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TRIBUNALE
DI PRIMO GRADO DELLE C.E., Sez. III, 2/03/2010, Sentenze T-16/04
DIRITTO AMBIENTALE - Tutela dell’ambiente - Comunità e Stati membri -
Competenze separate - Funzione - Artt. 174, 176 e 43 Trattato CE - Direttiva
2003/87/CE - Fattispecie: Sistema per lo scambio di quote di emissioni dei
gas a effetto serra. Dagli artt. 174 CE - 176 CE risulta che, in materia
di tutela dell’ambiente, le competenze della Comunità e degli Stati membri
sono separate. Pertanto, la normativa comunitaria in questo settore non mira
ad un’armonizzazione completa e l’art. 176 CE contempla la possibilità per
gli Stati membri di adottare misure di tutela rafforzate, subordinate alle
sole condizioni che esse siano compatibili con il Trattato CE e siano
notificate alla Commissione (v., in tal senso, sentenza della Corte
14/04/2005, causa C-6/03, Deponiezweckverband Eiterköpfe). Nella specie, se
le normative nazionali pertinenti, all’origine dell’impossibilità per la
ricorrente di trasferire liberamente contingenti di quote tra i suoi
impianti stabiliti in diversi Stati membri, siano conformi o meno alla
libertà di stabilimento ai sensi dell’art. 43 CE, si deve dichiarare che
tale restrizione a detta libertà non può essere imputata alla direttiva
2003/87/CE per il solo fatto che questa non vieti in modo esplicito siffatto
comportamento degli Stati membri. A maggior ragione il legislatore
comunitario non può essere considerato responsabile di avere al riguardo
violato in modo grave e manifesto i limiti del proprio potere discrezionale
ai sensi dell’art. 174 CE, in combinato disposto con l’art. 43 CE.
Pres./Rel. Azizi - Arcelor SA c. Parlamento europeo ed altro. TRIBUNALE
DI PRIMO GRADO DELLE C.E., Sez. III, 2/03/2010, Sentenze T-16/04
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Produttori di ghisa o d’acciaio - Diritti
d’emissione - Obblighi di autorizzare le emissioni di restituire le quote e
sanzioni - Sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto
serra - Domanda di annullamento - Mancanza di incidenza diretta ed
individuale - Direttiva 96/61 - Dir. 2003/87/CE. La tesi secondo cui i
produttori di ghisa o di acciaio stabiliti nel mercato interno costituiscono
una categoria chiusa di operatori, la cui composizione non è più
suscettibile di variare va respinta. Anche supponendo che detti produttori
disponessero di diritti d’emissione accordati in base alla direttiva 96/61,
questi pretesi diritti, lungi dall’essere specifici, se non addirittura
spettanti (alla sola ricorrente), avrebbero recato beneficio nella stessa
misura a tutti gli operatori esercenti le attività previste dall’allegato I
della direttiva in parola. Inoltre, il solo fatto che, l’ingresso nel
mercato di riferimento sia possibile solo tramite l’acquisto di un
produttore che vi sia già impiantato non esclude che l’identità di tale
produttore, o del nuovo entrante che l’acquista, muti e che si modifichi in
tal modo la composizione del gruppo di produttori in esame. Ne consegue che
gli effetti giuridici delle disposizioni controverse, ossia gli obblighi di
autorizzare le emissioni e di restituire le quote, le sanzioni in caso di
mancato rispetto di tali obblighi nonché l’asserita fissazione di un tetto
massimo delle quote in base all’art. 9 della direttiva impugnata, incidono
sull’attività economica e sulla posizione giuridica degli operatori di cui
all’allegato I della direttiva impugnata, compresi quelli del settore di
produzione di ghisa o di acciaio, nella stessa misura e in virtù di una
situazione determinata obiettivamente. Sicché, tali disposizioni non sono
idonee a qualificare la situazione di fatto e di diritto nei confronti di
altri operatori e, quindi, di individualizzarla così come
individualizzerebbero un destinatario. Pres./Rel. Azizi - Arcelor SA c.
Parlamento europeo ed altro. TRIBUNALE DI PRIMO GRADO DELLE C.E., Sez.
III, 2/03/2010, Sentenze T-16/04
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Riduzione delle emissioni di CO2 - Gas ad effetto
serra nell’atmosfera - Protocollo di Kyoto - Obblighi risultanti dalle
disposizioni - Autorizzazione di emissione - Modalità di assegnazione o di
ritiro delle quote di emissione - Obbligo di restituzione - All. I direttiva
2003/87/CE. In tema di riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra
nell’atmosfera, (notevoli dimensioni dell’impianto, volume annuo, produzione
e capacità economica e/o tecnologica individuale a ridurre ulteriormente le
emissioni di CO2…), in conformità all’allegato I della direttiva 2003/87/CE,
gli obblighi risultanti dalle disposizioni sono applicabili, in modo
uniforme e generale, a tutti i gestori di impianti la cui produzione
oltrepassi la soglia ivi indicata, senza distinzione a seconda delle loro
dimensioni. Di conseguenza, la portata di detti obblighi dipende solo dalla
quantità di emissioni di gas a effetto serra che, in mancanza di prova
contraria, può aumentare con le dimensioni e con la capacità produttiva
dell’impianto, con la conseguenza che tutti i gestori interessati si trovano
in una situazione paragonabile. Inoltre, l’art. 4 della direttiva 2003/87/CE
si limita ad assoggettare tutti i gestori che producono gas a effetto serra
all’obbligo di conseguire un’autorizzazione di emissione, senza però
specificare le condizioni e le modalità di assegnazione o di ritiro delle
quote di emissione. Tale ragionamento si applica per analogia all’obbligo di
restituzione di cui all’art. 12, n. 3, della direttiva, in combinato
disposto con il suo art. 6, n. 2, lett. e), e alle sanzioni previste
dall’art. 16, nn. 2-4, di detta direttiva. Pres./Rel. Azizi - Arcelor SA c.
Parlamento europeo ed altro. TRIBUNALE DI PRIMO GRADO DELLE C.E., Sez.
III, 2/03/2010, Sentenze T-16/04
DIRITTO PROCESSUALE EUROPEO - Ricorso - Persona fisica o giuridica -
Ricevibilità - Violazione sufficientemente qualificata di una norma di
diritto conferente diritti ai singoli - Certezza del diritto - Art. 230,
c.4°, CE. A termini dell’art. 230, quarto comma, CE, qualsiasi persona
fisica o giuridica può proporre un ricorso contro le decisioni prese nei
suoi confronti e contro le decisioni che, pur apparendo come un regolamento
o una decisione presa nei confronti di altre persone, la riguardano
direttamente ed individualmente. Pertanto, la condizione secondo cui una
persona fisica o giuridica dev’essere direttamente interessata dall’atto
oggetto del ricorso, ai sensi dell’art. 230, quarto comma, CE, richiede che
tale atto produca effetti direttamente sulla situazione giuridica del
singolo soggetto e non lasci alcun potere discrezionale ai suoi destinatari,
incaricati della sua applicazione, la quale deve avere carattere meramente
automatico e deve derivare dalla sola normativa comunitaria, senza
applicazione di altre norme intermedie (sentenze della Corte 29/06/2004,
causa C-486/01 P, Front national/Parlamento e 22/03/2007, causa C-15/06 P,
Regione Siciliana/Commissione). Inoltre, una persona fisica o giuridica
diversa dal destinatario di un atto può ritenersi individualmente
interessata ai sensi dell’art. 230, quarto comma, CE, solo se è colpita
dall’atto di cui trattasi in ragione di talune sue peculiari qualità o di
una circostanza di fatto che la distingue da chiunque altro e, quindi, la
identifica in modo analogo al destinatario dell’atto (sentenze della Corte
15/07/1963, causa 25/62, Plaumann/Commissione e 1°/04/2004, causa C-263/02
P, Commissione/Jégo-Quéré). Pres./Rel. Azizi - Arcelor SA c. Parlamento
europeo ed altro. TRIBUNALE DI PRIMO GRADO DELLE C.E., Sez. III,
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DIRITTO PROCESSUALE EUROPEO - Elaborazione di un atto di natura normativa
- Assenza di diritti procedurali espressamente garantiti - Art. 230 CE.
In assenza di diritti procedurali espressamente garantiti, è contrario alla
lettera e allo spirito dell’art. 230 CE consentire a qualsiasi soggetto,
solo per aver questi partecipato all’elaborazione di un atto di natura
normativa, di proporre poi ricorso contro quest’ultimo (v., ordinanza del
Tribunale 14/12/2005, causa T-369/03, Arizona Chemical e a./Commissione).
Pres./Rel. Azizi - Arcelor SA c. Parlamento europeo ed altro. TRIBUNALE
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DIRITTO PROCESSUALE EUROPEO - Responsabilità extracontrattuale della
Comunità per comportamento illecito - Presupposti - Domanda di risarcimento
- Violazione sufficientemente qualificata - Nesso di causalità - Art. 288,
c.2°, CE. L’esistenza di una responsabilità extracontrattuale della
Comunità per comportamento illecito dei suoi organi, ai sensi dell’art. 288,
secondo comma, CE, presuppone che siano soddisfatte varie condizioni, vale a
dire l’illiceità del comportamento di cui si fa carico alle istituzioni,
l’effettiva esistenza del danno e la presenza di un nesso di causalità fra
il comportamento fatto valere e il danno lamentato [v. sentenza della Corte
9/11/2006, causa C-243/05 P, Agraz e a./Commissione; sentenze del Tribunale
16 /11/2006, causa T-333/03, Masdar (UK)/Commissione]. Quanto alla prima di
tali condizioni, è necessario che sia dimostrata una violazione
sufficientemente qualificata di una norma giuridica preordinata a conferire
diritti ai soggetti. Per quanto riguarda la condizione per cui la violazione
deve essere sufficientemente qualificata, il criterio decisivo che consente
di ritenere che essa sia soddisfatta è quello della violazione grave e
manifesta, commessa dall’istituzione comunitaria, dei limiti posti al suo
potere discrezionale. Soltanto quando tale istituzione dispone solo di un
margine di discrezionalità considerevolmente ridotto, se non addirittura
inesistente, la semplice trasgressione del diritto comunitario può essere
sufficiente per accertare l’esistenza di una violazione sufficientemente
qualificata (sentenza della Corte 10/12/2002, causa C-312/00 P, Commissione/Camar
e Tico; sentenze del Tribunale 12/07/2001, cause riunite T-198/95, T-171/96,
T-230/97, T-174/98 e T-225/99, Comafrica e Dole Fresh Fruit Europe/Commissione).
Pres./Rel. Azizi - Arcelor SA c. Parlamento europeo ed altro. TRIBUNALE
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DIRITTO PROCESSUALE EUROPEO - Diritto di proprietà - Libertà di
esercitare un’attività professionale - Restrizioni - Obiettivi di interesse
generale - Proporzionalità - Funzione sociale - Parità di trattamento.
Sebbene il diritto di proprietà e la libertà di esercizio di un’attività
economica facciano parte dei principi generali del diritto comunitario, tali
principi non costituiscono tuttavia prerogative assolute, ma vanno
considerati alla luce della loro funzione nella società. Ne consegue che
possono apportarsi restrizioni all’attuazione del diritto di proprietà e al
libero esercizio di un’attività professionale, a condizione che tali
restrizioni rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale
perseguiti dalla Comunità e non costituiscano, rispetto allo scopo
perseguito, un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da ledere la
sostanza stessa dei diritti così garantiti (v., in tal senso, sentenza della
Corte 30/06/2005, causa C-295/03 P, Alessandrini e a./Commissione).
Pres./Rel. Azizi - Arcelor SA c. Parlamento europeo ed altro. TRIBUNALE
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CORTE DI GIUSTIZIA
delle Comunità Europee,
SENTENZA DEL TRIBUNALE (Terza Sezione)
2 marzo 2010
«Ambiente - Direttiva 2003/87/CE - Sistema per lo scambio di quote di
emissioni dei gas a effetto serra - Domanda di annullamento - Mancanza
di incidenza diretta ed individuale - Domanda di risarcimento -
Ricevibilità - Violazione sufficientemente qualificata di una norma di
diritto conferente diritti ai singoli - Diritto di proprietà - Libertà
di esercitare un’attività professionale - Proporzionalità - Parità di
trattamento - Libertà di stabilimento - Certezza del diritto»
Nella causa T-16/04,
Arcelor SA, con sede in Lussemburgo (Lussemburgo), rappresentata
inizialmente dagli avv.ti W. Deselaers, B. Meyring e B. Schmitt-Rady,
successivamente dagli avv.ti Deselaers e Meyring,
ricorrente,
contro
Parlamento europeo, rappresentato inizialmente dai sigg. K. Bradley e M.
Moore, successivamente dal sig. L. Visaggio e dalla sig.ra I.
Anagnostopoulou, in qualità di agenti,
e
Consiglio dell’Unione europea, rappresentato inizialmente dai sigg. B.
Hoff-Nielsen e M. Bishop, successivamente dalle sig.re E. Karlsson e A.
Westerhof Löfflerova, successivamente dalle sig.re Westerhof Löfflerova
e K. Michoel, in qualità di agenti,
convenuti,
sostenuti da:
Commissione europea, rappresentata dal sig. U. Wölker, in qualità di
agente,
interveniente,
avente ad oggetto, da un lato, la domanda di annullamento parziale della
direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 13 ottobre 2003,
2003/87/CE, che istituisce un sistema per lo scambio di quote di
emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità e che modifica la
direttiva 96/61/CE del Consiglio (GU L 275, pag. 32), e, dall’altro, la
domanda di risarcimento del danno subìto dalla ricorrente a seguito
dell’adozione di tale direttiva,
IL TRIBUNALE (Terza Sezione),
composto dal sig. J. Azizi (relatore), presidente, dalla sig.ra E.
Cremona e dal sig. S. Frimodt Nielsen, giudici,
cancelliere: sig.ra K. Pochec, amministratore
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 15
aprile 2008,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
Contesto normativo
I - Norme del Trattato CE
1 L’art. 174 CE dispone in particolare quanto segue:
«1. La politica della Comunità in materia ambientale contribuisce a
perseguire i seguenti obiettivi:
- salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente,
- protezione della salute umana,
- utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali,
- promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i
problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale.
2. La politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato
livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle
varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della
precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in
via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul
principio “chi inquina paga”.
(...)
3. Nel predisporre la sua politica in materia ambientale la Comunità
tiene conto:
- dei dati scientifici e tecnici disponibili,
- delle condizioni dell’ambiente nelle varie regioni della Comunità,
- dei vantaggi e degli oneri che possono derivare dall’azione o
dall’assenza di azione,
- dello sviluppo socioeconomico della Comunità nel suo insieme e dello
sviluppo equilibrato delle sue singole regioni.
(...)».
2 L’art. 175, n. 1, CE prevede che:
«1. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all’articolo
251 [CE] e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del
Comitato delle regioni, decide in merito alle azioni che devono essere
intraprese dalla Comunità per realizzare gli obiettivi dell’articolo 174
[CE]».
II - Direttiva impugnata
3 La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 13 ottobre 2003,
2003/87/CE, che istituisce un sistema per lo scambio di quote di
emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità e che modifica la
direttiva 96/61/CE del Consiglio (GU L 275, pag. 32; in prosieguo: la
«direttiva impugnata»), entrata in vigore il 25 ottobre 2003, istituisce
un sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra
nella Comunità europea (in prosieguo: il «sistema dello scambio di
quote»), al fine di promuovere la riduzione delle emissioni dei gas a
effetto serra, in particolare del biossido di carbonio (in prosieguo: il
«CO2»), secondo criteri di validità in termini di costi e di efficienza
economica (art. 1 della direttiva impugnata). Questa si fonda sugli
obblighi incombenti sulla Comunità ai sensi della Convenzione quadro
delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e del Protocollo di Kyoto.
Quest’ultimo è stato approvato con decisione del Consiglio 25 aprile
2002, 2002/358/CE, riguardante l’approvazione, a nome della Comunità
europea, del Protocollo di Kyoto allegato alla Convenzione quadro delle
Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e l’adempimento congiunto dei
relativi impegni (GU L 130, pag. 1). Il Protocollo di Kyoto è entrato in
vigore il 16 febbraio 2005.
4 La Comunità e i suoi Stati membri si sono impegnati a ridurre, nel
periodo 2008-2012, le loro emissioni antropiche aggregate dei gas a
effetto serra elencate nell’allegato A del Protocollo di Kyoto, nella
misura dell’8% rispetto al livello del 1990 (quarto ‘considerando’ della
direttiva impugnata). A tal fine, hanno convenuto di assolvere
congiuntamente ai loro impegni in materia di riduzione delle emissioni
conformemente all’art. 4 del Protocollo di Kyoto in base ad un accordo
denominato di «ripartizione degli oneri», la cui tabella dei contributi
da parte di ciascuno Stato membro è contenuta nell’allegato II della
decisione 2002/358.
5 Il Protocollo di Kyoto prevede tre procedure per consentire ai paesi
partecipanti di conseguire i loro obiettivi di riduzione delle emissioni
dei gas a effetto serra, cioè, innanzitutto, lo scambio internazionale
di quote di emissioni, in secondo luogo, la realizzazione congiunta di
progetti di riduzione e, in terzo luogo, il meccanismo per uno sviluppo
«pulito»; i due ultimi meccanismi vengono anche denominati «meccanismi
flessibili». Mentre la realizzazione congiunta di progetti di riduzione
ha lo scopo di ridurre le emissioni dei gas a effetto serra nei paesi
partecipanti al Protocollo di Kyoto, il meccanismo per uno sviluppo
«pulito» concerne progetti di riduzione di emissioni da realizzare nei
paesi in via di sviluppo che non hanno sottoscritto gli obiettivi del
Protocollo di Kyoto.
6 Ai fini della realizzazione, all’interno della Comunità, degli
obiettivi di riduzione previsti dal Protocollo di Kyoto e dalla
decisione 2002/358, la direttiva impugnata dispone che, nell’ambito del
sistema dello scambio di quote, i gestori degli impianti di cui al suo
allegato I devono coprire le loro emissioni dei gas a effetto serra con
quote loro assegnate conformemente a piani nazionali d’assegnazione (in
prosieguo: i «PNA»). Se un gestore consegue la riduzione delle proprie
emissioni, può vendere le quote eccedenti ad altri gestori.
Inversamente, il gestore di un impianto le cui emissioni sono eccessive
può acquistare le quote necessarie presso un gestore che ne disponga in
eccesso.
7 In forza dell’allegato I della direttiva impugnata, il suo ambito di
applicazione si estende, tra l’altro, a taluni impianti di combustione
destinati alla produzione di energia nonché alla produzione e alla
trasformazione dei metalli ferrosi, quali gli «[i]mpianti di produzione
di ghisa o acciaio (fusione primaria o secondaria), compresa la relativa
colata continua di capacità superiore a 2,5 tonnellate all’ora».
8 La direttiva impugnata prevede una prima fase compresa tra il 2005 e
il 2007 (in prosieguo: il «primo periodo per l’assegnazione»), che
precede il primo periodo di impegni previsto dal Protocollo di Kyoto, e
una seconda fase compresa tra il 2008 e il 2012 (in prosieguo: il
«secondo periodo per l’assegnazione»), corrispondente al suddetto primo
periodo di impegni (art. 11 della direttiva impugnata). Nel corso del
primo periodo per l’assegnazione, la direttiva impugnata si applica ad
uno solo dei gas a effetto serra elencati nell’allegato II, vale a dire
il CO2, ed unicamente alle emissioni risultanti dalle attività indicate
dall’allegato I (art. 2 della direttiva impugnata), tra cui la
produzione e la trasformazione dei metalli ferrosi.
9 Più concretamente, il sistema dello scambio di quote si fonda, da una
parte, sull’imposizione di un’autorizzazione preventiva ad emettere gas
a effetto serra (artt. 4-8 della direttiva impugnata) e, dall’altra,
sull’assegnazione di quote che autorizzano il gestore titolare ad
emettere una certa quantità di tale gas, con l’obbligo per lo stesso di
restituire annualmente il numero di quote corrispondente alle emissioni
totali del proprio impianto (art. 12, n. 3, della direttiva impugnata).
10 Pertanto, tutti gli impianti di cui all’allegato I della direttiva
impugnata devono essere dotati di un’autorizzazione rilasciata
dall’autorità nazionale competente. A termini dell’art. 4 della
direttiva impugnata, «[g]li Stati membri provvedono affinché, a
decorrere dal 1º gennaio 2005, nessun impianto possa esercitare le
attività elencate all’allegato I che comportano emissioni specificate in
relazione a tale attività, a meno che il relativo gestore non sia munito
di un’autorizzazione rilasciata da un’autorità competente conformemente
agli articoli 5 e 6, o che l’impianto non sia temporaneamente escluso
dal sistema [per lo scambio di quote], ai sensi dell’articolo 27» della
suddetta direttiva.
11 Inoltre, l’art. 6, n. 2, della direttiva impugnata prevede quanto
segue:
«L’autorizzazione ad emettere gas a effetto serra contiene i seguenti
elementi:
(...)
c) disposizioni in tema di monitoraggio, con specificazione della
metodologia e della frequenza dello stesso;
d) disposizioni in tema di comunicazioni,
e) obbligo di restituire quote di emissioni pari alle emissioni
complessivamente rilasciate dall’impianto durante ciascun anno civile,
come verificate a norma dell’articolo 15 [della direttiva impugnata],
entro quattro mesi dalla fine di tale anno».
12 Le condizioni e le procedure in base alle quali le autorità nazionali
competenti assegnano le quote, in base a un PNA, ai gestori degli
impianti sono previste agli artt. 9-11 della direttiva impugnata.
13 L’art. 9, n. 1, primo comma, della direttiva impugnata stabilisce
che:
«Per ciascun periodo di cui all’articolo 11, paragrafi 1 e 2, [della
direttiva impugnata], ciascuno Stato membro elabora un [PNA] che
determina le quote totali di emissioni che intende assegnare per tale
periodo e le modalità di tale assegnazione. Il [PNA] si fonda su criteri
obiettivi e trasparenti, compresi i criteri elencati nell’allegato III,
e tiene nella dovuta considerazione le osservazioni del pubblico. Fatto
salvo il Trattato [CE], la Commissione elabora entro il 31 dicembre 2003
gli orientamenti per l’attuazione dei criteri elencati nell’allegato III».
14 La Commissione delle Comunità europee ha elaborato una prima versione
dei suddetti orientamenti nell’ambito della sua comunicazione 7 gennaio
2004, COM(2003) 830 def., sugli orientamenti destinati ad assistere gli
Stati membri nell’applicazione dei criteri elencati all’allegato III
della direttiva impugnata e sulle circostanze in cui ricorre la forza
maggiore. Con la sua comunicazione 22 dicembre 2005, COM (2005) 703 def.,
la Commissione ha emanato orientamenti complementari relativi ai PNA del
secondo periodo di assegnazione (in prosieguo: gli «orientamenti
complementari della Commissione»).
15 A termini dell’art. 9, n. 1, secondo comma, della direttiva
impugnata:
«Per il periodo di cui all’articolo 11, paragrafo 1[, della direttiva
impugnata], il [PNA] è pubblicato e notificato alla Commissione e agli
altri Stati membri entro il 31 marzo 2004. Per i periodi successivi, il
[PNA] è pubblicato e notificato alla Commissione e agli altri Stati
membri almeno diciotto mesi prima dell’inizio del periodo in questione».
16 Ai sensi dell’art. 9, n. 3, della direttiva impugnata:
«Nei tre mesi successivi alla notificazione da parte di uno Stato membro
di un [PNA] di cui al paragrafo 1, la Commissione può respingerlo, in
tutto o in parte, qualora lo ritenga incompatibile con l’articolo 10 o
con i criteri elencati nell’allegato III [della direttiva impugnata]. Lo
Stato membro prende una decisione a norma dell’articolo 11, paragrafo 1
o paragrafo 2, [della direttiva impugnata,] solo previa accettazione da
parte della Commissione delle modifiche che esso propone. La Commissione
giustifica ogni decisione di rigetto».
17 A termini dell’art. 10 della direttiva impugnata, gli Stati membri
devono assegnare a titolo gratuito almeno il 95% delle quote per il
primo periodo di assegnazione e almeno il 90% per il secondo periodo di
assegnazione.
18 L’art. 11 della direttiva impugnata, relativo all’assegnazione e al
rilascio di quote, così recita:
«1. Per il triennio che ha inizio il 1º gennaio 2005 ciascuno Stato
membro decide in merito alle quote totali di emissioni che assegnerà in
tale periodo nonché in merito all’assegnazione di [tali quote] al
gestore di ciascun impianto. Tale decisione è presa almeno tre mesi
prima dell’inizio del suddetto triennio, sulla base del [PNA] di cui
all’articolo 9 e nel rispetto dell’articolo 10 [della direttiva
impugnata], tenendo nella dovuta considerazione le osservazioni del
pubblico.
2. Per il quinquennio che ha inizio il 1º gennaio 2008 e per ciascun
periodo successivo di cinque anni, ciascuno Stato membro decide in
merito alle quote totali di emissioni che assegnerà in tale periodo,
nonché inizia il processo di assegnazione di tali quote al gestore di
ciascun impianto. Tale decisione è presa almeno dodici mesi prima
dell’inizio del periodo in oggetto, sulla base del [PNA] di cui
all’articolo 9 e nel rispetto dell’articolo 10 [della direttiva
impugnata], tenendo nella dovuta considerazione le osservazioni del
pubblico.
3. Le decisioni adottate a norma dei paragrafi 1 e 2 sono conformi alle
disposizioni del Trattato, in particolare agli articoli 87 e 88. Nel
decidere in merito all’assegnazione delle quote di emissioni, gli Stati
membri tengono conto della necessità di permettere ai nuovi entranti di
accedere a tali quote.
(...)».
19 L’allegato III della direttiva impugnata elenca undici criteri
applicabili ai PNA.
20 Il criterio n. 1 dell’allegato III della direttiva impugnata enuncia
quanto segue:
«La quantità totale delle quote da assegnare per il periodo interessato
è coerente con l’obbligo degli Stati membri di limitare le proprie
emissioni ai sensi della decisione 2002/358 (…) e del Protocollo di
Kyoto, tenendo conto, da un lato, della percentuale delle emissioni
complessive che tali quote rappresentano rispetto alle emissioni
prodotte da fonti che non rientrano nel campo di applicazione della
presente direttiva e, dall’altro, delle politiche energetiche nazionali,
e dovrebbe essere coerente con il programma nazionale sui cambiamenti
climatici. La quantità totale delle quote da assegnare non deve superare
le minime esigenze per la rigorosa applicazione dei criteri del presente
allegato. Fino al 2008, la quantità deve essere conforme ad un
orientamento mirato al raggiungimento o al superamento dell’obiettivo di
ciascuno Stato membro, come previsto dalla decisione 2002/358 (…) e dal
Protocollo di Kyoto».
