo individuato
fra quelli “tipici” disciplinati dalla legge: a garanzia del rispetto di tale
limite, lo stesso art. 11 L. .n 241/1990 prevede l’obbligo di una previa
determinazione amministrativa che anticipi e legittimi il ricorso allo strumento
dell’accordo. Pres. Trotta, Est. Greco - Comune di Roma (avv.ti D’Ottavi,
Raimondo e Sabato) c. A.C. (avv.ti Lavitole e Zerboni) -
CONSIGLIO DI STATO, Sez. IV - 13 luglio 2010, n. 4545
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N. 04545/2010 REG.DEC.
N. 02011/2010 REG.RIC.
N. 02602/2010 REG.RIC.
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
DECISIONE
sui seguenti ricorsi in appello:
1) nr. 2011 del 2010, proposto dal COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco pro
tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Luigi D’Ottavi, Angela Raimondo e
Nicola Sabato, domiciliato per legge in Roma presso l’Avvocatura Comunale, via
del Tempio di Giove, 21,
contro
il signor Adriano CELLINI, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giuseppe Lavitola
e Fabrizio Zerboni, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Costabella,
23,
nei confronti di
- REGIONE LAZIO, in persona del Presidente pro tempore, non costituita;
- PROVINCIA DI ROMA, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e
difesa dagli avv.ti Riccardo Giovagnoli e Massimiliano Sieni, domiciliata per
legge in Roma presso l’Avvocatura Provinciale, via IV Novembre, 119/A;
2) nr. 2602 del 2010, proposto dalla REGIONE LAZIO, in persona del Presidente
pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Sebastiano Capotorto ed Enrico
Lorusso, con domicilio eletto presso il primo in Roma, piazza G. Mazzini, 27,
contro
il signor Adriano CELLINI, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giuseppe Lavitola
e Fabrizio Zerboni, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Costabella,
23,
nei confronti di
- COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso
dagli avv.ti Nicola Sabato, Angela Raimondo e Luigi D’Ottavi, domiciliato per
legge in Roma presso l’Avvocatura Comunale, via del Tempio di Giove, 21;
- PROVINCIA DI ROMA, in persona del Presidente pro tempore, non costituita;
entrambi per l’annullamento e/o la riforma, previa sospensione cautelare,
della sentenza del T.A.R. del Lazio, Sezione Seconda, nr. 1524 del 4 febbraio
2010.
Visti i ricorsi in appello con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’appellato signor Adriano Cellini
(in entrambi i giudizi), della Provincia di Roma (nel giudizio nr. 2011 del
2010) e del Comune di Roma (nel giudizio nr. 2602 del 2010);
Visti gli appelli incidentali proposti dall’appellato signor Adriano Cellini
nonché, nel giudizio nr. 2011 del 2010, dalla Provincia di Roma;
Viste le memorie prodotte dal Comune di Roma (in data 28 maggio 2010 in entrambi
i giudizi), dalla Regione Lazio (in data 27 maggio 2010 nel giudizio nr. 2602
del 2010) e dall’appellato signor Cellini (in date 10 aprile 2010 e 28 maggio
2010 in entrambi i giudizi) a sostegno delle rispettive difese;
Vista l’ordinanza di questa Sezione nr. 1638 del 13 aprile 2010, con la quale
sono state accolte le domande incidentali di sospensione dell’esecuzione della
sentenza impugnata;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, all’udienza pubblica del giorno 8 giugno 2010, il Consigliere Raffaele
Greco;
Uditi gli avv.ti D’Ottavi, Raimondo e Sabato per il Comune di Roma, l’avv.
Lorusso per la Regione Lazio e gli avv.ti Lavitola e Zerboni per l’appellato
signor Cellini;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
I - Il Comune di Roma ha impugnato, chiedendone la riforma previa sospensione
dell’esecuzione, la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio, accogliendo
parzialmente il ricorso proposto dal signor Adriano Cellini, ha annullato in
alcune parti gli atti relativi all’adozione ed alla successiva approvazione del
nuovo P.R.G. del Comune di Roma.
A sostegno dell’impugnazione, l’Amministrazione appellante ha dedotto:
1) erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui è stata respinta
l’eccezione preliminare di irricevibilità per tardività del ricorso
introduttivo;
2) erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui è stata respinta
l’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse
all’impugnazione;
3) erroneità e contraddittorietà della motivazione; errata valutazione dei
meccanismi perequativi in esame; violazione di legge (con riferimento all’avere
il T.A.R. ritenuto in contrasto col principio di legalità e con lo statuto del
diritto di proprietà gli istituti perequativi - cessione di aree e contributo
straordinario - introdotti dal nuovo strumento urbanistico);
4) violazione dei principi e precetti delle disposizioni dettate dall’art. 1,
commi 258 e 259, della legge 24 dicembre 2007, nr. 244, e dalla legge regionale
11 agosto 2009, nr. 21 (con riguardo all’avere il T.A.R. escluso che le predette
disposizioni potessero costituire la base normativa per la previsione della
cessione di aree);
5) insufficiente, contraddittoria ed erronea motivazione in ordine al negato
carattere consensuale ed alternativo del sistema perequativo;
6) erroneità della decisione sotto il profilo della mancata considerazione dei
principi di buon andamento ed imparzialità dell’Amministrazione, di trasparenza
degli atti amministrativi;
7) erroneità della sentenza con riferimento al contributo straordinario di cui
all’art. 18 (con riferimento all’avere il T.A.R. ritenuto trattarsi di
corrispettivo di carattere patrimoniale imposto in violazione della riserva di
legge di cui all’art. 23 Cost.).
Si è costituita la Provincia di Roma la quale, oltre ad associarsi all’appello
principale e a chiederne l’accoglimento, ha a sua volta gravato in via
incidentale la medesima sentenza, deducendo i vizi di omessa e insufficiente
motivazione e di violazione dell’art. 11 della legge 7 agosto 1990, nr. 241.
Si è altresì costituito l’appellato signor Adriano Cellini il quale, oltre a
opporsi con diffuse argomentazioni all’accoglimento degli appelli delle
Amministrazioni suindicate, ha a sua volta proposto appello incidentale avverso
la parte della sentenza che lo ha visto soccombente, deducendo con unico motivo
i seguenti vizi: violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 97, 41 e 42
Cost., nonché dell’art. 16, comma 2, della legge 17 febbraio 1992, nr. 179, e
degli artt. 3 e 4 della legge regionale del Lazio 26 giugno 1997, nr. 22, e
s.m.i.; eccesso di potere per errore e falsità nei presupposti; illogicità e
contraddittorietà manifesta; error in judicando; conseguente illegittimità;
illegittimità dell’art. 53 delle N.T.A. del P.R.G., nonché degli artt. 14, 13 e
17 delle medesime N.T.A. per: a) violazione dell’art. 52 del decreto legislativo
31 marzo 1998, nr. 112, e degli artt. 117 e 118 Cost.; b) violazione del
principio di legalità e del principio di nominatività e tipicità dei
provvedimenti amministrativi; violazione dell’art. 16 della legge nr. 179 del
1992 e della l.r. nr. 22 del 1997 e s.m.i., ed in via generale della normativa
tutta in materia di strumenti urbanistici attuativi; eccesso di potere per
errore e falsità dei presupposti; illogicità e contraddittorietà manifeste.
