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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006 - ISSN 1974-9562
CONSIGLIO DI STATO, Sez.
VI, 18 novembre 2010, Sentenza n. 8104
SICUREZZA SUL LAVORO - Attività organizzata di trattamento e cura dei pazienti -
Infortunio occorso al personale sanitario - Art. 2087 c.c. - Datore di lavoro -
Adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore -
Prova - Lavoratore - Onere della prova “semplificato”. Ai sensi
dell’art.2087 c.c., il datore di lavoro, esercente l’attività organizzata di
trattamento e cura dei pazienti, - che sia pubblico o privato- va ritenuto
responsabile dell’infortunio occorso al personale sanitario, ove non provi di
aver adottato tutte le misure idonee, per l’esperienza e la tecnica, in
relazione alla particolare attività di volta in volta in rilievo, a tutelare
l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (giurisprudenza
pacifica “ex multis” Cass. Sez, lav.3 agosto 2007, n.17066). Su quest’ultimo
incombe un onere della prova semplificato, conformemente al principio comune a
tutta la responsabilità “contrattuale” ai sensi dell’art.1218 c.c. (c.d.
“inversione dell’onere della prova” rispetto all’ambito ordinariamente previsto
per la responsabilità extracontrattuale ex art.2043 c.c.), ma che, non di meno,
si estende alla esistenza del danno “non jure”, alla nocività dell’ambiente di
lavoro, nonché al nesso causale tra l’uno e l’altro elemento (da ultimo Cass.
Sez lav.20 maggio 2010, n.12351). Pres. Barbagallo, Est. Caracciolo - C.G.
(avv.ti D'Alicandro e Milia) c. Università degli studi "G. D'Annunzio" (avv.
Tatozzi) e Azienda Unita' Sanitaria Locale N. 4 di Chieti (avv. Rocchetti) -
(Conferma T.A.R. ABRUZZO, Pescara n. 381/2008) -
CONSIGLIO DI STATO, Sez. VI - 18 novembre 2010, n. 8104
SICUREZZA SUL LAVORO - Infortuni - Condotta colposa del lavoratore infortunato
-Responsabilità del datore di lavoro - Esonero - Carattere eccezionale, abnorme
o esorbitante della comportamento del lavoratore. In materia di infortuni
sul lavoro, la condotta colposa del lavoratore infortunato assurge a causa
sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento quando non sia
riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta, esonerandosi
da responsabilità il datore quando appunto il comportamento del lavoratore e le
sue conseguenze, presentino i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità,
dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di
organizzazione ricevute (Cass.pen. IV, 22 dicembre 2009, n.10448). Pres.
Barbagallo, Est. Caracciolo - C.G. (avv.ti D'Alicandro e Milia) c. Università
degli studi "G. D'Annunzio" (avv. Tatozzi) e Azienda Unita' Sanitaria Locale N.
4 di Chieti (avv. Rocchetti) - (Conferma T.A.R. ABRUZZO, Pescara n. 381/2008)
- CONSIGLIO DI STATO, Sez. VI - 18 novembre 2010, n. 8104
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N. 08104/2010 REG.SEN.