21 Il criterio n. 3 dell’allegato III della direttiva impugnata così
prevede:
«La quantità delle quote da assegnare è coerente con il potenziale,
compreso il potenziale tecnologico, di riduzione delle emissioni delle
attività contemplate dal presente sistema [dello scambio di quote]. Gli
Stati membri possono basare la ripartizione delle quote sulla media
delle emissioni dei gas a effetto serra relative ai prodotti di ciascuna
attività e sui progressi realizzabili in ciascuna attività».
22 A termini del criterio n. 6 dell’allegato III della direttiva
impugnata, «[i]l [PNA] contiene informazioni sulle modalità alle quali i
nuovi entranti potranno cominciare ad aderire al sistema comunitario
[dello scambio di quote] in ciascuno Stato membro».
23 Ai sensi del criterio n. 7 dell’allegato III della direttiva
impugnata, «[i]l [PNA] può tener conto delle azioni [di riduzione delle
emissioni] intraprese in fasi precoci e contenere informazioni su come
si tiene conto delle azioni intraprese in fasi precoci». A termini dello
stesso criterio, « [i] parametri provenienti dai documenti di
riferimento relativi alle migliori tecnologie disponibili possono essere
utilizzati dagli Stati membri nell’elaborazione dei loro [PNA]; tali
parametri possono incorporare un elemento che tenga conto delle azioni
[di riduzione delle emissioni] intraprese in fasi precoci».
24 L’art. 12, n. 1, della direttiva impugnata prevede che le quote
possano essere trasferite tra persone fisiche o giuridiche all’interno
della Comunità o a persone fisiche o giuridiche nei paesi terzi, purché
sia stato concluso un accordo tra questi paesi e la Comunità
conformemente all’art. 25 della direttiva impugnata e purché dette quote
siano state reciprocamente riconosciute da parte dell’autorità
competente di ciascuno Stato membro. Ai sensi dell’art. 12, n. 3, della
direttiva impugnata, anteriormente al 1° maggio di ogni anno il gestore
di ciascun impianto deve restituire all’autorità competente un numero di
quote di emissioni pari alle emissioni totali di tale impianto nel corso
dell’anno civile precedente, affinché tali quote vengano successivamente
cancellate.
25 Secondo l’art. 13, n. 1, della direttiva impugnata, le quote sono
valide soltanto per le emissioni prodotte nel periodo per il quale sono
rilasciate.
26 A norma dell’art. 16, n. 2, della direttiva impugnata, gli Stati
membri assicurano la pubblicazione dei nomi dei gestori che hanno
violato i requisiti relativi alla restituzione di quote sufficienti a
norma dell’art. 12, n. 3, della direttiva impugnata. A termini dell’art.
16, nn. 3 e 4, della direttiva impugnata, il gestore che non abbia
restituito un numero di quote sufficiente a coprire le emissioni
rilasciate durante l’anno precedente è obbligato a pagare un’ammenda per
le emissioni in eccesso pari ad EUR 40 durante il primo periodo di
assegnazione e pari ad EUR 100 nel corso dei periodi successivi, per
ciascuna tonnellata di CO2 equivalente in eccesso emessa e non coperta
da una quota restituita. Inoltre, il pagamento dell’ammenda inflitta per
le emissioni in eccesso non dispensa il gestore dall’obbligo di
restituire un numero di quote corrispondente al totale delle sue
emissioni.
27 A termini dell’art. 24 della direttiva impugnata, salva
l’approvazione da parte della Commissione in conformità alla procedura
di cui all’art. 23, n. 2, di detta direttiva, in combinato disposto con
la decisione del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/468/CE, recante modalità
per l’esercizio delle competenze di esecuzione conferite alla
Commissione (GU L 184, pag. 23), gli Stati membri possono applicare il
sistema dello scambio di quote ad attività, ad impianti e a gas a
effetto serra supplementari, tenuto conto di tutti i criteri pertinenti,
in particolare le ripercussioni sul mercato interno, le potenziali
distorsioni della concorrenza, l’integrità ambientale del sistema dello
scambio di quote e l’affidabilità del sistema di monitoraggio o di
comunicazione previsto.
28 L’art. 27 della direttiva impugnata prevede che gli Stati membri
possano altresì richiedere alla Commissione l’esclusione temporanea di
taluni impianti dal sistema dello scambio di quote, richiesta a cui la
Commissione può dare seguito mediante decisione. Inoltre, ai sensi
dell’art. 28 della direttiva impugnata, gli Stati membri possono, con il
consenso della Commissione, autorizzare i gestori che ne abbiano fatto
domanda a costituire un raggruppamento di impianti per la stessa
attività. Infine, in applicazione dell’art. 29 della direttiva
impugnata, gli Stati membri possono chiedere alla Commissione che
determinati impianti beneficino di emissioni aggiuntive per cause di
forza maggiore.
29 L’art. 30 della direttiva impugnata, intitolato «Riesame e sviluppi
ulteriori», prevede che:
«(...)
2. Sulla base dell’esperienza acquisita nell’applicazione della presente
direttiva e dei progressi realizzati nel monitoraggio delle emissioni
dei gas a effetto serra, e tenuto conto degli sviluppi registrati a
livello internazionale, la Commissione redige un rapporto
sull’applicazione della presente direttiva riguardante quanto segue:
a) il modo e l’opportunità di modificare l’allegato I allo scopo di
includervi altri importanti settori, fra cui quello chimico,
dell’alluminio e dei trasporti, e altre attività ed emissioni di altri
gas a effetto serra elencate nell’allegato II onde migliorare
ulteriormente l’efficienza economica del sistema [dello scambio di
quote];
(...)».
Fatti e procedimento
30 L’Arcelor SA, ricorrente, è sorta a seguito di una fusione
intervenuta tra le società ARBED, Aceralia e Usinor nel 2001.
Successivamente alla sua fusione con la Mittal avvenuta nel 2006, essa è
stata denominata ArcelorMittal ed è divenuta il principale produttore di
acciaio al mondo. Ciò nonostante, al momento dell’introduzione del
presente ricorso la ricorrente, con un volume di produzione pari a 44
milioni di tonnellate all’anno, di cui oltre il 90% prodotto nell’Unione
europea, rappresentava meno del 5% della produzione mondiale di acciaio.
La stessa possiede 17 impianti di produzione di ghisa greggia e di
acciaio stabiliti all’interno dell’Unione ed ubicati in Francia (Fos-sur-Mer,
Florange e Dunkerque), in Belgio (Liegi e Gand), in Spagna (Gijón-Avilés)
e in Germania (Brema e Eisenhüttenstadt).
31 Con atto depositato alla cancelleria del Tribunale il 15 gennaio
2004, la ricorrente ha proposto il presente ricorso.
32 Nell’atto introduttivo la ricorrente chiede che il Tribunale voglia:
- annullare l’art. 4, l’art. 6, n. 2, lett. e), l’art. 9, l’art. 12, n.
3, l’art. 16, nn. 2-4, in combinato disposto con l’art. 2, l’allegato I
e il criterio n. 1 dell’allegato III della direttiva impugnata, là dove
queste disposizioni (in prosieguo: le «disposizioni controverse») si
applicano a impianti di produzione di ghisa grezza o di acciaio
comprendenti una colata continua di capacità superiore a 2,5 tonnellate
all’ora;
- dichiarare che il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione
europea hanno l’obbligo di risarcire i danni subìti a seguito
dell’adozione delle disposizioni controverse;
- condannare il Parlamento e il Consiglio alle spese.
33 Nella replica inoltre la ricorrente chiede, in subordine, che il
Tribunale voglia annullare totalmente la direttiva impugnata.
34 Con atti separati, depositati nella cancelleria del Tribunale il 1° e
il 6 aprile 2004, il Parlamento e il Consiglio hanno ciascuno sollevato
un’eccezione di irricevibilità ai sensi dell’art. 114 del regolamento di
procedura del Tribunale. La ricorrente ha depositato le proprie
osservazioni su tali eccezioni il 25 giugno 2004.
35 Con atto depositato nella cancelleria del Tribunale il 5 maggio 2004,
la Commissione ha chiesto, conformemente all’art. 115, n. 1, del
regolamento di procedura, di intervenire nel presente procedimento a
sostegno del Parlamento e del Consiglio. Con ordinanza 24 giugno 2004 il
presidente della Terza Sezione del Tribunale ha autorizzato tale
intervento. Il 2 settembre 2004 la Commissione ha depositato,
conformemente all’art. 116, n. 4, del regolamento di procedura, la sua
memoria di intervento circoscritta alla questione della ricevibilità.
36 Il Parlamento e il Consiglio, nelle loro eccezioni di irricevibilità,
e la Commissione, nella sua memoria di intervento sulla ricevibilità,
chiedono che il Tribunale voglia:
- dichiarare il ricorso irricevibile;
- condannare la ricorrente alle spese.
37 Con ordinanza del Tribunale 26 settembre 2005, le eccezioni di
irricevibilità sono state riunite al merito e le spese sono state
riservate.
38 Inoltre, il Consiglio, nel suo controricorso, il Parlamento, nella
sua controreplica, e la Commissione, nella sua memoria di intervento nel
merito, chiedono in subordine che il Tribunale voglia dichiarare il
ricorso infondato.
39 Su relazione del giudice relatore, il Tribunale (Terza Sezione) ha
deciso di avviare la fase orale e, nell’ambito delle misure di
organizzazione del procedimento previste dall’art. 64 del regolamento di
procedura, ha invitato il Parlamento, il Consiglio e la Commissione a
rispondere ad alcuni quesiti scritti prima dell’udienza. Il Parlamento,
il Consiglio e la Commissione hanno risposto a detti quesiti nel termine
impartito.
40 Le parti hanno svolto le loro difese e hanno risposto ai quesiti
orali del Tribunale all’udienza del 15 aprile 2008.
41 In udienza, dopo aver sentito le parti, il presidente della Terza
Sezione del Tribunale ha disposto, in applicazione dell’art. 77, lett.
a), del regolamento di procedura, in combinato disposto con l’art. 54,
terzo comma, dello Statuto della Corte di giustizia, la sospensione del
procedimento sino alla pronunzia da parte della Corte della sentenza
nella causa C-127/07, circostanza di cui si è preso atto nel processo
verbale d’udienza.
42 A seguito della pronunzia da parte della Corte della sentenza 16
dicembre 2008, causa C-127/07, Arcelor Atlantique e Lorraine e a. (Racc.
pag. I-9895), le parti sono state invitate a sottoporre le proprie
osservazioni in merito alle eventuali conseguenze da trarre da tale
sentenza nell’ambito del presente procedimento. Dopo che le parti hanno
sottoposto le loro osservazioni entro il termine impartito, è stata
chiusa la fase orale del procedimento.
43 A seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il 1º
dicembre 2009, il Tribunale ha deciso di riaprire la fase orale del
procedimento ed ha invitato le parti a pronunciarsi sulle eventuali
conseguenze da trarsi da tale circostanza ed in particolare dall’entrata
in vigore dell’art. 263, quarto comma, del Trattato FUE nell’ambito del
presente procedimento. Dopo che le parti hanno presentato le proprie
osservazioni, la fase orale è stata chiusa.
In diritto
I - Sulla ricevibilità della domanda di annullamento
A - Argomenti delle parti
1. Argomenti del Parlamento, del Consiglio e della Commissione
44 Il Parlamento e il Consiglio, sostenuti dalla Commissione, ritengono
che la domanda diretta all’annullamento parziale della direttiva
impugnata sia irricevibile.
45 A giudizio del Parlamento e del Consiglio, la direttiva impugnata
costituisce una «direttiva vera e propria» a norma dell’art. 249, terzo
comma, CE, vale a dire un atto avente portata generale che deve essere
recepito dagli Stati membri nell’ordinamento nazionale e applicabile in
modo astratto a situazioni determinate obiettivamente. Orbene, l’art.
230, quarto comma, CE non contemplerebbe il ricorso diretto da parte dei
soggetti avverso una siffatta direttiva.
46 Il Parlamento e il Consiglio, sostenuti dalla Commissione, ritengono
inoltre che la ricorrente non sia né direttamente né individualmente
interessata dalle disposizioni controverse ai sensi dell’art. 230,
quarto comma, CE.
47 Quanto al criterio dell’incidenza diretta, il Parlamento e il
Consiglio adducono, in sostanza, che, a differenza di un regolamento,
una «direttiva vera e propria» non può produrre direttamente effetti
giuridicamente vincolanti sulla situazione giuridica di un soggetto, o
addirittura imporgli obblighi giuridici, prima che vengano adottati, a
livello nazionale o comunitario, provvedimenti finalizzati alla sua
attuazione ovvero prima della scadenza del termine di trasposizione.
Conseguentemente una simile direttiva non può di per sé riguardare
direttamente detto soggetto ai sensi dell’art. 230, quarto comma, CE.
Pertanto, dal momento che le disposizioni controverse concernono
segnatamente il rilascio di autorizzazioni di emissione, gli obblighi in
materia di monitoraggio e di comunicazione, la previsione di un PNA
nonché l’assegnazione e il rilascio di quote di emissione non
imporrebbero alcun obbligo a carico della ricorrente e non
comporterebbero alterazioni della sua situazione giuridica fintanto che
esse non vengano recepite da norme nazionali.
48 Inoltre, il Parlamento e il Consiglio, sostenuti dalla Commissione,
ritengono che la direttiva impugnata lasci un margine di discrezionalità
molto ampio agli Stati membri in ordine alla propria attuazione da parte
dei provvedimenti nazionali di trasposizione, in particolare per quanto
attiene all’elaborazione del PNA conformemente al suo art. 9, alla
determinazione della percentuale minima di quote da assegnare
gratuitamente in applicazione del suo art. 10, alla fissazione, in forza
del suo art. 11, della quantità totale di quote per il periodo di
assegnazione in questione e al loro rilascio ai gestori di impianti
conformemente ai criteri del suo allegato III.
49 Il Consiglio, sostenuto dalla Commissione, contesta la tesi secondo
la quale la direttiva impugnata priva la ricorrente del beneficio delle
autorizzazioni di emissione ottenute in base alla direttiva del
Consiglio 24 settembre 1996, 96/61/CE, sulla prevenzione e la riduzione
integrate dell’inquinamento (GU L 257, pag. 26). La direttiva 96/61
sarebbe solo uno strumento di coordinamento che stabilisce un quadro
generale per i testi legislativi settoriali e che definisce, tra
l’altro, gli obblighi generali dei gestori e le condizioni di
autorizzazione (nono ‘considerando’ della direttiva 96/61). Tuttavia,
essa non attribuirebbe diritti di emissione e neppure fungerebbe da
fondamento giuridico diretto per concederne. In particolare, la stessa
direttiva 96/61 non fisserebbe alcun limite di emissione (art. 18 della
direttiva 96/61).
50 In base a quanto precede il Parlamento e il Consiglio concludono che
la ricorrente non è direttamente interessata dalle disposizioni
controverse.
51 Quanto al criterio dell’incidenza individuale, il Consiglio rileva
che la direttiva impugnata si applica in modo generale e astratto a
tutti gli operatori che esercitano le attività di cui all’allegato I di
tale direttiva e a tutti i grandi impianti che emettono CO2, compresi
gli impianti di produzione di ghisa o di acciaio. Orbene, la ricorrente
non avrebbe provato che la sua situazione fosse diversa rispetto a
quella di altri produttori di ghisa o di acciaio. Il Consiglio aggiunge
che, in conformità al criterio n. 6 dell’allegato III e dell’art. 11, n.
3, della direttiva impugnata, gli Stati membri hanno l’obbligo di
agevolare l’accesso alle quote in favore dei nuovi entranti. Inoltre, a
partire dal 1° maggio 2004, la direttiva impugnata sarebbe stata
applicabile ai produttori di ghisa o di acciaio stabiliti nei dieci
Stati membri che hanno aderito, a tale data, all’Unione e le cui
attività rientrano parimenti nell’ambito di applicazione dell’allegato I
di detta direttiva.
52 Il Parlamento e il Consiglio sono dell’avviso che né l’art. 175, n.
1, CE, in quanto fondamento normativo per le azioni della Comunità in
materia ambientale, né l’art. 174 CE impongano al legislatore
comunitario l’obbligo di tener conto, nell’adozione di misure di portata
generale, della situazione particolare di taluni operatori. Un simile
obbligo neppure sarebbe riconducibile ad un’altra norma di diritto di
rango superiore, quali i principi di proporzionalità e della parità di
trattamento ovvero i diritti fondamentali. Secondo il Parlamento ed il
Consiglio, non se ne può dedurre il diritto di un soggetto a presentare
ricorso diretto dinanzi al giudice comunitario, a pena di privare del
loro contenuto le prescrizioni di cui all’art. 230, quarto comma, CE. In
ogni caso, la ricorrente non avrebbe dimostrato che le disposizioni
controverse sarebbero produttive di «conseguenze drammatiche» sulla sua
situazione particolare ad un punto tale che esse possano considerarsi
contrarie alle invocate norme di diritto di rango superiore.
53 In proposito, il Consiglio obbietta agli argomenti della ricorrente
relativi alla presunta incidenza particolarmente grave nei suoi riguardi
in quanto maggiore produttore d’acciaio in Europa, che verserebbe in una
situazione particolare a causa della ristrutturazione in corso, del
ridotto margine di profitto di cui dispone e delle rilevanti riduzioni
di emissioni di CO2 già realizzate. Il fatto che da un punto di vista
economico un atto incida in misura maggiore su taluni operatori rispetto
ai loro concorrenti non sarebbe sufficiente a far ritenere che tale atto
li riguardi individualmente. Ad avviso del Consiglio, le disposizioni
controverse interessano la ricorrente in virtù della sua mera situazione
obiettiva di produttore di ghisa o di acciaio, al pari di qualsivoglia
altro operatore che si trovi nella medesima situazione. Analogamente, la
circostanza che un atto di portata generale possa avere effetti concreti
differenti rispetto ai diversi soggetti di diritto ai quali esso si
applica non è idonea a qualificare la ricorrente nei confronti di tutti
gli altri operatori interessati, dal momento che l’applicazione di tale
atto, come quella della direttiva impugnata, avviene in base ad una
situazione obiettivamente determinata.
54 Quanto all’affermazione della ricorrente secondo cui la direttiva
impugnata ostacola la ristrutturazione del suo gruppo dal momento che
essa non consente il trasferimento transfrontaliero di quote legate alle
capacità produttive degli impianti stabiliti in diversi Stati membri, il
Consiglio controbatte che la ricorrente non ha illustrato le ragioni per
cui essa sarebbe il solo operatore danneggiato, dal momento che essa
stessa menziona l’esempio della ristrutturazione in corso della società
Corus. In ogni caso, l’eventuale possibilità di utilizzare le quote
assegnate a taluni impianti chiusi sarebbe lasciata in ampia misura alla
discrezionalità degli Stati membri. Quasi la metà di questi avrebbe
quindi consentito il trasferimento di quote da un impianto chiuso verso
un impianto di sostituzione, anche se in svariati casi tali
trasferimenti sarebbero possibili solo all’interno di uno stesso Stato
membro. Il Consiglio, sostenuto dalla Commissione, fa inoltre valere
che, nell’esercizio del loro potere discrezionale, tutti gli Stati
membri hanno optato, in applicazione dell’art. 11, n. 3, e del criterio
n. 6 dell’allegato III della direttiva impugnata, per l’assegnazione
gratuita ai nuovi entranti delle quote provenienti dalla riserva. Per di
più, anche supponendo che la ricorrente non sia in grado di trasferire
le quote assegnate a impianti che vanno chiusi verso altri impianti del
suo gruppo, essa potrebbe nondimeno richiedere l’assegnazione gratuita
di quote al momento dell’ampliamento delle capacità di questi altri
impianti, dato che l’ipotesi dell’ampliamento di un impianto esistente
sarebbe sussimibile nella nozione di «nuovo entrante», a norma dell’art.
3, lett. h), della direttiva impugnata. Infine, per quanto riguarda
eventuali misure di riduzione di emissioni adottate in una fase precoce,
il Consiglio rammenta che, conformemente al criterio n. 7 dell’allegato
III della direttiva impugnata, un PNA può tener conto di siffatte misure
e che, a tale riguardo, gli Stati membri dispongono di un certo margine
di manovra.
55 Secondo il Parlamento e il Consiglio, la ricorrente non ha dimostrato
che, con riferimento alla direttiva impugnata, essa si trovasse in una
situazione analoga a quella dei ricorrenti nelle cause sfociate nelle
sentenze della Corte 17 gennaio 1985, causa 11/82, Piraiki-Patraiki e
a./Commissione (Racc. pag. 207); 26 giugno 1990, causa C-152/88,
Sofrimport/Commissione (Racc. pag. I-2477, punto 28), e 18 maggio 1994,
causa C-309/89, Codorníu/Consiglio (Racc. pag. I-1853), nonché nelle
cause sfociate nelle sentenze del Tribunale 14 settembre 1995, cause
riunite T-480/93 e T-483/93, Antillean Rice Mills e a./Commissione
(Racc. pag. II-2305, punto 67), e 17 giugno 1998, causa T-135/96, UEAPME/Consiglio
(Racc. pag. II-2335). Per quanto attiene all’argomento relativo ai
contratti di fornitura di gas a lungo termine, che la ricorrente avrebbe
stipulato con talune centrali elettriche prima dell’adozione della
direttiva impugnata, il Consiglio ritiene che nel caso di specie non
siano soddisfatte le due condizioni cumulative stabilite nelle sentenze
summenzionate per determinare l’esistenza di un’incidenza individuale ai
sensi dell’art. 230, quarto comma, CE, vale a dire, da un lato,
l’esistenza di una norma di diritto di rango superiore che obblighi le
istituzioni comunitarie a tener conto della situazione particolare del
ricorrente rispetto a quella di tutti gli altri soggetti interessati e,
dall’altro, il fatto che l’atto impugnato impedisca, in tutto o in
parte, l’esecuzione dei contratti di cui trattasi. La stessa ricorrente
affermerebbe che i gas oggetto dei suddetti contratti sono forniti sia a
proprie centrali elettriche che ad altre centrali. Pertanto essa
potrebbe beneficiare delle quote assegnate alle centrali facenti parte
del suo gruppo ovvero trasferirle tra i diversi impianti di produzione
ad essa appartenenti. Infatti, secondo il Consiglio, a termini del punto
92 degli orientamenti della Commissione (v. punto 14 supra), quando un
gas di scarico prodotto dal processo di produzione di un impianto viene
utilizzato come combustibile per un altro impianto, spetta allo Stato
membro decidere la ripartizione delle quote tra questi due impianti. Lo
Stato membro in tal modo potrebbe optare per l’assegnazione delle quote
al gestore dell’impianto che trasferisce i gas di scarico, vale a dire,
nel caso di specie, ad un produttore di ghisa o acciaio, anche se le
emissioni risultanti dalla combustione di detti gas non sono generate
dall’impianto di produzione d’acciaio in quanto tale, ma dalla centrale
elettrica. In tale contesto la ricorrente non avrebbe dimostrato che la
direttiva impugnata costituisca un ostacolo nell’esecuzione dei
contratti di fornitura di gas di cui trattasi. In ogni caso, il solo
fatto che, per mezzo dei provvedimenti nazionali di trasposizione, la
direttiva impugnata potrebbe rendere più difficoltosa l’esecuzione di
tali contratti non dimostrerebbe che essa riguardi individualmente la
ricorrente.
56 Il Parlamento e il Consiglio, sostenuti dalla Commissione, rilevano
che la ricorrente non ha neppure dimostrato che essa facesse parte di
una categoria chiusa di gestori. Dato che la direttiva impugnata
costituisce una misura di portata generale applicabile a tutti i gestori
esercenti le attività definite nel suo allegato I, essa riguarderebbe la
ricorrente soltanto nella sua capacità obiettiva di produttore di ghisa
e di acciaio, al pari di tutti gli altri operatori che si trovino nella
stessa situazione. Pertanto, l’eventuale esistenza, al momento
dell’adozione della direttiva impugnata, di soli quindici produttori di
ghisa o di acciaio non sarebbe sufficiente per individualizzare la
ricorrente. Ad avviso del Parlamento, anche il fatto che la ricorrente
appartenga ad un «gruppo chiuso e identificabile» al momento
dell’adozione della direttiva impugnata o economicamente venga colpita
in misura maggiore rispetto ai suoi concorrenti non produce la
conseguenza di qualificarla come destinatario.
57 Il Consiglio contesta che la ricorrente possa divenire un «acquirente
netto di quote» a causa della sua situazione particolare. A tal
riguardo, innanzitutto esso rammenta che, durante il primo periodo di
assegnazione, gli Stati membri devono assegnare gratuitamente almeno il
95% delle quote previste dal PNA rispetto ad almeno il 90% durante il
secondo periodo di assegnazione. In secondo luogo, in forza dell’art.
12, nn. 1 e 2, della direttiva impugnata, le quote sarebbero
trasferibili senza limiti, sia nell’ambito dello stesso gruppo di
imprese che ad altri soggetti stabiliti tanto all’interno della Comunità
che in paesi terzi. In terzo luogo, il numero di quote assegnate
inizialmente sarebbe determinato in modo discrezionale da ciascuno Stato
membro in base ad una serie di fattori e di criteri (v. punti 47 e
seguenti supra). Infine, i meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto
(v. punto 5 supra) offrirebbero ai produttori di ghisa o di acciaio la
possibilità di convertire crediti di emissioni ottenuti grazie ai
progetti interessati in quote utilizzabili all’interno del sistema dello
scambio di quote. Di conseguenza la ricorrente sarebbe in grado di
ottenere gratuitamente quote per la totalità delle sue emissioni.
58 Il Consiglio, sostenuto dalla Commissione, avvalendosi di studi a
sostegno della propria posizione contesta la tesi secondo cui i
produttori di ghisa o di acciaio si trovano in una «situazione di blocco
unica» a causa dell’assenza di una possibilità tecnica per l’industria
siderurgica di ridurre ulteriormente le emissioni di CO2. In proposito,
il Consiglio fa valere in sostanza che sussistono possibilità tecniche
di riduzione di tali emissioni nel settore siderurgico, tanto a corto
quanto a lungo termine, che la Comunità fornisce un sostegno finanziario
importante alle ricerche a ciò destinate e che il sistema dello scambio
di quote offre ai produttori di ghisa o di acciaio stimoli economici per
ridurre ulteriormente le loro emissioni di CO2.
