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1974-9562
T.A.R. LAZIO, Roma, Sez. I quater - 29 gennaio 2010, n. 1192
SICUREZZA SUL LAVORO - SALUTE - Obbligo di tutela del lavoratore contro i
rischi dal fumo passivo - Sentenza Corte Cost. n. 399/96 - Art. 51 L. n. 3/03 -
Applicabilità - Decorrenza - 10 gennaio 2005 - Amministrazioni dello Stato -
Mancata emanazione del regolamento ex art. 51, c. 4 L. n. 3/03 - Irrilevanza -
Ragioni. L’obbligo di tutela del lavoratore contro i rischi da fumo passivo
sul posto di lavoro (già evidenziato dalla Corte Cost., cfr. sentenza n. 399/96,
in forza della l. n. 584/75, degli artt. 9 e 14 del d.P.R. 19 marzo 1956, n.
303, come modificati dall'art. 33 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n.
626, nonché art. 64, lettera b) e 65, c. 2, del citato decreto n. 626 del 1994)
è stato ribadito dall’art. 51 della legge n. 3/03 che ha imposto il divieto
generale di fumo nei locali chiusi ad eccezione di quelli privati non aperti ad
utenti o al pubblico e a quelli riservati ai fumatori dotati di impianti per la
ventilazione ed il ricambio di aria regolarmente funzionanti. Tale disciplina è
applicabile a partire dal 10 gennaio 2005 (per effetto del differimento
dell’entrata in vigore della norma disposto dall’art. 19 d.l. n. 266/04) a tutte
le amministrazioni dello Stato. Peraltro, la mancata emanazione del regolamento
previsto dall’art. 51 comma 4° l. n. 3/03 non preclude alla normativa in esame
di esplicare i suoi effetti anche nei confronti dell’amministrazione, dal
momento che, secondo quanto risulta dal tenore letterale della disposizione in
esame, l’adozione della fonte secondaria non costituisce requisito di
operatività del divieto legislativamente previsto ma solo il presupposto per
l’individuazione di “eventuali ulteriori luoghi chiusi nei quali sia consentito
fumare” (fermo restando che “tale regolamento deve prevedere che in tutte le
strutture in cui le persone sono costrette a soggiornare non volontariamente
devono essere previsti locali adibiti ai fumatori”) in mancanza della quale tali
ulteriori limiti al divieto non si applicano. Pres. Guerrieri, Est. Francavilla
- F-A- (avv. D’Urso) c. Ministero della Giustiza (Avv. Stato). TAR LAZIO,
Roma, Sez. I quater - 29 gennaio 2010, n. 1192
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N. 01192/2010 REG.SEN.
N. 07125/2005 REG.RIC.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Quater)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 7125 del 2005, proposto da
FILONI ALESSANDRO elettivamente domiciliato in Roma, via Raffaele Garofano n. 9
presso lo studio dell’avv. Primo D’Urso che, unitamente all’avv. Leopoldo
Corsani, lo rappresenta e difende nel presente giudizio
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro p.t., domiciliato in Roma,
via dei Portoghesi n. 12 presso la Sede dell’Avvocatura Generale dello Stato che
ex lege lo rappresenta e difende nel presente giudizio
per l'accertamento
della mancata adozione – da parte del Ministero della Giustizia – delle misure
di sicurezza delle condizioni di lavoro presso la Casa Circondariale “N.C.” di
Civitavecchia con riferimento all’esposizione ai fumi passivi derivanti da
tabacco,
per la condanna del Ministero della Giustizia a disporre tutti i provvedimenti
necessari per la tutela della salute del ricorrente,
per la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni non
patrimoniali subiti dal ricorrente,
per l’accertamento della legittimità della richiesta del ricorrente in ordine al
riconoscimento della dipendenza da causa di servizio dell’infermità insorta il
25/07/04 e
per la condanna del Ministero a disporre l’avvio del relativo procedimento;
Visti gli atti e documenti contenuti nel fascicolo processuale;
Designato il dott. Michelangelo Francavilla quale relatore per la pubblica
udienza del 26 novembre 2009;
Uditi gli Avvocati delle parti come da verbale;
Ritenuto, in FATTO, e considerato, in DIRITTO, quanto segue:
FATTO
Con ricorso notificato il 26 luglio 2005 e depositato il 28 luglio 2005 Filoni
Alessandro ha adito il TAR per l’accertamento della mancata adozione – da parte
del Ministero della Giustizia – delle misure di sicurezza delle condizioni di
lavoro presso la Casa Circondariale “N.C.” di Civitavecchia con riferimento
all’esposizione ai fumi passivi derivanti da tabacco, per la condanna del
Ministero ad adottare le misure necessarie per la tutela della salute del
ricorrente e al risarcimento dei danni non patrimoniali, per l’accertamento
della legittimità della richiesta di riconoscimento della dipendenza da causa di
servizio dell’infermità occorsa il 25/07/04 e per la condanna del Ministero a
disporre l’avvio del relativo procedimento.