N. 06611/2008 REG.RIC.
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
DECISIONE
sul ricorso numero di registro generale 6611 del 2008, proposto da:
Cipollone Giuseppe, rappresentato e difeso dagli avv. Mirco D'Alicandro,
Giuliano Milia, con domicilio eletto presso Oreste Bisazza Terracini in Roma,
viale Mazzini 116;
contro
Università degli studi "G. D'Annunzio", in persona del Rettore p.t.,
rappresentato e difeso dall'avv. Camillo Tatozzi, con domicilio eletto presso
Michele Sinibaldi in Roma, via Nicola Ricciotti, 11; Azienda Unita' Sanitaria
Locale N. 4 di Chieti, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato
e difeso dall'avv. Gabriele Rocchetti, con domicilio eletto presso Nicola
Marcone in Roma, via Mercalli, 15;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. ABRUZZO - SEZ. STACCATA DI PESCARA n. 00381/2008, resa
tra le parti, concernente RISARCIMENTO DANNI DERIVANTE DA INFORTUNIO OCCORSO
NELL'ATTIVITA' MEDICA
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 ottobre 2010 il consigliere Luciano
Barra Caracciolo e uditi per le parti gli avvocati Giancarlo Guarino per delega
degli avv.ti D'alicandro e Milia, l'avv.to Michele Sinibaldi per delega
dell'avv.to Tatozzi e l'avv.to Rocchetti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con la sentenza in epigrafe, il Tar dell’Abruzzo ha respinto il ricorso proposto
dal dott. Giuseppe Cipollone, -medico ricercatore di ruolo dell’Istituto di
Clinica chirurgica generale dell’Università degli Studi di Chieti “D’Annunzio”,
in servizio assistenziale presso l’AUSL di Chieti, Istituto di clinica
chirurgica generale del P.O. “SS. Annunziata” (struttura convenzionata)-, inteso
ad ottenere il risarcimento del danno subito a seguito di contagio da virus HCV
(epatite virale di tipo C) contratto a causa del malfunzionamento di un
dispositivo per il prelievo del sangue (c.d “vacutainer”), che l’aveva costretto
alla eliminazione manuale di un ago utilizzato su un paziente affetto, a sua
volta, da virus HCV.
L’adito Tribunale affermava pregiudizialmente la propria giurisdizione (già
attribuitagli da precedente sentenza del g.o. dinnanzi a cui la domanda era
stata inizialmente proposta), ritenendo la vicenda riconducibile al rapporto
contrattuale intercorrente tra il medico ricorrente e la ASL resistente.
Sul piano dell’onere della prova della responsabilità datoriale il Tar
evidenziava la differenza sussistente tra le vicende riguardanti il datore di
lavoro privato e quelle concernenti il rapporto tra dipendente e datore di
lavoro pubblico, in quanto quest’ultimo agisce per definizione dell’interesse
pubblico. Il ricorrente doveva quindi fornire la prova sia dell’esistenza ed
entità del danno, sia, preliminarmente, della colpa e del nesso causale tra il
comportamento dell’Amministrazione e il danno causato. Appariva pienamente
provato il nesso causale tra puntura accidentale di un ago infetto e malattia
contratta. Ma occorreva provare anche il nesso causale tra presunto difetto
dell’apparecchiatura e la susseguente puntura.
Quanto alla presupposta difettosità del dispositivo (“vacutainer”) il ricorrente
non aveva spiegato in cosa consistesse il difetto dello stesso, che non poteva
automaticamente discendere dal fatto che lo sfilamento dell’ago non fosse
riuscito in concreto, potendo ciò dipendere, oltre che da errore umano, anche da
fattori casuali non collegati al malfunzionamento.
Quanto al nesso causale tra il presunto difetto e la puntura (evento), la
normale diligenza richiesta al medico avrebbe dovuto suggerire, in caso di
mancato funzionamento dell’apparecchio, di procedere manualmente ma previa
congrua protezione della mano con guanti, garze o simili, facilmente reperibili
in ambiente ospedaliero, posto che le norme sulla prevenzione degli infortuni
richiedono non solo l’attivazione di informazioni e operazioni da parte della
aziende sanitarie, ma anche l’attiva compartecipazione e collaborazione degli
operatori.