59 Per quanto riguarda l’affermazione della ricorrente secondo cui i
produttori di ghisa o di acciaio non sarebbero in grado di far sì che
l’eventuale aumento dei costi di produzione derivante dalla necessità di
acquistare quote di emissioni si ripercuota sui loro clienti, il
Consiglio, sostenuto dalla Commissione, adduce che l’eventuale esigenza
da parte del produttore di acquistare quote dipenderà dalla quantità
iniziale di quote che gli sarà stata assegnata in base al PNA e dai suoi
sforzi di riduzione delle emissioni. La stessa ricorrente farebbe
riferimento al processo di ristrutturazione del suo gruppo ed alla
riduzione del numero dei suoi altiforni dal momento attuale fino al
2012, circostanza che di per sé dovrebbe probabilmente ridurre le
emissioni. Ciò sarebbe tanto più vero quando, conformemente all’annuncio
pubblicamente reso dalla ricorrente, i suoi altiforni saranno sostituiti
da forni elettrici ad arco le cui emissioni di CO2 per tonnellata di
acciaio prodotto sono inferiori. Anche ritenendo che la ricorrente debba
acquistare quote supplementari, i costi relativi potrebbero essere fatti
gravare, quantomeno in parte, sui consumatori in conseguenza di un
aumento considerevole dei prezzi nel settore dell’acciaio che si
troverebbe in espansione.
60 Alla luce di quanto precede, il Parlamento e il Consiglio, sostenuti
dalla Commissione, concludono che la direttiva impugnata non riguarda
individualmente la ricorrente e che la domanda di annullamento deve,
pertanto, essere dichiarata irricevibile.
61 Inoltre, il Parlamento, sostenuto dalla Commissione, solleva
un’eccezione di irricevibilità della domanda di annullamento in quanto
le disposizioni controverse non sarebbero separabili dal resto della
direttiva impugnata, a pena di svuotare la stessa del suo contenuto.
Infatti, secondo il Parlamento, se ad esempio gli obblighi relativi
all’autorizzazione ad emettere gas a effetto serra (artt. 4 e 6) ed ai
PNA (art. 9) venissero soppressi, ne risulterebbe un atto il cui
contenuto sarebbe completamente «capovolto».
62 A questo proposito, il Parlamento contesta l’affermazione della
ricorrente secondo cui il sistema dello scambio di quote resterebbe
«sostanzialmente intatto», nel caso in cui i produttori di ghisa o di
acciaio fossero esclusi dal suo campo di applicazione, posto che questo
aspetto sarebbe del tutto indipendente dalla questione relativa al fatto
che l’annullamento delle disposizioni controverse possa avere l’effetto
di modificare il contenuto della restante parte della direttiva
impugnata. Inoltre, secondo il Parlamento e il Consiglio, non può
accogliersi il tentativo tardivo della ricorrente, che ha avuto luogo al
momento della replica e, pertanto, in violazione delle prescrizioni di
cui all’art. 48, n. 2, del regolamento di procedura, di modificare le
sue conclusioni nel senso che il suo ricorso dovrebbe a questo punto
intendersi «come contenente una domanda di annullamento totale della
direttiva [impugnata] qualora non fosse possibile un annullamento
parziale». Tale impostazione verrebbe ad accrescere e non a ridurre la
portata delle conclusioni iniziali della ricorrente che avevano ad
oggetto un «annullamento parziale» della direttiva impugnata. Orbene, la
ricorrente non avrebbe prodotto nuovi elementi di diritto e di fatto
emersi durante il procedimento, ai sensi dell’art. 48, n. 2, del
regolamento di procedura, che potrebbero giustificare la deduzione di un
nuovo motivo.
63 Il Parlamento e il Consiglio ritengono pertanto che la domanda di
annullamento dovrebbe essere dichiarata irricevibile anche per tale
ragione.
64 Nelle proprie osservazioni sulle conseguenze da trarsi dall’entrata
in vigore dell’art. 263, quarto comma, TFUE, il Parlamento e il
Consiglio, sostenuti dalla Commissione, fanno valere che tale
circostanza non è atta a modificare detta valutazione, dal momento che
l’articolo in questione non è applicabile al presente procedimento e che
la direttiva impugnata non è un atto regolamentare ai sensi di tale
disposizione.
2. Argomenti della ricorrente
65 In via preliminare, la ricorrente fa valere che, in ossequio ad una
giurisprudenza consolidata relativa all’art. 230, quarto comma, CE, il
semplice fatto che il provvedimento impugnato sia una direttiva non è
sufficiente per dichiarare irricevibile un ricorso di annullamento.
Pertanto, un ricorso diretto all’annullamento di talune disposizioni di
una direttiva sarebbe ricevibile qualora tali disposizioni riguardassero
direttamente ed individualmente il soggetto ricorrente.
66 Quanto al criterio dell’incidenza diretta, la ricorrente sostiene
che, sebbene sia necessario, in conformità all’art. 249, terzo comma,
CE, un atto di trasposizione da parte degli Stati membri affinché una
direttiva produca effetti diretti sulla situazione giuridica degli
operatori economici, tale necessità non è di per sé sola sufficiente per
escludere che essa sia direttamente interessata ai sensi dell’art. 230,
quarto comma, CE. Se fosse così, le direttive non potrebbero in nessun
caso essere contestate da un operatore economico, circostanza che
sarebbe incompatibile con la giurisprudenza nonché con il diritto ad una
tutela giurisdizionale effettiva. Ogni qual volta un provvedimento
comunitario, inclusa una direttiva, non lasci agli Stati membri alcun
margine di discrezionalità in merito all’obbligo da imporsi al
ricorrente, vale a dire allorché la sua attuazione è puramente
automatica, tale ricorrente sarebbe direttamente interessato. Infatti,
le istituzioni non possono, grazie solo alla scelta della forma
dell’atto adottato, privare il ricorrente della tutela giurisdizionale
di cui all’art. 230, quarto comma, CE.
67 Nel caso di specie, le disposizioni controverse non lascerebbero agli
Stati membri alcun margine di discrezionalità quanto agli obblighi da
imporre alla ricorrente.
68 A questo proposito, la ricorrente rileva anzitutto che, conformemente
all’art. 4 della direttiva impugnata, gli Stati membri devono provvedere
affinché, a decorrere dal 1º gennaio 2005, i produttori di ghisa o di
acciaio non possano attivare i loro impianti senza autorizzazione di
emissione. Gli Stati membri non disporrebbero a questo riguardo di alcun
margine di discrezionalità. L’art. 27, n. 1, della direttiva impugnata
prevedrebbe solo una possibilità di esclusione temporanea di taluni
impianti dal sistema dello scambio di quote fino al 31 dicembre 2007,
con la conseguenza che l’obbligo di autorizzazione avrebbe avuto effetto
al più tardi il 1° gennaio 2008. Allo stesso modo, la facoltà, assegnata
agli Stati membri dall’art. 27, n. 2, della direttiva impugnata, di
concedere un’esclusione temporanea dal 2005 al 2007 non conferirebbe
loro alcun potere discrezionale e sarebbe priva di interesse pratico a
causa del carattere restrittivo delle sue condizioni.
69 In secondo luogo, l’argomento relativo all’ampio margine di
discrezionalità di cui disporrebbero gli Stati membri in ordine
all’elaborazione dei PNA sarebbe privo di rilevanza, dal momento che la
direttiva impugnata distingue chiaramente l’autorizzazione (art. 4) e le
quote (art. 9). L’obbligo di autorizzare le emissioni di CO2 sarebbe di
per sé produttivo di effetti sulla situazione giuridica della
ricorrente, in quanto esso invalida in parte le autorizzazioni di
esercizio e i diritti di emissione di CO2 rilasciati in base alla
direttiva 96/61 che la stessa deteneva anteriormente per i propri
impianti di produzione. Infatti, a termini dell’art. 6, n. 2, della
direttiva impugnata, detta autorizzazione sarebbe subordinata a
requisiti supplementari in materia di monitoraggio e di comunicazione
nonché all’obbligo di restituzione delle quote necessarie a coprire le
emissioni di CO2 dell’impianto di cui trattasi nel corso di ciascun anno
civile. Ad avviso della ricorrente, gli Stati membri non hanno alcun
margine di discrezionalità in merito agli obblighi da imporle a questo
riguardo.
70 In terzo luogo, in forza dell’art. 9 della direttiva impugnata, in
combinato disposto con il criterio n. 1 del suo allegato III, la
quantità totale di quote assegnate per il periodo di assegnazione di
riferimento dovrebbe, da un lato, essere compatibile con l’obbligo dello
Stato membro di limitare le sue emissioni, conformemente alla decisione
2002/358 ed al Protocollo di Kyoto, e, dall’altro, non eccedere la
quantità necessaria alla rigorosa applicazione dei criteri dell’allegato
III della direttiva impugnata. Ne conseguirebbe che, quando gli Stati
membri fissano la quantità totale di quote da assegnare, essi devono
osservare, senza alcun margine di discrezionalità, un «limite massimo
assoluto di quote». Tale interpretazione sarebbe confermata dal punto 10
degli orientamenti complementari della Commissione, relativo al criterio
n. 3 dell’allegato III della direttiva impugnata (v. punto 14 supra).
71 In quarto ed ultimo luogo, in forza dell’art. 12, n. 3, e dell’art.
16 della direttiva impugnata, gli Stati membri dovrebbero, senza
disporre a questo proposito di un potere discrezionale, da un lato,
imporre a tutti i gestori l’obbligo di restituire entro il 30 aprile di
ogni anno una quantità di quote corrispondente alle proprie emissioni
totali nel corso dell’anno civile trascorso e, dall’altro, infliggere
loro sanzioni in caso di mancato rispetto di tale obbligo.
72 La ricorrente ne evince che le disposizioni controverse non lasciano
agli Stati membri alcun margine di discrezionalità in relazione agli
obblighi da imporle e che, quindi, tali disposizioni la riguardano
direttamente ai sensi dell’art. 230, quarto comma, CE.
73 La ricorrente ritiene che le disposizioni controverse la riguardino
anche individualmente. Da un lato, il legislatore comunitario avrebbe
l’obbligo di tener conto delle gravi conseguenze che ne derivano per la
situazione particolare della ricorrente e, dall’altro, essa farebbe
parte di una categoria chiusa, costituita da un numero ristretto di
produttori di ghisa o di acciaio interessati dalle disposizioni in
esame.
74 In primo luogo, secondo la ricorrente, l’obbligo del legislatore
comunitario di tener conto delle conseguenze dell’atto che intende
adottare sulla situazione di taluni soggetti è idoneo ad
individualizzarli (sentenze Piraiki-Patraiki e a./Commissione, punto 54
supra, punto 19; Sofrimport/Commissione, punto 54 supra, punto 11, e
Codorníu/Consiglio, punto 54 supra, punto 20); tale obbligo può essere
riconducibile sia ad una disposizione particolare del Trattato CE
(sentenza Antillean Rice Mills e a./Commissione, punto 54 supra, punto
67), sia a una qualsiasi altra norma di diritto di rango superiore
(sentenza UEAPME/Consiglio, punto 54 supra, punto 90), quale il
principio di proporzionalità, il principio della parità di trattamento e
i diritti fondamentali.
75 In proposito, la ricorrente afferma in sostanza che, in osservanza
dei principi di proporzionalità e di parità di trattamento nonché del
suo diritto di proprietà e della sua libertà di esercitare un’attività
economica, il legislatore comunitario avrebbe dovuto tener conto degli
effetti molto gravi della direttiva impugnata sulla sua situazione
particolare. Pertanto, omettendo di includere, in violazione delle
proposte iniziali del Parlamento e della Commissione, altri settori
nell’allegato I della direttiva impugnata - in particolare i concorrenti
settori dei metalli non ferrosi e dei prodotti chimici -, il legislatore
comunitario avrebbe infranto i principi della parità di trattamento e
della preservazione di una concorrenza leale. Inoltre esso,
disconoscendo l’impossibilità tecnica ed economica per i produttori di
ghisa o di acciaio di ridurre ulteriormente le emissioni di CO2, avrebbe
violato il diritto di proprietà, la libertà di stabilimento e la libertà
di esercitare un’attività economica della ricorrente nonché il principio
di proporzionalità. In tal modo, il legislatore comunitario avrebbe
posto a carico della ricorrente un onere sproporzionato che metterebbe a
repentaglio la sua esistenza, in quanto essa diverrebbe necessariamente
un «acquirente netto di quote» senza possibilità di fare gravare sui
suoi clienti i relativi costi. Per di più, le disposizioni controverse
sarebbero sproporzionate in quanto non accompagnate da misure atte a
ridurre per lo meno le conseguenze negative per la ricorrente, quali un
meccanismo di monitoraggio dei prezzi delle quote o la possibilità del
loro trasferimento transfrontaliero all’interno dello stesso gruppo di
imprese. In difetto di una tale possibilità di trasferimento, che
pregiudicherebbe in modo grave gli sforzi di ristrutturazione della
ricorrente e la sua competitività, la direttiva impugnata sarebbe
altresì lesiva del diritto di proprietà della ricorrente e della sua
libertà di stabilimento. La ricorrente precisa che l’inammissibile
restrizione della sua libertà di stabilimento, derivante dalla mancanza
di una norma nella direttiva impugnata che consenta il trasferimento
transfrontaliero di quote di emissione tra diversi impianti dello stesso
gruppo di imprese, non può essere relativizzata adducendo l’argomento
per cui un’estensione delle capacità produttive di un impianto può
beneficiare delle norme di assegnazione per i «nuovi entranti», dato che
tale beneficio è soggetto alla discrezionalità dello Stato membro
ospitante interessato.
76 In secondo luogo, la ricorrente sostiene di far parte di una
categoria chiusa di imprese particolarmente colpite dalla direttiva
impugnata. Nell’Unione dei quindici Stati membri, soltanto quindici
imprese o gruppi di imprese avrebbero gestito impianti di produzione di
ghisa o d’acciaio, vale a dire la ricorrente, la Corus, la ThyssenKrupp,
la HKM, la Riva, la Lucchini, la SSAB, la Voest Alpine, la Salzgitter,
la Duferco, la Rauttaruukki, la Fundia, la Saint-Gobain, la DHS e la
Neue Maxhütte, alle quali si sarebbero aggiunte, dal 1° maggio 2004,
cinque produttori di ghisa o di acciaio dei dieci nuovi Stati membri,
ossia l’Ispat Polska, la Czech Steel Company, la Moravia Steel, la
Dunaferr Dunai e la US Steel Košice. Tuttavia, l’ampliamento dell’Unione
non può di per sé privare tale gruppo della sua qualità di categoria
chiusa ai sensi della giurisprudenza, dato che detto ampliamento era
previsto dall’art. 2 dell’Atto relativo alle condizioni di adesione
all’Unione europea della Repubblica ceca, della Repubblica di Estonia,
della Repubblica di Cipro, della Repubblica di Lettonia, della
Repubblica di Lituania, della Repubblica di Ungheria, della Repubblica
di Malta, della Repubblica di Polonia, della Repubblica di Slovenia e
della Repubblica slovacca e agli adattamenti dei Trattati sui quali si
fonda l’Unione europea (GU 2003, L 236, pag. 33), prima dell’entrata in
vigore della direttiva impugnata. Inoltre, l’ingresso nel mercato di
nuovi entranti a causa della realizzazione di nuove attività ad
altiforni non sarebbe un’opzione economicamente redditizia e, pertanto,
sarebbe di fatto esclusa. Infatti, dopo l’entrata in vigore della
direttiva impugnata e tenuto conto della diminuzione del numero degli
altiforni nell’Unione dopo il 1975, un nuovo entrante potrebbe
stabilirsi nel mercato solo per mezzo di un acquisto.
77 A giudizio della ricorrente, la «situazione di blocco unica» della
categoria di produttori in discorso, che li distinguerebbe da tutti gli
altri soggetti, dipende dal fatto che in un prevedibile futuro, per
motivi tecnici, a differenza della situazione di altri settori economici
interessati, quali il settore del cemento, dell’elettricità, della carta
e del vetro, i produttori di ghisa o di acciaio non sarebbero in grado
di ridurre in modo considerevole le emissioni di CO2 conformemente agli
obiettivi della direttiva impugnata. Di conseguenza, i produttori
appartenenti a tale categoria non potrebbero, in realtà, optare tra la
riduzione delle emissioni e l’acquisto di quote supplementari, con la
conseguenza che diventerebbero necessariamente «acquirenti netti di
quote». Nel processo di produzione dell’acciaio, l’emissione di CO2
sarebbe inevitabile a causa dell’utilizzazione del carbone come materia
prima e non come combustibile. Non esisterebbe quindi un’alternativa
economicamente redditizia per diminuire le emissioni di CO2, ad esempio
mediante l’impiego di un altro combustibile quale il gas naturale. Il
perfezionamento della tecnologia degli altiforni in termini di
rendimento energetico avrebbe raggiunto il suo limite teorico
continuando a comportare l’emissione di due tonnellate di CO2 per
tonnellata di acciaio prodotto. Un’ulteriore diminuzione delle emissioni
sarebbe possibile solo grazie ad un progresso tecnico il cui sviluppo
richiederebbe dai 20 ai 30 anni almeno. Invece, non sarebbe possibile
ridurre la produzione, dal momento che, per ragioni tecniche, gli
altiforni devono funzionare sempre ad un livello prossimo alla loro
piena capacità.
78 Avvalendosi di studi a sostegno delle proprie affermazioni, la
ricorrente rileva che, nel corso dei prossimi 25 anni circa, i gestori
di altiforni dovranno continuare ad utilizzare le tecnologie esistenti,
il cui margine di progresso è molto ridotto, essendo sino ad ora fallito
ogni tentativo di sostituzione per ragioni tecniche e/o economiche. Essa
aggiunge che, contrariamente a quanto affermato dal Consiglio, le
riduzioni di emissioni che ha realizzato fino al 2002 non sono il
risultato di miglioramenti tecnici, bensì sono principalmente dovute
alla chiusura di cinque altiforni, all’aumento della capacità di altri
impianti nonché alla sostituzione del minerale della Loira con il
minerale brasiliano quale materia prima avente un miglior rendimento
energetico. Allo stesso modo, l’obiettivo di riduzione della ricorrente
per il periodo compreso tra il 2008 e il 2012 dovrebbe in particolare
essere raggiunto mediante chiusure di impianti accompagnate dal
trasferimento della produzione verso impianti in altri Stati membri.
79 La ricorrente fa inoltre valere che il settore dell’acciaio è il solo
dei quattro settori oggetto dell’allegato I della direttiva impugnata
che deve far fronte alla concorrenza di altri settori non ricadenti
nell’ambito di applicazione di tale direttiva, vale a dire i metalli non
ferrosi e le materie plastiche. Questa situazione concorrenziale
particolarmente svantaggiosa per i produttori di ghisa o di acciaio
sarebbe ulteriormente aggravata, da una parte, da una domanda «molto
concentrata», segnatamente quella dell’industria automobilistica, e, da
un’altra, da una concorrenza intensificata proveniente da settori non
contemplati dalla direttiva impugnata e da produttori di acciaio di
paesi terzi, quali gli Stati Uniti d’America, non soggetti agli obblighi
derivanti dal Protocollo di Kyoto e che rappresentano il 65% della
produzione mondiale. Pertanto, i produttori europei di acciaio non
sarebbero in grado di far gravare sui loro clienti l’incremento del
costo di produzione causato dalla necessità di acquistare quote di CO2,
circostanza che inciderebbe ulteriormente sulla loro già scarsa
redditività. A tale riguardo, la situazione concorrenziale degli altri
settori ai quali si estende l’allegato I della direttiva impugnata
sarebbe diversa. Ad esempio, tenuto conto della previsione di un aumento
sostanziale dei prezzi dell’elettricità, i fornitori di energia
avrebbero la possibilità di far gravare sui propri clienti qualsiasi
eventuale aumento dei loro costi di produzione e migliorare
sensibilmente la propria redditività.
80 La ricorrente precisa che, invece, anche per il recente aumento del
prezzo dell’acciaio essa non sarà in grado di far gravare sui suoi
clienti l’aumento dei costi di produzione dovuto alla necessità di
acquistare quote di emissione. Tale aumento dei prezzi sarebbe
unicamente il risultato dei costi crescenti delle materie prime e di
trasporto a livello mondiale. Orbene, su scala mondiale i produttori
europei di ghisa o di acciaio si confronterebbero con una forte
concorrenza da parte dei produttori di paesi terzi che, o, come gli
Stati Uniti d’America, il Commonwealth d’Australia e la Repubblica di
Turchia, non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto, o, come la
Repubblica dell’India, la Repubblica popolare cinese e la Repubblica
federale del Brasile, hanno ratificato il Protocollo di Kyoto, ma non
sono obbligati, in un primo momento, a ridurre le loro emissioni di CO2
(allegato B del Protocollo di Kyoto) oppure, in base al Protocollo di
Kyoto, hanno unicamente l’obbligo di preservare il livello attuale delle
emissioni, come nel caso della Federazione russa e dell’Ucraina.
Pertanto, i produttori europei di ghisa o di acciaio sarebbero gli unici
a dover affrontare costi di produzione supplementari dovuti
all’attuazione del Protocollo di Kyoto, pur essendo esposti ad una
pressione concorrenziale sempre più vigorosa per le importazioni di
acciaio da paesi terzi la cui importanza dipenderebbe dal livello del
prezzo sul mercato europeo. La ricorrente aggiunge che, considerato il
costo attuale di EUR 26 della quota di emissione per tonnellata di CO2
emessa, la produzione di una tonnellata d’acciaio, implicante
l’emissione di circa due tonnellate di CO2, provoca un costo
supplementare di EUR 52, laddove il prezzo del trasporto complessivo di
una tonnellata d’acciaio non oltrepassa di regola EUR 20. La ricorrente
aggiunge che, a differenza dei produttori di ghisa o di acciaio, si
suppone che i fornitori di energia, in particolare quelli stabiliti in
Germania e nel Regno Unito, includano nei prezzi dell’elettricità il
valore delle quote di emissione ottenute gratuitamente per trarne
profitti eccezionali.
81 Da quanto precede la ricorrente conclude che i produttori di ghisa o
di acciaio stabiliti nell’Unione si trovano in una «situazione di blocco
unica» che li differenzia da qualsiasi altro soggetto. Tale situazione
sarebbe aggravata dal fatto che la direttiva impugnata non prevede né un
limite massimo né un meccanismo di monitoraggio dei prezzi delle quote
di emissione. In base a recenti studi, i produttori di ghisa o di
acciaio si confronterebbero quindi con un prezzo della quota - che
autorizza l’emissione di una tonnellata di CO2 - compreso tra EUR 20 e
EUR 60 e oltre, laddove già un prezzo di EUR 20 annullerebbe il profitto
lordo del settore dell’acciaio.
82 In terzo luogo, la ricorrente ritiene che, essendo di gran lunga il
maggior produttore di ghisa e d’acciaio in Europa - con una produzione
di 40 milioni di tonnellate d’acciaio, seguita dalla Thyssen-Krupp (17
milioni) e dalla Corus (16 milioni) -, essa subisce un pregiudizio
particolarmente grave dalla direttiva impugnata. Ricorrendo alla propria
tecnologia molto avanzata di altiforni, la ricorrente avrebbe già
ridotto le proprie emissioni dei gas a effetto serra, ivi comprese
quelle di CO2, in una misura ben maggiore di quella dell’8% prevista dal
Protocollo di Kyoto, ossia del 19% in cifre assolute e del 24% in cifre
relative (per tonnellata d’acciaio prodotta) dal 1990 e non può, per le
ragioni tecniche illustrate nei precedenti punti 77 e 78, continuare a
ridurre, in modo significativo, le emissioni di CO2. Inoltre, nel 2002
la ricorrente avrebbe tratto dall’esercizio dei suoi altiforni un ricavo
lordo di EUR 16 e un ricavo netto di EUR 4 per tonnellata di CO2 emessa.
Ne conseguirebbe che, anche al prezzo minimo, secondo l’attuale
valutazione, di EUR 20 per quota di emissione, che corrisponde ad un
costo supplementare di EUR 40 per tonnellata d’acciaio, la produzione
diventerebbe non redditizia per la ricorrente a un punto tale che non le
sarebbe più possibile mantenere operativi i suoi impianti in Europa.
83 In quarto luogo, la ricorrente sarebbe il solo produttore europeo di
ghisa e di acciaio a far fronte ad un problema particolare creato dalla
direttiva impugnata a causa della ristrutturazione in corso nell’ambito
del suo gruppo, volta a migliorarne la competitività. Tale
ristrutturazione, avviata con la concentrazione del 2001 (v. punto 30
supra), ossia prima dell’adozione della direttiva impugnata, prevedrebbe
la chiusura di impianti o la riduzione di capacità di produzione meno
redditizie in uno Stato membro e l’aumento corrispondente di capacità di
produzione in impianti più redditizi stabiliti in altri Stati membri.
Questa situazione sarebbe peculiare alla ricorrente e la
differenzierebbe da tutti gli altri produttori di ghisa o di acciaio i
cui impianti si trovino all’interno di uno stesso Stato membro. L’unica
eccezione sarebbe la Corus con impianti ubicati nel Regno Unito e nei
Paesi Bassi, ma che avrebbe già ottimizzato la propria produzione.
Orbene, la direttiva impugnata comprometterebbe gravemente detta
ristrutturazione non obbligando gli Stati membri a consentire il
trasferimento transfrontaliero delle quote di un impianto da chiudere
verso altri impianti situati in altri Stati membri. Così, i governi
belga e tedesco avrebbero già comunicato che, in caso di chiusura, la
ricorrente perderebbe le proprie quote per gli impianti stabiliti nella
regione vallona (Belgio) e a Brema (Germania), con la conseguenza che
essa non potrebbe trasferire tali quote verso i propri impianti
collocati in Spagna o in Francia, ove la stessa aveva previsto un
corrispondente incremento delle capacità di produzione. Allo stesso
modo, il PNA tedesco e l’art. 10, n. 1, prima frase, del disegno di
legge tedesco sull’assegnazione delle quote durante il primo periodo di
assegnazione prevedrebbero l’annullamento delle quote in caso di
chiusura di impianto, salvo il caso in cui il gestore metta in funzione
un nuovo impianto in Germania (e non in un altro Stato membro). Nello
stesso senso, il PNA francese prevedrebbe che un gestore possa
conservare le quote di un impianto chiuso soltanto nel caso in cui
l’attività venga trasferita verso un altro impianto stabilito in
territorio francese. La ricorrente sarebbe quindi costretta a muoversi
in senso contrario rispetto al proprio obiettivo di ristrutturazione e
di miglioramento della sua competitività. Essa dovrebbe acquistare quote
di emissione supplementari per coprire le capacità di produzione
inizialmente destinate a essere chiuse e trasferite verso impianti
stabiliti in altri Stati membri e mantenere operativi impianti meno
redditizi all’unico scopo di non perdere le quote già assegnate.