Il Ministero della Giustizia, costituitosi in giudizio con memoria depositata il
1 aprile 2009, ha chiesto il rigetto del ricorso.
All’udienza pubblica del 26 novembre 2009 il ricorso è stato trattenuto in
decisione.
DIRITTO
Il ricorso è solo parzialmente fondato e, nei limiti di quanto in prosieguo
specificato, merita accoglimento.
Filoni Alessandro, agente scelto del Corpo di polizia penitenziaria in servizio
presso la Casa Circondariale “N.C.” di Civitavecchia, chiede, innanzi tutto,
l’accertamento della mancata adozione – da parte del Ministero della Giustizia –
delle misure necessarie per la tutela delle condizioni di lavoro presso la
predetta Casa Circondariale con specifico riferimento all’esposizione ai fumi
passivi derivanti da combustione di tabacco e la conseguente condanna del
Ministero stesso ad adottare tutte le misure a tal fine prescritte dalla
normativa vigente.
La domanda è fondata e merita accoglimento.
Al fine di accertare la sussistenza del diritto per la cui tutela agisce il
ricorrente il Tribunale ritiene necessario operare una ricognizione del quadro
normativo vigente all’epoca dei fatti cui si riferisce la domanda.
Con la legge n. 584/75 è stato introdotto il divieto di fumo in una serie di
luoghi ivi specificamente previsti e, precisamente, “nelle corsie degli
ospedali, nelle aule delle scuole di ogni ordine e grado negli autoveicoli di
proprietà dello Stato, di enti pubblici e di privati concessionari di pubblici
servizi per trasporto collettivo di persone; nelle metropolitane; nelle sale di
attesa delle stazioni ferroviarie, autofilotranviarie, portuali-marittime e
aeroportuali; nei compartimenti ferroviari riservati ai non fumatori che devono
essere posti in ogni convoglio viaggiatori delle ferrovie dello Stato e nei
convogli viaggiatori delle ferrovie date in concessione ai privati; nei
compartimenti a cuccette e in quelli delle carrozze letto, occupati da più di
una persona, durante il servizio di notte” e “nei locali chiusi che siano
adibiti a pubblica riunione, nelle sale chiuse di spettacolo cinematografico o
teatrale, nelle sale chiuse da ballo, nelle sale-corse, nelle sale di riunione
delle accademie, nei musei, nelle biblioteche e nelle sale di lettura aperte al
pubblico, nelle pinacoteche e nelle gallerie d'arte pubbliche o aperte al
pubblico” (art. 1).
Con Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 dicembre 1995,
applicabile anche alle amministrazioni dello Stato (art. 1) è stata prescritta
l’applicazione della legge n. 584/77 secondo i seguenti criteri interpretativi:
“a) il divieto va applicato in tutti i locali utilizzati, a qualunque titolo,
dalla pubblica amministrazione e dalle aziende pubbliche per l'esercizio di
proprie funzioni istituzionali, nonché dai privati esercenti servizi pubblici
per l'esercizio delle relative attività, sempreché si tratti - in entrambi i
casi - di locali che in ragione di tali funzioni sono aperti al pubblico;
b) per locale "aperto al pubblico" s'intende quello al quale la generalità degli
amministrati e degli utenti accede, senza formalità e senza bisogno di
particolari permessi negli orari stabiliti;
c) il divieto va comunque applicato nei luoghi nominativamente indicati
nell'art. 1 della legge 11 novembre 1975, n. 584, ancorché non si tratti di
locali "aperti al pubblico" nel senso sopra precisato” (articolo 3 della
Direttiva).