II - Avverso la medesima sentenza del T.A.R. del Lazio ha proposto appello anche
la Regione Lazio, sulla scorta dei seguenti motivi:
1) violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 97 e 118 Cost., degli artt. 1
e 11 della legge nr. 241 del 1990; eccesso di potere per errore e falsità dei
presupposti; illiceità e contraddittorietà manifesta; error in judicando;
2) violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 97 e 118 Cost., degli artt. 1
e 11 della legge nr. 241 del 1990, dell’art. 2 della l.r. nr. 22 del 1997;
eccesso di potere per errore e falsità dei presupposti; illiceità e
contraddittorietà manifesta; error in judicando.
Si è costituito il Comune di Roma, associandosi all’appello dell’Amministrazione
regionale e chiedendone l’accoglimento.
Anche in questo giudizio si è altresì costituito il signor Cellini, proponendo
argomentazioni difensive analoghe a quelle impiegate per resistere all’appello
del Comune e spiegando identico appello incidentale avverso la sentenza
censurata.
III - All’esito della camera di consiglio del 13 aprile 2010, questa Sezione ha
accolto le istanze di sospensione cautelare dell’esecuzione della sentenza
impugnata.
All’udienza dell’8 giugno 2010, entrambe le cause sono state trattenute in
decisione.
DIRITTO
1. In via del tutto preliminare, va disposta la riunione dei due appelli in
epigrafe per evidenti ragioni di connessione, afferendo gli stessi alla medesima
sentenza del T.A.R. del Lazio e avendo quindi a oggetto un unico giudizio di
primo grado.
2. Per migliore comprensione delle statuizioni che seguiranno, è necessario
premettere una sintetica ricostruzione della vicenda, amministrativa e
processuale, per cui è causa.
Il signor Adriano Cellini ha impugnato dinanzi al T.A.R. del Lazio gli atti
relativi all’adozione ed alla successiva approvazione del nuovo P.R.G. del
Comune di Roma: egli è proprietario di un’area che nel previgente P.R.G. del
1965 risultava avere destinazione agricola, ricadendo in zona H, sottozona H1
(“Agro Romano”), mentre nel nuovo strumento urbanistico è stata suddivisa
ricadendo in parte nel Parco di Vejo e per la parte residua nei c.d. “Tessuti
prevalentemente residenziali” della “Città da ristrutturare. Ambito per i
Programmi integrati”.
In tale ultima zona la disciplina urbanistica riviene dagli artt. 51, 52 e 53
delle N.T.A., alla cui stregua gli interventi edilizi sono assoggettati a
Programma integrato di intervento (P.R.I.N.T.), come disciplinato dal precedente
art. 14 delle medesime N.T.A.
In particolare, e per quanto qui interessa, per le aree ricadenti nella c.d.
“Città da ristrutturare”, il citato art. 53 individua (comma 11) per le diverse
categorie di suoli i differenti indici di fabbricabilità, sulla base delle
destinazioni impresse ai suoli medesimi dal precedente P.R.G., prevedendo a
fianco a di detti indici le quote di superficie “a disposizione del Comune ai
sensi dell’art. 18” ovvero soggette “al contributo straordinario di cui all’art.
20”.
Tali ultime previsioni, negli intendimenti del Comune, dovrebbero servire a
realizzare obiettivi di “perequazione urbanistica” secondo quello che l’art. 1,
comma 2, delle medesime N.T.A. individua come uno dei criteri informatori del
nuovo strumento urbanistico: in particolare, le due disposizioni richiamate
dall’art. 53 si riferiscono agli “incentivi urbanistici” di cui,
rispettivamente, alla lettera a) ed alla lettera b) del comma 2 dell’art. 17
delle N.T.A.
Nel primo caso, il proprietario può acquisire una quota aggiuntiva di superficie
edificabile mettendone una quota maggioritaria a disposizione del Comune,
affinché questo la utilizzi per finalità di interesse pubblico (riqualificazione
urbana, tutela ambientale, edilizia con finalità sociali, servizi di livello
urbano); nel secondo caso, invece, detta quota maggioritaria è soggetta al
pagamento di un contributo finanziario straordinario, che il Comune utilizza per
il finanziamento di opere e servizi pubblici in ambiti urbani degradati, con
finalità di riqualificazione urbana.
Il T.A.R. del Lazio, dopo aver respinto le eccezioni preliminari di
irricevibilità e inammissibilità del ricorso, ha dichiarato infondata la censura
con la quale il ricorrente mirava a ottenere l’annullamento tout court
dell’istituto del P.R.I.N.T., ritenendo tale piano attuativo, per come
concretamente disciplinato dalle N.T.A. del nuovo P.R.G. di Roma, compatibile
col modello generale di programma integrato di intervento di cui alla legge 17
febbraio 1992, nr. 179, e quindi non in contrasto col principio di tipicità
degli strumenti urbanistici.
Il primo giudice ha, invece, considerato illegittime le specifiche previsioni
innanzi richiamate in tema di cessione di aree al Comune e di contributo
straordinario, ritenendo che le modalità in tal modo adottate per il
perseguimento degli obiettivi di perequazione urbanistica (e finanziaria)
violassero il principio di legalità; segnatamente, la cessione di aree
realizzerebbe una forma larvata di ablazione della proprietà non trovante
“copertura” normativa in alcuna espressa disposizione di legge (e quindi in
violazione dello statuto del diritto di proprietà, e mediatamente dell’art. 42
Cost.), mentre il contributo straordinario integrerebbe un’imposizione
patrimoniale, seppur di natura non tributaria, a sua volta in difetto di
espressa previsione e quindi in violazione della riserva di legge ex art. 23
Cost.
3. Tutto ciò premesso, con un primo ordine di doglianze il Comune di Roma nel
proprio appello reitera l’eccezione, respinta dal giudice di prime cure, di
irricevibilità del ricorso introduttivo, sul rilievo che lo stesso è stato
notificato oltre il sessantesimo giorno dalla pubblicazione sul B.U.R.L.
dell’avviso di avvenuta approvazione del P.R.G.
Il motivo è infondato.
Ed invero, come correttamente rilevato dal primo giudice, in tema di
impugnazione dei piani regolatori generali è orientamento giurisprudenziale
consolidato che, nel sistema di pubblicità-notizia disciplinato dalla
legislazione urbanistica nazionale e regionale nonché ai sensi dell’art. 124 del
decreto legislativo 18 agosto 2000, nr. 267, il termine per l’impugnazione
decorre dalla data di pubblicazione del decreto di approvazione o, comunque, al
più tardi dall’ultimo giorno della pubblicazione all’albo pretorio dell’avviso
di deposito presso gli uffici comunali dei documenti relativi al piano
approvato, con la sola eccezione delle ipotesi che esso incida specificatamente,
con effetti latamente espropriativi, su singoli determinati beni, nel cui caso
solo è dovuta la notifica individuale ai proprietari interessati (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 12 giugno 2009, nr. 3730; Cons. Stato, sez. VI, 3 agosto 2007,
nr. 4326; Cons. Stato, sez. V, 24 marzo 2006, nr. 1534; Cons. Stato, sez. IV, 10
agosto 2004, nr. 5510; id., 19 luglio 2004, nr. 5225; id., 8 luglio 2003, nr.