84 La ricorrente aggiunge che essa è anche l’unico operatore nell’ambito
di tutti i settori contemplati dall’allegato I della direttiva impugnata
che affronti la problematica relativa al trasferimento transfrontaliero
di capacità di produzione tra impianti situati in diversi Stati membri.
Tale problematica non riguarderebbe i settori del cemento, del vetro,
dell’energia e della carta, i cui impianti sarebbero, a differenza degli
impianti di produzione d’acciaio, collocati vuoi presso clienti, vuoi in
zone che forniscono materie prime in quantità sufficiente. Di
conseguenza, per i produttori di questi settori la chiusura di un
impianto in uno Stato membro e il trasferimento della produzione in un
altro Stato membro non sarebbe un’opzione plausibile.
85 Tuttavia, in considerazione della libertà di stabilimento non vi
sarebbe giustificazione alcuna per lasciare alla discrezionalità degli
Stati membri la questione dei limiti in cui siano possibili
trasferimenti transfrontalieri di capacità produttive. Ciò sarebbe tanto
più vero dal momento che esistono importanti sollecitazioni economiche e
politiche nei confronti degli Stati membri a non consentire siffatto
trasferimento di capacità produttive, ivi compreso quello delle relative
quote di emissione. Da un lato, dal punto di vista dello Stato membro
che ha inizialmente assegnato tali quote, esso non avrebbe alcun
interesse a facilitare simile trasferimento ed a subire la perdita nel
suo territorio tanto delle capacità produttive di cui trattasi e dei
posti di lavoro ad esse collegati quanto delle quote già assegnate.
Dall’altro, lo Stato membro destinatario di tale trasferimento, in
particolare allorché detto Stato è di dimensioni ridotte, non avrebbe
necessariamente interesse ad assegnare gratuitamente quote ad un nuovo
entrante, in considerazione del rischio di oltrepassare il proprio tetto
nazionale di quote e, conseguentemente, di violare i propri obblighi di
riduzione in base alla decisione 2002/358 e al Protocollo di Kyoto. Come
risulterebbe dal punto 5 dell’allegato 4 degli orientamenti
complementari della Commissione (v. punto 14 supra), tali dubbi
troverebbero conferma nel fatto che la maggior parte degli Stati membri
non consentono il trasferimento transfrontaliero di quote. In tali
orientamenti, la Commissione stessa avrebbe attirato l’attenzione sulla
questione sottolineando che, nel corso del primo periodo di
assegnazione, gli Stati membri avrebbero adottato una molteplicità di
norme concernenti le riserve per i nuovi entranti, le chiusure e i
trasferimenti, circostanza che contribuirebbe ad una notevole
complessità e ad un difetto di trasparenza nel mercato interno e
rischierebbe di produrre distorsioni della concorrenza. Essa ne avrebbe
tratto la conclusione che è necessario prevedere la creazione di una
riserva comunitaria nonché un’armonizzazione delle norme amministrative
applicabili ai nuovi entranti, alle chiusure e ai trasferimenti
transfrontalieri nel mercato interno (allegato 7 degli orientamenti
complementari della Commissione). La ricorrente fa altresì valere uno
studio sulla scorta del quale, nel sistema dello scambio di quote,
considerato l’interesse degli Stati membri a preservare le imposte e i
posti di lavoro collegati agli impianti stabiliti nel loro territorio,
per essi sarebbe in effetti logico revocare le quote agli impianti
chiusi o quanto meno subordinare la conservazione di tali quote
all’apertura di un nuovo impianto nel loro territorio al fine di evitare
che il gestore abbandoni il paese. Orbene, ne potrebbe conseguire una
concorrenza regolamentare economicamente inefficace e politicamente
indesiderabile tra gli Stati membri al fine di trattenere e attirare gli
investimenti. Per tali motivi lo studio citato concluderebbe per la
necessità di un’armonizzazione, a livello comunitario, delle norme che
consentono agli impianti di conservare le loro quote anche nel caso di
chiusura. Pertanto, secondo la ricorrente, l’efficacia pratica della
libertà di stabilimento può essere salvaguardata solo mediante
l’intervento dello stesso legislatore comunitario.
86 In quinto luogo, la ricorrente ritiene che la direttiva impugnata la
riguardi in modo particolare a causa dei contratti a lungo termine che
la vincolano da lungo tempo a centrali elettriche che in parte non
appartengono al suo gruppo, aventi ad oggetto la fornitura di gas di
altiforni contenenti monossido di carbonio, CO2 e azoto per la
produzione di elettricità. La ricorrente si domanda se, alla luce
dell’art. 3, lett. b) ed e), della direttiva impugnata, le quote di
emissione in questione debbano essere assegnate ad essa o alla centrale
elettrica. Nel caso in cui queste quote spettino alla centrale
elettrica, la situazione della ricorrente sarebbe ulteriormente
aggravata, dal momento che essa dovrebbe eventualmente acquistare le
quote necessarie sul mercato o, nell’ipotesi di interruzione della
fornitura alla centrale elettrica, bruciare i propri gas di altiforni
senza peraltro disporre di un numero corrispondente di quote. Ne
deriverebbe per la ricorrente un serio svantaggio concorrenziale
rispetto ai suoi concorrenti che utilizzano proprie centrali elettriche.
87 Infine, in sesto luogo, la ricorrente rileva che, a causa della
particolare incidenza delle disposizioni controverse nei suoi confronti,
essa è stata strettamente associata alla procedura legislativa,
segnatamente nel corso di varie riunioni con rappresentanti della
Commissione, del Parlamento e del Consiglio. In tale contesto, in un
primo momento un certo numero di obiezioni espresse dalla ricorrente
sarebbero state prese in considerazione per essere da ultimo respinte
senza alcuna giustificazione.
88 Alla luce di quanto precede, la ricorrente conclude di aver
dimostrato l’esistenza di un insieme di elementi ad essa peculiari e che
la caratterizzano rispetto a qualsiasi altro soggetto così da rendere la
sua domanda di annullamento ricevibile ai sensi dell’art. 230, quarto
comma, CE.
89 Quanto all’eccezione di irricevibilità sollevata dal Parlamento e
relativa alla domanda di annullamento parziale della direttiva
impugnata, la ricorrente sottolinea che essa non chiede la soppressione
totale delle disposizioni controverse, ma che ne venga soltanto esclusa
l’applicazione agli impianti di produzione di ghisa grezza o di acciaio.
Pertanto, tale domanda non implicherebbe alcuna modifica del sistema
dello scambio di quote per gli altri settori oggetto dell’allegato I
della direttiva impugnata. Infatti, l’ambito di applicazione della
direttiva impugnata potrebbe o essere esteso ad altri settori, come già
proposto per i settori dei metalli non ferrosi e dei prodotti chimici, o
essere ridotto senza che ciò pregiudichi il funzionamento e la stessa
sostanza del sistema dello scambio di quote. Il richiesto annullamento
parziale quindi comporterebbe unicamente la soppressione della parte -
distinta e chiaramente definita - dell’allegato I della direttiva
impugnata che riguarda gli impianti di produzione di ghisa grezza o di
acciaio.
90 A giudizio della ricorrente, anche ritenendo che le disposizioni
controverse non possano essere separate dalla direttiva impugnata nel
suo complesso, la domanda di annullamento è comunque ricevibile.
Infatti, qualora risultasse impossibile l’annullamento parziale, detta
domanda sarebbe da intendersi come diretta all’annullamento della
direttiva impugnata nella sua totalità. Tale valutazione discenderebbe
dalla necessità di interpretare le conclusioni con riferimento al loro
contesto e agli obiettivi perseguiti dal ricorso, il quale è teso a
porre fine alla violazione dei diritti fondamentali della ricorrente.
Nel caso in cui il Tribunale non accogliesse l’impostazione sostenuta
nel precedente punto 89 supra, la ricorrente domanda in subordine
l’annullamento totale della direttiva impugnata, e ciò sarebbe possibile
anche successivamente al deposito del ricorso.
91 Da quanto precede la ricorrente conclude che la domanda di
annullamento è ricevibile.
92 Nelle proprie osservazioni sulle conseguenze da trarsi dall’entrata
in vigore dell’art. 263, quarto comma, TFUE, la ricorrente adduce in
sostanza che, da un lato, questa disposizione è applicabile al presente
procedimento e che, dall’altro, la direttiva impugnata, per il suo
contenuto, costituisce un atto regolamentare ai sensi di tale articolo,
giacché le disposizioni contestate non lasciano alcun margine di
discrezionalità agli Stati membri in ordine alla loro attuazione,
dispensando in tal modo la ricorrente dalla dimostrazione della
incidenza individuale nei suoi confronti da parte della predetta
direttiva.
B - Giudizio del Tribunale
93 A termini dell’art. 230, quarto comma, CE, qualsiasi persona fisica o
giuridica può proporre un ricorso contro le decisioni prese nei suoi
confronti e contro le decisioni che, pur apparendo come un regolamento o
una decisione presa nei confronti di altre persone, la riguardano
direttamente ed individualmente.
94 Da giurisprudenza costante risulta che la sola circostanza che la
suddetta disposizione del Trattato non riconosca espressamente la
ricevibilità di un ricorso di annullamento proposto da un soggetto nei
confronti di una direttiva ai sensi dell’art. 249, terzo comma, CE non è
sufficiente a dichiarare irricevibile tale ricorso. Infatti, le
istituzioni comunitarie non possono escludere, con la sola scelta della
forma dell’atto di cui trattasi, anche se esso riveste quella di una
direttiva, la tutela giurisdizionale che il Trattato offre ai soggetti
dell’ordinamento (ordinanze del Tribunale 10 settembre 2002, causa
T-223/01, Japan Tobacco e JT International/Parlamento e Consiglio, Racc.
pag. II-3259, punto 28; 30 aprile 2003, causa T-154/02, Villiger Söhne/Consiglio,
Racc. pag. II-1921, punto 39; 6 settembre 2004, causa T-213/02, SNF/Commissione,
Racc. pag. II-3047, punto 54, e 25 aprile 2006, causa T-310/03, Kreuzer
Medien/Parlamento e Consiglio, non pubblicata nella Raccolta, punti 40 e
41). Allo stesso modo, il solo fatto che le disposizioni controverse
facciano parte di un atto avente portata generale che costituisce una
direttiva vera e propria, e non una decisione ai sensi dell’art. 249,
quarto comma, CE, adottata con l’apparenza di una direttiva, non è di
per sé sufficiente per escludere la possibilità che tali disposizioni
possano riguardare direttamente ed individualmente un singolo (v., in
tal senso, ordinanze Japan Tobacco e JT International/Parlamento e
Consiglio, cit., punto 30, e 6 maggio 2003, causa T-321/02,
Vannieuwenhuyze-Morin/Parlamento e Consiglio, Racc. pag. II-1997, punto
21).
95 Nel caso di specie occorre necessariamente rilevare che la direttiva
impugnata, tanto per la sua forma quanto per la sua sostanza, è un atto
di portata generale che si applica a situazioni determinate
obiettivamente e che produce effetti giuridici nei confronti di
categorie di soggetti contemplati in modo generale ed astratto, vale a
dire tutti i gestori di impianti esercenti una delle attività previste
dall’allegato I della direttiva impugnata, compresa quella della
produzione di ghisa o di acciaio cui appartiene la ricorrente.
96 Tuttavia non è escluso che, in talune circostanze, le disposizioni di
un simile atto avente portata generale possano riguardare direttamente e
individualmente alcuni di essi (v., in tal senso, sentenze della Corte
16 maggio 1991, causa C-358/89, Extramet Industrie/Consiglio, Racc. pag.
I-2501, punto 13; Codorníu/Consiglio, punto 54 supra, punto 19, e 25
luglio 2002, causa C-50/00 P, Unión de Pequeños Agricultores/Consiglio,
Racc. pag. I-6677, punto 36).
97 Inoltre, da giurisprudenza costante risulta che la condizione secondo
cui una persona fisica o giuridica dev’essere direttamente interessata
dall’atto oggetto del ricorso, ai sensi dell’art. 230, quarto comma, CE,
richiede che tale atto produca effetti direttamente sulla situazione
giuridica del singolo soggetto e non lasci alcun potere discrezionale ai
suoi destinatari, incaricati della sua applicazione, la quale deve avere
carattere meramente automatico e deve derivare dalla sola normativa
comunitaria, senza applicazione di altre norme intermedie (sentenze
della Corte 29 giugno 2004, causa C-486/01 P, Front national/Parlamento,
Racc. pag. I-6289, punto 34, e 22 marzo 2007, causa C-15/06 P, Regione
Siciliana/Commissione, Racc. pag. I-2591, punto 31).
98 Il Tribunale reputa opportuno esaminare in via principale se la
ricorrente sia individualmente interessata dalle disposizioni
controverse. Se del caso, e solo in via subordinata, il Tribunale
valuterà anche se la ricorrente sia direttamente interessata da tali
disposizioni.
99 Come ammesso da giurisprudenza costante, una persona fisica o
giuridica diversa dal destinatario di un atto può ritenersi
individualmente interessata ai sensi dell’art. 230, quarto comma, CE,
solo se è colpita dall’atto di cui trattasi in ragione di talune sue
peculiari qualità o di una circostanza di fatto che la distingue da
chiunque altro e, quindi, la identifica in modo analogo al destinatario
dell’atto (sentenze della Corte 15 luglio 1963, causa 25/62, Plaumann/Commissione,
Racc. pag. 195, in particolare pag. 220; Unión de Pequeños Agricultores/Consiglio,
punto 93 supra, punto 36, e 1° aprile 2004, causa C-263/02 P,
Commissione/Jégo-Quéré, Racc. pag. I-3425, punto 45).
100 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre verificare se
gli obblighi eventualmente risultanti dalle disposizioni controverse
siano idonei a individualizzare la ricorrente come destinatario. In
proposito va rammentato che la ricorrente domanda l’annullamento, in
primo luogo, dell’art. 4 della direttiva impugnata, che pone la
necessità di possedere un’autorizzazione di emissione; in secondo luogo,
del suo art. 6, n. 2, lett. e), e del suo art. 12, n. 3, che prevedono
l’obbligo di restituzione delle quote corrispondenti alle emissioni
totali dell’impianto nel corso dell’anno civile precedente; in terzo
luogo, del suo art. 9, in combinato disposto con il criterio n. 1 del
suo allegato III, che riguarda la previsione dei PNA e l’asserito
obbligo degli Stati membri di assegnare ai gestori di impianti una
quantità massima di quote di emissioni, e, in quarto luogo, del suo art.
16, nn. 2-4, relativo alle sanzioni in caso di mancato rispetto
dell’obbligo di restituzione, nella misura in cui tutte queste
disposizioni sono applicabili, in forza dell’art. 2 della direttiva
impugnata, in combinato disposto con il suo allegato I, ai produttori di
ghisa o di acciaio.
101 A sostegno della sua affermazione di un’incidenza individuale delle
disposizioni controverse, in primo luogo, la ricorrente adduce
sostanzialmente che il legislatore comunitario era tenuto, in forza di
svariate norme di diritto di rango superiore, compresi i suoi diritti
fondamentali, a tener conto della situazione particolare dei produttori
di ghisa o di acciaio stabiliti nel mercato interno, e in particolare
della propria (sentenze Piraiki-Patraiki e a./Commissione, punto 54
supra, punto 19; Sofrimport/Commissione, punto 54 supra, punto 11, e
UEAPME/Consiglio, punto 54 supra, punto 90).
102 Al riguardo, va rilevato che non esiste alcuna disposizione espressa
e specifica, di rango superiore o di diritto derivato, che avrebbe
potuto obbligare il legislatore comunitario a tenere particolarmente
conto, nell’ambito della procedura di adozione della direttiva
impugnata, della situazione dei produttori di ghisa o d’acciaio, se non
addirittura di quella della ricorrente, rispetto a quella degli
operatori degli altri settori industriali di cui all’allegato I della
predetta direttiva (v., in tal senso, sentenza del Tribunale 17 gennaio
2002, causa T-47/00, Rica Foods/Commissione, Racc. pag. II-113, punti 41
e 42; v., altresì, ordinanze del Tribunale 6 maggio 2003, causa T-45/02,
DOW AgroSciences/Parlamento e Consiglio, Racc. pag. II-1973, punto 47;
25 maggio 2004, causa T-264/03, Schmoldt e a./Commissione, Racc. pag.
II-1515, punto 117, e 16 febbraio 2005, causa T-142/03, Fost
Plus/Commissione, Racc. pag. II-589, punti 61-65). Pertanto, nello
specifico l’art. 174 CE e l’art. 175, n. 1, CE, in quanto fondamenti
normativi per l’attività legislativa della Comunità in materia di
ambiente, non prevedono siffatto obbligo. Inoltre, eccettuato il
riferimento ai suoi diritti fondamentali e a taluni principi generali
del diritto che la tutelano, la ricorrente non invoca alcuna norma
concreta di rango superiore che la riguardi specificamente o, quanto
meno, riguardi i produttori di ghisa e di acciaio, che possa far sorgere
in suo favore un obbligo di questo genere.
103 Orbene, benché in effetti, al momento dell’adozione di un atto di
portata generale, le istituzioni comunitarie siano tenute a rispettare
le norme di diritto di rango superiore, compresi i diritti fondamentali,
l’affermazione secondo cui detto atto viola tali norme o tali diritti
non è sufficiente da sola a far sì che il ricorso di un soggetto sia
ricevibile, a pena di privare del loro contenuto le prescrizioni
dell’art. 230, quarto comma, CE, sin tanto che l’asserita violazione non
sia idonea a individualizzarlo allo stesso modo in cui
individualizzerebbe il destinatario (v., per quanto attiene al diritto
di proprietà, ordinanza del Tribunale 28 novembre 2005, causa T-94/04,
EEB e a./Commissione, Racc. pag. II-4919, punti 53-55; v. inoltre, in
tal senso, ordinanza del Tribunale 29 giugno 2006, causa T-311/03,
Nürburgring/Parlamento e Consiglio, non pubblicata nella Raccolta, punti
65 e 66). Ciò premesso, la ricorrente non può invocare validamente la
sentenza Codorníu, citata nel precedente punto 54 (punti 20-22), nel cui
contesto la ricevibilità del ricorso contro il regolamento impugnato era
riconducibile solo al carattere individualizzante, rispetto alle
disposizioni contestate, della denominazione qui in questione, in base
alla quale il ricorrente era da lungo tempo l’unico titolare di un
diritto di marchio.
104 In ogni caso, la ricorrente non ha dimostrato che le disposizioni
controverse, in particolare l’obbligo di autorizzazione di emissione in
base all’art. 4 della direttiva impugnata, l’obbligo di restituzione in
base al suo art. 12, n. 3, in combinato disposto con il suo art. 6, n.
2, lett. e), nonché le sanzioni previste dall’art. 16, nn. 2-4, della
suddetta direttiva siano lesive dei suoi diritti fondamentali e le
causino un pregiudizio grave idoneo a individualizzarla come
destinatario rispetto a qualsivoglia altro operatore interessato da
dette disposizioni (v., in tal senso, ordinanza Nürburgring/Parlamento e
Consiglio, punto 100 supra, punto 66). Infatti, dette disposizioni si
applicano in modo generale e astratto a tutti gli operatori di cui
all’allegato I della direttiva impugnata e a situazioni determinate
obiettivamente. Esse sono pertanto atte ad incidere sulla posizione
giuridica di tutti i suddetti operatori allo stesso modo.
105 Di conseguenza, gli argomenti della ricorrente relativi all’obbligo,
per il legislatore comunitario, di rispettare taluni principi generali
del diritto e i diritti fondamentali non consentono di dichiarare che la
ricorrente sia interessata individualmente dalle disposizioni
controverse e pertanto non occorre esaminare se, a questo proposito,
dette disposizioni la riguardino direttamente.
106 In secondo luogo, per quanto attiene all’argomento della ricorrente
secondo cui essa farebbe parte di una categoria chiusa di operatori
particolarmente colpita dalle disposizioni controverse, da un lato, si
deve rammentare che la possibilità di determinare al momento
dell’adozione della misura contestata, con maggiore o minore precisione,
il numero o anche l’identità dei soggetti di diritto ai quali si applica
un provvedimento non comporta affatto che questi soggetti debbano essere
considerati individualmente interessati da questo provvedimento, purché
sia assodato che tale applicazione viene effettuata in virtù di una
situazione obiettiva di diritto o di fatto definita dall’atto in esame
(v., in tal senso, ordinanza della Corte 8 aprile 2008, causa C-503/07
P, Saint-Gobain Glass Deutschland/Commissione, Racc. pag. I-2217, punto
70 e giurisprudenza ivi citata). Dall’altro, non è sufficiente che
taluni operatori siano colpiti economicamente da un atto di portata
generale in misura maggiore rispetto ad altri per individualizzarli nei
confronti di tali altri operatori, dal momento che l’applicazione di
detto atto si effettua in virtù di una situazione obiettivamente
determinata (v., in tal senso, ordinanza della Corte 18 dicembre 1997,
causa C-409/96 P, Sveriges Betodlares e Henrikson/Commissione, Racc.
pag. I-7531, punto 37; ordinanze del Tribunale Fels-Werke e
a./Commissione, cit., punto 60 e giurisprudenza ivi citata, e 10 maggio
2004, causa T-391/02, Bundesverband der Nahrungsmittel- und
Speiseresteverwertung e Kloh/Parlamento e Consiglio, Racc. pag. II-1447,
punto 53 e giurisprudenza ivi citata).
107 Orbene, si deve necessariamente rilevare che le disposizioni
controverse riguardano la ricorrente principalmente nella sua capacità
obiettiva in quanto, da un lato, gestore di impianti che producono
emissioni di gas a effetto serra e, dall’altro, produttore di ghisa e
d’acciaio, nello stesso modo in cui riguardano qualsiasi altro operatore
o produttore di ghisa o di acciaio la cui attività sia contemplata
dall’allegato I della direttiva impugnata. Pertanto, anche qualora la
ricorrente, all’epoca dell’entrata in vigore della direttiva impugnata,
facesse parte di un gruppo di soli quindici produttori di ghisa o di
acciaio operante nell’ambito del mercato interno, questa circostanza da
sola non è sufficiente a individualizzarla allo stesso modo di un
destinatario nei confronti di tutti gli altri operatori esercenti
attività ai sensi dell’allegato I della direttiva impugnata, compresi i
produttori di ghisa o di acciaio del medesimo gruppo.
108 Inoltre, anche ritenendo che i produttori di ghisa o di acciaio
costituiscano un gruppo di operatori particolarmente colpito, essi
possono subire tutti le stesse conseguenze giuridiche e di fatto della
ricorrente per una situazione obiettivamente determinata, ossia
l’inclusione della loro attività nell’allegato I della direttiva
impugnata. Pertanto, l’asserita impossibilità tecnica ed economica per
tali produttori, a differenza degli operatori appartenenti ad altri
settori industriali, di ridurre ulteriormente le loro emissioni di gas a
effetto serra e di far gravare sui loro clienti i costi supplementari,
insorti al momento dell’acquisto di quote di emissione, colpisce il
settore della produzione di ghisa o di acciaio nel suo insieme e in modo
identico. Allo stesso modo, a seguito dell’attuazione del sistema dello
scambio di quote, detti produttori sono tutti esposti nella stessa
maniera alle evoluzioni del mercato di scambio e del mercato dei
prodotti di riferimento, nonché alla concorrenza promanante da altri
settori industriali o da produttori di ghisa o di acciaio di paesi
terzi.
109 In tale contesto, va parimenti respinta la tesi della ricorrente
secondo cui i produttori di ghisa o di acciaio stabiliti nel mercato
interno costituiscono una categoria chiusa di operatori, la cui
composizione non è più suscettibile di variare. In proposito, il
Parlamento e il Consiglio fanno giustamente riferimento all’aumento del
numero di produttori di ghisa o di acciaio ricadente nell’ambito di
applicazione della direttiva impugnata a seguito dell’ampliamento
dell’Unione dopo il 2004 nonché alla possibilità che in futuro vi
aderiscano altri Stati europei che dispongano essi stessi di un settore
siderurgico. Inoltre, la ricorrente non ha dimostrato che, all’epoca
dell’entrata in vigore della direttiva impugnata, i suddetti produttori
di ghisa o di acciaio presentassero caratteristiche particolari tali da
differenziarli da qualsivoglia altro produttore o nuovo entrante, ad
esempio in quanto titolari di diritti anteriori specifici (v., in tal
senso, sentenza della Corte 13 marzo 2008, causa C-125/06 P,
Commissione/Infront WM, Racc. pag. I-1451, punti 71-77). Infatti, anche
supponendo che detti produttori disponessero di diritti d’emissione
accordati in base alla direttiva 96/61 (v. punto 48 supra), questi
pretesi diritti, lungi dall’essere specifici, se non addirittura
spettanti alla sola ricorrente, avrebbero recato beneficio nella stessa
misura a tutti gli operatori esercenti le attività previste
dall’allegato I della direttiva in parola. Infine, il solo fatto che,
secondo la ricorrente, l’ingresso nel mercato di riferimento sia
possibile solo tramite l’acquisto di un produttore che vi sia già
impiantato non esclude che l’identità di tale produttore, o del nuovo
entrante che l’acquista, muti e che si modifichi in tal modo la
composizione del gruppo di produttori in esame.
110 Ne consegue che gli effetti giuridici delle disposizioni
controverse, ossia gli obblighi di autorizzare le emissioni e di
restituire le quote, le sanzioni in caso di mancato rispetto di tali
obblighi nonché l’asserita fissazione di un tetto massimo delle quote in
base all’art. 9 della direttiva impugnata, incidono sull’attività
economica e sulla posizione giuridica degli operatori di cui
all’allegato I della direttiva impugnata, compresi quelli del settore di
produzione di ghisa o di acciaio, nella stessa misura e in virtù di una
situazione determinata obiettivamente. Tali disposizioni pertanto non
sono idonee a qualificare la situazione di fatto e di diritto della
ricorrente nei confronti di detti altri operatori e, quindi, di
individualizzarla così come individualizzerebbero un destinatario, per
cui non si pone la necessità di esaminare se esse la riguardino
direttamente.