Benché né la legge n. 584/77 né la Direttiva del 14/12/95 prevedano un generale
divieto di fumo nei luoghi di lavoro deve ritenersi che tale divieto, comunque,
sussisteva all’epoca dei fatti come ha avuto modo di affermare esplicitamente la
Corte Costituzionale.
Con la sentenza n. 399 del 20/12/96, infatti, la Consulta si è pronunciata, in
riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, sulla questione di legittimità
costituzionale sollevata dal Tribunale di Torino ed avente ad oggetto gli artt.
1, lettera a) l. n. 584/75 (Divieto di fumare in determinati locali e su mezzi
di trasporto pubblico), 9 e 14 del d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 (Norme generali
per l'igiene del lavoro), così come modificati dall'art. 33 del decreto
legislativo 19 settembre 1994, n. 626, nonché 64, lettera b) e 65, comma 2, del
citato decreto n. 626 del 1994, nella parte in cui non prevedevano il divieto di
fumare nei luoghi di lavoro chiusi.
Nell’occasione la Corte, dopo avere precisato che, secondo la sua costante
giurisprudenza (sentenze n. 218 del 1994, n. 202 del 1991, nn. 307 e 455 del
1990, n. 559 del 1987 e n. 184 del 1986), la salute è un bene primario che
assurge a diritto fondamentale della persona ed impone piena ed esaustiva
tutela, tanto da operare sia in ambito pubblicistico che nei rapporti di diritto
privato, ha rilevato che la tutela della salute riguarda la generale e comune
pretesa dell'individuo a condizioni di vita, di ambiente e di lavoro che non
pongano a rischio questo suo bene essenziale ed implica non solo situazioni
attive di pretesa, ma anche - oltre che misure di prevenzione - il dovere di non
ledere né porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui.
Alla luce di tali considerazioni la Consulta ha, pertanto, ritenuto
inammissibile la questione di legittimità costituzionale per l’erroneità del
presupposto su cui si fondava l’ordinanza di rimessione ovvero che “il vigente
sistema normativo non offre comunque altri strumenti idonei a tutelare la salute
dei lavoratori così come voluto dalla Costituzione”.
Ed, infatti, secondo la Corte, “pur non essendo ravvisabile nel diritto positivo
un divieto assoluto e generalizzato di fumare in ogni luogo di lavoro chiuso, è
anche vero che nell'ordinamento già esistono disposizioni intese a proteggere la
salute dei lavoratori da tutto ciò che è atto a danneggiarla, ivi compreso il
fumo passivo. Se alcune norme prescrivono legislativamente il divieto assoluto
di fumare in speciali ipotesi, ciò non esclude che da altre disposizioni
discenda la legittimità di analogo divieto con riguardo a diversi luoghi e
secondo particolari circostanze concrete; è inesatto ritenere, comunque, che
altri rimedi voluti dal vigente sistema normativo siano inidonei alla tutela
della salute dei lavoratori anche rispetto ai rischi del fumo passivo. Ed
invero, non sono soltanto le norme costituzionali (artt. 32 e 41) ad imporre ai
datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e
dell'integrità fisica dei lavoratori; numerose altre disposizioni, tra cui la
disciplina contenuta nel decreto legislativo n. 626 del 1994, assumono in
proposito una valenza decisiva. L'art. 2087 del codice civile stabilisce che
l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure
che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono
necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori
di lavoro. La Cassazione (sentenza n. 5048 del 1988) ha ritenuto che tale
disposizione come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento
permanente dell'ordinamento alla sottostante realtà socio-economica e pertanto
vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore
di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a quest'ultima di
adeguamento di essa al caso concreto. Analogamente gli artt. 1, 4 e 31 del
decreto legislativo del 19 settembre 1994, n. 626, dispongono che il datore di
lavoro, in relazione alla natura dell'attività dell'azienda ovvero dell'unità
produttiva, debba valutare, anche nella sistemazione dei luoghi di lavoro, i
rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori, adottare le misure
necessarie, e aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti
organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e della
sicurezza, riaffermando l'obbligo di "adeguare i luoghi di lavoro alle
prescrizioni di sicurezza e di salute. Con più specifico riferimento alla
salubrità dell'aria nei locali di lavoro chiusi, l'art. 9 del d.P.R. 19 marzo
1956, n. 303, modificato dall'art. 16 del decreto legislativo 19 marzo 1996, n.