4040; id., 16 ottobre 2001, nr. 5467; C.g.a.r.s., 8 ottobre 2007, nr. 929).
Orbene, nel caso di specie il P.R.G. del Comune di Roma è stato approvato
seguendo la speciale procedura disciplinata dall’art. 66 bis della legge
regionale 22 dicembre 1999, nr. 38, e quindi all’esito di un accordo di
pianificazione sottoscritto da Comune, Provincia e Regione e successivamente
ratificato da ciascuna di dette Amministrazioni; tale procedura, invero, non
contemplava espressamente la pubblicazione all’albo pretorio dell’avviso di
deposito della documentazione relativa al piano approvato, tuttavia
l’Amministrazione comunale ha ritenuto di darne notizia mediante pubblicazione
sui quotidiani, applicando quindi quanto previsto, per i piani approvati in via
“ordinaria”, dall’art. 33, comma 12, della stessa l.r. nr. 38 del 1999
(anch’esso non richiamato dal citato art. 66 bis).
Siffatta pubblicazione non può avere altra finalità che quella di realizzare una
forma di pubblicità-notizia idonea a consentire a qualunque interessato di
prendere visione della ridetta documentazione, sicché correttamente il primo
giudice ha individuato in tale momento il dies a quo del termine di
impugnazione, piuttosto che in quello della pubblicazione sul B.U.R.L. del
(mero) avviso dell’avvenuta approvazione, cui il comma 9 del medesimo art. 66
bis ricollega la “efficacia” del P.R.G.
4. In ordine logico, occorre poi esaminare l’ulteriore censura - articolata sia
nell’appello del Comune di Roma che in quello della Regione Lazio - con la quale
è reiterata l’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso introduttivo,
per carenza di interesse all’impugnazione in capo all’istante signor Cellini.
Più specificamente, viene contestato l’argomentare sulla cui base il T.A.R.
capitolino ha ritenuto sussistente, in capo al ricorrente in primo grado, un
interesse “strumentale” analogo a quello ormai da tempo individuato dalla
giurisprudenza in capo ai partecipanti ai concorsi pubblici ed alle gare
d’appalto, il cui contenuto si sostanzierebbe nell’interesse a nuove e più
favorevoli determinazioni dell’Amministrazione in ordine alla destinazione
urbanistica delle aree in proprietà del ricorrente, in sede di nuova attività di
pianificazione conseguente all’auspicato annullamento delle prescrizioni di
piano censurate.
Il motivo è infondato, dovendo confermarsi la reiezione dell’eccezione formulata
dall’Amministrazione in prima istanza: tuttavia, la questione da essa evocata
necessita di alcune precisazioni.
E difatti, la nozione di “interesse strumentale” accolta nella specie dal primo
giudice, così come configurata, appare ambigua e suscettibile di eccessiva
dilatazione, con pregiudizio dei fondamentali principi in materia di interesse a
ricorrere, nella misura in cui sembra legittimare l’assunto che qualsiasi
proprietario di suoli ricompresi nel perimetro del Comune interessato dal P.R.G.
abbia interesse a impugnare le prescrizioni del piano medesimo,
indipendentemente dalla loro concreta incidenza sul suolo in sua proprietà, in
vista dell’ottenimento del risultato utile consistente nella ripetizione
dell’attività pianificatoria, dalla quale potrebbero discendere determinazioni a
lui più favorevoli.
Tuttavia, non v’è chi non veda come siffatta conclusione contraddica i
consolidati principi in tema di attualità e concretezza dell’interesse che deve
fondare l’impugnazione, autorizzando una sorta di legittimazione generalizzata
all’impugnazione del P.R.G., legata alla semplice qualità di proprietari di
suoli compresi nel territorio comunale, ad onta della natura di atto generale
dello strumento urbanistico e indipendentemente da una immediata lesività delle
sue prescrizioni.
Al riguardo, l’orientamento della Sezione è nel senso di considerare con molta
attenzione possibili fughe dallo stretto collegamento al criterio
dell’interesse: si è così osservato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26 novembre
2009, nr. 7441) “…che il c.d. interesse strumentale alla rinnovazione della
gara, riguardato nella sua oggettività, non è altro che un interesse al rispetto
della legalità, che viene paludato da riferimenti soggettivi (utilità di
ripetere la procedura che il ricorrente si propone di conseguire con la
deduzione di vizi che, ove fondati, sono in grado di travolgere l’intera gara),
al fine di accreditarne la valenza personale, che è un requisito necessario per
poter promuovere un ricorso giurisdizionale”.
Deve, infatti, rimarcarsi, come fa la decisione citata, “…che provare di essere
in condizione di trarre dall’esito favorevole del giudizio un’utilità non
significa per nulla provare di essere titolari di una posizione legittimante. La
verifica della sussistenza di una posizione legittimante, ai fini del
preliminare accertamento della ammissibilità del ricorso, è in altri termini
un’operazione che precede e per certi versi è indipendente dalla stima della
utilità che il processo è in grado di assicurare”.
Ciò che, quindi, va ben tenuto presente è lo stretto legame tra l’utilità che si
vuole conseguire con il processo e la legittimazione del soggetto ricorrente, al
fine di evitare che siano ammessi come parti processuali anche i portatori di un
interesse di mero fatto.
Peraltro, è del tutto evidente la profonda differenza esistente, sotto il
profilo dell’interesse a ricorrere, tra l’impugnazione degli atti di una
procedura concorsuale o selettiva e quella di uno strumento urbanistico
generale: mentre nel primo caso il ricorrente mira al perseguimento di
un’utilità (aggiudicazione dell’appalto o posizionamento utile in graduatoria)
che l’Amministrazione ha attribuito ad altro soggetto o ad altri soggetti
specificamente individuati, nell’ambito di una procedura competitiva la cui
ripetizione è ex se suscettibile di formare oggetto di un interesse
giuridicamente qualificato e differenziato, altrettanto non può dirsi per il
secondo caso,
in cui l’interesse del proprietario non direttamente inciso dalle prescrizioni
del P.R.G. alla rinnovazione della pianificazione non si differenzia da quello
di quisque de populo ad un diverso assetto del territorio comunale (salva la
sola ipotesi - comunque non ricorrente nella specie - di doglianze di carattere
procedimentale suscettibili di travolgere l’intera procedura di formazione del
piano, imponendone la rinnovazione ab initio).
Nel caso di specie, invero, l’interesse a impugnare in capo al signor Cellini è
ancorato allo specifico regime urbanistico impresso dal nuovo P.R.G. al suolo in
sua proprietà, e segnatamente a quella parte di esso che, avendo avuto in
precedenza destinazione agricola, ricade oggi nella previsione dell’art. 53,
comma 11, lettera c), delle N.T.A., con conseguente applicabilità di entrambi
gli istituti perequativi cui si è sopra accennato (cessione di aree al Comune e
contributo straordinario).