Ciò era confermato dall’art.5 del d.lgs. n.626\94 nonché dagli artt. 1 e 9 del
DM 28.9.1990, con misure precauzionali a carico del personale anche per
l’effettuazione di prelievi tecnicamente di difficile esecuzione (tra cui l’uso
obbligatorio di guanti), come specificato altresì nelle linee guida dettate dal
Ministero della sanità, applicabili a tutte le malattie trasmesse dal sangue
(G.U. n.235 del 28.9.1990), ove si impone agli operatori assistenziali, tra
l’altro, l’uso dei dispositivi di protezione individuale (DPI), quali guanti,
mascherine, occhiali, visiere, adatti alla manovra. Le linee guida rendono
obbligatorie anche le Precauzioni Universali (idonee misure di barriera per
evitare esposizione cutanea e mucosa ove sia prevedibile un contatto accidentale
con sangue o altri liquidi biologici. dei pazienti).
Nel caso, dalla testimonianza dell’infermiere coadiuvante resa al g.o., non
risultava con sicurezza che il ricorrente al momento dell’incidente ovvero
appena accortosi del malfunzionamento, abbia indossato guanti adatti o altra
idonea protezione. Per il Tar, dunque, non risultavano provati né la difettosità
dell’apparecchio, e la correlativa responsabilità dell’Amministrazione, né il
nesso causale tra le eventuali carenza funzionali di esso e la ferita
accidentale subita dal ricorrente. Emergeva anzi il “sospetto” di una negligenza
nel rispettare la citata normativa di prevenzione infortunistica.
Appella l’originario ricorrente deducendo i seguenti motivi:
1) Violazione a falsa applicazione dell’art.2697 c.c. e dell’art.115 c.p.c. con
riferimento all’art.2087 c.c. Violazione e\o falsa applicazione dell’art.2087
c.c.
2) Erronea insufficiente e\o contraddittoria motivazione, anche sotto il profilo
del travisamento.
3) Violazione del principio dispositivo e del diritto alla prova.
Il Tar, pur premettendo la propria giurisdizione sulla base della natura
contrattuale degli obblighi che si assumono violati in causazione del danno da
risarcire, contraddice la prevalente giurisprudenza della Cassazione in tema di
riparto della prova in caso di violazione dell’obbligo di protezione e sicurezza
sancito dall’art.2087 c.c., richiamando i principi degli artt.2697 c.c. e 115
c.p.c. ed erroneamente applicando il criterio di riparto dell’onere probatorio.
La giurisprudenza della Cassazione, infatti, nel caso, come quello in esame, che
sia stata accertata in sede di equo indennizzo la derivazione causale della
patologia dall’ambiente di lavoro, e tale accertamento risulti utilizzabile ad
opera del giudice di merito, ritiene che operi a favore del lavoratore
l’inversione dell’onere della prova prevista dall’art.2087 c.c., gravando sul
datore l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad
evitare il verificarsi dell’evento dannoso. Lo stesso Consiglio di Stato ha
ritenuto applicabile il principio espresso dall’art.2087 c.c. al datore di
lavoro pubblico (VI 21.3.2005, n.1131).
Il ricorrente, nell’ottica dell’art.2087, immotivatamente ed illogicamente
disapplicato dal Tar quanto alla ripartizione dell’onere probatorio, doveva
esclusivamente provare: a) l’infortunio subito; b) il danno conseguitone, c) il
nesso di causalità tra infortunio e danno, alla luce della nocività
dell’ambiente di lavoro. Presupposti tutti comprovati.
‘E erroneo affermare che il ricorrente avesse l’onere di dimostrare, oltre alla
difettosità dell’apparecchio, anche il “perché” esso non avesse funzionato,
essendo invece onere dell’Amministrazione dimostrare di aver adottato tutte le
cautele necessarie per evitare il verificarsi dell’evento dannoso, ovvero il
caso fortuito (così doveva dimostrare, e non lo ha fatto, l’effettuazione di
ispezioni sullo stato di efficienza delle attrezzature, le sostituzioni
periodiche delle stesse, di aver riscontrato l’indubbio malfunzionamento del
dispositivo, o di averne imposto al medico la sostituzione, di aver adottato
misure, strumenti o protocolli alternativi per il caso di malfunzionamento, sì
da salvaguardare anche l’interesse generale alla prosecuzione del servizio.