242, stabilisce la necessità che i lavoratori dispongano di aria salubre in
quantità sufficiente, anche ottenuta con impianti di aerazione; impianti che
peraltro devono essere sempre mantenuti in efficienza e devono funzionare in
modo che i lavoratori non siano esposti a correnti d'aria fastidiose. E
all'ultimo comma di detto art. 9 si soggiunge che qualsiasi sedimento che
potrebbe comportare un pericolo per la salute dei lavoratori dovuto
all'inquinamento dell'aria respirata deve essere eliminato rapidamente" (Corte
Cost. n. 399/96).
Secondo la Corte, pertanto, già sulla base delle disposizioni richiamate, di
natura non solo programmatica ma precettiva, il datore di lavoro deve attivarsi
per verificare che in concreto la salute dei lavoratori sia adeguatamente
tutelata e per adottare le misure organizzative sufficienti a conseguire il fine
della protezione dal fumo passivo in modo conforme al principio costituzionale
dell'art. 32 di talchè la tutela preventiva dei non fumatori nei luoghi di
lavoro può ritenersi soddisfatta quando, mediante una serie di misure adottate
secondo le diverse circostanze, il rischio derivante dal fumo passivo, se non
eliminato, sia ridotto ad una soglia talmente bassa da far ragionevolmente
escludere che la loro salute sia messa a repentaglio (Corte Cost. n. 399/96).
L’obbligo di tutela del lavoratore contro i rischi da fumo passivo sul posto di
lavoro è stato, poi, ribadito dall’art. 51 della legge n. 3/03 che ha imposto il
divieto generale di fumo nei locali chiusi ad eccezione di quelli privati non
aperti ad utenti o al pubblico e a quelli riservati ai fumatori dotati di
impianti per la ventilazione ed il ricambio di aria regolarmente funzionanti.
Tale disciplina è applicabile a partire dal 10 gennaio 2005 (per effetto del
differimento dell’entrata in vigore della norma disposto dall’art. 19 d.l. n.
266/04) a tutte le amministrazioni dello Stato e, quindi, anche al Ministero
della Giustizia.
Per altro, la mancata emanazione del regolamento previsto dall’art. 51 comma 4°
l. n. 3/03 non preclude alla normativa in esame di esplicare i suoi effetti
anche nei confronti dell’amministrazione resistente, come, invece,
infondatamente dedotto dal Ministero nella memoria conclusionale, dal momento
che, secondo quanto risulta dal tenore letterale della disposizione in esame,
l’adozione della fonte secondaria non costituisce requisito di operatività del
divieto legislativamente previsto ma solo il presupposto per l’individuazione di
“eventuali ulteriori luoghi chiusi nei quali sia consentito fumare” (fermo
restando che “tale regolamento deve prevedere che in tutte le strutture in cui
le persone sono costrette a soggiornare non volontariamente devono essere
previsti locali adibiti ai fumatori”) in mancanza della quale tali ulteriori
limiti al divieto non si applicano.
Quanto fin qui evidenziato induce, pertanto, a ritenere che all’epoca cui si
riferiscono i fatti oggetto di causa la normativa vigente imponeva al datore (ed
impone ancora oggi) di adottare sui luoghi di lavoro misure idonee volte a
prevenire il rischio – per i lavoratori – derivante dall’esposizione al fumo
passivo.
