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CORTE
DI CASSAZIONE Sezioni Unite Penali, 2/04/2010 (Ud. 21/01/2010), Sentenza n.
12822
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato -
Appello - Sentenza - Lettura del dispositivo in udienza - Necessità - Omissione
- Effetti - Termini per l’impugnazione - Fattispecie: millantando credito presso
un pubblico ufficiale - Art. 346 c.p. - Art. 545, c.3, c.p.p..
Anche nel giudizio di appello (come in quello di primo grado) il dispositivo
della sentenza deve essere letto in udienza dopo la deliberazione della
sentenza. In difetto, peraltro, la sentenza non è abnorme né nulla, ma si
verifica una mera irregolarità, che produce comunque effetti giuridici, perché
la mancata lettura del dispositivo impedisce il decorso dei termini per
l’impugnazione ex art. 545, comma 3, c.p.p.. (tra le altre, Cass., sez. I,
22/01/2009 n. 15551, Pagnozzi e altri; Cass. sez. V, 9/07/2008 n. 39205, Di
Pasquale e altri; sez. VI, 17/05/2007 n. 19049, Rinaldi). Fattispecie:
millantando credito presso un pubblico ufficiale. Presidente T. Gemelli,
Relatore C. G. Brusco, Ric. Marcarino. CORTE DI CASSAZIONE Sezioni Unite
Penali, 2/04/2010 (Ud. 21/01/2010), Sentenza n. 12822
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Millantando credito presso un pubblico ufficiale -
Nozione - Delitto del privato contro la P.A. - Reato di cui all’art. 346 c.p.
c.2° - Configurabilità nella forma tentata - Elementi. L'art. 346 cod. pen.,
com'è noto, sanziona la condotta di chi, millantando credito presso un pubblico
ufficiale riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra
utilità, come prezzo della propria mediazione (comma 1) ovvero come prezzo per
comprare il favore del pubblico ufficiale o per remunerarlo (comma 2). Trattasi
di un delitto del privato contro la pubblica amministrazione il cui retto e
imparziale funzionamento costituisce l'oggetto della tutela. Per integrare la
fattispecie tipica, ed in particolare l'ipotesi - ravvisata nei casi di specie
nella forma tentata - prevista dal secondo comma dell'art. 346 (che costituisce
ipotesi autonoma di reato e non aggravante: v. Cass., sez. VI, 20/02/2006 n.
22248, Ippaso e altri) è irrilevante che l'iniziativa parta dalla persona cui è
richiesto di corrispondere il danaro o l'utilità (Cass., sez. VI, 22/02/2005 n.
11441, Sammartano) e neppure è richiesto che l'agente indichi nominativamente i
funzionari o impiegati che devono essere comprati o remunerati (Cass., sez. VI,
27/01/2000 n. 2645, Agresti e altro; Cass. 17/06/1999 n. 9425, Fatone).
Presidente T. Gemelli, Relatore C. G. Brusco, Ric. Marcarino. CORTE DI
CASSAZIONE Sezioni Unite Penali, 2/04/2010 (Ud. 21/01/2010), Sentenza n. 12822
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UDIENZA del 21.01.2010
SENTENZA N.
REG. GENERALE N.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. Un. Penale
Composta dagli ill.mi
Sigg.ri Magistrati:
(Omissis)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(Omissis)
Premesso in fatto:
I) Il giudizio di primo grado. Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale
di Alba, con sentenza 30 maggio 2005, ha condannato MARCARINO GIANNI, all'esito
del giudizio abbreviato e previa concessione delle attenuanti generiche, alla
pena di un anno di reclusione per il delitto di millantato credito tentato e
continuato (capi A e C d'imputazione) ritenendo il tentativo anche per l'ipotesi
di reato di cui al capo C originariamente contestata come reato consumato.
Con la medesima sentenza il primo giudice - che ha assolto MARCARINO dai reati
di estorsione (capo B) perché il fatto non costituisce reato e minaccia
continuata e aggravata (capo D) perché il fatto non sussiste - ha concesso
all'imputato i doppi benefici di legge e l'ha condannato al risarcimento dei
danni in favore della parte civile GURRISI SALVATORE liquidandoli in euro
15.000,00 oltre alle spese di costituzione e rappresentanza di parte civile.