Dunque, ai sensi dell’art.2087 c.c. e dell’art.3, lettere d) e f) del d.lgs.
25.1.1992, vigente all’epoca dei fatti, non solo è stata acquisita la prova dei
presupposti della responsabilità datoriale rimessi all’onere del dipendente, ma
non è stata data alcuna prova da parte dell’Amministrazione di elementi
oggettivi capaci di elidere, o anche solo mitigare, la responsabilità per
l’evento lesivo.
Le osservazioni svolta dal Tar nei paragrafi 9ss., appaiono atecniche,
inconferenti e, comunque, fondate su presupposti erronei e travisati.
Tanto più che il ricorrente, al momento in cui operò lo sfilamento dell’ago,
effettivamente indossava i guanti ed il Tar sul punto non ha correttamente
inteso la testimonianza resa nel processo civile instaurato per indennità da
assicurazione privata, tanto più che non si comprenderebbe per quale ragione il
medico avrebbe dovuto togliere i guanti proprio all’atto dello sfilamento
dell’ago. Nel dubbio, comunque, proprio alla luce del richiamato art.115 c.p.c.,
avrebbe dovuto ammettersi la testimonianza richiesta sin dall’atto introduttivo,
è stato leso invece il diritto alla prova del ricorrente, con ulteriore vizio
della decisione finale.
L’appello individua poi il soggetto tenuto all’obbligo risarcitorio nell’Azienda
ospedaliera di Chieti, proprietaria della struttura e titolare del potere-dovere
di organizzazione e di spesa sulle varie unità operative e destinataria, verso
il personale medico-universitario, giusta art.8 della convenzione con
l’Università, “degli stessi obblighi assunti nei confronti dei propri
dipendenti. La stessa Università ha pari responsabilità, quale titolare primaria
del rapporto lavorativo, non solo per “culpa in eligendo” e\o “in vigilando”, ma
anche per negligenza ed imperizia riconducibile al potere direttivo esercitato
sulla specifica unità operativa giusta la citata convenzione. Nell’elenco sub C
allegato alla convenzione compaiono le Unità Operative a direzione ospedaliera e
nell’elenco D quelle a direzione universitaria, in cui è compresa la U.O. di
Clinica chirurgica. Sussiste quindi responsabilità solidale o comunque
concorrente per quota di colpa.
Circa la quantificazione del danno, si richiama la documentazione clinica
prodotta, la relazione peritale del dr. Polidoro, le conclusioni del prof.
Vecchiet, attestanti la risarcibilità delle voci di danno indicate nel ricorso
di primo grado., includenti il danno biologico, nelle sue componenti, il danno
morale, il danno alla capacità lavorativa specifica, il danno esistenziale e il
danno futuro, correlati al possibile riacutizzarsi dell’epatite cronica
progredendo con l’età e con riguardo alla costante necessità di sottoporsi ad
esami invasivi. Poiché la quantificazione operata nel ricorso introduttivo era
riferibile su una parte ristretta della storia clinica del ricorrente, nel
frattempo evolutasi,con ulteriori patologie e terapie, si richiede l’ammissione
di CTU medico-legale onde accertare all’attualità i danni alla persona del
ricorrente.
Si è costituita la Asl di Chieti, deducendo con memoria l’infondatezza
dell’appello anche sotto il profilo del decisivo mancato rispetto, da parte del
ricorrente, delle necessarie cautele imposte dalla legge, (inequivocabilmente la
“non” manipolazione dell’ago).