Tale opzione ermeneutica, del resto, è confermata dalla stessa lettera circolare
prot. n. PU-GDAP 0141749-2002 del 25/03/02 con cui il Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria ha dettato le disposizioni attuative della
legge n. 584/75 proprio sul presupposto dell’applicabilità del divieto, ivi
previsto, anche alle strutture penitenziarie ed ha, pertanto, stabilito
l’adozione di “misure organizzative (di tipo logistico o di tipo tecnico) idonee
a risolvere problemi di coesistenza dei fumatori e non fumatori”.
Dalla normativa citata emerge, pertanto, l’obbligo del Ministero intimato di
adottare misure organizzative idonee a prevenire il rischio per i dipendenti
derivante dall’esposizione a fumo passivo.
Dalle fonti di prova acquisite in giudizio non risulta, però, che tali misure
siano state adottate nella Casa Circondariale “N.C.” di Civitavecchia ove il
ricorrente presta servizio.
Un’esplicita ammissione in tal senso è desumibile dalla nota del 21/04/05 con
cui il direttore della Casa Circondariale dell’epoca ha evidenziato, in
relazione all’applicazione della normativa sulla tutela dei rischi da fumo, di
essersi limitato ad apporre i cartelli contenenti il divieto ed ha lamentato,
per il resto, la difficoltà di adottare nella struttura penitenziaria le misure
organizzative richieste dalla legge.
La circostanza in esame è stata, poi, confermata dalle concordi risultanze delle
testimonianze assunte dal Collegio (a mezzo del Giudice all’uopo delegato) in
data 08/10/09.
Dalla prova testimoniale è, in particolare, emerso che presso la Casa
Circondariale di Civitavecchia:
- il divieto di fumo non è mai stato rispettato (la contraria dichiarazione del
direttore Tressanti è compatibile con l’impossibilità di essere sempre
personalmente sui luoghi di lavoro frequentati dal ricorrente) né sono mai state
applicate sanzioni per tale violazione;
- il Filoni, come altri dipendenti, è stato esposto al fumo passivo. La
circostanza è stata affermata esplicitamente dal solo teste Nurchi ma è
supportata anche dall’accertata generalizzata e continua inosservanza del
divieto, circostanza di cui il ricorrente si è più volte lamentato con i
superiori gerarchici (come confermato dal direttore Tressanti), e
dall’inesistenza di aree riservate per i fumatori. La dichiarazione degli altri
testi di non avere direttamente visto il Filoni subire il fumo è, pertanto,
compatibile con l’accertamento di tale elemento di fatto ed è spiegabile in
ragione delle varie modalità di svolgimento del servizio da parte degli
interessati;
- non vi sono impianti di aerazione (se non nei bagni) ed alcune delle finestre
esistenti presso la struttura sono a compasso e, quindi, assicurano un ridotto
ricambio d’aria;
- non è stata effettuata – dagli organi competenti - una valutazione dei rischi
da esposizione al fumo passivo né è stata fornita ai lavoratori alcuna
informazione in proposito;
- a parte l’apposizione di cartelli antifumo non sono state adottate ulteriori
misure organizzative finalizzate a prevenire l’esposizione dei lavoratori dai
rischi da fumo passivo;
- per il controllo dell’osservanza del divieto di fumo è stato nominato un
dipendente che espletava anche le funzioni istituzionali di addetto alla
manutenzione ordinaria del fabbricato.
Tali univoche risultanze sono particolarmente significative perché emergenti
dalle dichiarazioni di tutti i testi escussi, ivi compresi quelli citati ad
istanza dell’amministrazione resistente.
In quest’ottica appaiono particolarmente significative le dichiarazioni rese dal
direttore Tressanti il quale ha sostanzialmente confermato le circostanze di
fatto poste dal ricorrente a fondamento della domanda di accertamento
evidenziando che l’amministrazione non gli aveva fornito la possibilità
materiale di adottare le misure organizzative idonee a prevenire i rischi per i
lavoratori derivanti dall’esposizione al fumo passivo.