111 In terzo luogo, quanto all’argomento relativo alle notevoli
dimensioni della ricorrente, al volume annuo della sua produzione e alla
sua incapacità economica e/o tecnologica individuale a ridurre
ulteriormente le sue emissioni di CO2, si deve rilevare che la
ricorrente non chiarisce le ragioni per le quali i produttori di ghisa o
di acciaio concorrenti non risulterebbero esposti a problemi di
adeguamento ed a difficoltà analoghe in funzione delle loro dimensioni,
del volume della loro produzione e dei loro sforzi di riduzione delle
emissioni. Infatti, un operatore di dimensioni inferiori e con una
produzione di ghisa o di acciaio minore di quelle della ricorrente
disporrà necessariamente di una minore quantità di quote di modo che,
proporzionalmente, le sue difficoltà economiche e/o tecnologiche per
ridurre le proprie emissioni dovrebbero essere paragonabili a quelle
della ricorrente. Orbene, in conformità all’allegato I della direttiva
impugnata, gli obblighi risultanti dalle disposizioni controverse sono
applicabili, in modo uniforme e generale, a tutti i gestori di impianti
la cui produzione oltrepassi la soglia ivi indicata, senza distinzione a
seconda delle loro dimensioni. Inoltre, la portata di detti obblighi
dipende solo dalla quantità di emissioni di gas a effetto serra che, in
mancanza di prova contraria, può aumentare con le dimensioni e con la
capacità produttiva dell’impianto in questione, con la conseguenza che
tutti i gestori interessati si trovano in una situazione paragonabile
(v., in tal senso, sentenza Arcelor Atlantique e Lorraine e a., punto 42
supra, punto 34). Pertanto, la ricorrente non può far validamente valere
un’incidenza particolare che sarebbe idonea a individualizzarla come un
destinatario, conseguentemente non è necessario esaminare se, a questo
riguardo, essa sia direttamente interessata.
112 In quarto luogo, la ricorrente non ha sufficientemente dimostrato
che la sua asserita «situazione di blocco unica», in particolare dovuta
alla ristrutturazione del suo gruppo, fosse tale da individualizzarla
rispetto a qualsiasi altro operatore. Infatti, anche ritenendo che essa
sia l’unico produttore di ghisa e di acciaio stabilito nel mercato
comune che abbia intrapreso siffatta ristrutturazione, non è dimostrata
la mancanza di altri produttori appartenenti ad altri settori coperti
dall’allegato I della direttiva impugnata che subiscano conseguenze
analoghe a seguito dell’attuazione di detta direttiva per il fatto che
abbiano proceduto ovvero rinunciato a intraprendere azioni analoghe. A
tale proposito, le affermazioni della ricorrente, secondo cui le imprese
appartenenti agli altri settori di cui all’allegato I della direttiva
impugnata non potrebbero essere esposte alle stesse difficoltà della
stessa, sono troppo vaghe ed ipotetiche per escludere una simile
incidenza su altri produttori, come ad esempio quelli del settore
energetico che, a seguito della sua liberalizzazione a livello
comunitario, sono stati oggetto di una ristrutturazione transfrontaliera
rilevante.
113 In ogni caso, la ricorrente non ha provato che l’incidenza nei suoi
confronti a causa di tale presunta «situazione di blocco unica» fosse
specificamente riconducibile agli effetti giuridici delle disposizioni
controverse in quanto tali da riguardarla direttamente. In base alle
stesse affermazioni della ricorrente, questa situazione risulta in
sostanza, in primo luogo, dall’asserita carenza di quote di emissione
assegnate gratuitamente dalle autorità statali che la trasformerebbe in
«acquirente netto di quote», in secondo luogo, dall’eventuale aumento
e/o dal livello elevato del prezzo delle quote disponibili nel mercato
di scambio e, in terzo luogo, dall’impossibilità per essa di trasferire
nel mercato interno le quote assegnate a impianti da chiudere ad altri
impianti, nei quali essa prevede un incremento della capacità
produttiva.
114 Parimenti, supponendo che la ristrutturazione addotta sia una
caratteristica particolare della ricorrente, si deve necessariamente
rilevare che l’asserita «situazione di blocco unica» derivante dai
fattori considerati nel precedente punto 109 non è imputabile né
all’obbligo di autorizzazione d’emissione in base all’art. 4 della
direttiva impugnata, né all’obbligo di restituzione in base al suo art.
12, n. 3, in combinato disposto con il suo art. 6, n. 2, lett. e), né
alle sanzioni previste dall’art. 16, nn. 2-4, di detta direttiva, ma
costituisce, ove tale situazione si debba verificare, la conseguenza
dell’attuazione da parte degli Stati membri dei loro PNA e delle
normative pertinenti. Orbene, tali Stati dispongono, conformemente
all’art. 9, n. 1, e all’art. 11, n. 1, della direttiva impugnata, di un
ampio margine di discrezionalità per quanto attiene sia all’attribuzione
dei contingenti di quote ai diversi settori industriali, sia al rilascio
e alla revoca delle quote ai gestori individuali, anche nel caso di
chiusura di un impianto (v., in tal senso, sentenza del Tribunale 7
novembre 2007, causa T-374/04, Germania/Commissione, Racc. pag. II-4431,
punti 102-106).
115 Infatti, l’art. 4 della direttiva impugnata si limita ad
assoggettare tutti i gestori che producono gas a effetto serra
all’obbligo di conseguire un’autorizzazione di emissione, senza però
specificare le condizioni e le modalità di assegnazione o di ritiro
delle quote di emissione, come quelle previste da taluni Stati membri,
cui la ricorrente attribuisce l’origine delle sue difficoltà di
ristrutturazione. Tale ragionamento si applica per analogia all’obbligo
di restituzione di cui all’art. 12, n. 3, della direttiva impugnata, in
combinato disposto con il suo art. 6, n. 2, lett. e), e alle sanzioni
previste dall’art. 16, nn. 2-4, di detta direttiva, posto che la
ricorrente non ha chiarito le ragioni per cui essa riteneva che queste
disposizioni presentassero un qualche collegamento con le predette
difficoltà. In tale contesto, un eventuale pregiudizio subìto dalla
ricorrente a causa dell’aumento dei costi di acquisizione di quote e/o
di un’eventuale perdita di quote, anche se sostanziale e più gravoso che
per altri operatori, a seguito della chiusura di uno dei suoi impianti e
del ritiro delle corrispondenti quote da parte delle autorità statali,
non può essere imputato agli obblighi derivanti dalle succitate
disposizioni per dare fondamento alla incidenza diretta nei suoi
confronti ai sensi dell’art. 230, quarto comma, CE.
116 Da ultimo, per quanto riguarda l’ulteriore censura mossa dalla
ricorrente nei riguardi dell’art. 9 della direttiva impugnata, in
combinato disposto con il criterio n. 1 del suo allegato III, in quanto
non prevedrebbe l’imposizione agli Stati membri di un «limite massimo
assoluto di quote», è sufficiente rilevare che, anche ritenendo fondato
tale ultimo argomento, un simile limite massimo non avrebbe l’effetto di
riguardare direttamente la ricorrente, ai sensi dell’art. 230, quarto
comma, CE, dal momento che non consentirebbe di identificare, anche se
in modo approssimativo, il numero di quote che le autorità statali
devono assegnare ai diversi settori industriali e ancor meno ai gestori
individuali. Tale rilievo è confermato dal fatto che, in corso di causa,
la ricorrente non è stata in grado di precisare o di prevedere, alla
luce della direttiva impugnata e della decisione 2002/358, né la
quantità di quote che gli Stati membri le assegnerebbero gratuitamente
per i suoi impianti di produzione stabiliti nel mercato interno né la
portata dell’eventuale onere che essa dovrebbe subire in caso di
insufficienza di dette quote.
117 Pertanto, la ricorrente non ha dimostrato di essere stata
direttamente e individualmente interessata dalle disposizioni
controverse a causa della sua asserita «situazione di blocco unica»,
risultante in particolare dalla ristrutturazione transfrontaliera del
suo gruppo.
118 In quinto luogo, per quanto concerne i contratti di fornitura di gas
a lungo termine che la ricorrente afferma aver concluso con varie
centrali elettriche prima dell’entrata in vigore della direttiva
impugnata, non sono neppure essi idonei a individualizzarla con
riferimento alle disposizioni controverse. Infatti, tali disposizioni
disciplinano in modo generale e astratto gli obblighi degli operatori
soggetti al sistema dello scambio di quote, senza però precisare le
condizioni e le modalità per la concessione o la revoca da parte degli
Stati membri delle quote di emissione (v. punti 109-113 supra). Ne
consegue in ogni caso che un’eventuale incidenza nell’esecuzione di
detti contratti di fornitura di gas può risultare solo dalle norme
nazionali che disciplinano l’assegnazione delle quote e, di conseguenza,
la ricorrente neppure a tal proposito sostiene validamente di essere
direttamente interessata. Inoltre, come fatto valere dal Consiglio, la
ricorrente stessa afferma che detti contratti di fornitura di gas
riguardano, quanto meno in parte, centrali elettriche appartenenti al
proprio gruppo di imprese. Pertanto, nella misura in cui l’attività di
queste centrali elettriche rientra nell’ambito di applicazione
dell’allegato I della direttiva impugnata in quanto oltrepassa il volume
di produzione ivi previsto, la ricorrente disporrà necessariamente, sul
fondamento dei PNA e delle norme nazionali applicabili, di quote di
emissione per la combustione dei gas in questione. Infine, nonostante il
fatto che la produzione di energia costituisca in linea di principio
un’attività coperta dall’allegato I della direttiva impugnata, la
ricorrente non ha né precisato in che misura i suddetti contratti di
fornitura di gas la vincolino a centrali elettriche terze, né indicato
se queste ultime potessero ottenere quote di emissione per conto proprio
o ne necessitassero a causa della loro inclusione nel predetto allegato,
né chiarito a quali condizioni un’eventuale insufficienza di quote per
esse fosse tale da pregiudicare l’esecuzione dei contratti in parola. In
tale contesto, si deve concludere che la ricorrente non ha dimostrato
che le disposizioni controverse la riguardassero direttamente e
individualmente a causa della pretesa incidenza nell’esecuzione dei
contratti di fornitura di gas a lungo termine in esame.
119 In sesto luogo, quanto all’argomento molto poco circostanziato della
ricorrente, secondo il quale essa avrebbe partecipato al processo
decisionale che ha condotto all’adozione della direttiva impugnata, va
rammentato che il fatto che un soggetto intervenga, in un modo o in un
altro, nel processo che conduce all’adozione di un atto comunitario è
idoneo a individualizzare tale soggetto in rapporto all’atto in
questione solo qualora la normativa comunitaria applicabile gli
riconosca talune garanzie procedurali. Orbene, salvo disposizione
espressa contraria, né l’iter di elaborazione degli atti di portata
generale né tali stessi atti richiedono, in forza dei principi generali
del diritto comunitario, quale il diritto di essere sentiti, la
partecipazione dei soggetti che subiscono pregiudizio, dovendosi
presumere che gli interessi di costoro siano rappresentati dalle istanze
politiche chiamate ad adottare tali atti. Di conseguenza, in assenza di
diritti procedurali espressamente garantiti, sarebbe contrario alla
lettera e allo spirito dell’art. 230 CE consentire a qualsiasi soggetto,
solo per aver questi partecipato all’elaborazione di un atto di natura
normativa, di proporre poi ricorso contro quest’ultimo (v., in tal
senso, ordinanza del Tribunale 14 dicembre 2005, causa T-369/03, Arizona
Chemical e a./Commissione, Racc. pag. II-5839, punti 72-73 e
giurisprudenza ivi citata).
120 Nel caso di specie, si deve necessariamente rilevare che, da un
lato, la procedura di elaborazione e di adozione della direttiva
impugnata, in forza dell’art. 175, n. 1, CE e dell’art. 251 CE,
costituiva un processo decisionale, implicante la partecipazione
congiunta del Consiglio e del Parlamento in qualità di legislatore
comunitario e sfociante nell’adozione di un provvedimento avente portata
generale, senza che in tale contesto fosse prevista una qualche forma di
intervento da parte degli operatori, e che, dall’altro, la ricorrente
non ha né fatto valere né dimostrato di aver disposto di diritti
procedurali idonei a darle titolo ad agire ai sensi della giurisprudenza
citata nel precedente punto 116.
121 Ne consegue che l’asserita partecipazione della ricorrente al
processo decisionale che ha condotto all’adozione della direttiva
impugnata non è idonea a individualizzarla ai sensi dell’art. 230,
quarto comma, CE, senza che a questo riguardo sia necessario esaminare
l’incidenza diretta nei suoi confronti.
122 Da tutte le considerazioni che precedono risulta che la ricorrente
non è né individualmente né direttamente interessata dalle disposizioni
controverse, ai sensi dell’art. 230, quarto comma, CE, e che la sua
domanda di annullamento deve essere dichiarata irricevibile, senza che
occorra esaminare se le disposizioni controverse siano separabili o meno
dalla direttiva impugnata nel suo complesso.
123 Questa soluzione non viene del resto messa in discussione dall’art.
263, quarto comma, TFUE. Infatti, come rammentato al precedente punto
114, gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità
nell’attuazione della direttiva impugnata. Pertanto, contrariamente a
quanto affermato dalla ricorrente, tale direttiva non può in nessun caso
essere considerata un atto regolamentare che non comporti alcuna misura
d’esecuzione ai sensi dell’art. 263, quarto comma, TFUE.
II - Sulla ricevibilità della domanda di risarcimento
A - Argomenti delle parti
124 Il Parlamento e il Consiglio, sostenuti dalla Commissione, fanno
valere che anche la domanda di risarcimento è irricevibile.
125 La domanda della ricorrente non sarebbe conforme alle prescrizioni
di cui all’art. 44, n. 1, lett. c), del regolamento di procedura in
quanto, da un lato, il danno allegato non è né imminente, né certo, né
sufficientemente identificato e, dall’altro, non sussiste un nesso di
causalità diretta tra la direttiva impugnata e tale danno. Il Parlamento
aggiunge che la ricorrente non ha assolto l’onere su di essa incombente
di provare che la scelta operata dal legislatore comunitario pregiudichi
gravemente e manifestamente le norme di diritto di rango superiore
invocate, quale il principio della parità di trattamento. Così, essa non
avrebbe dimostrato che i settori della chimica e dell’alluminio occupino
lo stesso segmento di mercato del settore della ghisa e dell’acciaio e
che tali settori producano emissioni dirette di CO2 di tale rilevanza da
dover essere immediatamente inclusi nella direttiva impugnata.
126 Quanto all’esistenza di un danno, il Consiglio fa valere che la
direttiva impugnata, sebbene fosse già in vigore, al momento del
deposito del ricorso non aveva ancora prodotto il benché minimo effetto
diretto sull’attività economica della ricorrente e che eventuali effetti
futuri non possono essere considerati imminenti. Inoltre, la ricorrente
non avrebbe provato l’esistenza di un danno certo, essendo ciò
impossibile in tale momento per vari motivi. A questo riguardo il
Parlamento e il Consiglio sostengono, segnatamente, che l’asserita
situazione di «acquirente netto di quote» della ricorrente è soltanto
ipotetica e non una conseguenza diretta, necessaria e certa della
direttiva impugnata.
127 Secondo il Consiglio, il fatto che la ricorrente divenga un
«acquirente netto di quote» dipende da una serie di fattori sconosciuti
e non verificatisi nel caso di specie, come la quantità totale di quote
inizialmente assegnata dalle autorità nazionali conformemente ai PNA e i
costi di riduzione di emissioni rispetto al prezzo delle quote sul
mercato di scambio. La quantità totale di quote assegnate dipenderebbe a
sua volta da vari fattori, quale l’obiettivo di riduzione attribuito
allo Stato membro, l’eventuale intenzione dello stesso di acquistare nel
mercato mondiale unità di emissione previste dal Protocollo di Kyoto,
nonché la decisione da parte sua sulle modalità di ripartizione della
riduzione necessaria delle emissioni tra i diversi settori industriali.
Il Consiglio fa valere inoltre che, qualora le quote assegnate
risultassero insufficienti, l’impatto della direttiva impugnata
dipenderà, tenuto conto del costo di investimento rispettivo, dalla
scelta del gestore se, da un lato, acquistare quote supplementari per
coprire le proprie emissioni di CO2 oppure, dall’altro, adottare misure
di riduzione delle emissioni.
128 La mancanza di danno certo sarebbe corroborata dal fatto che la
direttiva impugnata prevede espressamente, ai criteri nn. 3 e 7 del suo
allegato III, che la quantità di quote debba essere coerente con il
potenziale, anche tecnologico, delle attività degli operatori e che il
PNA possa tener conto delle misure adottate in una fase precoce, come le
riduzioni di emissioni di CO2 che la ricorrente afferma aver effettuato
dopo il 1990. Inoltre, il Consiglio rammenta che la ricorrente può
procedere a un trasferimento transfrontaliero delle quote non utilizzate
tra gli impianti all’interno del suo gruppo, dato che simile eventualità
costituisce la base stessa del sistema dello scambio di quote.
129 Il Parlamento e il Consiglio, sostenuti dalla Commissione, rilevano
che la ricorrente non è stata in grado di dimostrare che essa debba
affrontare costi supplementari connessi all’attuazione della direttiva
impugnata, quali i costi per il personale incaricato del monitoraggio
delle emissioni di CO2 e della redazione di relazioni, dal momento che
tali obblighi sussistono già in applicazione della direttiva 96/61. Il
Consiglio fa valere che le affermazioni della ricorrente in merito ai
costi connessi all’impiego di personale supplementare e alla perdita di
profitti futuri sono troppo vaghe e imprecise per costituire la prova di
un danno futuro. Analogamente, le eventuali perdite di quote di mercato
o di profitto non sarebbero certe e dipenderebbero da fattori ignoti e
indipendenti dalla direttiva impugnata, ad esempio dall’evoluzione dei
prezzi della ghisa e dell’acciaio e di quelli dei prodotti concorrenti.
130 Secondo il Parlamento e il Consiglio, sostenuti dalla Commissione,
la ricorrente non ha neppure dimostrato l’esistenza di un nesso di
causalità tra la direttiva impugnata e l’asserito danno futuro
provocatole. Considerando il margine di discrezionalità riservato agli
Stati membri, la direttiva impugnata non potrebbe in quanto tale causare
direttamente un qualche danno alla ricorrente, dato che esso potrebbe
risultare soltanto dalle norme nazionali di trasposizione e,
segnatamente, dall’assegnazione delle quote di emissione.
131 La ricorrente ritiene che la sua domanda di risarcimento sia
conforme alle prescrizioni di cui all’art. 44, n. 1, lett. c), del
regolamento di procedura e quindi ricevibile.
B - Giudizio del Tribunale
132 Occorre rammentare che, in forza dell’art. 21, primo comma, in
combinato disposto con l’art. 53, primo comma, dello Statuto della Corte
e dell’art. 44, n. 1, lett. c), del regolamento di procedura, ogni
ricorso deve contenere l’indicazione dell’oggetto della controversia e
l’esposizione sommaria dei motivi dedotti. Tale indicazione dev’essere
sufficientemente chiara e precisa per consentire alla parte convenuta di
predisporre la propria difesa e al Tribunale di pronunciarsi sul
ricorso, eventualmente senza altre informazioni a sostegno. Al fine di
garantire la certezza del diritto e una corretta amministrazione della
giustizia è necessario, affinché un ricorso sia ricevibile, che gli
elementi essenziali di fatto e di diritto sui quali esso è fondato
emergano, anche solo sommariamente, ma purché in modo coerente e
comprensibile, dall’atto introduttivo stesso. In modo più specifico, per
essere conforme a tali requisiti, un ricorso inteso al risarcimento dei
pretesi danni causati da un’istituzione comunitaria deve contenere gli
elementi che consentano di identificare il comportamento che il
ricorrente addebita all’istituzione, le ragioni per le quali egli
ritiene che esista un nesso di causalità tra il comportamento e il danno
che asserisce di aver subìto, nonché il carattere e l’entità di tale
danno (sentenze del Tribunale 3 febbraio 2005, causa T-19/01, Chiquita
Brands e a./Commissione, Racc. pag. II-315, punti 64 e 65; 10 maggio
2006, causa T-279/03, Galileo International Technology e a./Commissione,
Racc. pag. II-1291, punti 36 e 37; 13 dicembre 2006, causa T-304/01,
Abad Pérez e a./Consiglio e Commissione, Racc. pag. II-4857, punto 44, e
causa T-138/03, É.R. e a./Consiglio e Commissione, Racc. pag. II-4923,
punto 34; ordinanza del Tribunale 27 maggio 2004, causa T-379/02,
Andolfi/Commissione, non pubblicata nella Raccolta, punti 41 e 42).
133 Il Tribunale ritiene che il ricorso soddisfi tali requisiti di forma
e che si debbano respingere gli argomenti del Parlamento e del Consiglio
a questo riguardo, la maggior parte dei quali riguardano la valutazione
della fondatezza e non della ricevibilità della domanda di risarcimento.
Infatti, nel ricorso la ricorrente ha fornito sufficienti elementi che
consentono di identificare il comportamento addebitato al legislatore
comunitario, le ragioni per cui essa ritiene che sussista un nesso di
causalità tra tale comportamento ed il pregiudizio che essa afferma aver
subito nonché la natura e l’eventuale ampiezza di questo pregiudizio,
dato oltretutto che detti elementi hanno consentito al Parlamento e al
Consiglio di difendersi utilmente a questo riguardo adducendo argomenti
diretti, in realtà, a dimostrare che la domanda di risarcimento è
infondata.
134 Quanto al comportamento asseritamente illegittimo del Parlamento e
del Consiglio, si deve necessariamente rilevare che la ricorrente ha
addotto, conformemente ai requisiti riconosciuti dalla giurisprudenza
(sentenze della Corte 4 luglio 2000, causa C-352/98, Bergaderm e Goupil/Commissione,
Racc. pag. I-5291, punti 39 e segg., e 12 luglio 2005, causa C-198/03 P,
Commissione/CEVA e Pfizer, Racc. pag. I-6357, punti 61 e segg.),
argomenti circostanziati volti a dimostrare una violazione
sufficientemente qualificata di varie norme - e addirittura di norme di
diritto di rango superiore - preordinate a conferire diritti ai
soggetti, quali il principio della parità di trattamento e la libertà di
stabilimento.
135 Per quanto riguarda il danno, si deve anzitutto rilevare che, tenuto
conto delle circostanze al momento del deposito del ricorso, tale danno
doveva avere necessariamente carattere futuro dato che la direttiva
impugnata si trovava ancora in corso di trasposizione negli ordinamenti
giuridici nazionali, e che gli Stati membri avevano soltanto avviato
l’elaborazione dei loro PNA e delle loro normative in relazione al primo
periodo di assegnazione. Inoltre, in considerazione del margine di
discrezionalità degli Stati membri nell’attuazione del sistema dello
scambio di quote nel loro territorio in applicazione dei propri PNA (v.
punto 113 supra), al momento dell’introduzione del proprio ricorso la
ricorrente non poteva precisare l’esatta ampiezza del suddetto danno
futuro. Orbene, in tali circostanze particolari, alle quali ha fatto
riferimento la ricorrente, non è indispensabile precisare nel ricorso,
quale condizione di ricevibilità, l’esatta ampiezza del danno, e ancor
meno quantificare l’ammontare del risarcimento richiesto, dato che in
ogni caso ciò è possibile sino al momento della replica, sempreché il
ricorrente adduca siffatte circostanze e indichi gli elementi che
consentano di valutare la natura e l’ampiezza del danno, mettendo quindi
il convenuto in grado di assicurare la propria difesa (v., in tal senso,
ordinanze del Tribunale Andolfi/Commissione, punto 128 supra, punti 48 e
49 e giurisprudenza ivi citata, e 22 luglio 2005, causa T-376/04,
Polyelectrolyte Producers Group/Consiglio e Commissione, Racc. pag.
II-3007, punto 55).
136 Va poi rilevato che la ricorrente ha addotto sufficienti elementi
che identificano il danno futuro a suo carico, comprese la natura,
l’ampiezza e le diverse componenti di esso, così da soddisfare le
condizioni di cui all’art. 44, n. 1, lett. c), del regolamento di
procedura. Infatti, nel ricorso la ricorrente si è innanzitutto riferita
al danno derivante dai costi supplementari generati dall’impiego di
personale che deve esercitare le attività di monitoraggio e di
comunicazione in base agli artt. 14 e 15 della direttiva impugnata.
Inoltre, nelle sue osservazioni relative alle eccezioni di
irricevibilità, la ricorrente ha fornito una stima quantificata e
concreta di tali costi supplementari. In secondo luogo, la ricorrente ha
fatto valere un danno tanto materiale quanto morale risultante dalla
perdita di quote di mercato e dal pregiudizio alla sua reputazione in
materia ambientale, provocati dall’omessa inclusione dei settori
concorrenti dei materiali non ferrosi e dei prodotti chimici nell’ambito
di applicazione della direttiva impugnata. In terzo luogo, basandosi su
stime quantificate la ricorrente ha fatto valere il sorgere di un
pregiudizio dovuto alla sua situazione di «acquirente netto di quote» ed
al prevedibile aumento dei costi di tali quote che sarebbe tale da
annullare il suo margine di ricavo lordo. In quarto luogo, la ricorrente
ha domandato il risarcimento della perdita di profitto causata
dall’impossibilità per essa di attuare la propria strategia di
ristrutturazione transfrontaliera. Pertanto, nel caso di specie le
condizioni minime relative all’identificazione del danno sono
soddisfatte.
137 Per quanto riguarda, infine, il nesso di causalità tra il
comportamento illecito e il danno, conformemente alla logica del suo
ragionamento la ricorrente ha fatto valere, in modo sufficientemente
preciso, che lo Stato membro non disponeva di margine di discrezionalità
nella trasposizione nell’ordinamento nazionale delle disposizioni
controverse e degli obblighi da esse derivanti a carico degli operatori
e che, quindi, qualsiasi eventuale danno che ha subìto sarebbe
imputabile al comportamento asseritamente illegittimo del legislatore
comunitario. Al riguardo, non possono accogliersi gli argomenti del
Parlamento, del Consiglio e della Commissione secondo i quali la
ricorrente avrebbe dovuto «dimostrare» o «provare» tale nesso di
causalità per rendere la domanda ricevibile, posto che siffatta
valutazione rientra nell’ambito dell’analisi della fondatezza della
domanda e non della sua ricevibilità.
