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CORTE
DI CASSAZIONE Sezioni Unite Penali, 10/02/2010 (Ud. 26/11/2009), Sentenza n.
5385
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - DIRITTI DEI CONSUMATORI - Sigilli apposti al fine di
impedire l'uso di un bene - Violazione di sigilli - Reato -Configurabilità -
Fattispecie: Attività di somministrazione di alimenti e bevande senza la
prescritta autorizzazione. Si configura il reato di violazione di sigilli,
anche nel caso in cui la condotta tipica abbia riguardo a sigilli apposti
esclusivamente per impedire l’uso illegittimo della cosa e non solo quando gli
stessi siano stati apposti per assicurarne la conservazione o l’identità.
Fattispecie: Attività di somministrazione di alimenti e bevande senza la
prescritta autorizzazione. (Conferma Corte di Appello di Messina sentenza del
14/3/08) Pres. T. Gemelli, Rel. U. Giordano, Ric. D'Agostino. CORTE DI
CASSAZIONE Sezioni Unite Penali, 10/02/2010 (Ud. 26/11/2009), Sentenza n. 5385
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Sigilli apposti al fine di impedire l'uso di un
bene - Funzione - Reato di cui all'art. 349 c.p. - Configurabilità - Fondamento.
Il sigillo si configura come un mezzo di portata generale destinato a rafforzare
la protezione delle cose che l'autorità giudiziaria o amministrativa è
autorizzata dalla legge a rendere indisponibili per il perseguimento dei suoi
compiti istituzionali. Sicché, le finalità indicate dall'art. 349 c.p. non sono
di per sé escluse dalla eventuale compresenza di fini ed obiettivi ulteriori
rispetto alla conservazione o alla identità della cosa. Va quindi affermato il
principio di diritto che il reato di cui all'art. 349 c.p. è configurabile anche
quando la condotta tipica abbia riguardo a sigilli apposti per impedire l'uso
illegittimo della cosa. (Conferma Corte di Appello di Messina sentenza del
14/3/08) Pres. T. Gemelli, Rel. U. Giordano, Ric. D'Agostino. CORTE DI
CASSAZIONE Sezioni Unite Penali, 10/02/2010 (Ud. 26/11/2009), Sentenza n. 5385
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UDIENZA del 26.11.2009
SENTENZA N.
REG. GENERALE N.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. Un. Penale
Composta dagli ill.mi
Sigg.ri Magistrati:
(Omissis)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(Omissis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza in data 31/1/05 il Tribunale monocratico di Messina ha dichiarato
Emma D'Agostino colpevole del reato di cui all'art. 349 cpv. c.p. per avere il
26/2/03 violato, nella qualità di custode, i sigilli apposti il 13/8/02 per
ordine dell'autorità amministrativa (la Sezione annona e polizia amministrativa
della locale Polizia municipale) alla macchina del caffè e ad una scaffalatura
di esposizione di bevande in un esercizio di ritrovo, sito in Ganzirri, nel
quale si effettuava attività di somministrazione di alimenti e bevande senza la
prescritta autorizzazione; e l'ha condannata alla pena ritenuta di giustizia.
La decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Messina con sentenza
in data 14/3/08.
Contro quest'ultima pronuncia la D'Agostino ha proposto ricorso per cassazione
con il quale deduce erronea applicazione dell'art. 349 c.p., sull'assunto che
non sarebbe configurabile il reato di violazione di sigilli quando questi sono
apposti non per assicurare la conservazione o l'identità della cosa, come
enunciato dalla norma incriminatrice, bensì per impedire la prosecuzione di
un'attività illegittima.
La III Sezione, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza in data
23/6/09 lo ha rimesso alle Sezioni Unite rilevando l'esistenza di due
contrapposte letture interpretative della norma. Secondo l'orientamento,
largamente prevalente, cui i giudici del merito si sono uniformati (Sez. VI
11/12/69 n. 2401, Del Giudice, rv.114.231; Sez. VI 22/2/84 n. 4943, Cioce, rv.164.495;
Sez. VI 16/4/86 n. 10666, Ventimiglia, rv.173.903; Sez. VI 28/4/93 n.7961, Di
Filippo, rv.194.900; Sez. III 10/7/01 n. 36210, Arcieri, rv.220.345; Sez. III
28/1/03 n. 10267, Buonfiglio Tanzarella, rv.224.348; Sez. III 26/11/03 n.