Si è altresì costituita l’Università degli studi di Chieti, che ha indicato
nella Asl l’unico ente passivamente legittimato, competendogli in via esclusiva
i poteri datoriali di direzione, organizzazione e controllo rilevante ai fini
dell’invocata azione ex art.2087 c.c., escludendosi una concreta colpa “in
vigilando” o “in eligendo”. Nessun rilievo rivestirebbe la circostanza che
l’U.O. fosse a direzione universitaria, ove si consideri che anche il direttore
era soggetto al potere direttivo e organizzativo della ASL. Decisivo è comunque
l’art.13 della Convenzione circa l’esclusiva assunzione da parte della ASL delle
spese per la manutenzione ordinaria delle attrezzature proprie dell’Università
adibite a compiti assistenziali, tanto più nel caso ove lo strumento era fornito
dalla ASL. Sul punto dell’onere della prova, si richiama quanto precisato da VI,
21.3.2005, n.1131, in ordine all’esigenza che il lavoratore debba provare la
cause che hanno determinato il fatto nelle sue modalità, anche in caso di
responsabilità ex art.2087 c.c. Il dedotto malfunzionamento non poteva
autorizzare il ricorrente ad eseguire una manovra imprudente, in assenza di
situazione necessitante (non risulta che fosse rimasto infilato nel braccio del
paziente e avrebbe potuto avvalersi di altro strumento funzionante ovvero
rinviare l’operazione). Si eccepisce infine l’inammissibilità della domanda di
risarcimento del danno esistenziale e del danno futuro, per violazione
dell’art.345 c.p.c.; il ricorrente ha già conseguito dall’INAIL la costituzione
della rendita dal 28 ottobre 1998, e nulla può ottenere a titolo di risarcimento
del danno patrimoniale derivante dalla riduzione della capacità lavorativa,
mentre la inabilità temporanea va esclusa avendo lo stesso percepito la
retribuzione anche durante il periodo di assenza dal lavoro. In subordine di
ripropone l’eccezione di concorso del fatto colposo della vittima ex art.1227
c.c., per violazione delle norme precauzionali (d.m.28 settembre 1990), tanto
più che i guanti, anche ove indossati, sono idonea protezione dai liquidi e non
dalle punture metalliche.
DIRITTO
La questione all’attenzione del Collegio riguarda la risarcibilità (negata dal
giudice di prime cure) del danno subito da un medico, ricercatore universitario
di ruolo, che presta servizio assistenziale presso una ASL (Istituto di clinica
chirurgica generale del P.O. “SS. Annunziata”, struttura convenzionata), a
seguito di contagio da virus HCV (epatite virale di tipo C) contratto a causa
dell’asserito malfunzionamento di un dispositivo per il prelievo del sangue (c.d
“vacutainer”), che l’aveva costretto alla eliminazione manuale di un ago
utilizzato su un paziente affetto, a sua volta, da virus HCV.
Il principio di imputazione della responsabilità che governa la materia,
incentrata sulla natura contrattuale dell’azione risarcitoria esperita ai sensi
dell’art.2087 c.c., (punto che radica la controversia dinnanzi a questo giudice
amministrativo e che non è contestato in sede di appello), è che il datore di
lavoro, esercente l’attività organizzata di trattamento e cura dei pazienti, -
che sia pubblico o privato- va ritenuto responsabile dell’infortunio occorso al
personale sanitario, ove non provi di aver adottato tutte le misure idonee, per
l’esperienza e la tecnica, in relazione alla particolare attività di volta in
volta in rilievo, a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del
lavoratore (giurisprudenza pacifica “ex multis” Cass. Sez, lav.3 agosto 2007,
n.17066).
Su quest’ultimo incombe, bensì, un onere della prova semplificato, conformemente
al principio comune a tutta la responsabilità “contrattuale” ai sensi
dell’art.1218 c.c. (c.d. “inversione dell’onere della prova” rispetto all’ambito
ordinariamente previsto per la responsabilità extracontrattuale ex art.2043
c.c.), ma che, non di meno, si estende alla esistenza del danno “non jure”, alla
nocività dell’ambiente di lavoro, nonché al nesso causale tra l’uno e l’altro
elemento (da ultimo Cass. Sez lav.20 maggio 2010, n.12351).