A fronte di tali rilievi, l’Amministrazione comunale obietta che sarebbe in ogni
caso inconfigurabile un interesse alla rinnovazione delle determinazioni
urbanistiche in parte qua, atteso che non sussisterebbe, neanche all’esito
dell’annullamento disposto dal T.A.R., alcun obbligo del Comune di rivedere le
determinazioni censurate, potendo l’Amministrazione limitarsi a eliminare dalle
N.T.A. le previsioni dei menzionati istituti perequativi, lasciando per il resto
inalterate le prescrizioni del P.R.G.: dal che, con ogni evidenza, il ricorrente
non trarrebbe alcuna utilità.
Ad avviso della Sezione, l’approfondimento di tale punto presuppone
l’accertamento dell’esatta natura giuridica dei ridetti istituti perequativi, se
cioè essi effettivamente realizzino - come assume l’odierno appellato - una
larvata ablazione della proprietà attraverso la sottrazione della capacità
edificatoria attribuita ai titolari dei suoli interessati: questione,
quest’ultima, il cui approfondimento costituisce il presupposto dell’esame nel
merito dei vizi di legittimità individuati dal primo giudice, la cui sussistenza
è negata dalle Amministrazioni appellanti con ulteriori motivi di impugnazione.
Pertanto, su tale ulteriore profilo si tornerà appresso, nell’ambito dell’esame
del merito degli appelli.
5. Sempre procedendo in ordine logico, occorre adesso esaminare gli appelli
incidentali proposti dal signor Cellini, con i quali sono riproposte le censure
articolate in primo grado avverso la disciplina del P.R.I.N.T. contenuta nelle
N.T.A.
In estrema sintesi, parte appellante incidentale reitera la censura di
violazione del principio di tipicità e nominatività degli strumenti urbanistici,
ribadendo l’estraneità del P.R.I.N.T. siccome regolato dalle N.T.A. del nuovo
P.R.G. rispetto al modello generale di programma integrato di intervento di cui
all’art. 16 della legge 17 febbraio 1992, nr. 179, e dalla legge regionale del
Lazio 26 giugno 1997, nr. 22 (sotto il profilo sia dei contenuti che delle
modalità di formazione); inoltre, viene riproposta e ulteriormente sviluppata
l’eccezione subordinata di incostituzionalità della testé citata normativa
nazionale e regionale per asserita violazione degli artt. 3 e 97, 41 e 42, comma
2, Cost.
Dette doglianze sono infondate, dovendo trovare piena condivisione le
conclusioni raggiunte dal primo giudice su di esse.
5.1. Cominciando dal principio di tipicità e nominatività degli strumenti
urbanistici, lo stesso, che discende dal più generale principio di legalità e di
tipicità degli atti amministrativi, è espresso dalla giurisprudenza nel senso
dell’impossibilità per l’Amministrazione di dotarsi di piani urbanistici i
quali, per “nome, causa e contenuto”, si discostino dal numerus clausus previsto
dalla legge (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. II, 10 dicembre 2003, parere nr.
454; Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2001, nr. 5721).
Tale assunto può certamente essere confermato in questa sede, con l’importante
precisazione che - specie dopo la modifica costituzionale del Titolo V, con
l’attribuzione alla competenza concorrente della materia del “governo del
territorio” - il modello legale rispetto al quale verificare il rispetto del
richiamato principio va ricavato sia dalla normativa nazionale che da quella
regionale.
Ciò premesso, è la stessa evidenziata ratio del principio a consentire
all’Amministrazione comunale di introdurre varianti e modifiche nella disciplina
di dettaglio degli strumenti urbanistici, a condizione che ciò non comporti una
deviazione di essi dal modello legale rispetto alla “causa” (ossia alla loro
funzione tipica quale individuata dal legislatore) ovvero al “contenuto” (ossia
a quello che dovrebbe essere l’oggetto dell’attività di pianificazione, sempre
alla stregua del dato normativo di riferimento); tale facoltà trova il proprio
fondamento, a livello costituzionale, nell’ultimo comma dell’art. 117 Cost.,
laddove ai Comuni è attribuita la potestà regolamentare nelle materie di loro
competenza.
Ne consegue che è corretto l’approccio ermeneutico del giudice di primo grado,
il quale ha inteso verificare se, ad onta della comunanza del nomen, non fossero
ravvisabili nella disciplina del P.R.I.N.T. ex art. 14 delle N.T.A. quelle
significative deviazioni a livello funzionale e contenutistico che, sole,
possono costituire elemento rivelatore della violazione dei richiamati principi
di tipicità e nominatività.
Orbene, sotto il primo profilo il T.A.R. ha giustamente sottolineato la
“polifunzionalità” dello strumento de quo, ossia la sua idoneità a realizzare
una pluralità di funzioni, coordinando interventi pubblici e privati e
integrando diverse tipologie di interventi, tali da ricomprendere non solo
l’edificazione privata ma anche la realizzazione di opere di urbanizzazione e
infrastrutture, in modo da perseguire l’obiettivo di un più razionale impiego e
sviluppo del territorio; tale dato, evincibile sia dall’art. 16, comma 1, della
legge nr. 179 del 1992 che dagli artt. 1 e 2 della l.r. nr. 22 del 1997, è
coerente con la finalità che le N.T.A. assegnano al P.R.I.N.T., laddove si
precisa che esso serve a “sollecitare, coordinare e integrare soggetti,
finanziamenti, interventi pubblici e privati, diretti e indiretti”, in modo da
“favorire l’integrazione degli interventi, la qualità urbana e ambientale, e il
finanziamento privato delle opere pubbliche” (art. 14, comma 1).
D’altra parte, la circostanza che il programma d’intervento già nella sua stessa
costruzione normativa si connoti per il fatto di ricomprendere finalità e
interventi di regola riconducibili a diverse tipologie di pianificazione e di
impiego del territorio (come evidente dallo stesso uso dell’attributo
“integrato”) ne fa uno strumento per sua natura flessibile e suscettibile di
adattamento in ragione delle specifiche esigenze e caratteristiche del
territorio del singolo Comune pianificatore.
In tale prospettiva va condotta anche la comparazione sotto il profilo
contenutistico tra le previsioni delle N.T.A. qui censurate e quelle
legislative: al riguardo, è del tutto condivisibile l’avviso del primo giudice,
che ha reputato la previsione di cui all’art. 14, comma 3, delle ridette N.T.A.
sostanzialmente sovrapponibile a quella generale di cui all’art. 2, commi 3, 4 e
5 della l.r. nr. 22 del 1997 (che costituisce il parametro normativo di
riferimento per i programmi in questione nella Regione Lazio).
In particolare - e per accostarsi a quello che è, poi, il vero nucleo delle
doglianze articolate dal ricorrente in primo grado - va condivisa anche la
conclusione secondo cui, alla stregua di quelle che si è visto essere le
molteplici finalità dello strumento de quo, non può essere tacciata di anomalia
né di “eccentricità” la previsione all’interno di esso di strumenti perequativi
del tipo di quelli cui si è più sopra accennato.
5.2. Alla luce dei rilievi che precedono, non può che concludersi nel senso
dell’infondatezza - come già ritenuto dal primo giudice - anche delle più
puntuali e specifiche censure, inerenti alla disciplina dei contenuti e
dell’iter formativo del P.R.I.N.T., che l’appellante incidentale ha reiterato
nel presente grado di appello.