2600/04, Biondo, rv.227.398; Sez. III 12/1/07 n. 6417, Battello, rv.236.178;
Sez. III 5/7/07 n. 34151, Ascolese, rv.237.370; Sez. III 3/4/08 n.19722,
Palomba, rv.240.037) l'oggetto giuridico del delitto di violazione di sigilli va
individuato nella tutela della intangibilità della cosa rispetto ad ogni atto di
disposizione o di manomissione, dovendosi ricondurre alla finalità di
assicurarne la conservazione anche la interdizione dell'uso di essa disposta
dall'autorità, senza che rilevino le finalità o le ragioni del provvedimento
limitativo.
Secondo un altro orientamento invece (Sez. VI 9/7/82 n.7934, Villanis, rv.155.056;
Sez. VI 24/11/87 n.5248, Clemente, rv.178.261; Sez. III 14/10/99 n.13710, Gallo,
rv.214.819; Sez. II 12/12/03 n.3416/04, Minopoli, rv.227.865) le finalità
indicate nella norma incriminatrice sono tassative e quindi il reato non sarebbe
configurabile quando i sigilli non sono apposti per assicurare la conservazione
o la identità di una cosa ma per la finalità, considerata diversa e tipicamente
sanzionatoria, di impedirne l'uso.
Con decreto del 17/7/09 il Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione ha
assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l'udienza
pubblica del 26 novembre 2009.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il contrasto per cui il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è molto
netto, avendo dato luogo a decisioni opposte in situazioni quasi identiche, e si
è radicalizzato senza che le due diverse tesi siano state fatte oggetto di
particolari approfondimenti, stante l'essenzialità dell'apparato argomentativo
delle varie pronunce.
L'area in cui vi è stata difformità rispetto all'orientamento nettamente
maggioritario è però piuttosto limitata, riguardando in tutto solo quattro casi
di violazione di sigilli apposti per impedire la prosecuzione di attività
commerciali o artigianali esercitate in assenza delle necessarie autorizzazioni.
Per la stessa finalità, quella di impedire il protrarsi di attività svolte senza
il rispetto della normativa che le disciplina, i sigilli violati risultano
essere stati apposti in casi del tutto analoghi in cui è stata adottata la
soluzione contraria.
Nessun contrasto rispetto all'orientamento prevalente si è invece mai verificato
nelle fattispecie, le più numerose tra quelle che hanno dato luogo a pronunce di
questa Corte, in cui i sigilli violati risultano essere stati apposti per
impedire la prosecuzione di costruzioni abusive o altre attività in campo
edilizio.
2. L'orientamento minoritario si è attestato su una interpretazione strettamente
letterale della norma incriminatrice e ha quindi senz'altro ritenuto, senza
indagare quelle che potrebbero essere state le ragioni di una simile scelta, che
il legislatore abbia voluto attribuire rilevanza penale alla sola violazione dei
sigilli apposti per evitare manomissioni dirette ad alterare l'oggettiva
consistenza della cosa.
L'orientamento prevalente ha ritenuto invece, sin dalla pronuncia più risalente
nel tempo (Sez. VI 11/12/69 n. 2401), che la lettera dell'art. 349 c. p., se non
ci si ferma alla più comune accezione delle espressioni usate, non delinea
affatto in modo insuperabile un perimetro così limitato. Ciò sul rilievo che
"conservare una cosa" letteralmente significa mantenerla nello stato in cui
attualmente si trova e quindi, poiché anche il non uso è uno stato, tra i
significati che tale espressione è suscettibile di esprimere vi è anche quello
di sottrarre la cosa "all'esercizio di ogni facoltà altrui compresa quella di
farne uso".