Quanto fin qui evidenziato induce il Tribunale ad accogliere le domande con cui
il Filoni ha chiesto l’accertamento della mancata adozione – da parte del
Ministero della Giustizia – delle misure necessarie per la tutela delle
condizioni di lavoro presso la Casa Circondariale di Civitavecchia con
riferimento all’esposizione dei lavoratori ai fumi passivi derivanti da
combustione di tabacco e la conseguente condanna del Ministero ad adottare tutte
le misure a tal fine prescritte dalla normativa vigente.
E’, altresì, fondata la domanda con cui il ricorrente chiede il risarcimento dei
danni non patrimoniali subiti per effetto della mancata adozione delle misure di
tutela dei lavoratori volte a prevenire i rischi derivanti dall’esposizione al
fumo.
Va, innanzi tutto, disattesa – sul punto - l’eccezione di difetto di
giurisdizione sollevata dal Ministero resistente nella memoria conclusionale.
Secondo quanto stabilito dalla Suprema Corte, ai fini del riparto di
giurisdizione rispetto ad una domanda di risarcimento del danno proposta da un
pubblico dipendente appartenente ad una delle categorie previste dall’art. 3 d.
lgs. n. 165/01, nelle quali rientra il ricorrente, assume valore determinante
l'accertamento della natura giuridica dell'azione di responsabilità in concreto
proposta, in quanto, se si tratta di azione contrattuale, la cognizione della
domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo,
mentre, se vi è un’azione extracontrattuale, la giurisdizione appartiene al
giudice ordinario (Cass. SS.UU. n. 5468/09; Cass. SS.UU. n. 5785/08).
Nella fattispecie, come risulta dall’inequivoco tenore letterale dell’atto
introduttivo e dalle argomentazioni logiche ivi contenute (si veda, in
particolare, pagina 9), la domanda di risarcimento del danno è stata proposta
sulla base della dedotta violazione dell’art. 2087 c.c. e, quindi, dell’obbligo
contrattuale di sicurezza previsto dalla norma in esame a carico del datore di
lavoro.
Va, in merito, precisato che con la sentenza n. 11611/05 il Tribunale di Roma –
sezione lavoro, nella controversia insorta a seguito del ricorso proposto dal
Filoni, ha ritenuto la propria giurisdizione sulla domanda di risarcimento del
danno sul presupposto della qualificazione – operata in quella sede – come
extracontrattuale dell’azione ivi proposta il che non inibisce la proposizione
in questo giudizio della diversa domanda contrattuale salva la preclusione
derivante dall’impossibilità di liquidare più volte la stessa voce di danno.
Per altro, nella fattispecie nemmeno l’amministrazione ha dedotto che il
ricorrente abbia già conseguito un risarcimento del danno non patrimoniale
mentre dagli atti risulta solo la declaratoria d’incompetenza del Tribunale di
Roma a favore di quello di Civitavecchia.
Circa il merito della pretesa azionata il Tribunale rileva che il ricorrente
(pag. 10 dell’atto introduttivo) ha richiesto, innanzi tutto, il risarcimento
per la lesione del diritto alla salute; tale danno, però, non può essere
riconosciuto non avendo il Filoni offerto prova idonea dell’esistenza di una
menomazione fisio-psichica giuridicamente apprezzabile e ciò nonostante ne
avesse l’onere secondo i principi che, ai sensi dell’art. 2697 c.c., regolano la
materia.
Deve, invece, essere accolta la domanda di risarcimento per il “danno non
patrimoniale” identificato dal ricorrente (pag. 10 dell’atto introduttivo)
“nella privazione della propria serenità e tranquillità” derivante dall’avere
lavorato in un ambiente non salubre.
In ordine alla risarcibilità di tale voce di danno deve richiamarsi il recente
orientamento della Suprema Corte che con la sentenza n. 26972/08, resa a Sezioni
Unite, ha evidenziato che il danno non patrimoniale previsto dall’art. 2059 c.c.
“si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la
persona non connotati da rilevanza economica” e non è tutelato solo nei casi
espressamente previsti dalla legge ma, “in virtù del principio della tutela
minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è
estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti
inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione”.