In particolare il Tribunale ha accertato che l'imputato (che svolgeva l'attività
di assicuratore) venuto a conoscenza delle difficoltà che GURRISI SALVATORE
incontrava per l'apertura di un circolo ricreativo in Comune di Mondovì si era
dichiarato disposto, nel corso di un incontro svoltosi il 5 aprile 2002, ad
aiutarlo per fargli ottenere l'autorizzazione affermando di conoscere il sindaco
e il capo ufficio urbanistico i quali, dietro il pagamento di una somma di
danaro (lire 5 milioni di vecchie lire), avrebbero eliminato gli ostacoli. La
trattativa non si concludeva per il rifiuto di GURRISI.
Il successivo 1° settembre 2003 l'imputato prospettava ii( nuovamente la
possibilità di operare un intervento presso i medesimi pubblici ufficiali e, in
questa occasione, l'agente chiedeva il versamento della somma di lire 15.000.000
di vecchie lire (così si esprimono i protagonisti malgrado sia stato da tempo
introdotto l'euro) ma anche in questo caso otteneva il rifiuto dell'interessato.
Il giudice di primo grado riteneva accertati i fatti in base alle dichiarazioni
di GURRISI e ai risultati delle registrazioni dei colloqui effettuate dal
medesimo e dagli autori di un'inchiesta televisiva da lui informati.
II) La sentenza d'appello. La Corte d'Appello di Torino, con sentenza 23
novembre 2007, ha, previa dichiarazione di inammissibilità dell'appello proposto
dalla parte civile, parzialmente riformato la sentenza di primo grado
confermando l'affermazione di responsabilità dell'imputato in ordine ad entrambe
le ipotesi delittuose ravvisate dal primo giudice ma diminuendo ad euro
10.000,00 l'entità del danno liquidato a favore della parte civile.
La Corte di merito ha richiamato le argomentazioni svolte nella sentenza di
primo grado e ha fondato la decisione di conferma della condanna sul contenuto
delle conversazioni registrate ritenute idonee a confermare la versione di
GURRISI e a smentire l'affermazione difensiva secondo cui la somma di lire
5.000,00 (che MARCARINO non contesta di avere richiesto), di cui al primo
episodio, era destinata non a remunerare i pubblici ufficiali ma a pagare i
professionisti che l'imputato intendeva segnalare a GURRISI per superare gli
ostacoli creati per ritardare o bloccare l'accoglimento della sua richiesta.
Anche per quanto riguarda il secondo episodio la sentenza impugnata ha
ricostruito il fatto in termini analoghi a quello precedente; ha dato atto che
MARCARINO non aveva mai garantito la certezza del risultato ma ha ritenuto
irrilevante questa circostanza. Ha confermato che doveva ritenersi provato, come
anche nel primo episodio, che l'imputato avesse chiesto anche la corresponsione
di una somma a suo favore (che nel primo episodio era stata effettivamente
corrisposta).
III) I motivi di ricorso. Contro la sentenza di secondo grado ha proposto
ricorso MARCARINO GIANNI il quale ha dedotto i seguenti motivi di censura:
- la nullità della sentenza impugnata per mancata lettura in udienza del
dispositivo della sentenza pronunziata ai sensi dell'art. 599 comma 4° cod.
proc. pen. e per mancato deposito in cancelleria dello stesso dispositivo che,
tra l'altro, indicava un termine superiore a quello ordinario per il deposito
della sentenza di cui le parti venivano a conoscenza solo con la notificazione
dell'avviso di deposito;
- la violazione dell'art. 346 cod. pen. in quanto gli elementi di prova
acquisiti (ed in particolare il contenuto delle conversazioni registrate delle
quali vengono nei motivi riportati alcuni stralci) non erano tali da consentire
di ritenere realizzato il fatto tipico contestato anche perché, in questi
colloqui, mai viene indicata la persona cui l'imputato si sarebbe rivolto per
realizzare la sua mediazione per cui neppure sarebbe dimostrato che l'eventuale
millantato credito avrebbe avuto come destinatario un funzionario pubblico.