138 Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, le eccezioni d’irricevibilità
del Parlamento e del Consiglio, là dove riguardano la domanda di
risarcimento, devono essere respinte.
III - Sulla fondatezza della domanda di risarcimento
A - Sulle condizioni che fanno sorgere la responsabilità
extracontrattuale della Comunità
139 Da una giurisprudenza costante risulta che l’esistenza di una
responsabilità extracontrattuale della Comunità per comportamento
illecito dei suoi organi, ai sensi dell’art. 288, secondo comma, CE,
presuppone che siano soddisfatte varie condizioni, vale a dire
l’illiceità del comportamento di cui si fa carico alle istituzioni,
l’effettiva esistenza del danno e la presenza di un nesso di causalità
fra il comportamento fatto valere e il danno lamentato [v. sentenza
della Corte 9 novembre 2006, causa C-243/05 P, Agraz e a./Commissione,
Racc. pag. I-10833, punto 26 e giurisprudenza ivi citata; sentenze del
Tribunale 16 novembre 2006, causa T-333/03, Masdar (UK)/Commissione,
Racc. pag. II-4377, punto 59; Abad Pérez e a./Consiglio e Commissione,
punto 128 supra, punto 97; É.R. e a./Consiglio e Commissione, punto 128
supra, punto 99, e 12 settembre 2007, causa T-259/03, Nikolaou/Commissione,
non pubblicata nella Raccolta, punto 37].
140 Dato il carattere cumulativo delle suddette condizioni, il ricorso
deve essere respinto nella sua totalità qualora una sola di queste
condizioni non sia soddisfatta (v., in tal senso, sentenze Abad Pérez e
a./Consiglio e Commissione, punto 128 supra, punto 99, e É.R. e
a./Consiglio e Commissione, punto 128 supra, punto 101 e giurisprudenza
ivi citata).
141 Quanto alla prima di tali condizioni, è necessario che sia
dimostrata una violazione sufficientemente qualificata di una norma
giuridica preordinata a conferire diritti ai soggetti (sentenza
Bergaderm e Goupil/Commissione, punto 130 supra, punto 42). Per quanto
riguarda la condizione per cui la violazione deve essere
sufficientemente qualificata, il criterio decisivo che consente di
ritenere che essa sia soddisfatta è quello della violazione grave e
manifesta, commessa dall’istituzione comunitaria in questione, dei
limiti posti al suo potere discrezionale. Soltanto quando tale
istituzione dispone solo di un margine di discrezionalità
considerevolmente ridotto, se non addirittura inesistente, la semplice
trasgressione del diritto comunitario può essere sufficiente per
accertare l’esistenza di una violazione sufficientemente qualificata
(sentenza della Corte 10 dicembre 2002, causa C-312/00 P, Commissione/Camar
e Tico, Racc. pag. I-11355, punto 54; sentenze del Tribunale 12 luglio
2001, cause riunite T-198/95, T-171/96, T-230/97, T-174/98 e T-225/99,
Comafrica e Dole Fresh Fruit Europe/Commissione, Racc. pag. II-1975,
punto 134; Abad Pérez e a./Consiglio e Commissione, punto 128 supra,
punto 98, e É.R. e a./Consiglio e Commissione, punto 128 supra, punto
100).
142 In primo luogo, occorre valutare la fondatezza dei motivi di
illegittimità fatti valere dalla ricorrente alla luce dei criteri
enunciati nel precedente punto 137.
143 Al riguardo, nell’ambito della presente fattispecie occorre
precisare che un’eventuale violazione sufficientemente qualificata delle
norme giuridiche in esame deve riposare su una violazione, grave e
manifesta, dei limiti dell’ampio potere discrezionale di cui il
legislatore comunitario dispone nell’esercizio delle competenze in
materia ambientale in forza degli artt. 174 CE e 175 CE (v., in questo
senso e per analogia, da un lato, sentenze del Tribunale 1° dicembre
1999, cause riunite T-125/96 e T-152/96, Boehringer/Consiglio e
Commissione, Racc. pag. II-3427, punto 74, e 10 febbraio 2004, cause
riunite T-64/01 e T-65/01, Afrikanische Frucht-Compagnie/Consiglio e
Commissione, Racc. pag. II-521, punto 101 e giurisprudenza ivi citata,
e, dall’altro, sentenze del Tribunale 11 settembre 2002, causa T-13/99,
Pfizer Animal Health/Conseil, Racc. pag. II-3305, punto 166, e 26
novembre 2002, cause riunite T-74/00, T-76/00, da T-83/00 a T-85/00,
T-132/00, T-137/00 e T-141/00, Artegodan/Commissione, Racc. pag.
II-4945, punto 201). Infatti, l’esercizio di questo potere discrezionale
implica, da un lato, la necessità per il legislatore comunitario di
prevedere e valutare sviluppi ecologici, scientifici, tecnici ed
economici di carattere complesso e incerto e, dall’altro, il
bilanciamento e la composizione da parte del suddetto legislatore dei
diversi obiettivi, principi ed interessi di cui all’art. 174 CE (v., in
tal senso, sentenze della Corte 14 luglio 1998, causa C-284/95, Safety
Hi-Tech, Racc. pag. I-4301, punti 36 e 37; 15 dicembre 2005, causa
C-86/03, Grecia/Commissione, Racc. pag. I-10979, punto 88, e Arcelor
Atlantique e Lorraine e a., punto 42 supra, punti 57-59; v. altresì, per
analogia, sentenza Chiquita Brands e a./Commissione, punto 128 supra,
punto 228). Ciò si traduce nella direttiva impugnata nella previsione di
una serie di obiettivi primari e secondari parzialmente contraddittori
(v., in tal senso, sentenze Arcelor Atlantique e Lorraine e a., punto 42
supra, punti 28-33, e Germania/Commissione, punto 111 supra, punti
121-125 e 136-139).
144 Occorre dunque verificare se l’asserita violazione delle norme
giuridiche addotta dalla ricorrente configuri una violazione grave e
manifesta dei limiti dell’ampio margine di discrezionalità di cui
disponeva il legislatore comunitario al momento dell’adozione della
direttiva impugnata.
145 Dal momento che la ricorrente fonda i due primi motivi di
illegittimità da essa fatti valere su argomenti che coincidono
ampiamente, è opportuno esaminare i medesimi congiuntamente.
B - Sull’esistenza di una violazione sufficientemente qualificata del
diritto di proprietà, della libertà di esercizio di un’attività
economica e del principio di proporzionalità
1. Argomenti delle parti
146 La ricorrente sostiene che le disposizioni controverse ledono il suo
diritto di proprietà e la sua libertà di esercitare un’attività
economica che costituiscono diritti fondamentali garantiti
dall’ordinamento giuridico comunitario, come sarebbe confermato dagli
artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (GU C 364, pag. 1). Infatti,
misure obbligatorie che subordinino lo «sfruttamento della proprietà» a
determinate condizioni sarebbero atte a restringere l’esercizio del
diritto di proprietà e, qualora tali misure sottraggano al soggetto
detto esercizio, esse sarebbero lesive dello stesso contenuto del
diritto in discorso.
147 La ricorrente ritiene che le disposizioni controverse siano
sproporzionatamente lesive del contenuto del suo diritto di proprietà e
della sua libertà all’esercizio di un’attività economica poichè la
obbligherebbero a far funzionare i suoi impianti in condizioni
economiche non redditizie. Da un lato, tali disposizioni comporterebbero
che la ricorrente divenga un «acquirente netto di quote» (v. punti 73 e
75 supra), dato che, malgrado i propri sforzi compiuti in passato e a
differenza di operatori di altri settori, le sarebbe tecnicamente
impossibile ridurre ulteriormente in un prossimo futuro le sue emissioni
di CO2 (v. punti 75 e 76 supra). Dall’altro, considerate le condizioni
particolari di concorrenza nel settore siderurgico (v. punto 77 supra),
la ricorrente non sarebbe più in grado di far gravare l’aumento dei
propri costi di produzione sui suoi clienti (v. punto 78 supra).
Pertanto essa produrrebbe in perdita e dovrebbe continuare a far
funzionare impianti non redditizi e inefficienti nell’ambito del mercato
interno, oppure chiuderli e trasferirli in paesi che non impongano un
obbligo di riduzione di emissioni in forza del Protocollo di Kyoto.
148 Nella replica la ricorrente precisa che la direttiva impugnata
comporta una distorsione della concorrenza in tre modi. Innanzitutto,
mentre l’industria comunitaria sarebbe assoggettata a vincoli di
riduzione di emissioni di CO2 tali da aumentare i costi di produzione, i
costi di produzione nei paesi terzi rimarrebbero immutati, o addirittura
diminuirebbero a causa di progetti riconducibili all’ambito del
meccanismo per uno sviluppo «pulito» previsto nel Protocollo di Kyoto
(v. punto 5 supra). In secondo luogo, nel mercato interno l’aumento dei
costi di produzione varierebbe in funzione di divergenze tra gli
obiettivi nazionali di riduzione di emissioni e tra le politiche
nazionali di assegnazione delle quote. In terzo luogo, soltanto la
produzione di taluni beni, fra cui l’acciaio, ricadrebbe nel sistema
dello scambio di quote. Orbene, a giudizio della ricorrente tutti i
prodotti dovrebbero ricadervi nello stesso modo, in misura proporzionale
alla quantità di CO2 emessa e in considerazione tanto del processo di
produzione quanto del ciclo di vita del prodotto interessato.
149 La ricorrente ritiene che la direttiva impugnata non sia idonea a
sollecitare i gestori di impianti a ridurre le loro emissioni. Da un
lato, essa non incoraggerebbe l’innovazione tecnica, giacché prevede che
i nuovi impianti ottengano quote in funzione delle loro effettive
esigenze, circostanza che indurrebbe i produttori a continuare a far
funzionare impianti non redditizi. Dall’altro, la direttiva impugnata
non ricompenserebbe le riduzioni di emissioni, ivi compresi i notevoli
sforzi di riduzione effettuati nel settore siderurgico europeo nel
passato. Al contrario, la chiusura di un impianto non efficiente
condurrebbe alla perdita delle quote assegnate, dal momento che tali
quote non potrebbero essere trasferite ad impianti stabiliti in un altro
Stato membro (v. punti 81-83 supra). I produttori di ghisa o di acciaio
sarebbero quindi dissuasi dal ridurre le loro emissioni o dal trasferire
la loro produzione ad impianti più efficienti e dunque più favorevoli
all’ambiente. Considerata tale violazione grave del suo diritto di
proprietà, della sua libertà all’esercizio di un’attività economica e
della sua libertà di stabilimento, la ricorrente dubita altresì che
l’obiettivo della direttiva impugnata di ridurre le emissioni dei gas a
effetto serra e di salvaguardare l’ambiente possa essere conseguito. Per
quanto riguarda il settore siderurgico, a causa del funzionamento
continuo di impianti inefficienti e del trasferimento della produzione
d’acciaio in paesi terzi, sarebbe probabile che nel complesso non possa
realizzarsi alcuna riduzione delle emissioni.
150 Secondo la ricorrente, dalle suesposte considerazioni, che
dimostrano la violazione del suo diritto di proprietà, della sua libertà
all’esercizio di un’attività economica e della sua libertà di
stabilimento, risulta che le disposizioni controverse violano anche il
principio di proporzionalità. In forza di questo principio, la
legittimità degli atti e dei provvedimenti comunitari sarebbe
subordinata alla condizione che tali atti e provvedimenti siano adeguati
e necessari alla realizzazione degli obiettivi legittimamente perseguiti
dalla normativa di cui trattasi. Allo stesso modo, l’art. 5, terzo
comma, CE imporrebbe che gli atti giuridici della Comunità non
oltrepassino quanto necessario per conseguire gli obiettivi del Trattato
CE. Inoltre, allorché si pone una scelta tra più provvedimenti
appropriati, si dovrebbe ricorrere a quello meno vincolante e gli oneri
imposti non dovrebbero essere sproporzionati rispetto agli obiettivi
perseguiti. Tuttavia, l’inclusione degli impianti di produzione di ghisa
grezza o di acciaio nell’allegato I della direttiva impugnata sarebbe
stata sin dall’inizio inadatta a contribuire alla realizzazione degli
obiettivi di riduzione delle emissioni e di salvaguardia dell’ambiente
della direttiva impugnata e le disposizioni controverse imporrebbero
alla ricorrente un onere gravoso e sproporzionato, mettendo a
repentaglio la sua stessa esistenza (v. punti 143-145 supra).
151 Il Parlamento e il Consiglio negano che la direttiva impugnata leda
in modo sproporzionato il diritto di proprietà e il libero esercizio di
un’attività economica della ricorrente. Anche ritenendo che gli obblighi
che ne derivano per la ricorrente configurino restrizioni a tale
riguardo, essi non potrebbero essere qualificati come lesione
sproporzionata e inaccettabile di detti diritti in considerazione
dell’obiettivo di interesse generale perseguito dalla direttiva
impugnata e dal sistema dello scambio di quote, vale a dire la
salvaguardia dell’ambiente.
152 Il primo e il secondo motivo dovrebbero pertanto essere respinti.
2. Giudizio del Tribunale
153 In via preliminare si deve rilevare che, sebbene il diritto di
proprietà e la libertà di esercizio di un’attività economica facciano
parte dei principi generali del diritto comunitario, tali principi non
costituiscono tuttavia prerogative assolute, ma vanno considerati alla
luce della loro funzione nella società. Ne consegue che possono
apportarsi restrizioni all’attuazione del diritto di proprietà e al
libero esercizio di un’attività professionale, a condizione che tali
restrizioni rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale
perseguiti dalla Comunità e non costituiscano, rispetto allo scopo
perseguito, un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da
ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti (v., in tal senso,
sentenza della Corte 30 giugno 2005, causa C-295/03 P, Alessandrini e
a./Commissione, Racc. pag. I-5673, punto 86 e giurisprudenza ivi citata,
e sentenza Chiquita Brands e a./Commissione, punto 128 supra, punto
220).
154 Più in particolare, per quanto concerne l’asserita lesione del
diritto di proprietà, occorre rilevare che, al di fuori della
dichiarazione molto generale secondo cui le disposizioni controverse
comportano che la ricorrente non sarebbe più in grado di far funzionare
in modo redditizio i propri impianti di produzione di acciaio stabiliti
nel mercato interno, la ricorrente non ha precisato in quale misura il
suo diritto di proprietà relativo a taluni beni materiali o immateriali
facenti parte dei suoi mezzi di produzione risulterebbe effettivamente
leso, o addirittura svuotato della sua sostanza a causa
dell’applicazione o della trasposizione nel diritto nazionale delle
suddette disposizioni. La ricorrente non ha neppure indicato quali di
detti impianti di produzione sarebbero particolarmente colpiti dalle
disposizioni controverse e per quali motivi essi sarebbero pregiudicati
in base alla situazione individuale di ciascuno di tali impianti nel
territorio in cui sono stabiliti e alla luce del PNA pertinente. A tale
riguardo, la ricorrente si è limitata ad affermare in modo vago che essa
non potrebbe chiudere taluni impianti inefficienti e non redditizi per
non perdere le quote di emissione ad essi assegnate, senza peraltro
chiarire in quale misura detta mancanza di efficienza e redditività e le
conseguenti difficoltà economiche sarebbero imputabili specificamente
all’applicazione delle disposizioni controverse in quanto tali. Orbene,
sulla base delle sue stesse affermazioni queste difficoltà economiche
esistevano già molto prima dell’operazione di concentrazione del 2001
(v. punto 30 supra) e ne hanno costituito una delle ragioni economiche.
155 Inoltre, relativamente all’asserita violazione del diritto di
proprietà e della libertà di esercizio di un’attività economica nel loro
insieme, la ricorrente non è stata in grado, né nelle sue memorie né in
udienza, di chiarire in maniera plausibile e sulla scorta di prove
concrete, in quale modo e in quale misura, a causa dell’attuazione della
direttiva impugnata, essa rischi di divenire un «acquirente netto di
quote» di emissione, i cui costi non potrebbe far gravare sui suoi
clienti. Infatti, la ricorrente non ha affermato che, nel corso del
primo periodo di assegnazione terminato nel 2007, essa avrebbe dovuto
acquistare quote di emissione supplementari a causa di un’eventuale
insufficienza di quote in uno dei suoi impianti di produzione stabiliti
nel mercato interno. Al contrario, in udienza, in risposta ad uno dei
quesiti del Tribunale, la ricorrente ha ammesso di aver venduto nel 2006
quote in eccesso nel mercato di scambio e di averne tratto un profitto
di EUR 101 milioni, circostanza di cui si è preso atto nel processo
verbale d’udienza. Risulta quindi escluso che, nel loro complesso, le
disposizioni controverse generino necessariamente conseguenze
finanziarie negative arrecando un pregiudizio al diritto di proprietà
della ricorrente e alla sua libertà di esercizio di un’attività
economica.
156 Va oltretutto rilevato che, nell’ambito della sua domanda di
risarcimento, la ricorrente non ha affermato che taluni dei suoi
impianti di produzione nel mercato interno avessero subìto perdite a
causa dell’applicazione delle disposizioni controverse, ed essa ha
trascurato di produrre cifre precise relative all’evoluzione della
redditività di questi impianti dal momento in cui il sistema dello
scambio di quote è divenuto operativo. La ricorrente non ha neppure
fornito precisazioni, da un lato, sul modo in cui ciascuno di detti
impianti si adeguasse ai vari obiettivi di riduzione di emissioni negli
Stati membri interessati, alcuni fra i quali, come il Regno di Spagna,
hanno anche la possibilità di aumentare le emissioni in conformità alla
decisione 2002/358, e al programma di ripartizione degli oneri, e,
dall’altro, sulla questione se il contingente di quote di emissione al
quale essa poteva aspirare per detti impianti in base ai vari PNA fosse
sufficiente o meno. Infine, anche supponendo che i diversi PNA e
obiettivi nazionali di riduzione siano atti a recare pregiudizio ai
diritti della ricorrente, essa non ha né affermato né dimostrato che
tale pregiudizio fosse imputabile alle disposizioni controverse in
quanto tali e non alla normativa interna che gli Stati membri hanno
adottato nell’esercizio del loro potere discrezionale nella
trasposizione della direttiva impugnata in forza dell’art. 249, terzo
comma, CE.
157 Quanto all’argomento della ricorrente secondo cui i produttori di
acciaio non sono in grado, per ragioni tecniche ed economiche, di
ridurre ulteriormente le loro emissioni di CO2, è sufficiente rilevare
che il criterio n. 3 dell’allegato III della direttiva impugnata obbliga
gli Stati membri, per la determinazione della quantità di quote di
emissione da assegnare, a tener conto del potenziale, compreso il
potenziale tecnologico, di riduzione delle emissioni prodotte dalle
attività coperte dal sistema dello scambio di quote (v., in questo
senso, conclusioni dell’avvocato generale Poiares Maduro presentate
nella causa Arcelor Atlantique e Lorraine e a., punto 42 supra,
paragrafo 57). Ne consegue che, al momento dell’assegnazione delle quote
ai vari settori industriali nonché ai gestori di impianti di questi
settori, gli Stati membri devono prendere in considerazione il
potenziale di riduzione di tutti tali settori e gestori, compreso quello
del settore siderurgico e dei produttori di ghisa o di acciaio. Inoltre,
secondo il criterio n. 7 dell’allegato III della direttiva impugnata,
«[i]l [PNA] può tener conto delle azioni [di riduzione delle emissioni]
intraprese in fasi precoci», di modo che gli Stati membri hanno
perlomeno la facoltà di tener conto degli sforzi di riduzione già
compiuti nel settore e dai gestori di cui trattasi. Pertanto, non può
addebitarsi alle disposizioni controverse il fatto che, nell’ambito
della sua normativa di attuazione della direttiva impugnata,
eventualmente lo Stato membro non tenga conto in modo sufficiente di
detta capacità di riduzione.
158 Ciò premesso, è evidente che sia escluso che le disposizioni
controverse siano lesive del diritto di proprietà della ricorrente e
della sua libertà di esercizio di un’attività professionale, ovvero che
tale asserita lesione sia idonea a provocarle un danno. Si deve pertanto
concludere che la ricorrente non ha dimostrato una violazione
sufficientemente qualificata né una restrizione sproporzionata di detti
diritti da parte delle disposizioni controverse, né che tale asserita
violazione possa essere all’origine di un danno da essa subìto.
159 Inoltre, per quanto attiene alla violazione del principio di
proporzionalità invocata dalla ricorrente quale autonomo motivo di
illegittimità, già dalle considerazioni svolte nei precedenti punti
150-154 emerge che essa non ha dimostrato l’esistenza dell’onere gravoso
e sproporzionato che asserisce aver subìto. Allo stesso modo, senza che
sia necessario esaminare la fondatezza delle affermazioni relative alle
diverse forme di malfunzionamento del sistema dello scambio di quote (v.
punti 145 e 146 supra), occorre dichiarare manifestamente privo di
fondamento l’argomento principale della ricorrente secondo cui la
partecipazione dei produttori di acciaio, in quanto maggiori produttori
industriali accertati di CO2, sarebbe inadatta o inappropriata a
contribuire all’obiettivo principale della direttiva impugnata che è
quello di salvaguardare l’ambiente mediante la riduzione delle emissioni
dei gas a effetto serra. Infine, in ogni caso, la ricorrente non ha
dimostrato che il sistema dello scambio di quote in quanto tale fosse
manifestamente inappropriato al conseguimento dell’obiettivo della
riduzione delle emissioni di CO2 e che il legislatore comunitario avesse
quindi violato manifestamente e gravemente i limiti del suo ampio potere
discrezionale.
160 I motivi di illegittimità relativi ad una violazione
sufficientemente qualificata del diritto di proprietà, della libertà di
esercizio di un’attività economica e del principio di proporzionalità
devono pertanto essere dichiarati infondati.
C - Sull’esistenza di una violazione sufficientemente qualificata del
principio della parità di trattamento
1. Argomenti delle parti
161 La ricorrente sostiene che le disposizioni controverse violano il
principio della parità di trattamento.
162 Da un lato, i settori concorrenti dei metalli non ferrosi e dei
prodotti chimici sarebbero esclusi dal campo di applicazione della
direttiva impugnata senza alcuna giustificazione obiettiva, sebbene
producano emissioni di CO2 paragonabili, se non addirittura superiori, a
quelle del settore siderurgico. A questo proposito la ricorrente
contesta che l’inclusione nel sistema dello scambio di quote del settore
dei prodotti chimici con un gran numero di impianti conduca a un
notevole appesantimento amministrativo. La necessità di un impegno
amministrativo supplementare non può in quanto tale giustificare una
distorsione grave della concorrenza come quella che ricorre nel caso di
specie. Inoltre, conformemente alla proposta iniziale, si sarebbero
dovuti quanto meno includere i grandi impianti di fabbricazione di
prodotti chimici di base con emissioni sostanziali. Per quanto attiene
all’esclusione del settore dei metalli non ferrosi, quale l’alluminio
(quindicesimo ‘considerando’ della direttiva impugnata), il Parlamento e
il Consiglio non avrebbero neppure fornito una motivazione per tale
disparità di trattamento. Infine, questi settori concorrenti non
sarebbero stati assoggettati ad altre misure per mitigare le
summenzionate distorsioni di concorrenza. Dall’altro, il fatto che il
settore siderurgico e gli altri settori coperti dall’allegato I della
direttiva impugnata ricevano lo stesso trattamento, senza
giustificazione obiettiva, violerebbe il principio della parità di
trattamento, dal momento che questi settori si troverebbero in
situazioni diverse. Infatti, la «situazione di blocco unica» dei
produttori di ghisa o di acciaio (v. punti 74 e seguenti supra) li
differenzierebbe da quelli dei suddetti altri settori e li porrebbe in
una posizione di «perdenti naturali» tra i partecipanti al sistema dello
scambio di quote nel loro complesso.
163 Nella replica, la ricorrente precisa che i settori dei metalli non
ferrosi e dei prodotti chimici sono paragonabili al settore siderurgico
e che esistono, come confermato dalla prassi della Commissione in
materia di concentrazioni, rapporti concorrenziali tra questi diversi
settori. Così, i grandi costruttori automobilistici sostituirebbero in
misura sempre maggiore l’acciaio con l’alluminio per le «parti esterne»,
come il motore, il cofano e le portiere. Inoltre, nel mercato delle
bevande analcoliche, le lattine in acciaio sarebbero in misura crescente
sostituite da lattine in alluminio e da bottiglie di plastica. Peraltro,
il solo fatto che la quantità totale di emissioni di CO2 del settore
siderurgico sarebbe superiore a quella dei settori dell’alluminio e
della plastica non sarebbe di per sé sufficiente a differenziare questi
settori, dato che altri settori con un livello di emissioni meno
importante rispetto a quello dei prodotti chimici, cioè il settore del
vetro, dei prodotti di ceramica e dei materiali da costruzione nonché il
settore della carta e della stampa, sarebbero del pari inclusi
nell’allegato I della direttiva impugnata. Infatti, proprio in virtù
della comparabilità di tali settori, il Parlamento avrebbe proposto di
includere gli «impianti per la produzione e la lavorazione
dell’alluminio» e l’«industria chimica» nella direttiva impugnata.
Infine, il fatto che la direttiva impugnata riguardi indirettamente il
settore dell’alluminio a causa dell’aumento del prezzo dell’elettricità
non sarebbe sufficiente per differenziarlo dal settore dell’acciaio, che
ne subirebbe le stesse conseguenze.
164 Ad avviso della ricorrente, l’art. 24 della direttiva impugnata non
può essere fatto valere in questo contesto. L’unilaterale inclusione in
forza di tale disposto di altre attività e impianti nel sistema dello
scambio di quote sarebbe soltanto una facoltà e non un obbligo per gli
Stati membri e sarebbe subordinata all’approvazione della Commissione in
funzione di vari criteri. Ad ogni modo, un’eventuale inclusione -
incerta - da parte degli Stati membri di settori concorrenti nei
confronti del settore siderurgico sarebbe stata possibile soltanto a
partire dal 2008 e non potrebbe pertanto ovviare ad una violazione del
principio della parità di trattamento nel corso del primo periodo di
assegnazione. Da ultimo, difetterebbe una giustificazione obiettiva a
fondamento di detta disparità di trattamento, posto che le disposizioni
controverse non sarebbero né necessarie né proporzionate rispetto
all’obiettivo di salvaguardia dell’ambiente perseguito.