In particolare:
- non è illegittimo che il Programma in questione abbia a oggetto l’intero
sistema insediativo anziché le sole zone degradate, essendo ormai pacifico in
giurisprudenza che - proprio in considerazione della sua pluralità di funzioni -
tale strumento possa essere asservito anche a finalità ulteriori oltre a quella,
che ne costituisce la ragion d’essere, della riqualificazione del tessuto urbano
degradato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16 giugno 2008, nr. 2985; id., 22 giugno
2006, nr. 3889);
- non risulta disattesa la previsione normativa che attribuisce anche ai privati
l’iniziativa della presentazione del programma, atteso che l’intervento privato
è espressamente previsto non solo in caso di inerzia dell’Amministrazione
comunale, ma anche in funzione “sollecitatoria” dell’iniziativa della stessa
(ciò, come ben sottolineato dal T.A.R., all’evidente fine di conservare al
Comune la generale responsabilità della pianificazione e al tempo stesso
garantire un miglior coordinamento tra iniziativa privata e potestà pubblica);
- il “programma preliminare” previsto dall’art. 14, comma 4, lettera a), delle
N.T.A. non è uno strumento urbanistico autonomo e atipico, ma un mero passaggio
endoprocedimentale che il Comune, nell’esercizio della propria autonomia nel
regolare l’iter formativo del P.R.I.N.T., ha inteso legittimamente introdurre.
5.3. In linea subordinata, parte appellante incidentale assume
l’incostituzionalità in radice delle stesse previsioni normative nazionali e
regionali in tema di programmi integrati di intervento, ove interpretabili -
così come nella specie avvenuto - nel senso di trasformare tali strumenti nella
modalità principale di attuazione del P.R.G.
L’eccezione è supportata dal richiamo a taluni passaggi della sentenza con la
quale la Corte Costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dei
commi da 3 a 7 dell’art. 16 della legge nr. 179 del 1992, evidenziò come dalla
disciplina generale del nuovo strumento urbanistico emergessero incertezze e
ambiguità in ordine ai suoi obiettivi, nonché ai suoi rapporti e limiti
rispertto ad altri strumenti di settore, quali i piani di coordinamento e quelli
paesistici (cfr. sent. 19 ottobre 1992, nr. 393).
La tesi dell’appellante incidentale è che su tali aspetti la Corte non poté
intervenire all’epoca, essendo investita unicamente di un conflitto di
competenze tra Stato e Regioni e non spiegando le evidenziate incertezze alcuna
rilevanza al riguardo, ma che dai passaggi motivazionali riportati sarebbe
chiaramente evincibile l’affermazione della incostituzionalità della stessa
disciplina generale dei programmi integrati di intervento, per violazione degli
artt. 3 e 97 Cost. (oltre che degli artt. 41 e 42 Cost.).
La Sezione reputa però l’eccezione manifestamente infondata.
Ed invero, l’affermazione della irragionevolezza e della contrarietà ai principi
costituzionali di buon andamento della p.a. non può ricavarsi da un obiter
dictum della Corte Costituzionale, senza peraltro specificare per quali aspetti
la previsione della connotazione “polifunzionale” dei programmi integrati di
intervento sarebbe violativa di detti principi (al contrario, essa appare prima
facie idonea a garantire risultati di maggiore efficienza e di più equilibrato
impiego e sviluppo del territorio, attraverso l’apporto sinergico delle risorse
private e della potestà pubblica).
In realtà, l’assunto cui l’eccezione è ancorata è, ancora una volta, quello di
una pretesa “eccentricità” del programma de quo rispetto agli strumenti
urbanistici tradizionali, con ciò riproponendosi, stavolta sotto il profilo
dell’asserito contrasto tra fonti normative, la doglianza di violazione del
principio di tipicità degli strumenti urbanistici: tuttavia, è quanto meno
dubbio che tale principio possa individuarsi a livello costituzionale in maniera
così pregnante da escludere che il legislatore possa, nell’esercizio di quella
che la stessa Corte ha definito la sua “discrezionalità”, prevedere e
disciplinare uno strumento urbanistico che riassuma e integri in sé le finalità
di altri e diversi strumenti.
Quanto poi all’asserita violazione degli artt. 41 e 42 Cost., è agevole
replicare che entrambi i diritti da questi tutelati (proprietà e iniziativa
economica privata) possono subire, nella visione dello stesso costituente,
limitazioni per ragioni di utilità sociale: nella specie, è evidente che la
conformazione della proprietà privata e l’assoggettamento dell’iniziativa
pianificatoria privata a limiti e condizioni discende dall’interesse pubblico
connesso alla generale potestà di governo del territorio attribuita al soggetto
pubblico.
5.4. Sulla scorta delle considerazioni appena svolte, si impone dunque
l’integrale reiezione degli appelli incidentali proposti dal signor Adriano
Cellini.
6. A questo punto, può passarsi all’esame dei motivi degli appelli principali,
nonché dell’appello incidentale spiegato dalla Provincia di Roma, con i quali
viene contestato il merito delle statuizioni del primo giudice con riferimento
alla ritenuta illegittimità degli istituti perequativi della cessione di aree e
del contributo straordinario, per come disciplinati dalle N.T.A. del nuovo
P.R.G. capitolino.
Come già accennato, il T.A.R. ha ritenuto che i predetti istituti, pur
perseguendo finalità perequative apprezzabili anche sotto il profilo
dell’interesse pubblico a una più completa ed equilibrata gestione del
territorio, violassero il principio di legalità in quanto non supportati da
specifica e adeguata previsione normativa: in particolare, la cessione di aree
realizzerebbe una sottrazione forzosa di edificabilità ai suoli privati al di
fuori degli schemi tipici delle procedure ablatorie, mentre il contributo
straordinario integrerebbe un’imposizione patrimoniale, sia pure di natura
corrispettiva e non tributaria, anch’essa in difetto di espressa previsione di
legge.
Tuttavia, la Sezione reputa fondati gli argomenti svolti dalle parti appellanti
a confutazione di tale conclusione, e conseguentemente meritevoli di
accoglimento gli appelli proposti dalle Amministrazioni resistenti in primo
grado.
7. Al riguardo, può fin d’ora anticiparsi - con riserva delle più analitiche
considerazioni che saranno di seguito svolte - che la legittimità della
censurata disciplina perequativa delle N.T.A. si regge su due pilastri
fondamentali, entrambi ben noti al nostro ordinamento: da un lato, la potestà
conformativa del territorio di cui l’Amministrazione è titolare nell’esercizio
della propria attività di pianificazione; dall’altro, la possibilità di
ricorrere a modelli privatistici e consensuali per il perseguimento di finalità
di pubblico interesse.
7.1. Per chiarire le ragioni che inducono la Sezione a tale conclusione,
conviene muovere da un esatto inquadramento del contenuto e della portata delle
prescrizioni urbanistiche de quibus, al fine di verificare la condivisibilità
delle sopra riassunte affermazioni del primo giudice in ordine alla non
riconducibilità delle stesse a istituti o previsioni già noti al nostro
ordinamento.
Ebbene, e per principiare dalla cessione di aree disciplinata dalla cessione di
aree, un sereno esame del concreto meccanismo di operatività dell’istituto in
questione consente di escludere che con lo stesso il Comune abbia introdotto
prescrizioni idonee a incidere direttamente e immediatamente sullo statuto della
proprietà, in modo da realizzare l’ipotizzata violazione dell’art. 42 Cost.