Tale danno non patrimoniale, sempre secondo la citata sentenza delle Sezioni
Unite (confermata in prosieguo dalla sentenza della Cass. SS.UU. n. 3677/09),
sussiste anche in riferimento alle violazioni di obblighi contrattuali
nell'ambito del rapporto di lavoro e, in particolare, in relazione alla
violazione dell'obbligo dell'imprenditore di tutelare l'integrità fisica e la
personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.) in quanto vengono in rilievo
diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono
assurti in virtù della Costituzione, grazie all'art. 32 Cost., quanto alla
tutela dell'integrità fisica, ed agli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla
tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili: “si verte,
in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito
contrattuale legislativamente prevista” (Cass. SS.UU. n. 26972/08).
Proprio il riferimento agli artt. 1, 2, 4, 32 e 35 Cost. induce il Tribunale a
ritenere che il diritto ad un ambiente di lavoro salubre sia costituzionalmente
garantito e, come tale, risarcibile quale danno non patrimoniale subito dal
dipendente che abbia visto tale diritto illegittimamente compromesso a
prescindere da ogni effetto sul diritto alla salute.
Accertata l’esistenza della posizione giuridica soggettiva legittimante la
domanda risarcitoria e della violazione dell’obbligo contrattuale - gravante sul
datore - di adottare misure idonee a prevenire il rischio dell’esposizione da
fumo dei lavoratori, il Tribunale ritiene che la conseguente liquidazione del
danno debba essere effettuata in via equitativa ex art. 1226 c.c. tenendo conto
non solo della natura del diritto leso ma anche della durata di tale lesione
(che nella fattispecie si è protratta negli anni) e della gravità della stessa
(anche per l’interferenza con il diritto alla salute).
Per questi motivi, il Collegio ritiene di liquidare tale voce di danno
all’attualità (e, quindi, con accessori già compresi nella predetta
liquidazione) in euro quattromila/00.
Devono, invece, essere respinte le domande del ricorrente aventi ad oggetto
l’accertamento della legittimità della richiesta avanzata per il riconoscimento
della dipendenza da causa di servizio dell’infermità riportata il 25/07/04 e la
condanna del Ministero all’avvio del relativo procedimento.
Va, innanzi tutto, rilevato che il ricorrente non risulta avere presentato la
“domanda scritta all'ufficio o comando presso il quale presta servizio,
indicando specificamente la natura dell'infermità o lesione, i fatti di servizio
che vi hanno concorso e, ove possibile, le conseguenze sull'integrità fisica,
psichica o sensoriale e sull'idoneità al servizio, allegando ogni documento
utile” entro sei mesi dalla data in cui si è verificato l'evento dannoso o da
quella in cui ha avuto conoscenza dell'infermità o della lesione come sarebbe
stato necessario ai sensi dell’art. 2 d.p.r. n. 461/01 posto che
l’amministrazione non ha ritenuto sussistenti i presupposti per l’avvio
d’ufficio del procedimento ex art. 3 del medesimo testo normativo.
In particolare, la nota del 23/11/04 emessa dal Direttore della Casa
Circondariale (con cui lo stesso nega che vi sia un nesso tra l’espletamento del
servizio e la patologia dedotta) riscontra, come ivi espressamente evidenziato,
una richiesta del Filoni del 12/11/04 (prodotta in giudizio dall’amministrazione
in data 7 maggio 2009) che non costituisce in alcun modo una domanda di
riconoscimento dell’infermità da causa di servizio ma, anzi, presuppone essa
stessa una successiva domanda (questo il tenore letterale dell’atto: “il
sottoscritto agente scelto Filoni Alessandro… chiede alla S.V. che gli vengano
forniti i motivi per i quali non posso avanzare richiesta di causa di servizio
per un incidente avvenutomi durante l’orario di servizio”).
La mancanza dell’istanza dell’interessato di riconoscimento della dipendenza da
causa di servizio, presentata nel termine stabilito dall’art. 2 d.p.r. n. 761/01
e corredata dalla documentazione ivi prevista, osta all’accoglimento della
domanda di accertamento, formulata dal ricorrente nel giudizio ed avente ad
oggetto un atto in realtà inesistente, e, più a monte, alla stessa attribuzione
del beneficio previsto dal d.p.r. n. 461/01.