165 In udienza e nelle sue osservazioni sulle conseguenze da trarsi
dalla sentenza Arcelor Atlantique e Lorraine e a. (punto 42 supra), la
ricorrente ha ribadito e integrato i propri argomenti relativi alla
violazione del principio della parità di trattamento.
166 Il Parlamento, il Consiglio e la Commissione chiedono il rigetto del
motivo in esame, soprattutto dal momento che la Corte avrebbe
definitivamente deciso in questo senso nella sentenza Arcelor Atlantique
e Lorraine e a. (punto 42 supra).
2. Giudizio del Tribunale
167 Occorre anzitutto rammentare che il motivo di illegittimità in
esame, relativo ad una violazione sufficientemente qualificata del
principio della parità di trattamento, è suddiviso in due parti, vale a
dire, da un lato, una presunta disparità di trattamento di situazioni
paragonabili e, dall’altro, una presunta disparità di trattamento di
situazioni diverse.
168 Quanto alla prima parte, si deve fare riferimento ai punti 25 e
segg. della sentenza Arcelor Atlantique e Lorraine e a. (punto 42 supra),
nei quali la Corte si è così pronunciata:
«Sul trattamento differenziato di situazioni analoghe
25 La violazione del principio di parità di trattamento a causa di un
trattamento differenziato presuppone che le situazioni considerate siano
comparabili alla luce di tutti gli elementi che le caratterizzano.
26 Gli elementi che caratterizzano situazioni diverse nonché la
comparabilità di queste ultime devono, in particolare, essere
determinati e valutati alla luce dell’oggetto e dello scopo dell’atto
comunitario che stabilisce la distinzione di cui trattasi. Devono,
inoltre, essere presi in considerazione i principi e gli obiettivi del
settore cui si riferisce l’atto in parola (v., in tal senso, sentenze
[della Corte] 27 ottobre 1971, causa 6/71, Rheinmühlen Düsseldorf, Racc.
pag. 823, punto 14; 19 ottobre 1977, cause riunite 117/76 e 16/77,
Ruckdeschel e a., Racc. pag. 1753, punto 8; 5 ottobre 1994, causa
C-280/93, Germania/Consiglio, Racc. pag. I-4973, punto 74, nonché 10
marzo 1998, cause riunite C-364/95 e C-365/95, T. Port, Racc. pag.
I-1023, punto 83).
27 Nella fattispecie, la validità della direttiva [impugnata] dev’essere
esaminata rispetto all’inclusione del settore siderurgico nel suo ambito
di applicazione e all’esclusione da quest’ultimo dei settori chimico e
dei metalli non ferrosi, cui appartengono (...) rispettivamente i
settori della plastica e dell’alluminio.
28 Ai sensi del suo art. 1, la direttiva [impugnata] ha come oggetto
l’istituzione di un sistema (...) per lo scambio di quote. Come risulta
dai punti 4.2 e 4.3 del libro verde [dell’8 marzo 2000, sullo scambio
dei diritti di emissioni dei gas ad effetto serra all’interno
dell’Unione europea], la Comunità ha inteso introdurre con questa
direttiva un sistema siffatto a livello delle imprese riguardant[e]
quindi [le] attività economiche.
29 Secondo il suo quinto ‘considerando’, la direttiva [impugnata]
intende istituire tale sistema al fine di contribuire all’adempimento
degli impegni da parte della Comunità e dei suoi Stati membri ai sensi
del Protocollo di Kyoto, che mira alla riduzione delle emissioni dei gas
a effetto serra nell’atmosfera ad un livello che prevenga qualsiasi
pericolosa interferenza antropica sul sistema climatico ed il cui fine
ultimo è la protezione dell’ambiente.
30 La politica della Comunità in materia ambientale, nella quale si
inserisce l’atto legislativo controverso nella causa principale e della
quale uno degli obiettivi principali è la tutela dell’ambiente, mira, ai
sensi dell’art. 174, n. 2, CE, ad un elevato livello di tutela e si
fonda in particolare sui principi della precauzione e dell’azione
preventiva nonché sul principio “chi inquina paga” (v. sentenze [della
Corte] 5 maggio 1998, causa C-157/96, National Farmers’ Union e a.,
Racc. pag. I-2211, punto 64, nonché 1° aprile 2008, cause riunite
C-14/06 e C-295/06, Parlamento/Commissione, [Racc. pag. I-1649], punto
75 e giurisprudenza ivi citata).
(...)
34 Da ciò risulta che[,] rispetto all’oggetto della direttiva
[impugnata], agli obiettivi di quest’ultima, indicati al punto 29 della
presente sentenza, nonché ai principi sui quali si basa la politica
della Comunità in materia ambientale, le diverse fonti di emissioni dei
gas a effetto serra connesse ad un’attività economica si trovano, in
linea di principio, in una situazione analoga, tenuto conto che ogni
emissione dei gas a effetto serra può contribuire a danneggiare
seriamente il sistema climatico e che ogni settore dell’economia che
comporti l’emissione di tali gas può contribuire al funzionamento del
sistema dello scambio di quote.
35 Si deve inoltre sottolineare, da un lato, che il venticinquesimo
‘considerando’ della direttiva [impugnata] enuncia che le politiche e le
misure dovrebbero essere attuate in tutti i settori dell’economia
dell’Unione, così da generare sostanziali riduzioni delle emissioni, e,
dall’altro, che l’art. 30 della direttiva [impugnata] prevede che debba
essere effettuato un riesame al fine d’includere altri settori
nell’ambito di applicazione di quest’ultima.
36 Ne consegue che, riguardo alla comparabilità delle situazioni dei
settori di cui trattasi rispetto alla direttiva [impugnata], l’eventuale
esistenza di un rapporto di concorrenza tra questi settori non può
costituire un criterio decisivo (...).
37 Per valutare la comparabilità di tali settori non è nemmeno decisiva
(...) la quantità di CO2 emessa da ciascuno di essi, tenuto conto in
particolare degli obiettivi della direttiva [impugnata] e del
funzionamento del sistema dello scambio di quote quali descritti ai
punti 31-33 della presente sentenza.
38 I settori siderurgico, chimico e dei metalli non ferrosi si trovano
pertanto, ai fini di un esame della validità della direttiva [impugnata]
rispetto al principio di parità di trattamento, in una situazione
analoga, ricevendo tuttavia un trattamento diverso.
Sullo svantaggio risultante da un trattamento diverso di situazioni
analoghe
39 [… P]er poter imputare al legislatore comunitario una violazione del
principio di parità di trattamento, occorre che quest’ultimo abbia
trattato in modo diverso situazioni analoghe, causando con ciò un
pregiudizio a talune persone rispetto ad altre (v. sentenze [della
Corte] 13 luglio 1962, cause riunite 17/61 e 20/61, Klöckner-Werke e
Hoesch/Alta Autorità, Racc. pag. 597, in particolare pag. 634; 15
gennaio 1985, causa 250/83, Finsider/Commissione, Racc. pag. 131, punto
8, nonché 22 maggio 2003, causa C-462/99, Connect Austria, Racc. pag.
I-5197, punto 115).
(...)
42 La sottoposizione di determinati settori (...) al sistema (...) di
scambio di quote comporta, per i gestori interessati, da un lato,
l’obbligo di possedere un’autorizzazione ad emettere gas a effetto serra
e, dall’altro, l’obbligo di restituire una quantità di quote
corrispondente alle emissioni totali dei loro impianti nel corso di un
periodo determinato, sotto pena di sanzioni pecuniarie. Se le emissioni
di un impianto superano le quantità assegnate nell’ambito di un piano
nazionale di assegnazione di quote al gestore interessato, quest’ultimo
è tenuto a procurarsi quote supplementari ricorrendo al sistema dello
scambio di quote.
43 Diversamente, analoghi obblighi giuridici diretti alla riduzione
delle emissioni dei gas a effetto serra non esistono a livello
comunitario per i gestori di impianti non indicati all’allegato I della
direttiva [impugnata]. Di conseguenza, l’inclusione di un’attività
economica nell’ambito di applicazione della direttiva [impugnata]
determina, per i gestori interessati, uno svantaggio rispetto ai gestori
che esercitano attività che non vi rientrano.
44 Pur ritenendo (...) che la sottoposizione ad un tale sistema non
comporti necessariamente e sistematicamente conseguenze economiche
[s]favorevoli, l’esistenza di uno svantaggio non può essere negata solo
per questo motivo, dal momento che lo svantaggio di cui tener conto
rispetto al principio di parità di trattamento può anche essere tale da
incidere sulla situazione giuridica della persona oggetto di una
disparità di trattamento.
45 Peraltro (...) lo svantaggio subito dai gestori di impianti
ricompresi nei settori sottoposti alla direttiva [impugnata] non può
essere compensato da misure nazionali non determinate dal diritto
comunitario.
Sulla giustificazione della disparità di trattamento
46 Il principio della parità di trattamento non risulta tuttavia violato
se la differenza di trattamento tra il settore siderurgico, da un lato,
e i settori chimico e dei metalli non ferrosi, dall’altro, è
giustificata.
47 Una differenza di trattamento è giustificata se si fonda su un
criterio obiettivo e ragionevole, vale a dire qualora essa sia
rapportata a un legittimo scopo perseguito dalla normativa in questione,
e tale differenza sia proporzionata allo scopo perseguito dal
trattamento di cui trattasi (v., in tal senso, sentenze [della Corte] 5
luglio 1977, causa 114/76, Bela-Mühle Bergmann, Racc. pag. 1211, punto
7; 15 luglio 1982, causa 245/81, Edeka Zentrale, Racc. pag. 2745, punti
11 e 13; 10 marzo 1998, causa C-122/95, Germania/Consiglio, Racc. pag.
I-973, punti 68 e 71, nonché 23 marzo 2006, causa C-535/03, Unitymark e
North Sea Fishermen’s Organisation, Racc. pag. I-2689, punti 53, 63, 68
e 71).
48 Poiché si tratta di un atto legislativo comunitario, spetta al
legislatore comunitario stabilire l’esistenza di criteri oggettivi
dedotti a titolo di giustificazione e fornire alla Corte gli elementi
necessari alla verifica, da parte di quest’ultima, dell’esistenza di
tali criteri (v., in tal senso, sentenze [della Corte] 19 ottobre 1977,
cause riunite 124/76 e 20/77, Moulins e Huileries de Pont-à-Mousson e
Providence agricole de la Champagne, Racc. pag. 1795, punto 22, nonché
10 marzo 1998, Germania/Consiglio, cit., punto 71).
(...)
57 La Corte ha riconosciuto al legislatore comunitario, nell’ambito
dell’esercizio delle competenze ad esso demandate, un ampio margine di
discrezionalità quando la sua azione implica scelte di natura politica,
economica e sociale, e quando è chiamato ad effettuare apprezzamenti e
valutazioni complessi (v. sentenza 10 gennaio 2006, causa C-344/04, IATA
e ELFAA, Racc. pag. I-403, punto 80). Inoltre, quando è chiamato a
ristrutturare o creare un sistema complesso, può scegliere di ricorrere
ad un approccio per fasi (v., in tal senso, sentenze [della Corte] 29
febbraio 1984, causa 37/83, Rewe-Zentrale, Racc. pag. 1229, punto 20; 18
aprile 1991, causa C-63/89, Assurances du crédit/Consiglio e
Commissione, Racc. pag. I-1799, punto 11, nonché 13 maggio 1997, causa
C-233/94, Germania/Parlamento e Consiglio, Racc. pag. I-2405, punto 43)
e procedere in particolare in funzione dell’esperienza acquisita.
58 Tuttavia, anche in presenza di un tale potere, il legislatore
comunitario è tenuto a basare la sua scelta su criteri oggettivi e
adeguati rispetto allo scopo perseguito dalla normativa di cui trattasi
(v., in tal senso, sentenze [della Corte] 15 settembre 1982, causa
106/81, Kind/CEE, Racc. pag. 2885, punti 22 e 23, nonché Sermide, cit.,
punto 28), tenendo conto di tutti gli elementi di fatto e dei dati
tecnici e scientifici disponibili al momento dell’adozione dell’atto in
questione (v., in tal senso, sentenza [della Corte] 14 luglio 1998,
causa C-284/95, Safety Hi-Tech, Racc. pag. I-4301, punto 51).
59 Esercitando il suo potere discrezionale, il legislatore comunitario
deve tener pienamente conto, oltre che dell’obiettivo principale di
tutela ambientale, degli interessi in gioco (v., riguardo alle misure in
materia di agricoltura, sentenze [della Corte] 10 marzo 2005, cause
riunite C-96/03 e C-97/03, Tempelman e van Schaijk, Racc. pag. I-1895,
punto 48, nonché 12 gennaio 2006, causa C-504/04, Agrarproduktion
Staebelow, Racc. pag. I-679, punto 37). Nell’ambito dell’esame dei
vincoli relativi a diverse possibili misure, si deve considerare che,
anche se l’importanza degli obiettivi perseguiti giustifica conseguenze
economiche negative, pur considerevoli, per alcuni operatori (v., in tal
senso, sentenze [della Corte] 13 novembre 1990, causa C-331/88, Fedesa e
a., Racc. pag. I-4023, punti 15-17, e 15 dicembre 2005, causa C-86/03,
Grecia/Commissione, Racc. pag. I-10979, punto 96), l’esercizio del
potere discrezionale del legislatore comunitario non può produrre
risultati manifestamente meno adeguati di quelli risultanti da altre
misure parimenti adeguate a tali obiettivi.
60 Nel caso di specie è accertato, da un lato, che il sistema dello
scambio di quote istituito con la direttiva [impugnata] è un sistema
nuovo e complesso, la cui esecuzione e il cui funzionamento avrebbero
potuto essere pregiudicati dal coinvolgimento di un eccessivo numero di
partecipanti e, dall’altro, che la delimitazione iniziale dell’ambito di
applicazione della direttiva [impugnata] è stata dettata dall’obiettivo
consistente nel raggiungere la massa critica di partecipanti necessaria
all’istituzione di tale sistema.
61 Riguardo alla novità e alla complessità di detto sistema, la
delimitazione iniziale dell’ambito di applicazione della direttiva
[impugnata] e l’approccio progressivo adottato, fondato in particolare
sull’esperienza acquisita nel corso della prima fase della sua
esecuzione, per non turbare la realizzazione di tale sistema,
rientravano nel margine di discrezionalità di cui disponeva il
legislatore comunitario.
62 A tal proposito si deve rilevare che quest’ultimo, anche se poteva
legittimamente basarsi su un siffatto approccio progressivo per
l’introduzione del sistema dello scambio di quote, è tenuto,
segnatamente in considerazione degli obiettivi della direttiva
[impugnata] e della politica comunitaria in materia ambientale, a
procedere al riesame delle misure istituite, in particolare per quanto
riguarda i settori oggetto della direttiva [impugnata], a intervalli
ragionevoli, come del resto previsto all’art. 30 di tale direttiva.
63 Tuttavia, (...) il margine di discrezionalità di cui disponeva il
legislatore comunitario relativamente ad un approccio progressivo non
può, in considerazione del principio di parità di trattamento, averlo
dispensato dal ricorrere, per la determinazione dei settori che egli
riteneva atti ad essere inclusi fin dall’inizio nell’ambito di
applicazione della direttiva [impugnata], a criteri oggettivi basati sui
dati tecnici e scientifici disponibili al momento dell’adozione di
quest’ultima.
64 Con riferimento, in primo luogo, al settore chimico, risulta dai
lavori preparatori della direttiva [impugnata] che esso comprendeva un
numero particolarmente elevato di impianti, vale a dire intorno ai 34
000, non solo in relazione alle emissioni da essi provocate, ma anche
con riferimento al numero di impianti attualmente inclusi nell’ambito di
applicazione della direttiva [impugnata], pari a circa 10 000.
65 L’inclusione di questo settore nell’ambito di applicazione della
direttiva [impugnata] avrebbe quindi appesantito la gestione e gli oneri
amministrativi del sistema dello scambio di quote, così da non poter
escludere l’eventualità di una perturbazione del funzionamento di tale
sistema, causato da detta inclusione, in sede di attuazione. Inoltre il
legislatore comunitario ha potuto considerare che i vantaggi
dell’esclusione dell’intero settore nella fase iniziale di attuazione
del sistema dello scambio di quote erano superiori ai vantaggi della sua
inclusione in questa stessa fase, ai fini della realizzazione degli
scopi della direttiva [impugnata]. Ne consegue che il legislatore
comunitario ha sufficientemente dimostrato di essersi basato su criteri
oggettivi per escludere dall’ambito di applicazione della direttiva
[impugnata], nella prima fase di attuazione del sistema dello scambio di
quote, l’intero settore chimico.
66 L’argomento (...) secondo il quale l’inclusione nell’ambito di
applicazione della direttiva [impugnata] delle imprese di detto settore
che emettono una quantità di CO2 superiore ad una certa soglia non
avrebbe posto problemi sul piano amministrativo non può rimettere in
discussione la valutazione che precede.
(...)
69 Tenuto conto di quanto precede e considerato l’approccio progressivo
su cui la direttiva [impugnata] si basa, durante la prima fase di
attuazione del sistema dello scambio di quote, il trattamento
differenziato del settore chimico rispetto a quello siderurgico può
ritenersi giustificato.
70 Riguardo, in secondo luogo, al settore dei metalli non ferrosi, (...)
nell’elaborazione ed adozione della direttiva [impugnata], (...) le
emissioni dirette di questo settore erano pari nel 1990 a 16,2 milioni
di tonnellate di CO2, mentre il settore siderurgico ne emetteva 174,8
milioni di tonnellate.
71 Tenuto conto del suo intento di delimitare l’ambito di applicazione
della direttiva [impugnata] in modo da non complicare la fattibilità
amministrativa del sistema dello scambio di quote nella sua fase
iniziale attraverso il coinvolgimento di un numero troppo elevato di
partecipanti, il legislatore comunitario non era tenuto a ricorrere al
solo metodo consistente nello stabilire, per ogni settore dell’economia
emettitore di CO2, una soglia di emissione al fine di realizzare
l’obiettivo perseguito. Quindi, in circostanze come quelle che hanno
condotto all’adozione della direttiva [impugnata], esso poteva, quando
ha introdotto questo sistema, delimitare validamente l’ambito di
applicazione di quest’ultima con un approccio settoriale senza eccedere
i limiti del potere discrezionale di cui disponeva.
72 La differenza del livello di emissioni dirette tra i due settori
interessati è talmente rilevante che il trattamento differenziato di
questi settori, durante la prima fase di attuazione del sistema dello
scambio di quote e tenuto conto dell’approccio progressivo su cui si
basa la direttiva [impugnata], può ritenersi giustificato senza che al
legislatore comunitario sia imposto di dover tener conto delle emissioni
indirette imputabili ai diversi settori.
73 Si deve pertanto constatare che il legislatore comunitario non ha
violato il principio di parità di trattamento a causa di un trattamento
differenziato di situazioni analoghe, escludendo dall’ambito di
applicazione della direttiva [impugnata] i settori della chimica e dei
metalli non ferrosi».
169 Dal momento che la motivazione della summenzionata sentenza della
Corte fornisce una risposta completa alla prima parte del motivo di
illegittimità in esame, relativo alla mancanza di giustificazione di una
disparità di trattamento tra il settore siderurgico e i settori dei
metalli non ferrosi e dei prodotti chimici, tale parte deve essere
respinta.
170 Quanto alla seconda parte, relativa alla mancanza di giustificazione
di una disparità di trattamento del settore siderurgico e degli altri
settori contemplati dall’allegato I della direttiva impugnata, laddove
il settore siderurgico, a differenza di questi altri settori, sarebbe un
«perdente naturale» che si trova in una «situazione di blocco unica», è
sufficiente constatare che, sotto il profilo dell’obiettivo generale di
tutela dell’ambiente mediante la riduzione delle emissioni dei gas a
effetto serra e del principio «chi inquina paga», tutti i suddetti
settori si trovano in una situazione paragonabile (v., in tal senso e
per analogia, sentenza Arcelor Atlantique e Lorraine e a., punto 42
supra, punti 29-38). Inoltre, dai precedenti punti 109-113 risulta che
la ricorrente non ha dimostrato che il settore siderurgico si trovasse
in una situazione particolare tale da differenziarlo da tutti gli altri
settori coperti dall’allegato I della direttiva impugnata (v. altresì,
in questo senso, le conclusioni dell’avvocato generale Poares Maduro
presentate nella causa Arcelor Atlantique e Lorraine e a., punto 153
supra, paragrafo 57).
171 Il motivo di illegittimità relativo ad una violazione
sufficientemente qualificata del principio della parità di trattamento
deve pertanto essere respinto nella sua totalità.
D - Sull’esistenza di una violazione sufficientemente qualificata della
libertà di stabilimento
1. Argomenti delle parti
172 La ricorrente sostiene che le disposizioni controverse pregiudicano
gravemente la sua libertà di stabilimento ai sensi dell’art. 43, primo
comma, CE.
173 Il divieto delle restrizioni della libertà di stabilimento non
sarebbe solamente applicabile alle misure statali, ma vincolerebbe
altresì, in quanto principio giuridico, la Comunità. Infatti, gli artt.
39 CE e 43 CE mirerebbero ad attuare il principio fondamentale
consacrato dall’art. 3, n. 1, lett. c), CE in forza del quale, ai fini
enunciati dall’art. 2 CE, l’azione della Comunità comporta l’abolizione
tra gli Stati membri degli ostacoli alla libera circolazione delle
persone e dei servizi. Inoltre, le stesse istituzioni comunitarie
sarebbero tenute al rispetto della libertà degli scambi, principio
fondamentale del mercato comune, dal quale discende la libertà di
stabilimento. La ricorrente rileva che l’art. 43 CE garantisce che le
imprese possano scegliere liberamente, in base a criteri economici, la
collocazione della loro produzione nel mercato comune. Allo stesso modo,
questa libertà fondamentale vieterebbe la creazione di ostacoli nello
Stato membro di origine volti a impedire la dislocazione delle imprese
in un altro Stato membro, a pena di svuotare della loro sostanza i
diritti garantiti dall’art. 43 CE.
174 Orbene, le disposizioni controverse arrecherebbero pregiudizio al
diritto della ricorrente di trasferire la propria produzione da un
impianto meno redditizio in uno Stato membro verso un impianto più
redditizio in un altro Stato membro, dal momento che non ne
assicurerebbero il contemporaneo trasferimento delle quote assegnate
alla capacità di produzione che deve essere chiusa e trasferita (v.
punti 145 e segg. supra). Pertanto, in assenza di una giustificazione
obiettiva al riguardo, la ricorrente dovrebbe continuare a sfruttare
capacità produttive meno redditizie al solo scopo di non perdere dette
quote. Questa restrizione della sua libertà di stabilimento sarebbe
sproporzionata tenuto conto dell’inadeguatezza della direttiva impugnata
al conseguimento dell’obiettivo di tutela dell’ambiente perseguito (v.
punto 145 supra) e della fondamentale importanza dell’esercizio della
libertà di stabilimento per la realizzazione del mercato interno.
175 Il Parlamento e il Consiglio concludono per il rigetto del motivo in
esame.
2. Giudizio del Tribunale
176 Con il motivo in esame la ricorrente intende far valere in sostanza
che, alla luce della libertà di stabilimento ai sensi dell’art. 43 CE,
in combinato disposto con l’art. 3, n. 1, lett. c), CE, l’ampio potere
discrezionale del legislatore comunitario di cui agli artt. 174 CE e 175
CE (v. punto 139 supra) è a tal punto limitato che esso non poteva
legittimamente rinunciare a disciplinare egli stesso, nel quadro della
direttiva impugnata adottata in forza dell’art. 175, n. 1, CE, la
questione del libero trasferimento transfrontaliero delle quote di
emissione all’interno di un gruppo di imprese, piuttosto che riservare
agli Stati membri, ai fini della trasposizione della suddetta direttiva,
un ampio margine di manovra sfociante nell’adozione di norme nazionali
divergenti che sarebbero atte a creare illegittimi ostacoli alla libertà
di stabilimento.
177 A tale riguardo occorre rilevare che da una giurisprudenza
consolidata risulta che le istituzioni comunitarie, al pari degli Stati
membri, devono rispettare le libertà fondamentali, quale la libertà di
stabilimento, preordinate al conseguimento di uno degli obiettivi
essenziali della Comunità, in particolare quello della realizzazione del
mercato interno consacrato dall’art. 3, n. 1, lett. c), CE (v., in tal
senso, sentenza della Corte 29 febbraio 1984, causa 37/83, Rewe-Zentrale,
Racc. pag. 1229, punto 18).
178 Tuttavia, dal suddetto obbligo generale non deriva che il
legislatore comunitario sia tenuto a disciplinare la materia di cui
trattasi in modo tale che la normativa comunitaria, in particolare
quando essa assume la forma di una direttiva ai sensi dell’art. 249,
terzo comma, CE, fornisca una soluzione esaustiva e definitiva a talune
problematiche poste sotto il profilo della realizzazione del mercato
interno, o che essa proceda ad un’armonizzazione completa delle
normative nazionali al fine di eliminare qualsiasi concepibile ostacolo
agli scambi intracomunitari. Quando il legislatore comunitario è
chiamato a ristrutturare o a creare un sistema completo, come il sistema
dello scambio di quote, esso può scegliere di ricorrere ad un approccio
per tappe (v., in tal senso, sentenza Arcelor Atlantique e Lorraine e
a., punto 42 supra, punto 57) e procedere soltanto ad un’armonizzazione
progressiva delle normative nazionali di cui trattasi, essendo
l’attuazione di tali provvedimenti di regola difficile, dal momento che
essa presuppone l’elaborazione da parte delle istituzioni comunitarie
competenti, a partire da disposizioni nazionali diverse e complesse, di
norme comuni, conformi agli obiettivi definiti dal Trattato CE e che
raccolgano il consenso di una maggioranza qualificata dei membri del
Consiglio [v., in tal senso, sentenze della Corte Rewe-Zentrale, punto
173 supra, punto 20; 18 aprile 1991, causa C-63/89, Assurances du crédit/Consiglio
e Commissione, Racc. pag. I-1799, punto 11; 13 maggio 1997, causa
C-233/94, Germania/Parlamento e Consiglio, Racc. pag. I-2405, punto 43;
17 giugno 1999, causa C-166/98, Socridis, Racc. pag. I-3791, punto 26, e
13 luglio 2006, causa C-221/05, Sam Mc Cauley Chemists (Blackpool) e
Sadja, Racc. pag. I-6869, punto 26]. Questo è il caso della normativa
comunitaria in materia di tutela dell’ambiente in forza degli artt. 174
CE e 175 CE.