Sul punto, è importante sottolineare la circostanza su cui insistono le
Amministrazioni appellanti, e che non risulta contestata né smentita ex adverso,
secondo cui il nuovo P.R.G., nel procedere alla ricognizione delle aree la cui
destinazione comporterà l’applicabilità dei nuovi istituti perequativi, ha in
partenza confermato gli indici di fabbricabilità sulle stesse previsti dalla
disciplina urbanistica previgente, di tal che le nuove previsioni vanno ad
affiancarsi, integrandolo, a un assetto sostanzialmente confermativo di quello
preesistente.
In siffatta situazione appare evidente che, laddove l’Amministrazione avesse
omesso di introdurre tali innovative prescrizioni e si fosse limitata a
confermare gli indici preesistenti, i proprietari interessati non avrebbero
potuto eccepire alcunché a fronte di una tale modalità di esercizio dell’ampia
discrezionalità che - come è noto - connota le scelte in materia di
pianificazione del territorio, non potendo certo vantare alcuna legittima
aspettativa a un regime più favorevole (è discutibile, invero, che
un’aspettativa del genere sarebbe sussistita anche in caso di modifica in pejus
rispetto agli indici preesistenti, ma trattasi di ipotesi che in questa sede non
è necessario esaminare).
Il dato appena evidenziato, come correttamente rappresentato dalle
Amministrazioni appellanti, rende la vicenda per cui è causa tutt’affatto
diversa da quella su cui è intervenuto il precedente di questa Sezione invocato
dal ricorrente in primo grado (sent. nr. 4833 del 21 agosto 2006), laddove la
riserva alla “mano pubblica” di una quota di superficie era ottenuta incidendo
sulla totalità della capacità edificatoria dei suoli, ivi compresa quella in
atto già da questi posseduta, in tal modo effettivamente realizzandosi una forma
larvata di esproprio.
Nel caso di specie, invece, la previsione della cessione al Comune di una quota
di edificabilità viene introdotta de futuro, in stretta correlazione con la
previsione di una quota di edificabilità aggiuntiva di cui il proprietario potrà
fruire consentendo - appunto - alla cessione di parte di essa; analogamente, a
norma dell’art. 20 delle N.T.A., il proprietario del suolo potrà fruire di
ulteriore edificabilità corrispondendo un contributo straordinario
predeterminato ex ante.
In altri termini, il pianificatore in questo caso, dopo aver proceduto alla fase
“statica” dell’assegnazione a ciascuna zona della propria destinazione
urbanistica e dei relativi indici di edificabilità, ha inteso conferire al
P.R.G. anche una dimensione “dinamica”, idonea a prevedere la possibile
evoluzione futura dell’assetto del territorio comunale: in tale prospettive, per
quanto concerne la realizzazione di opere pubbliche, urbanizzazioni e
infrastrutture, in aggiunta e in alternativa all’imposizione di vincoli su
specifici suoli finalizzati a future espropriazioni, per il reperimento dei
suoli e delle risorse necessarie sono stati introdotti i meccanismi appena
descritti.
7.2. Incidentalmente, il fatto che le innovative prescrizioni oggetto del
presente contenzioso incidano non su edificabilità “riconosciuta” ai titolari
dei suoli (come assume l’appellato signor Cellini), ma su una quota di
edificabilità futura ed eventuale rispetto a quella immediatamente e attualmente
attribuita ai suoli stessi dallo strumento urbanistico, rende tutt’altro che
infondata l’eccezione di carenza di interesse all’impugnazione che
l’Amministrazione comunale ha sollevato fin dal primo grado.
Infatti, una volta acclarato che l’odierno appellato non ha subito alcuna
menomazione rispetto alla destinazione impressa al suolo in sua proprietà dal
previgente P.R.G. (e tale dato fattuale è in re ipsa, atteso che in precedenza
detto suolo era interamente assoggettato a destinazione agricola), non si
comprende quale utilità egli si riprometta di conseguire con l’annullamento di
prescrizioni destinate a incidere su una edificabilità aggiuntiva futura ed
eventuale: ché se l’utilità auspicata consistesse nel riconoscimento illico et
immediate di tale edificabilità aggiuntiva, e quindi nell’aumento sic et
simpliciter dell’indice di edificabilità del suolo, è evidente che tale pretesa
si scontrerebbe con quanto più sopra osservato - e corrispondente a pacifica
giurisprudenza - in ordine all’ampia discrezionalità che connota le scelte
pianificatorie, a fronte delle quali il privato non può mai vantare (salvo
ipotesi eccezionali che in questo caso non ricorrono) un’aspettativa
giuridicamente qualificata a un regime urbanistico più favorevole.
7.3. Così correttamente ricostruita la portata delle previsioni urbanistiche
oggetto di censura nel presente giudizio, occorre ora verificare se le stesse
esorbitino i limiti del potere conformativo spettante all’Amministrazione nella
propria attività di pianificazione del territorio.
Con riguardo a tale potere, è noto che esso è stato da tempo individuato dalla
giurisprudenza della Corte Costituzionale come espressione della potestà
amministrativa di governo del territorio, alla quale è connaturata la facoltà di
porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà non di singoli
individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili identificati in
termini generali e astratti; in particolare la Corte ha escluso che potessero
qualificarsi in termini di vincolo espropriativo tutte le condizioni e i limiti
che possono essere imposti ai suoli in conseguenza della loro specifica
destinazione (ivi compresi i limiti di cubatura connessi agli indici di
fabbricabilità previsti dal P.R.G. per le varie categorie di zone in cui il
territorio viene suddiviso), e - a maggior ragione - ha negato carattere
ablatorio a quei vincoli (c.d. “conformativi”) attraverso i quali, seppure la
proprietà viene asservita al perseguimento di obiettivi di interesse generale
quali la realizzazione di opere pubbliche o infrastrutture, non è escluso che la
realizzazione di tali interventi possa avvenire ad iniziativa privata o mista
pubblico-privata, e comunque la concreta disciplina impressa al suolo non
comporti il totale svuotamento di ogni sua vocazione edificatoria (cfr., fra le
tante, la sent. nr. 179 del 20 maggio 1999).
Se tutto questo è vero, non occorre approfondire la questione teorica del
rapporto fra il governo del territorio (nel senso appena precisato) e lo statuto
civilistico del diritto di proprietà, per rendersi conto di come l’operazione
condotta dal Comune di Roma attraverso i ricordati meccanismi perequativi
connessi all’attribuzione de futuro ai suoli di una cubatura aggiuntiva, lungi
dal costituire un anomalo “ibrido” tra conformazione ed espropriazione come
ritenuto dal primo giudice, rientri a pieno titolo nel legittimo esercizio della
potestà pianificatoria e conformativa del territorio.
Ed infatti ciò che l’Amministrazione ha fatto, in sostanza, è in primo luogo
attribuire ai suoli un determinato indice di edificabilità (nella specie
corrispondente a quello già posseduto sotto il vigore del precedente P.R.G.),
ciò che pacificamente non travalica l’ordinario esercizio del potere di
pianificazione; di poi, nella già evidenziata prospettiva “dinamica”, ha
proceduto a porre le basi per possibili incrementi futuri della cubatura
edificabile, predisponendo i meccanismi con i quali questa potrà essere
riconosciuta ai vari suoli, in ragione della loro zonizzazione e tipologia.