Ritenuto quindi che vi fosse spazio agevolmente percorribile per una
interpretazione estensiva della norma incriminatrice di cui si tratta, che non
contrasta con il principio di stretta legalità vigente in materia penale non
risolvendosi in applicazione analogica in malam partem, l'orientamento
prevalente è approdato alla conclusione che il fine di conservazione della cosa,
che deve connotare l'apposizione del sigillo perché la sua violazione abbia
rilevanza, comprende anche il fine di impedirne l'uso, non solo quello di
preservarne la materialità.
3. Le Sezioni Unite ritengono di aderire alla soluzione data alla
dall'orientamento prevalente, sul rilievo che ad essa conducono i criteri propri
della interpretazione logica cui, ai sensi dell'art. 12 delle Disposizioni sulla
legge in generale, il giudice deve fare ricorso, con il solo limite
rappresentato dalla lettera della norma nella sua massima capacità di
espansione, per stabilire quale sia la reale intenzione del legislatore.
Intenzione che, secondo un canone ermeneutico ormai generalmente recepito e
costantemente adottato dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte,
Sez. III 13/5/08 n. 36845 con riferimento al reato di cui all'art. 674 c.p.) va
considerata non in senso soggettivo ma in senso oggettivo, come voluntas legis,
sicché non è importante tanto stabilire (soprattutto se, come nel caso di
specie, l'origine della norma è lontana nel tempo) quale fosse lo scopo
perseguito da chi l'ha redatta, quanto piuttosto individuare quale è la funzione
cui essa risponde nel contesto del sistema in cui è attualmente inserita; e ciò
al di là delle parole usate che, nella loro accezione più comune, possono non
essere, per le più svariate ragioni, le più idonee a compiutamente rivelare la
ratio della disposizione.
4. Posta questa premessa, va anzitutto rilevato, sotto il profilo storico, che
il testo dell'art. 349 del vigente codice penale, collocato nel capo riguardante
i delitti dei privati contro la pubblica amministrazione, riproduce, senza
rilevanti variazioni ai fini che qui interessano, quello del precedente art. 201
del codice penale del 1889, e che quest'ultima disposizione era stata mutuata
dai codici preunitari (il codice sardo del 1859, che ha imitato la comune
casistica del codice francese del 1810, e il codice toscano).
Si tratta dunque di una norma elaborata secondo tecniche e con riferimento a
realtà molto lontane nel tempo, sicché più che all'aspetto descrittivo è
all'esigenza da cui è ispirata che occorre avere riguardo.
Tale esigenza è stata sempre individuata dalla più autorevole dottrina e dalla
giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le molte, Sez. VI 10/12/85 n. 2109,
Manone, rv.172.144; Sez. VI 15/4/88 n. 926, Tranchino, rv.180.266; Sez. III
28/9/04 n. 42900, Giuliani, rv.230.307) nell'interesse di assicurare il normale
funzionamento della pubblica amministrazione in senso lato garantendo il
rispetto dovuto a quelle custodie materiali - meramente simboliche, in quanto
costituiscono non tanto un mezzo di impedimento fisico all'attività interdetta,
quanto piuttosto un segno di avvertimento delle conseguenze giuridiche di tale
attività - mediante le quali si manifesta la volontà dello Stato diretta a
preservare determinate cose da ogni atto di disposizione o di manomissione da
parte di persone non autorizzate.
E poiché questo interesse dello Stato si presenta in moltissimi campi - e
all'apposizione di sigilli sono legittimate a fare ricorso, per manifestare erga omnes la presenza di un siffatto vincolo giuridico su determinati beni, sia
l'autorità giudiziaria e quella di polizia, nei procedimenti penali e in quelli
civili, sia, come è avvenuto nel caso di specie, l'autorità amministrativa ai
sensi dell'art. 5 del D.P.R. 29/7/1982 n. 571 recante norme di attuazione della
legge 24/11/1981 n. 689 - l'ambito di possibile applicazione dell'art. 349 c.p.
risulta molto ampio.