Sulla fondatezza della domanda qui in esame, influisce perciò la verifica
dell’esatto assolvimento di tale ambito probatorio, risultando in definitiva
irrilevante l’eventuale erroneità della sentenza di primo grado nella parte in
cui con le sue affermazioni avrebbe imposto al lavoratore di provare la colpa
del datore, per cui invece opera la citata presunzione posta dall’art.1218 c.c.
(cfr. Cass. ult.cit.).
Ed invero, impostata la questione nei termini ora riferiti, - d’altra parte
conformi a quanto già rilevato da questo Consiglio in precedente pronuncia (VI,
21 marzo 2005, n.1131)-, le concrete “modalità del fatto”, correttamente
identificate, e l’accertamento delle cause commisurate a tali modalità, la cui
prova incombe appunto al lavoratore, fanno escludere la sussistenza della
responsabilità delle Amministrazioni convenute.
In primo luogo va osservato che per stabilire l’esistenza del nesso eziologico
occorre che la nocività dell’ambiente di lavoro ed il conseguente danno siano
non solo provati ciascuno in sé, ma anche connotati da una univoca connessione
tra le concrete modalità del fatto e le normali modalità di esplicazione della
propria attività lavorativa da parte del dipendente.
Se, infatti, il dipendente non possa provare la “nocività” e poi questa univoca
connessione, viene a mancare il nesso causale, sicchè non opera neppure la
presunzione di colpa dell’Amministrazione e il conseguente onere della prova su
di essa incombente.
Nel caso in esame, va rilevato che il ricorrente avrebbe dovuto provare che il
mancato disinserimento dell’ago dal macchinario fosse anzitutto dovuto ad un
malfunzionamento del dispositivo (nocività dell’ambiente) e che, poi,
l’operazione materialmente causativa del danno (estrazione manuale dello stesso)
fosse rientrante nelle modalità della sua normale attività di lavoro, soggetta
alle direttive ed alla vigilanza, in funzione preventiva degli infortuni,
incombenti sull’Amministrazione (nesso eziologico in concreto).
Nessuna di tali due elementi risulta provato, in base alla stessa prospettazione
dei fatti operata nella domanda proposta, nel senso che anche se tutti gli
elementi di fatto allegati risultassero riscontrati, ciò non potrebbe comunque
condurre all’accoglimento della domanda stessa.
Ed infatti, come correttamente osservato dal Tar, non si pone tanto questione
della prova dello specifico difetto che ha condotto al malfunzionamento del
congegno (c.d. “vacutainer”), ma, ciò che è appunto mancato già in fase di
allegazione, è la prova dell’esistenza stessa di un difetto o guasto, che possa
poi far imputare all’Amministrazione l’inosservanza (presuntivamente colposa) di
regole di prevenzione su di essa incombenti.
In particolare, la mancata estrazione dell’ago poteva essere dovuta a causa non
identificata estranea al guasto o difetto, quale l’errore umano o la mancata
completa attivazione della procedura materialmente prevista, non immediatamente
imputabili all’Amministrazione in termini di negligenza (presunta) nella
prevenzione della nocività dell’ambiente di lavoro.
Questo elemento, peraltro, sarebbe a rigore superabile, in quanto la mancata
prova sul punto non eliminerebbe la astratta configurabilità di una
responsabilità omissiva dell’Amministrazione con riguardo alla prevenzione di
errori umani (prevedibili) del dipendente, errori rispetto ai quali sarebbe
stata comunque tenuta ad un adeguata attività informativa e di vigilanza, posto
che la giurisprudenza in tema di responsabilità ai sensi dell’art.2087 c.c.,
precisa che la responsabilità dell’Amministrazione non è esclusa dalla semplice
imprudenza, imperizia o negligenza del lavoratore stesso (Cass.Sez. lav.28
ottobre 2009, n.22818, 18 maggio 2007, n.11622).