La disciplina impressa ai suoli attraverso i due momenti pianificatori testé
indicati, con tutta evidenza, non può in alcun modo essere ritenuta tale da
integrare una sostanziale ablazione della proprietà né una surrettizia
sottrazione di volumetrie le quali, in assenza delle previsioni perequative,
sarebbero state edificabili: al riguardo la Sezione, pur concordando con quanto
rilevato dal giudice di prime cure circa la non necessità, ai fini che qui
interessano, di approfondire l’ulteriore questione teorica dell’immanenza o meno
dello jus aedificandi al diritto di proprietà, non può esimersi dall’osservare
come sia proprio l’impostazione della parte odierna appellata a risentire di una
concezione che presuppone tale immanenza in termini così “radicali” da risultare
inaccettabili.
Infatti, nel ricorso introduttivo e negli scritti difensivi del signor Cellini
si assume, in estrema sintesi, che la previsione della cessione al Comune di una
quota della cubatura aggiuntiva attribuita dal Piano integrerebbe una forma
larvata di esproprio, in quanto intaccherebbe la vocazione edificatoria che è
connaturata e immanente al diritto di proprietà; tuttavia l’argomento prova
troppo, atteso che, se lo statuto della proprietà dovesse considerarsi leso
dalla limitazione dello jus aedificandi su una cubatura la cui edificabilità è
prevista dal P.R.G. solo in via futura ed eventuale, a fortiori ciò dovrebbe
ritenersi per le limitazioni immediate e attuali discendenti dalle prescrizioni
del Piano, col risultato di considerere inammissibili le stesse previsioni di
indici di edificabilità e le connesse limitazioni della volumetria edificabile
rispetto all’estensione dei suoli: ciò che, comportando il sostanziale
svuotamento della potestà conformativa del territorio in capo
all’Amministrazione, non appare certamente in linea con gli arresti
giurisprudenziali, anche costituzionali, che si sono più sopra richiamati.
7.4. Una volta evidenziato come le prescrizioni urbanistiche all’esame risultino
in linea con una moderna concezione della potestà conformativa riconosciuta
all’Amministrazione nella propria attività di pianificazione del territorio,
occorre soffermarsi sulle particolari modalità con le quali le N.T.A. dispongono
debba avvenire la perequazione urbanistica e finanziaria, allorquando troveranno
applicazione i richiamati istituti della cessione di volumetrie al Comune e del
contributo straordinario: al riguardo, viene in rilievo quello che si è
anticipato essere il secondo dei pilastri su cui si reggono le innovative
previsioni del P.R.G. capitolino, e cioè il ricorso a strumenti negoziali e
consensuali per il perseguimento di obiettivi di pubblico interesse.
Sul punto, occorre preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco
interpretativo evidente nelle deduzioni di parte appellata, laddove si insiste
sul richiamo all’art. 13 della legge 7 agosto 1990, nr. 241, assumendo che
l’inapplicabilità agli atti generali e di pianificazione della disciplina
generale in materia di partecipazione del privato all’attività procedimentale
(ivi compresa quella in tema di accordi ex art. 11 della stessa legge nr. 241
del 1990) osterebbe alla praticabilità dei meccanismi consensuali predisposti
dalle N.T.A.
Al contrario, alla Sezione appare evidente che la fattispecie qui all’esame non
è connotata affatto da una sostituzione della pianificazione generale con moduli
convenzionali: infatti, il P.R.G. del Comune di Roma esiste certamente come atto
provvedimentale e autoritativo, essendo stato approvato all’esito di un
procedimento di carattere pubblicistico interamente promosso e gestito
dall’Amministrazione pianificatrice (ancorché soggetto a disciplina speciale
sulla base del già citato art. 66 bis della l.r. nr. 22 del 1997); mentre gli
strumenti privatistici e consensuali sono destinati a intervenire nella fase
attuativa delle prescrizioni poste dal Piano e anzi, a ben vedere, la previsione
di un ulteriore strumento attuativo rimesso alla responsabilità (se non
all’iniziativa) pubblica, quale si è visto essere il P.R.I.N.T., garantisce che
i predetti strumenti convenzionali sopravverrano nella fase strettamente
esecutiva, al livello delle singole specifiche aree, sostituendosi semmai a
procedure espropriative o comunque realizzative di singole opere pubbliche,
piuttosto che a una vera e propria attività pianificatoria.
D’altra parte, il ricorso a moduli convenzionali nella fase della pianificazione
attuativa del P.R.G. non è certo ignoto all’esperienza del nostro ordinamento
(basti pensare alle convenzioni di lottizzazione); e d’altra parte si è visto
come lo stesso odierno appellato abbia lamentato, seppur infondatamente,
l’illegittimità della disciplina del P.R.I.N.T. in quanto a suo dire limitatrice
dell’iniziativa privata nell’adozione del programma integrato d’intervento.
Tuttavia, nel caso di specie il richiamo più pertinente è forse quello agli
accordi sostitutivi dell’espropriazione di cui all’art. 45 del d.P.R. 8 giugno
2001, nr. 327, che costituiscono proprio una applicazione, alla particolare
materia dell’ablazione della proprietà privata per la realizzazione di opere
pubbliche, del generale principio dell’utilizzabilità di modelli negoziali per
il perseguimento di scopi di pubblico interesse.
7.5. Più in generale, la Sezione reputa che la “copertura” normativa alla
previsione dei più volte richiamati strumenti consensuali per il perseguimento
di finalità perequative (e ciò vale sia per la cessione di aree che per il
contributo straordinario) vada individuata, come correttamente evidenziato
dall’Amministrazione regionale nel proprio appello, nel combinato disposto degli
artt. 1, comma 1 bis, e 11 della già citata legge nr. 241 del 1990.
Ed invero, ad avviso della dottrina e della giurisprudenza maggioritarie, con la
“novella” del 2005 il legislatore ha optato per una piena e assoluta fungibilità
dello strumento consensuale rispetto a quello autoritativo, sul presupposto
della maggiore idoneità del primo al perseguimento degli obiettivi di pubblico
interesse.
Non è certo questa la sede per verificare la validità e la condivisibilità di
siffatto assunto teorico: ciò che conta è che oggi, essendo venuta meno la
previgente riserva alla legge dei casi in cui alle amministrazioni è consentito
ricorrere ad accordi in sostituzione di provvedimenti autoritativi, tale
possibilità deve ritenersi sempre e comunque sussistente (salvi i casi di
espresso divieto normativo); col che, secondo l’opinione preferibile, non è
stato affatto introdotto il principio della atipicità degli strumenti
consensuali in contrapposizione a quello di tipicità e nominatività dei
provvedimenti, atteso che lo strumento convenzionale dovrà pur sempre prendere
il posto di un provvedimento autoritativo individuato fra quelli “tipici”
disciplinati dalla legge: a garanzia del rispetto di tale limite, lo stesso art.
11 innanzi citato prevede l’obbligo di una previa determinazione amministrativa
che anticipi e legittimi il ricorso allo strumento dell’accordo.