Inoltre la sentenza impugnata non indica quali vanterie l'imputato abbia posto
in essere per confermare la possibilità di influenzare il pubblico ufficiale ed
anzi il contenuto delle conversazioni registrate dimostra come lo stesso
imputato mai cerchi di convincere GURRISI della corruttibilità dei pubblici
ufficiali; la vanteria deve precedere la promessa di corruzione perché possa
ritenersi integrata la fattispecie tipica contestata mentre nel caso in esame è
successo l'inverso;
- la manifesta illogicità della motivazione sull'esistenza degli elementi
oggettivi idonei a fondare l'ipotesi di accusa formulata nei confronti
dell'imputato; dal contenuto delle conversazioni, di cui vengono riportate
alcune parti, non emergerebbe in alcun modo che le somme di danaro richieste
fossero destinate a politici o amministratori; secondo il ricorrente i giudici
di merito avrebbero completamente travisato il contenuto delle conversazioni in
alcuni casi confondendo anche le voci dei dialoganti. Da queste conversazioni
non risulterebbe in alcun modo che il ricorrente intendeva ricorrere a forme di
corruzione ma soltanto interessarsi per superare i problemi che ritardavano
l'apertura del locale eventualmente con il ricorso a professionisti più
qualificati;
- la mancanza di motivazione sulla determinazione della pena inflitta e sul
rigetto del motivo di appello sul punto;
- la violazione dell'art. 541 cod. proc. pen. per non avere, la sentenza
impugnata, disposto la compensazione, totale o parziale, delle spese in favore
della parte civile malgrado la dichiarazione di inammissibilità dell'appello da
questa proposto e l'accoglimento parziale dell'appello dell'imputato in merito
alla determinazione della provvisionale la cui misura è stata ridotta rispetto a
quella stabilita dal primo giudice.
IV) I contrasti nella giurisprudenza di legittimità. Il processo è stato
assegnato alla sesta sezione penale di questa Corte che, con ordinanza 30
settembre 2009, ha rilevato l'esistenza di un contrasto interno nella
giurisprudenza di legittimità sul tema proposto con il primo motivo di ricorso e
ha conseguentemente rimesso il ricorso a queste sezioni unite.
La sesta sezione ha infatti rilevato che nella giurisprudenza di legittimità si
sono formati tre orientamenti: secondo il primo di essi alla sentenza di
appello, pronunziata in esito all'udienza in camera di consiglio celebrata ai
sensi dell'art. 599 del codice di rito, si applica la disciplina prevista per la
sentenza dibattimentale (pubblicazione mediante lettura del dispositivo in esito
all'udienza). Secondo altro orientamento sarebbe invece applicabile la
disciplina prevista dall'art. 127 cod. proc. pen. cui l'art. 599 del medesimo
codice espressamente rinvia.
La maggior parte delle sentenze che si iscrivono a questi due diversi
orientamenti ritengono però che dalla violazione delle norme ritenute
applicabili non derivi alcuna conseguenza sulla validità della decisione per il
principio di tassatività delle nullità non essendo, questa conseguenza,
espressamente prevista. Alcune sentenze ritengono peraltro che la lettura, pur
irritale, del dispositivo equivalga alla notificazione della sentenza e che sia
dunque idonea a dar luogo all'inizio del decorso del termine per l'impugnazione.
Esistono poi altre decisioni che hanno ritenuto che la mancata lettura del
dispositivo di appello nel giudizio abbreviato provochi la nullità della
sentenza di appello ovvero l'abnormità della sentenza d'appello se il giudice
neppure provveda al deposito del dispositivo della sentenza.
V) La ricostruzione del quadro normativo. Il giudizio di primo grado. L'assetto
normativo riguardante la lettura del dispositivo nel giudizio abbreviato non si
caratterizza per chiarezza non avendo il legislatore (salvo per quanto riguarda
il giudizio di legittimità) ritenuto di indicare espressamente le modalità di
pubblicazione della sentenza; disciplina espressa che sarebbe stata necessaria
in considerazione della circostanza che il giudizio abbreviato si caratterizza
per la commistione di regole applicabili al giudizio dibattimentale e regole
previste per i procedimenti in camera di consiglio.
Nonostante ciò è opinione delle sezioni unite che possa pervenirsi ad una
ricostruzione di questo assetto in un quadro di coerenza del sistema.
Preliminare alla soluzione del problema posto nell'ordinanza di rimessione - se
il dispositivo della sentenza di appello nel giudizio abbreviato debba essere
letto in udienza - è l'esame dell'analogo problema nel giudizio abbreviato di
primo grado. Infatti anche per il giudizio di primo grado non sono disciplinate
espressamente, dal codice di rito, le modalità di pubblicazione della sentenza.