179 Si deve inoltre rammentare che, da un lato, in forza dell’art. 249,
terzo comma, CE, una direttiva vincola lo Stato membro a cui è rivolta
solo per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la
competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi, il
che implica logicamente un necessario margine di discrezionalità da
parte dello Stato stesso nel definire le misure di trasposizione (v., in
tal senso, sentenza della Corte 29 gennaio 2008, causa C-275/06,
Promusicae, Racc. pag. I-271, punto 67), e che, dall’altro, il
trentesimo ‘considerando’ della direttiva impugnata fa riferimento al
principio di sussidiarietà enunciato all’art. 5, secondo comma, CE. In
forza di questo principio la Comunità, nei settori che non sono di sua
esclusiva competenza, interviene soltanto se e nella misura in cui gli
obiettivi dell’azione prevista non possano essere sufficientemente
realizzati dagli Stati membri e possano dunque, a motivo delle
dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere meglio
realizzati a livello comunitario. Orbene, dagli artt. 174 CE - 176 CE
risulta che, in materia di tutela dell’ambiente, le competenze della
Comunità e degli Stati membri sono separate. Pertanto la normativa
comunitaria in questo settore non mira ad un’armonizzazione completa e
l’art. 176 CE contempla la possibilità per gli Stati membri di adottare
misure di tutela rafforzate, subordinate alle sole condizioni che esse
siano compatibili con il Trattato CE e siano notificate alla Commissione
(v., in tal senso, sentenza della Corte 14 aprile 2005, causa C-6/03,
Deponiezweckverband Eiterköpfe, Racc. pag. I-2753, punto 27 e
giurisprudenza ivi citata).
180 In conformità a tali principi, la direttiva impugnata non prevede
un’armonizzazione completa a livello comunitario delle condizioni che
sottendono alla realizzazione e al funzionamento del sistema dello
scambio di quote. Infatti, purché nel rispetto delle norme del Trattato
CE, gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità
nell’attuazione di tale sistema, segnatamente nell’ambito
dell’elaborazione dei loro PNA e delle loro decisioni autonome di
assegnazione di quote di emissione ai sensi dell’art. 9, n. 1, e
dell’art. 11, n. 1, della direttiva impugnata (sentenza
Germania/Commissione, punto 111 supra, punti 102-106). Di conseguenza,
il solo fatto che il legislatore comunitario abbia lasciato aperta una
questione particolare ricadente nell’ambito di applicazione della
direttiva impugnata e di quello di una libertà fondamentale, e che
quindi spetti agli Stati membri disciplinare tale questione
nell’esercizio del loro margine di discrezionalità, sempre nel rispetto
delle norme di diritto comunitario di rango superiore, non consente di
per sé di qualificare detta omissione come contraria alle norme del
Trattato CE (v., in tal senso, conclusioni dell’avvocato generale Jacobs
presentate nella causa C-377/98, decisa dalla Corte con sentenza 9
ottobre 2001, Paesi Bassi/Parlamento e Consiglio, Racc. pagg. I-7079,
I-7084, in particolare paragrafi 87 e 88). Ciò è tanto più vero dal
momento che gli Stati membri sono tenuti, in virtù del loro obbligo di
cooperazione leale in forza dell’art. 10 CE, ad assicurare l’efficacia
pratica delle direttive (v., in tal senso, sentenza della Corte 8
settembre 2005, causa C-40/04, Yonemoto, Racc. pag. I-7755, punto 58), e
questo implica altresì che essi sono tenuti ad interpretare il diritto
interno alla luce degli obiettivi e dei principi di cui è sottesa la
direttiva in questione (v., per quanto attiene al principio di
interpretazione alla luce di una direttiva, sentenza della Corte 5
luglio 2007, causa C-321/05, Kofoed, Racc. pag. I-5795, punto 45).
181 Inoltre, tanto il legislatore comunitario, quando adotta una
direttiva, quanto gli Stati membri, quando traspongono detta direttiva
nell’ordinamento nazionale, sono tenuti ad assicurare il rispetto dei
principi generali del diritto comunitario. Infatti, come risulta da
costante giurisprudenza, i doveri inerenti alla tutela dei principi
generali riconosciuti nell’ordinamento giuridico comunitario, fra i
quali vanno annoverati i diritti fondamentali, vincolano parimenti gli
Stati membri quando danno esecuzione alle discipline comunitarie, ed
essi sono pertanto tenuti, quanto più possibile, ad applicare tali
discipline nel rispetto di detti doveri (v. sentenza della Corte 27
giugno 2006, causa C-540/03, Parlamento/Consiglio, Racc. pag. I-5769,
punto 105 e giurisprudenza ivi citata; v. altresì, in questo senso,
sentenza della Corte 6 novembre 2003, causa C-101/01, Lindqvist, Racc.
pag. I-12971, punti 84-87).
182 Il Tribunale ritiene che tali principi si applichino per analogia
alle libertà fondamentali del Trattato CE. Infatti, sebbene la direttiva
impugnata e, in particolare, il suo art. 9, n. 1, e il suo art. 11, n.
1, lascino agli Stati membri un margine di discrezionalità, essa è in
linea di principio sufficientemente ampia per consentir loro di
applicare le norme di tale direttiva in un senso conforme ai doveri
derivanti dalla tutela dei diritti fondamentali e delle libertà
fondamentali del Trattato CE. Inoltre, dal momento che l’attuazione
della direttiva impugnata è soggetta al sindacato dei giudici nazionali,
spetta a tali giudici sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale
alle condizioni previste dall’art. 234 CE, qualora essi incontrino
difficoltà relativamente all’interpretazione o alla validità di tale
direttiva (v., in questo senso e per analogia, sentenza
Parlamento/Consiglio, punto 177 supra, punti 104 e 106).
183 Pertanto, le autorità e i giudici degli Stati membri sono tenuti non
solo a interpretare il loro diritto nazionale in modo conforme alla
direttiva impugnata, ma anche a garantire di non fondarsi su
un’interpretazione di quest’ultima che entri in conflitto con i diritti
fondamentali tutelati dall’ordinamento giuridico comunitario, con gli
altri principi generali del diritto comunitario, o con le libertà
fondamentali del Trattato CE, quale la libertà di stabilimento (v., in
questo senso e per analogia, sentenze della Corte Lindqvist, punto 177
supra, punto 87; 26 giugno 2007, causa C-305/05, Ordre des barreaux
francophones e germanophone e a., Racc. pag. I-5305, punto 28, e
Promusicae, punto 175 supra, punto 68).
184 Da tutte le considerazioni che precedono risulta che non può
addebitarsi al legislatore comunitario di non aver fornito una soluzione
esaustiva e definitiva, nel contesto di una direttiva, ad una
determinata problematica rientrante nell’ambito di applicazione della
libertà di stabilimento, qualora tale direttiva riservi agli Stati un
margine di discrezionalità che consenta loro di rispettare appieno le
norme del Trattato CE e i principi generali del diritto comunitario.
185 Nella fattispecie in esame il Tribunale ritiene opportuno verificare
se, alla luce delle considerazioni che precedono, la direttiva impugnata
possa essere interpretata e trasposta dagli Stati membri in conformità
con la libertà di stabilimento ai sensi dell’art. 43 CE (v., in tal
senso, sentenze della Corte 20 maggio 2003, cause riunite C-465/00,
C-138/01 e C-139/01, Österreichischer Rundfunk e a., Racc. pag. I-4989,
punti 68 e 91, e 29 aprile 2004, cause riunite C-482/01 e C-493/01,
Orfanopoulos, Racc. pag. I-5257, punti 109 e 110).
186 Come sostiene la ricorrente, la direttiva impugnata non prevede
norme specifiche che offrano ai gestori di impianti assoggettati al
sistema dello scambio di quote la possibilità di trasferire il
contingente di quote assegnato ad un impianto, a seguito della sua
chiusura, ad un altro impianto stabilito in un altro Stato membro e
facente parte dello stesso gruppo di imprese.
187 Tuttavia, dall’art. 12, n. 1, in combinato disposto con l’art. 3,
lett. a) e g), della direttiva impugnata, risulta che « [g]li Stati
membri provvedono affinché le quote di emissioni possano essere
trasferite (...) tra persone [fisiche o giuridiche] all’interno della
Comunità». Inoltre, l’art. 12, n. 2, della direttiva impugnata prescrive
che « [g]li Stati membri provved[a]no affinché le quote di emissioni
rilasciate dall’autorità competente di un altro Stato membro vengano
riconosciute ai fini dell’adempimento degli obblighi [di restituzione di
quote non utilizzate] che incombono ad un gestore a norma del paragrafo
3» dello stesso articolo. Ne consegue che, da un lato, conformemente
all’obiettivo previsto dal quinto ‘considerando’ della direttiva
impugnata, che sancisce la creazione di un «efficiente mercato europeo
delle quote di emissione dei gas a effetto serra», il mercato di scambio
istituito dalla direttiva impugnata ha una dimensione comunitaria e che,
dall’altro, detto mercato si fonda sul principio del libero
trasferimento transfrontaliero delle quote di emissione tra persone
fisiche e giuridiche.
188 Infatti, in mancanza di un libero trasferimento transfrontaliero di
quote di emissione ai sensi dell’art. 12, nn. 2 e 3, in combinato
disposto con l’art. 3, lett. a), della direttiva impugnata, l’efficacia
e l’efficienza del sistema dello scambio di quote ai sensi dell’art. 1
della direttiva impugnata risulterebbero fortemente perturbati. È questa
la ragione per cui l’art. 12, n. 2, della direttiva impugnata obbliga in
via generale gli Stati membri a «provvedere» affinché tale libertà sia
resa effettiva nell’ambito della normativa nazionale pertinente.
Inversamente, è giocoforza constatare che la direttiva impugnata non
prevede alcuna restrizione per quanto riguarda un trasferimento
transfrontaliero di quote tra persone giuridiche di uno stesso gruppo di
imprese, indipendentemente dalla loro sede economica e/o sociale nel
mercato interno. Alla luce delle summenzionate disposizioni della
direttiva impugnata, pertanto, non si può affermare che la stessa
comporti una restrizione illegittima delle libertà fondamentali del
Trattato CE, ivi compresa la libertà di stabilimento, o che essa inciti
gli Stati membri a non rispettare tali libertà.
189 Al contrario, come la stessa ricorrente afferma nelle sue memorie,
la problematica da essa sollevata trova la sua origine nelle normative,
in parte divergenti, adottate dagli Stati membri ai fini della
trasposizione della direttiva impugnata, senza che tale approccio possa
essere imputato ad una delle sue disposizioni, se non addirittura alle
disposizioni controverse. A questo riguardo occorre rammentare che gli
Stati membri sono tenuti, nell’ambito della libertà che viene loro
lasciata dall’art. 249, terzo comma, CE, a scegliere le forme e i mezzi
più idonei al fine di garantire l’efficacia pratica delle direttive
(sentenza Yonemoto, punto 176 supra, punto 58) e ad applicare il loro
diritto nazionale in modo conforme a dette direttive e alle libertà
fondamentali del Trattato CE, quale la libertà di stabilimento (v., in
questo senso e per analogia, sentenze Lindqvist, punto 177 supra, punto
87, e Promusicae, punto 175 supra, punto 68).
190 Pertanto, senza che sia necessario pronunciarsi sulla questione se
le normative nazionali pertinenti, all’origine dell’impossibilità per la
ricorrente di trasferire liberamente contingenti di quote tra i suoi
impianti stabiliti in diversi Stati membri, siano conformi o meno alla
libertà di stabilimento ai sensi dell’art. 43 CE, si deve dichiarare che
tale restrizione a detta libertà non può essere imputata alla direttiva
impugnata per il solo fatto che questa non vieti in modo esplicito
siffatto comportamento degli Stati membri. A maggior ragione il
legislatore comunitario non può essere considerato responsabile di avere
al riguardo violato in modo grave e manifesto i limiti del proprio
potere discrezionale ai sensi dell’art. 174 CE, in combinato disposto
con l’art. 43 CE.
191 In tale contesto non occorre esaminare la fondatezza degli argomenti
addotti dalle parti in ordine alla possibilità eventuale per la
ricorrente di beneficiare delle norme nazionali, che prevedono per tutti
i nuovi entranti di accedere gratuitamente alle quote della riserva.
Infatti, sebbene l’art. 11, n. 3, in combinato disposto con il criterio
n. 6 dell’allegato III, della direttiva impugnata imponga agli Stati
membri di tener conto della necessità di permettere ai nuovi entranti di
accedere alle quote, la direttiva impugnata non prevede la creazione in
quanto tale di una simile riserva. Pertanto, non potrebbe neppure
imputarsi al legislatore comunitario il fatto che detta possibilità di
accesso sia eventualmente insufficiente a compensare le perdite di quote
connesse alla chiusura di un impianto.
192 Di conseguenza si deve respingere il motivo di legittimità relativo
alla violazione sufficientemente qualificata della libertà di
stabilimento.
E - Sull’esistenza di una violazione sufficientemente qualificata del
principio di certezza del diritto
1. Argomenti delle parti
193 La ricorrente afferma che le disposizioni controverse violano il
principio di certezza del diritto. La normativa comunitaria, comprese le
direttive, dovrebbe essere certa, chiara e precisa e la sua applicazione
prevedibile per il soggetto di diritto affinché questi possa conoscere
senza ambiguità i propri diritti e obblighi e agire di conseguenza.
Questi principi si imporrebbero in modo particolarmente rigoroso
allorché si tratta di una normativa atta a comportare conseguenze
finanziarie.
194 Ad avviso della ricorrente, le disposizioni controverse violano il
principio di certezza del diritto per due motivi. Da un lato, in difetto
di un sistema di monitoraggio dei prezzi delle quote previsto dalla
direttiva impugnata, la ricorrente, in quanto «acquirente netto di
quote» in conseguenza del fatto che essa non è in grado di ridurre le
emissioni di CO2, sarebbe obbligata ad acquistare quote a «prezzi
assolutamente imprevedibili», stimati tra EUR 20 ed EUR 60 per quota (v.
punti 78 e segg. supra). Dall’altro, la direttiva impugnata non
prevedrebbe una norma che garantisca il trasferimento delle quote
inizialmente assegnate ad un impianto che deve essere chiuso verso un
impianto dello stesso gruppo stabilito in un altro Stato membro. Orbene,
gli Stati membri avrebbero tutto l’interesse ad annullare le quote
assegnate a impianti destinati ad essere chiusi, dal momento che tali
chiusure consentirebbero loro di ridurre ulteriormente le proprie
emissioni di CO2 al fine di conseguire il loro obiettivo di riduzione in
forza della decisione 2002/358. L’incertezza del diritto derivante da
ciò impedirebbe alla ricorrente di pianificare le sue operazioni nel
lungo termine e di procedere nella sua strategia di ristrutturazione
consistente nel trasferimento della produzione verso i suoi impianti più
redditizi. Dato che detta strategia di ristrutturazione costituiva la
ragion d’essere dell’operazione di concentrazione del 2001 (v. punto 30
supra), la direttiva impugnata violerebbe altresì il principio di tutela
del legittimo affidamento. Nella replica la ricorrente precisa che ogni
pianificazione a lungo termine dei suoi investimenti e dei suoi progetti
economici sarebbe divenuta impossibile, segnatamente, a causa delle
variazioni alle quali saranno sottoposti gli obiettivi e le misure di
riduzione delle emissioni dei vari Stati membri. Questa incertezza
sarebbe confermata dall’aumento sostanziale del prezzo delle quote di
CO2. Infatti, tra il febbraio 2005 e il marzo 2006, il prezzo delle
quote di CO2 sarebbe aumentato da circa EUR 6 a oltre EUR 26. Inoltre,
la futura assegnazione delle quote di emissione, in particolare per il
secondo periodo di assegnazione e i periodi successivi, non sarebbe
stata prevista.
195 Il Parlamento e il Consiglio concludono per il rigetto del presente
motivo.
2. Giudizio del Tribunale
196 Con il motivo in esame la ricorrente afferma, in sostanza, che le
disposizioni controverse non sono sufficientemente chiare e precise
nella misura in cui implicano un onere finanziario notevole a suo
carico, che la metterebbe nell’impossibilità di pianificare le proprie
decisioni economiche. A tal riguardo il legislatore comunitario avrebbe
dovuto prevedere, da un lato, un limite massimo o un meccanismo di
monitoraggio per il prezzo delle quote di emissione e, dall’altro, una
norma specifica a garanzia del trasferimento transfrontaliero delle
quote tra diversi impianti dello stesso gruppo di imprese.
197 Per quanto riguarda l’argomento della ricorrente relativo
all’asserita violazione della libertà di stabilimento che essa reitera
nell’ambito della seconda parte, dalle considerazioni sviluppate nei
precedenti punti 172-188 risulta che detto argomento non può essere
accolto neppure in relazione ad una presunta violazione sufficientemente
qualificata del principio di certezza del diritto. Pertanto, la seconda
parte del motivo in esame deve essere respinta.
198 Quanto alla prima parte del presente motivo, va anzitutto richiamata
la giurisprudenza secondo cui il principio di certezza del diritto
esige, in particolare, che le norme di diritto siano chiare, precise e
prevedibili nei loro effetti, segnatamente quando esse possono produrre
conseguenze svantaggiose nei confronti dei soggetti e delle imprese (v.,
in tal senso, sentenza della Corte 7 giugno 2005, causa C-17/03, VEMW e
a., Racc. pag. I-4983, punto 80 e giurisprudenza ivi citata).
199 A questo proposito, occorre poi rilevare che la direttiva impugnata
non prevede alcuna disposizione disciplinante la portata delle
conseguenze finanziarie che possono discendere tanto dall’eventuale
insufficienza di quote di emissione rilasciate ad un impianto, quanto
dal prezzo di tali quote, che è esclusivamente determinato dalle forze
del mercato sorte a seguito della creazione del sistema dello scambio di
quote che, in forza dell’art. 1 della direttiva impugnata, mira a
«promuovere la riduzione di dette emissioni secondo criteri di validità
in termini di costi e di efficienza economica». Orbene, alla luce delle
considerazioni di cui ai precedenti punti 174-180, il legislatore
comunitario non era tenuto ad adottare disposizioni specifiche a questo
riguardo e a restringere così il margine di discrezionalità degli Stati
membri in ordine alla trasposizione della direttiva impugnata.
200 Al contrario, una normativa comunitaria del prezzo delle quote
potrebbe contrastare con l’obiettivo principale della direttiva
impugnata, ossia la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra
mediante un sistema di scambio di quote efficiente, nell’ambito del
quale il costo delle emissioni e degli investimenti realizzati ai fini
della riduzione di esse venga essenzialmente determinato dai meccanismi
del mercato (quinto ‘considerando’ della direttiva impugnata). Ne
consegue che, in caso d’insufficienza di quote, i gestori sono spinti a
ridurre o meno le loro emissioni di gas a effetto serra in base ad una
decisione economica complessa compiuta tra l’altro in funzione, da un
lato, dei prezzi delle quote di emissione disponibili sul mercato di
scambio e, dall’altro, dei costi di eventuali misure di riduzione delle
emissioni che possono essere tese sia a diminuire la produzione, sia ad
investire in mezzi di produzione più efficaci in termini di rendimento
energetico (ventesimo ‘considerando’ della direttiva impugnata; v.
altresì, in questo senso, sentenza Germania/Commissione, punto 111 supra,
punti 132 e segg.).
201 In un sistema di questo genere, l’aumento del costo delle emissioni
e, pertanto, del prezzo delle quote, che dipende da una serie di
parametri economici, non può essere preventivamente disciplinato dal
legislatore comunitario, a pena di ridurre, se non addirittura
annientare, le spinte economiche che sono alla base del suo
funzionamento e dunque di pregiudicare l’efficacia del sistema dello
scambio di quote. Inoltre, la creazione di tale sistema, ivi comprese le
sue premesse economiche, al fine del rispetto degli obblighi derivanti
dal Protocollo di Kyoto, ricade nell’ampio margine di discrezionalità di
cui dispone il legislatore comunitario ai sensi dell’art. 174 CE (v.
punto 139 supra) e costituisce di per sé una scelta legittima e adeguata
di quest’ultimo, la cui fondatezza in quanto tale non è stata oggetto di
contestazione da parte della ricorrente.
202 Del resto, è in base a tale scelta legittima che il legislatore
comunitario ha fondato il sistema dello scambio di quote sulla premessa
per cui, in conformità all’art. 9, n. 1, e all’art. 11, n. 1, della
direttiva impugnata, spetta agli Stati membri decidere, sul fondamento
dei loro PNA e nell’esercizio del margine di discrezionalità loro
riservato a questo riguardo, la quantità totale di quote da assegnare e
l’assegnazione individuale di dette quote agli impianti stabiliti sul
loro territorio (v., in tal senso, sentenza Germania/Commissione, punto
111 supra, punti 102-106). Inoltre, tale decisione è soltanto soggetta
ad un limitato controllo preliminare da parte della Commissione, in base
all’art. 9, n. 3, della direttiva impugnata, alla luce in particolare
dei criteri previsti dal suo allegato III (ordinanza del Tribunale 30
aprile 2007, causa T-387/04, EnBW Energie Baden-Württemberg/Commissione,
Racc. pag. II-1195, punti 104 e segg.). Pertanto, le variazioni alle
quali saranno soggetti gli obiettivi e le misure di riduzione delle
emissioni dei vari Stati membri, che sono il risultato dei loro obblighi
derivanti dal Protocollo di Kyoto, quali si riflettono nel piano di
ripartizione degli oneri previsto dalla decisione 2002/358, e, quindi,
l’incertezza relativa alla rilevanza della quantità totale e delle
quantità individuali di quote da assegnare ai diversi settori
industriali e ai gestori sul fondamento dei vari PNA non sono imputabili
alle disposizioni controverse in quanto tali.
203 Infine, la ricorrente non ha messo in discussione in modo specifico
la chiarezza e la precisione delle altre disposizioni controverse al
fine di dimostrare che essa non era in grado di stabilire senza
ambiguità i suoi diritti ed obblighi che ne derivano. Infatti, la
necessità di possedere un’autorizzazione di emissione a norma dell’art.
4 della direttiva impugnata, l’obbligo di restituzione ai sensi del suo
art. 6, n. 2, lett. e), in combinato disposto con il suo art. 12, n. 3,
nonché le sanzioni previste dall’art. 16, nn. 2-4, di detta direttiva
costituiscono disposizioni sufficientemente chiare, precise e
prevedibili nei loro effetti, la cui portata effettiva dipende
unicamente dalla quantità di quote gratuite messe a disposizione dei
gestori o del prezzo delle quote disponibili sul mercato di scambio.
Orbene, per quanto attiene a quest’ultimo aspetto, si deve rammentare
che l’imprevedibilità dell’evoluzione del mercato di scambio costituisce
un elemento inerente al meccanismo economico, che caratterizza il
sistema dello scambio di quote soggetto alle regole classiche della
domanda e dell’offerta caratterizzanti un mercato libero e
concorrenziale, e da esso inseparabile, conformemente ai principi
consacrati dall’art. 1, in combinato disposto con il settimo
‘considerando’ della direttiva impugnata nonché con l’art. 2 CE e con
l’art. 3, n. 1, lett. c) e g), CE. Tale aspetto non può, quindi, essere
qualificato come contrario al principio della certezza del diritto a
pena di rimettere in discussione gli stessi fondamenti economici del
sistema dello scambio di quote così come posti dalla direttiva
impugnata, in conformità alle norme del Trattato CE.
204 In tale contesto, la mancanza di una norma specifica nella direttiva
impugnata, che stabilisca un limite massimo o un meccanismo di
monitoraggio del prezzo delle quote, non può essere qualificata come
violazione grave e manifesta dei limiti del potere discrezionale del
legislatore comunitario.
205 Il presente motivo deve pertanto essere respinto.
206 Da tutte le considerazioni che precedono risulta che la ricorrente
non ha dimostrato che, adottando la direttiva impugnata, il legislatore
comunitario abbia commesso un atto illegittimo, ovvero una violazione
sufficientemente qualificata di una norma giuridica volta a conferirle
diritti. Ne consegue che la domanda di risarcimento deve essere
respinta, senza che sia necessario pronunciarsi né sugli altri
presupposti della responsabilità extracontrattuale della Comunità né
sull’eccezione di irricevibilità sollevata dal Consiglio in relazione a
taluni allegati della replica.
Sulle spese
207 Ai sensi dell’art. 87, n. 2, del regolamento di procedura, la parte
soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché
il Parlamento e il Consiglio ne hanno fatto domanda, la ricorrente,
rimasta soccombente, va condannata alle spese.
208 A termini dell’art. 87, n. 4, primo comma, del regolamento di
procedura, le istituzioni intervenute nella causa sopportano le proprie
spese. La Commissione, intervenuta a sostegno del Parlamento e del
Consiglio, sopporta le proprie spese.
Per questi motivi,
IL TRIBUNALE (Terza Sezione)
dichiara e statuisce:
1) Il ricorso è respinto.
2) L’Arcelor SA è condannata a sopportare le proprie spese nonché quelle
del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea.
3) La Commissione europea sopporta le proprie spese.
Così deciso e pronunciato a Lussemburgo il 2 marzo 2010.
Firme
Indice
Contesto normativo
I - Norme del Trattato CE
II - Direttiva impugnata
Fatti e procedimento
In diritto
I - Sulla ricevibilità della domanda di annullamento
A - Argomenti delle parti
1. Argomenti del Parlamento, del Consiglio e della Commissione
2. Argomenti della ricorrente
B - Giudizio del Tribunale
II - Sulla ricevibilità della domanda di risarcimento
A - Argomenti delle parti
B - Giudizio del Tribunale
III - Sulla fondatezza della domanda di risarcimento
A - Sulle condizioni che fanno sorgere la responsabilità
extracontrattuale della Comunità
B - Sull’esistenza di una violazione sufficientemente qualificata del
diritto di proprietà, della libertà di esercizio di un’attività
economica e del principio di proporzionalità
1. Argomenti delle parti
2. Giudizio del Tribunale
C - Sull’esistenza di una violazione sufficientemente qualificata del
principio della parità di trattamento
1. Argomenti delle parti
2. Giudizio del Tribunale
D - Sull’esistenza di una violazione sufficientemente qualificata della
libertà di stabilimento
1. Argomenti delle parti
2. Giudizio del Tribunale
E - Sull’esistenza di una violazione sufficientemente qualificata del
principio di certezza del diritto
1. Argomenti delle parti
2. Giudizio del Tribunale
Sulle spese
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