Tuttavia, nel caso in esame, occorreva la ulteriore dimostrazione che
l’operazione di estrazione manuale dell’ago fosse rientrante nelle concrete
modalità di esplicazione dell’attività del lavoratore e che queste modalità
fossero conformi ad un “protocollo essenziale” di svolgimento delle sue
incombenze che, quand’anche inosservato, appunto, per imprudenza, imperizia o
negligenza del dipendente, fosse comunque riconoscibile come attività propria
della mansioni dello stesso dipendente.
Nel caso tuttavia, come anche dedotto dalla difesa erariale, non è stata
indicata, e né risulta possibile indicare, la norma di prevenzione non osservata
dall’Amministrazione rispetto alla specifica operazione dell’estrazione manuale
ed in relazione alle tipiche mansioni del medico, nonchè la concreta dipendenza
dell’evento dannoso da tale violazione, posto che il fatto del mancato
“sfilamento” automatico dell’ago non imponeva al medico di pervenire comunque
all’estrazione mediante operazione manuale.
Tale misura non poteva consistere certo nell’utilizzazione dei guanti da parte
del ricorrente, (ritenendo cioè che la prova sul punto sia stata ragionevolmente
raggiunta in base alla documentazione in atti), considerando che, in base ad un
metro obiettivo di sua commisurazione al pericolo cui si correla, la predetta
misura serve a prevenire il rischio della irrorazione o del contatto della cute
delle mani con liquidi in fuoriuscita, ma non il taglio o la puntura provocate
da oggetti metallici quali appunto un ago.
Né risulta affermato che l’operazione manuale si rendesse necessaria a causa
della permanenza dell’ago stesso nei vasi di un paziente, elemento che avrebbe
potuto far pensare alla giustificabilità dell’intervento di un medico a
salvaguardia della sua salute. Né vieppiù risulta dedotto che non vi fosse altro
macchinario idoneo perfettamente funzionante cui si potesse ricorrere per il
prosieguo delle attività di prelievo, nonchè la simultanea urgenza assoluta di
proseguire nell’espletamento delle operazioni effettuate con il macchinario in
questione.
E dunque, secondo il metro di normalità dell’attività svolgibile dal dipendente,
anche assunta come estensibile fino a ricomprendere imprudenze, imperizie e
negligenze, l’estrazione manuale si connota invece come un’operazione “abnorme”,
(Cass.n.22818\2009, cit.) tale cioè da esondare dal normale “protocollo”
dell’attività in concreto incombente sul lavoratore medico e da pervenire alla
causazione di un evento non riconducibile all’area di rischio specificamente
connessa a tale attività, anche estensivamente intesa, provocandosi per contro
una serie causale appunto abnorme ed esclusivamente determinante
dell’infortunio.
Può dunque, nel caso, farsi applicazione del principio giurisprudenziale per cui
in materia di infortuni sul lavoro, la condotta colposa del lavoratore
infortunato assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento
quando non sia riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione
svolta, esonerandosi da responsabilità il datore quando appunto il comportamento
del lavoratore e le sue conseguenze, presentino i caratteri dell’eccezionalità,
dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle
direttive di organizzazione ricevute (Cass.pen. IV, 22 dicembre 2009, n.10448).
Alla reiezione dell’appello nei termini che precedono, deve peraltro
accompagnarsi la compensazione della spese di giudizio, tra le parti costituite,
attesa la particolare natura della controversia e la delicatezza delle posizioni
soggettive coinvolte.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, definitivamente pronunziando,
respinge l’appello, confermando con diversa motivazione la sentenza impugnata.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 ottobre 2010 con
l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Barbagallo, Presidente
Luciano Barra Caracciolo, Consigliere, Estensore
Rosanna De Nictolis, Consigliere
Maurizio Meschino, Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
Il Segretario
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 18/11/2010
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
Il Dirigente della Sezione
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