Una lettura coordinata degli artt. 441 e 442 cod. proc. pen. consente però di
pervenire ad una soluzione difficilmente controvertibile del problema. Mentre
l'art. 441, per quanto riguarda lo svolgimento del giudizio abbreviato, rinvia
espressamente alle disposizioni previste per l'udienza preliminare (e quindi
all'art. 418 comma 1 che ne prevede espressamente la celebrazione in camera di
consiglio), l'art. 442, che disciplina la decisione, precisa che il giudice
provvede a norma degli artt. 529 e seguenti.
Tra le norme richiamate vi sono dunque non solo l'art. 544 comma 1 cod. proc.
pen. - che impone al presidente di redigere e sottoscrivere il dispositivo dopo
la deliberazione - ma altresì l'art. 545 il cui primo comma prevede
espressamente la pubblicazione della sentenza mediante lettura del dispositivo
ed eventualmente (comma 2) della motivazione quando sia contestualmente redatta.
VI) Il giudizio di appello. Meno agevole si presenta invece la soluzione per il
giudizio abbreviato d'appello. L'art. 443 comma 4 del codice di rito dispone
infatti che il giudizio di appello "si svolge con le forme previste dall'art.
599" e quest'ultima norma - che disciplina la celebrazione del giudizio di
appello in talune ipotesi - dispone, a sua volta, che "la corte provvede in
camera di consiglio con le forme previste dall'art. 127".
L'espresso richiamo all'art. 127 rende maggiormente ardua la soluzione del
problema prospettato perché, come è noto, questa norma non prevede la lettura
del dispositivo immediatamente dopo la deliberazione della decisione. Anzi, a
ben vedere, né l'art. 127 né il successivo art. 128 - che disciplina il deposito
e la pubblicazione dei provvedimenti in camera di consiglio - neppure prevedono
la redazione di un dispositivo separato rispetto all'ordinanza che è il
provvedimento conclusivo dei procedimenti in camera di consiglio; è però vero
che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto corretta la redazione del
dispositivo separato nel caso di provvedimenti cautelari e che ciò si verifica
per i procedimenti in camera di consiglio celebrati dinanzi alla Corte di
cassazione.
Il rinvio alla disciplina contenuta nell'art. 127 giustifica l'esistenza di un
consistente orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto
corretta questa opzione.
Si tratta, peraltro, di orientamento, già prevalente, che però negli ultimi anni
non risulta essere stato più seguito (le ultime decisioni in questo senso
risultano essere Cass., sez. II, 12 dicembre 2003 n. 847, Teano, rv. 227803; 24
aprile 2003 n. 22786, Paone, rv. 225450; sez. I, 21 ottobre 1997 n. 10162,
Torsello, rv. 208739) .
La più recente giurisprudenza di legittimità è infatti orientata nel senso di
ritenere che, anche nel giudizio abbreviato di appello, il dispositivo debba
essere letto in udienza dopo la deliberazione della sentenza (si vedano, tra le
altre, Cass., sez. I, 22 gennaio 2009 n. 15551, Pagnozzi e altri, rv. 243728;
sez. V, 9 luglio 2008 n. 39205, Di Pasquale e altri, rv. 241696; sez. VI, 17
maggio 2007 n. 19049, Rinaldi, non massimata).
Le sezioni unite condividono questo più recente orientamento. A fronte di un
dato formale apparentemente contradditorio (perché da un lato l'art. 442
richiama gli artt. 529 e ss; dall'altro l'art. 599 richiama l'art. 127) non
possono che essere valorizzate le ragioni formali e logiche che convincono della
correttezza della tesi in questione.
Sotto il primo profilo è stato osservato che l'art. 599 del codice di rito
richiama "le forme" previste dall'art. 127 e l'uso di questa locuzione è da
ritenere riferita proprio alle modalità di celebrazione del procedimento ma non
alla sua decisione la cui forma resta quella richiamata dall'art. 442 e la cui
applicazione nel giudizio di appello è imposta dall'art. 598 cod. proc. pen. che
rende applicabili al giudizio di appello le disposizioni relative al giudizio di
primo grado. E' infatti da ritenere che, anche nel giudizio di appello, permanga
la distinzione tra svolgimento e decisione nel giudizio abbreviato delineata
negli artt. 441 e 442 cod. proc. pen.; e dunque che il termine "forme" non possa
che riferirsi al solo svolgimento.