5. Proseguendo nell'indagine diretta a verificare - al di là del dato letterale
su cui si fonda l'orientamento giurisprudenziale restrittivo - se esista qualche
pregnante ragione per ritenere che la voluntas legis sia di escludere dalla
tutela penale dei sigilli i casi, molto numerosi, in cui la loro apposizione è
precipuamente finalizzata a impedire l'uso della cosa assicurata con questo
mezzo piuttosto che a preservarne l'integrità, è utile ancora ricordare, sotto
il profilo sistematico, che la protezione delle cose sottoposte a vincolo è
demandata anche ad altre nome incriminatici come l'art. 334 c.p. (che punisce la
sottrazione o il danneggiamento di cose sottoposte a sequestro nel corso di un
procedimento penale o dall'autorità amministrativa), l'art. 351 c.p. (che
punisce la sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione o deterioramento
di corpi di reato, atti, documenti, ovvero un'altra cosa mobile particolarmente
custodita in un pubblico ufficio, o presso un pubblico ufficiale o un impiegato
che presti un pubblico servizio) e l'art. 388 comma 3 c.p. (che punisce la
sottrazione, soppressione, distruzione, dispersione o il deterioramento di cose,
di proprietà dell'agente, sottoposte a pignoramento ovvero a sequestro
giudiziario o conservativo).
Rispetto a queste norme - che sono tutte di portata generale, prescindendo dalla
specifica finalità per cui il vincolo sulla cosa è stato posto - quella sulla
violazione dei sigilli chiaramente rappresenta, come è stato rilevato in
dottrina, una forma di tutela "prodromica", in quanto non diretta immediatamente
sulla materialità dei beni custoditi ma incentrata sulla repressione dei
comportamenti che incidono sui segni esteriori della custodia.
6. Il profilo funzionale che emerge da quanto sinora evidenziato è dunque
decisivo, insieme a quello sistematico, per la risoluzione della questione
rimessa alle Sezioni Unite.
Ed invero, poiché il sigillo si configura come un mezzo di portata generale
destinato a rafforzare la protezione delle cose che l'autorità giudiziaria o
amministrativa è autorizzata dalla legge a rendere indisponibili per il
perseguimento dei suoi compiti istituzionali, appare del tutto coerente ritenere
che la effettiva voluntas legis sia di attribuire la stessa ampiezza anche alla
tutela penale che a tale strumento si è inteso riconoscere.
E' significativo, infatti, che in dottrina sia pervenuto a questa stessa
conclusione - sul rilievo che le finalità indicate dall'art. 349 c.p. non sono
di per sé escluse dalla eventuale compresenza di fini ed obiettivi ulteriori
rispetto alla conservazione o alla identità della cosa, che si vogliono
strumentalmente garantire - anche chi ritiene che le espressioni usate nella
norma facciano riferimento alla cosa nella sua materialità.
Come è stato rilevato nella sentenza 12/1/07 n. 6417 della III Sezione,
contrasterebbe d'altra parte in modo evidente con la ratio della incriminazione
che venissero sottratte alla tutela penale apprestata dall'art. 349 c.p. molte e
importanti ipotesi di sequestro cautelare disposto dall'autorità giudiziaria;
conseguenza questa cui si perverrebbe alla stregua dell'orientamento, formatosi
sui ricordati casi di sequestro amministrativo, che privilegia una
interpretazione strettamente letterale della norma. Ciò in particolare
accadrebbe per il sequestro preventivo penale (art. 321 c.p.p.) - in relazione
al quale l'applicabilità dell'art. 349 c.p. è stata invece specificamente
ritenuta (cfr. Sez. III 24/1/06 n. 6446, Ornano e altri, rv.233.312) - che è
preordinato proprio ad impedire la disponibilità della cosa pertinente al reato,
per evitare che dall'uso di essa possa derivare l'aggravamento o la protrazione
delle conseguenze o l'agevolazione della commissione di altri reati.
7. Va quindi affermato il principio di diritto che il reato di cui all'art. 349
c.p. è configurabile anche quando la condotta tipica abbia riguardo a sigilli
apposti per impedire l'uso illegittimo della cosa.
Pertanto il ricorso dell'imputata va rigettato con le conseguenze in ordine alle
spese processuali previste dall'art. 616 c.p.p.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite rigetta il ricorso e condanna la
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 26/11/2009.
DEPOSTATA IN CANCELLERIA 10 FEB. 2010
IL PRESIDENTE
IL CONSIGLIERE RELATORE
(dr. Tetrquato Gemelli)
(dr. Carl Brusco)
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