Pertanto, nel caso di specie l’Amministrazione altro non ha fatto - lo si
ribadisce - che predeterminare le condizioni alle quali potranno attivarsi i
ridetti meccanismi convenzionali, solo se e quando i proprietari interessati
ritengano di voler avvalersi degli incentivi cui sono collegati (e, cioè, di
voler fruire della volumetria aggiuntiva assegnata ai loro suoli dal P.R.G.);
ove ciò non avvenga, il Comune che fosse interessato alla realizzazione di opere
di urbanizzazione e infrastrutture dovrà attivarsi con gli strumenti
tradizionali all’uopo predisposti dall’ordinamento, in primis le procedure
espropriative (naturalmente, se del caso, previa localizzazione delle aree su
cui operare gli interventi e formale imposizione di vincoli preordinati
all’esproprio con apposita variante urbanistica).
È proprio la natura “facoltativa” degli istituti perequativi de quibus, nel
senso che la loro applicazione è rimessa a una libera scelta degli interessati,
a escludere che negli stessi possa ravvisarsi una forzosa ablazione della
proprietà nonché, nel caso del contributo straordinario, che si tratti di
prestazione patrimoniale imposta in violazione della riserva di legge ex art. 23
Cost.
7.6. La parte odierna appellata obietta, al riguardo, che la detta
“facoltatività” dovrebbe essere esclusa nella specie, a cagione della
predeterminazione autoritativa, a livello delle stesse N.T.A. del P.R.G. e
quindi in via generale e astratta, dei contenuti essenziali degli accordi che
l’Amministrazione e i privati andaranno a concludere (e, segnatamente,
dell’entità delle cubature da cedere al Comune e della misura del contributo
straordinario).
A tale rilievo, però, è agevole replicare che siffatta predeterminazione è
coerente con l’interesse pubblico al cui perseguimento, giusta il citato art. 11
della legge nr. 241 del 1990, gli accordi in questione sono finalizzati: a tale
interesse invero, proprio in quanto ricomprende gli obiettivi perequativi più
volte richiamati, è intrinsecamente connessa l’esigenza di garantire la par
condicio fra i privati proprietari di suoli soggetti a eguale disciplina
urbanistica, esigenza che all’evidenza sarebbe frustrata qualora fosse rimesso
integralmente al momento della contrattazione privata - quasi che questa fosse
espressione di mera autonomia privata, e non coinvolgesse invece interessi di
rilevanza pubblicistica - la definizione dei termini e delle modalità della
“contropartita” che ciascun privato dovrà assicurare all’Amministrazione in
cambio della volumetria edificabile aggiuntiva riconosciutagli dal Piano.
7.7. Dalle considerazioni fin qui svolte risulta anche alquanto ridimensionata
l’ulteriore questione di quali siano le specifiche disposizioni di legge
(nazionale o regionale) individuabili quale “copertura” legislativa delle
prescrizioni urbanistiche oggetto del presente contenzioso: si è visto, infatti,
che queste ultime trovano il proprio fondamento in principi ben radicati nel
nostro ordinamento, con riguardo da un lato al potere pianificatorio e di
governo del territorio (quale disciplinato dalla legislazione urbanistica fin
dalla legge 17 agosto 1942, nr. 1150) e dall’altro alla facoltà di stipulare
accordi sostitutivi di provvedimenti.
Il fatto, poi, che si tratti di principi affermati nella legislazione nazionale
consente di escludere in radice ogni lesione - pure ipotizzata dall’odierno
appellato - delle prerogative statali in materia: infatti, è evidente che
l’intera operazione posta in essere dal Comune di Roma con il varo del nuovo
P.R.G. appare rispettosa dei limiti posti dalla legislazione statale (sia
esclusiva ex art. 117, comma 2, lettera m), Cost. che concorrente in materia di
governo del territorio) alla potestà regolamentare riconosciuta ai Comuni nelle
materia di propria competenza dall’ultimo comma dello stesso art. 117 Cost.
Con ciò non si intende disconoscere l’opportunità che lo Stato intervenga a
disciplinare in maniera chiara ed esaustiva la perequazione urbanistica,
nell’ambito di una legge generale sul governo del territorio la cui adozione
appare quanto mai auspicabile alla luce dell’inadeguatezza della normativa
pregressa a fronte delle profonde innovazioni conosciute negli ultimi decenni
dal diritto amministrativo e da quello urbanistico; tale auspicio va certamente
condiviso proprio al fine di evitare l’insorgere di problemi di inquadramento
quali quelli affrontati nel presente giudizio, aggravati dal fatto che nella
specie trattasi di perequazione - per così dire - “di secondo grado”, ossia
attuata non già mediante “decollo” e “atterraggio” di cubature edificabili da un
suolo all’altro inter privatos, bensì a favore dell’Amministrazione in vista
della realizzazione di interventi di interesse pubblico.
Tuttavia, la perdurante assenza di una tale normativa statale non può impedire
da un lato che le Regioni esercitino la propria potestà legislativa in materia
nel rispetto dei principi generali della legislazione statale, per altro verso
che tali ultimi principi vadano individuati sulla base del quadro normativo
attuale, quale risultante dal complesso della legislazione urbanistica
stratificatasi sul ceppo dell’originaria legge nr. 1150 del 1942 e
dell’applicazione fattane dalla giurisprudenza (anche costituzionale): è in
questo modo che può pervenirsi alla conclusione secondo cui tutte le specifiche
disposizioni, le quali di volta in volta e per singoli profili potrebbero venire
intese quali “copertura” legislativa degli istituti in contestazione,
costituiscono in realtà espressione dei superiori e generali principi che si
sono richiamati.
Ciò vale, invero, per i commi 258 e 259 dell’art. 1 della legge 24 dicembre
2007, nr. 244, a proposito dei quali vi è contrasto inter partes sulla questione
se essi legittimino il meccanismo di cessione delle aree al Comune previsto in
termini generali dall’art. 18 delle N.T.A., ma anche per il recentissimo art.
14, comma 16, lettera f), del decreto legge 31 maggio 2010, nr. 78,
apparentemente emanato al preciso scopo di legittimare ex post (se ve ne fosse
bisogno) la previsione del contributo straordinario da parte del Comune di Roma.
8. In conclusione, gli argomenti fin qui svolti, in larga parte in condivisione
delle tesi sviluppate dalle Amministrazioni appellanti, persuadono la Sezione
della fondatezza dei relativi appelli, dei quali pertanto s’impone
l’accoglimento con la consequenziale riforma della sentenza impugnata per quanto
di ragione.
9. La complessità e la novità delle questioni affrontate giustificano
l’integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi del
giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione Quarta, riuniti gli
appelli in epigrafe:
- respinge gli appelli incidentali proposti dal signor Adriano Cellini;
- accoglie gli appelli principali del Comune di Roma e della Regione Lazio e
l’appello incidentale proposto dalla Provincia di Roma e, per l’effetto, in
riforma della sentenza impugnata, respinge integralmente il ricorso di primo
grado.
Compensa tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2010 con
l’intervento dei Signori:
Gaetano Trotta, Presidente
Vito Poli, Consigliere
Salvatore Cacace, Consigliere
Sandro Aureli, Consigliere
Raffaele Greco, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Il Segretario
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 13/07/2010
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
Il Dirigente della Sezione
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