Ma vi sono due argomentazioni di carattere logico che per le sezioni unite
valgono ad eliminare ogni dubbio.
La prima riguarda la natura del giudizio abbreviato che ha applicazione
generalissima e che, dopo le modifiche introdotte nel 1999, è divenuto
addirittura obbligatorio se l'imputato lo richiede con limitati poteri di non
ammetterlo solo nel caso di richiesta di integrazione probatoria non compatibile
con le finalità di economia processuale proprie del rito. Ciò richiede che
vengano valorizzate tutte le caratteristiche che, in mancanza di espressa
disciplina, tendono ad uniformare questo rito a quello dibattimentale. Tra
queste caratteristiche la lettura del dispositivo in udienza è non solo del
tutto compatibile con la specialità del rito abbreviato ma addirittura da
ritenere obbligata perché espressione del principio di immediatezza che
caratterizza il processo ordinario.
Si aggiunga che l'accoglimento della diversa tesi creerebbe un'inammissibile
asimmetria nel sistema del giudizio abbreviato: in primo grado per le ragioni
già indicate e nel giudizio di legittimità per l'espressa previsione dell'art.
611 del codice di rito il giudizio si conclude necessariamente con la lettura
del dispositivo in udienza ma, per una non giustificabile anomalia, il giudizio
di appello dovrebbe avere una diversa conclusione. Un sistema così congegnato
sarebbe privo di razionale giustificazione e ciò conforta l'interpretazione
indicata.
VII) Le conseguenze della mancata lettura del dispositivo. Premessa. Mentre sul
problema della lettura del dispositivo in udienza la più recente giurisprudenza
di legittimità aveva trovato una soluzione condivisa ciò non è avvenuto sul tema
delle conseguenze che derivano dalla mancata lettura del medesimo dispositivo.
Su questo problema va intanto premesso che la mancata lettura del dispositivo in
udienza non esaurisce il ventaglio delle soluzioni possibili perché due possono
essere - una volta che il giudice di merito abbia erroneamente optato per il
deposito in cancelleria - i percorsi ipotizzabili. Può aversi il caso del
deposito di un dispositivo separato comunicato alle parti ovvero il caso del
deposito dell'originale della sentenza per cui l'originale del dispositivo è
quello in essa contenuto.
Questo secondo metodo di deposito è quello previsto, dall'art. 128 del codice di
rito, per i procedimenti trattati in camera di consiglio; peraltro anche il
sistema della separata pronunzia (e deposito) del dispositivo rispetto
all'originale del provvedimento è stato ritenuto corretto, come si è già
accennato, dalla giurisprudenza di legittimità nel caso di provvedimenti del
tribunale per il riesame (v. Cass., sez. un., 25 marzo 1998 n. 11, Manno e
altri, rv. 210609 e, più di recente, Cass., sez. V, 12 ottobre 2006 n. 38105,
Trombin e altro, rv. 235760) ed è anzi la soluzione adottata per i procedimenti
in camera di consiglio davanti alla Corte di cassazione argomentando dagli artt.
625 comma 2 e 626 cod. proc. pen. (cons. le ordinanze delle sezioni unite n. 15
del 12 maggio 1995, Sciancalepore, rv. 201028 e n. 14451 del 27 marzo 2003,
Previti, rv. 223633).
A questo ultimo riguardo si sono formati tre orientamenti nella giurisprudenza
di legittimità. Secondo il primo di essi, assolutamente prevalente, la mancata
lettura del dispositivo non è causa di alcuna nullità e si risolve in una mera
irregolarità priva di alcuna conseguenza. Secondo una più recente ma isolata
decisione (Cass., sez. VI, 10 maggio 2007 n. 19049, Rinaldi e altri, non
massimata) la mancata lettura del dispositivo produce l'abnormità della sentenza
a meno che il dispositivo, pur non letto in udienza, venga immediatamente
redatto e depositato in cancelleria (nel qual caso si verificherebbe una mera
irregolarità). Secondo un terzo orientamento (di cui è espressione Cass., sez.