Solo per esigenza di completezza il Tribunale rileva che le lesioni dedotte dal
ricorrente e, soprattutto, la loro eziologia non appaiono univocamente
riconducibili all’aggressione menzionata nell’atto introduttivo in quanto il
certificato del pronto soccorso non contiene specifiche indicazioni in tal senso
(laddove la prognosi potrebbe essere verosimilmente riconducibile allo stato
febbrile ivi riscontrato) e gli ulteriori certificati medici prodotti si
limitano a riportare una patologia – ovvero una “lieve sindrome del tunnel
carpale bilaterale” - non riferibile in via probabilistica all’evento posto a
base della domanda (nel certificato del 25/10/04 si parla di “sindrome che
potrebbe verosimilmente essere stata esacerbata dall’incidente del 25/07/04”).
Per questi motivi il Tribunale:
1) accerta la mancata adozione – da parte del Ministero della Giustizia – delle
misure necessarie per la tutela delle condizioni di lavoro presso la Casa
Circondariale di Civitavecchia con specifico riferimento all’esposizione dei
lavoratori ai fumi passivi derivanti da combustione di tabacco e, per l’effetto,
condanna il Ministero della Giustizia ad ivi adottare tutte le misure a tal fine
prescritte dalla normativa vigente;
2) condanna il Ministero della Giustizia a risarcire il danno non patrimoniale
subito dal ricorrente il cui importo si liquida all’attualità (e, quindi, con
gli accessori di legge fino ad oggi dovuti) in complessivi euro quattromila/00;
3) rigetta le domande con cui il ricorrente ha chiesto l’accertamento della
legittimità della richiesta avanzata per il riconoscimento della dipendenza da
causa di servizio dell’infermità riportata il 25/07/04 e la condanna del
Ministero all’avvio del relativo procedimento.
L’accoglimento solo parziale delle domande formulate dal ricorrente giustifica,
ai sensi dell’art. 92 c.p.c., la compensazione delle spese processuali in
ragione della misura della metà delle stesse.
La parte residua, il cui importo viene liquidato come da dispositivo con
attribuzione ai difensori del ricorrente come da specifica richiesta contenuta
nell’atto introduttivo, deve essere posta a carico del Ministero della Giustizia
in ragione della prevalente soccombenza dello stesso;
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale Del Lazio – Sede di Roma, Sezione Interna
I Quater:
1) accerta la mancata adozione – da parte del Ministero della Giustizia – delle
misure necessarie per la tutela delle condizioni di lavoro presso la Casa
Circondariale di Civitavecchia con specifico riferimento all’esposizione dei
lavoratori ai fumi passivi derivanti da combustione di tabacco e, per l’effetto,
condanna il predetto Ministero ad ivi adottare tutte le misure a tal fine
prescritte dalla normativa vigente;
2) condanna il Ministero della Giustizia a risarcire il danno non patrimoniale
subito dal ricorrente il cui importo si liquida all’attualità (e, quindi, con
gli accessori di legge fino ad oggi dovuti) in complessivi euro quattromila/00;
3) rigetta le domande con cui il ricorrente ha chiesto l’accertamento della
legittimità della richiesta avanzata per il riconoscimento della dipendenza da
causa di servizio dell’infermità insorta il 25/07/04 e la condanna del Ministero
all’avvio del relativo procedimento;
4) dispone la compensazione delle spese processuali nella misura di metà delle
stesse e condanna il Ministero della Giustizia a pagare, in favore del
ricorrente, la parte non compensata delle predette spese che si liquidano – per
la parte non compensata – in complessivi euro mille/00, per diritti ed onorari,
oltre IVA e CPA come per legge, con attribuzione ex art. 93 c.p.c. del relativo
importo ai difensori del ricorrente.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di Consiglio del giorno 26 novembre 2009 con
l'intervento dei Magistrati:
Pio Guerrieri, Presidente
Antonella Mangia, Consigliere
Michelangelo Francavilla, Primo Referendario, Estensore
L'ESTENSORE
IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 29/01/2010
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
IL SEGRETARIO
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