IV, 28 gennaio 1993 n. 3219, Guccio e altro, rv. 198441) si verificherebbe il
caso di nullità previsto dall'art. 546 u.c. cod. proc. pen. dovendo ritenersi
mancante il dispositivo.
VIII) La tesi della nullità della sentenza. Ritengono le Sezioni Unite che ai
fini della soluzione della questione relativa alle conseguenze della mancata
lettura dei dispositivo all'esito del giudizio abbreviato di appello debba
tenersi conto delle specifiche caratteristiche di tale rito camerale.
La procedura contemplata dall'art. 599 cod. proc. pen. si conforma, per espresso
richiamo, al modulo dell'art. 127 del medesimo codice in cui la presenza delle
parti è meramente eventuale (v. in particolare il comma 3 dell'art. 127). Ne
consegue che i1 contenuto della decisione, espresso nel dispositivo, non
comporta indefettibilmente una lettura di questo ai sensi dell'art. 445 comma 1
cod. proc. pen. dato che la pubblicazione mediante lettura implica la presenza,
almeno immanente, delle parti, come avviene per la sentenza emessa all'esito del
dibattimento.
Dunque mentre la mancanza di un dipositivo letto in udienza invalida la sentenza
dibattimentale - perché la lettura dei dispositivo è l'unica forma attraverso la
quale può essere espressa la decisione in un contesto caratterizzato dai
congiunti principi di oralità, immediatezza e pubblicità derivandone che non è
consentito riportare nel documento-sentenza altro che il dispositivo pubblicato
nelle forme dell'art. 545 cod. proc. pen. - nel caso del rito camerale del
giudizio abbreviato di appello, in cui difetta la pubblicità della udienza e la
presenza delle parti è meramente eventuale, la formazione di un dispositivo che
sia stato redatto non, come sarebbe doveroso, subito dopo la deliberazione ma al
momento del deposito del documento-sentenza costituisce una mera irregolarità;
la sanzione di nullità prevista dall'art. 546 comma 3 cod. proc. pen. implica
infatti la mancanza o incompletezza dei dispositivo che non ricorre nel caso di
un dispositivo formalizzato, sia pure non immediatamente dopo la decisione
camerale, al momento del deposito del provvedimento.
Si tratta peraltro di irregolarità che produce effetti giuridici perché la
mancanza di lettura del dispositivo impedisce il decorso dei termini per
l'impugnazione di cui al terzo comma dell'art. 545 cod. proc. pen.
Da ultimo va osservato che l'unica conseguenza dell'affermazione della tesi
della nullità sarebbe quella di riportare il processo, fino a quel punto
regolarmente celebrato, alla fase successiva alla discussione (art. 185 comma 1
cod. proc. pen.). I giudici d'appello dovrebbero riconvocare le parti per
leggere il dispositivo con tutti i problemi che potrebbero derivare sulla
possibilità di emettere una decisione di diverso contenuto o dall'impossibilità
di formare il collegio nella medesima precedente composizione.
IX) La tesi dell'abnormità della sentenza. Resta da valutare se la mancata
lettura del dispositivo integri un'ipotesi di abnormità secondo la tesi
sostenuta dalla già ricordata sentenza Rinaldi della sesta sezione di questa
Corte. Ciò richiede un breve esame dei principi che disciplinano l'atto abnorme.
Le sezioni unite di questa Corte hanno in più occasioni ribadito (v. Cass., sez.
un., 24 novembre 1999 n. 26, Magnani, rv. 215094 e 10 dicembre 1997 n. 17, rv.
209603) che si caratterizza per abnormità non soltanto il provvedimento che, per
la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento
processuale ma, altresì, quello che, pur essendo in astratto espressione di un
legittimo potere, si esplichi, al di là di ogni ragionevole limite, al di fuori
dei casi consentiti o delle ipotesi previste.
Si è aggiunto, in queste decisioni, che l'abnormità dell'atto può riguardare
tanto il profilo strutturale (quando l'atto si pone al di fuori del sistema
normativo) quanto il profilo funzionale (quando, pur non ponendosi al di fuori
del sistema, determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo).
E la più recente sentenza delle sezioni unite 20 dicembre 2007 n. 5307,
Battistella, rv. 238239, ha ribadito questi principi considerando ancora che
"l'assenza di criteri uniformi d'identificazione dei caratteri distintivi del
provvedimento abnorme ha contribuito ad una progressiva estensione di tale
categoria, rispetto alle tradizionali invalidità dell'atto, nell'intento
dichiarato da parte della giurisprudenza di legittimità di rimuovere, con il
rimedio del ricorso immediato per Cassazione, situazioni processuali extra
ordinem, altrimenti non eliminabili (per la preclusione derivante dalla
tassatività dei mezzi di impugnazione e delle nullità), che conseguono ad atti
del giudice geneticamente o funzionalmente anomali, non inquadrabili nei tipici
schemi normativi ovvero incompatibili con le linee fondanti del sistema".
Alla luce dei principi indicati non può, il provvedimento impugnato, essere
ritenuto abnorme.
Escluso che l'atto in esame provochi una stasi del processo non altrimenti
superabile deve rilevarsi che la violazione processuale in esame non può
ritenersi integrare un provvedimento avulso dall'intero ordinamento processuale
posto che non fa altro che applicare, ad un procedimento che va trattato in
camera di consiglio, la disciplina ordinariamente prevista, in tali
procedimenti, per la decisione e la pubblicità della sentenza. Si tratta dunque
di una soluzione che le sezioni unite ritengono non condivisibile ma che non è
priva di plausibilità come del resto è dimostrato dall'esistenza di un
consistente orientamento di legittimità che l'ha condiviso.
Né sono condivisibili le affermazioni contenute nella già ricordata sentenza
Rinaldi della sesta sezione che ha individuato questo grave scostamento dal
modello normativo nella violazione del principio di immediatezza della
deliberazione della sentenza penale. Trattasi infatti di principio connaturato
al dibattimento penale per il quale però la legge deroga per i procedimenti in
camera di consiglio e che quindi non può essere ritenuto assoluto. Né può
affermarsi che la deroga faccia venir meno la genuinità del contradditorio e la
reale collegialità della decisione, come si ritiene nella decisione indicata, a
meno di voler affermare che in tutti i procedimenti in camera di consiglio si
verificano questi effetti perversi.
X) Le censure riguardanti la responsabilità dell'imputato. I motivi secondo e
terzo contenuti nel ricorso - che per la loro stretta connessione possono essere
congiuntamente esaminati - concernono sia la ricostruzione operata dalla corte
di merito dei fatti oggetto dell'imputazione che la possibilità di ritenere che
il fatto accertato dai giudici di merito possa astrattamente integrare il fatto
tipico del delitto di millantato credito previsto dall'art. 346 cod. pen.
Com'è noto questa norma sanziona la condotta di chi, millantando credito presso
un pubblico ufficiale riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro
o altra utilità, come prezzo della propria mediazione (comma 1) ovvero come
prezzo per comprare il favore del pubblico ufficiale o per remunerarlo (comma
2).
Trattasi di un delitto del privato contro la pubblica amministrazione il cui
retto e imparziale funzionamento costituisce l'oggetto della tutela. Per
integrare la fattispecie tipica, ed in particolare l'ipotesi - ravvisata nei
casi di specie nella forma tentata - prevista dal secondo comma dell'art. 346
(che costituisce ipotesi autonoma di reato e non aggravante: v. Cass., sez. VI,
20 febbraio 2006 n. 22248, Ippaso e altri, rv. 234719) è irrilevante che
l'iniziativa parta dalla persona cui è richiesto di corrispondere il danaro o
l'utilità (cfr. Cass., sez. VI, 22 febbraio 2005 n. 11441, Sammartano, rv.
231042) e neppure è richiesto che l'agente indichi nominativamente i funzionari
o impiegati che devono essere comprati o remunerati (v. Cass., sez. VI, 27
gennaio 2000 n. 2645, Agresti e altro, rv. 215651; 17 giugno 1999 n. 9425,
Fatone, rv. 214125).
Alla luce di questi principi le censure che si riferiscono alla possibilità che
le condotte accertate integrino il delitto contestato si rivelano manifestamente
infondate. Anche a voler ritenere corretta la ricostruzione fattuale compiuta
nel ricorso è infatti irrilevante che la vanteria sia stata successiva alla
proposta di GURRISI così come è irrilevante che non fossero stati indicati i
pubblici funzionari da corrompere.
Le altre censure proposte dal ricorrente con i motivi in esame sono invece
inammissibili perché con esse il ricorrente pretende di avvalorare una
ricostruzione dei fatti, ed in particolare del contenuto delle conversazioni
intercettate, difforme da quella compiuta dai giudici di merito. Ciò in
particolare per quanto riguarda l'interpretazione delle conversazioni relative
al secondo episodio in merito alle quali la sentenza impugnata ha fornito di
adeguata risposta le censure proposte con l'appello sulla possibilità di far
ridurre al massimo le "multe" per gli abusi accertati. E analoghe considerazioni
possono farsi in merito alla asserita inesistenza di affermazioni dell'imputato
sulla corruttibilità dei pubblici ufficiali.
Ma poiché il ricorrente non nega di aver richiesto somme di danaro a GURRISI con
il terzo motivo di ricorso tenta di accreditare la versione che le somme
richieste non dovevano servire a remunerare i pubblici ufficiali ma i
professionisti incaricati della predisposizione della pratica. Ma anche su
questo aspetto la sentenza impugnata è incensurabile perché ha tratto il diverso
convincimento dall'esame delle conversazioni trascritte dalle quali non emerge
in alcun passo che le somme richieste fossero destinate a remunerare i
professionisti mentre la Corte d'appello valorizza quella parte del colloquio in
cui MARCARINO precisa di aver coinvolto altre persone (oltre al sindaco) e che
non vuole "finire in galera per voi".
Trattasi dunque di motivazione adeguata ed esente da alcuna illogicità che si
sottrae conseguentemente al vaglio di legittimità.
XI) Determinazione della pena e liquidazione delle spese a favore della parte
civile. La censura riguardante la determinazione della pena è inammissibile.
Il trattamento sanzionatorio - comprensivo del riconoscimento delle circostanze
attenuanti e della loro comparazione con le eventuali aggravanti e della
concessione dei benefici della sospensione condizionale e della non menzione -
rientra nelle attribuzioni esclusive del giudice di merito e così anche la
determinazione della pena da infliggere in concreto che, per l'art. 132 cod. pen.,
è applicata discrezionalmente dal giudice che deve indicare i motivi che
giustificano l'uso di tale potere.
In sede di legittimità è invece consentito esclusivamente valutare se il
giudice, nell'uso del suo potere discrezionale, si sia attenuto a corretti
criteri logico giuridici e abbia motivato adeguatamente il suo convincimento.
Nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta ai criteri indicati
facendo riferimento, per motivare il diniego sulla richiesta formulata, alla
gravità della condotta e all'intensità del dolo.
Questa valutazione, essendo congruamente e logicamente motivata, si sottrae ad
ogni censura in sede di legittimità con la conseguente inammissibilità del
motivo.
Infondato è invece il motivo che si riferisce alla liquidazione delle spese in
favore della parte civile; liquidazione che, secondo il ricorrente, non sarebbe
dovuta in quanto l'appello relativo alle statuizioni civili era stato
parzialmente accolto con la riduzione del danno liquidato da euro 15.000,00 a
euro 10.000,00.
Mentre, nel caso di parziale accoglimento dell'appello, è precluso al giudice
dell'impugnazione di condannare l'imputato al pagamento delle spese processuali
nel caso di parziale accoglimento dell'appello ai fini civili, poiché l'imputato
è da ritenere comunque soccombente, deve essere pronunziata condanna alle spese
sostenute dalla parte civile nel giudizio d'impugnazione salvo che il giudice
non ritenga di compensarle per l'esistenza di giusti motivi (cfr. Cass., sez. V,
21 ottobre 2008 n. 46453, Colombo e altro, rv. 242611; sez. IV, 2 ottobre 2007
n. 44777, Sasso e altro, rv. 238660; sez. un., 30 aprile 1997 n. 6402, Dessimone,
rv. 207946).
XII) Per le considerazioni svolte il ricorso deve essere rigettato. Al rigetto
consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P. Q. M.
la Corte Suprema di Cassazione, sezioni unite penali, rigetta il ricorso e
condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il giorno 21 gennaio 2010.
DEPOSTATA IN CANCELLERIA 02 APR. 2010
IL PRESIDENTE
IL CONSIGLIERE RELATORE
(dr. Tetrquato Gemelli)
(dr. Carl Brusco)
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