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CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III, 13/5/2011 (Ud. 24/2/2011), Sentenza n. 18895



DIRITTO URBANISTICO - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di abuso d'ufficio - Configurabilità - Vantaggio privato affiancato ad una finalità pubblica - Fattispecie - Art. 323 c.p..
Nell'ipotesi di reato contenuta nell’articolo 323 c.p., occorrerà verificare quali sia stato il vero fine, vantaggio privato o finalità pubblica, che ha mosso l'agente ed in che misura un fine abbia avuto la prevalenza sull'altro ed escludere il reato allorché il fine pubblico ha avuto la prevalenza sull'altro. In definitiva il vantaggio o danno per il privato può essere affiancato anche da una finalità pubblica che rappresenti una mera occasione o pretesto per coprire la condotta illecita. (Fattispecie: lavori realizzati in totale difformità dalla concessione edilizia). (riforma sentenza della Corte d'appello di Roma del 4/5/2010) Pres. Ferrua, Est. Petti, Ric. Cesaroni ed altri. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III, 13/5/2011 (Ud. 24/2/2011), Sentenza n. 18895


PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di abuso d'ufficio - Elemento soggettivo del reato - Fine politico dell’agente - Antitesi con la finalità altruistica e collettiva - Fattispecie: Sindaco con smania di protagonismo e finalità propagandistica per aumentare il consenso elettorale - Art. 323 c.p..
Ai sensi dell’art. 323 c.p. (abuso d'ufficio) il perseguimento del fine pubblico dell’agente non vale ad escludere il dolo sotto il profilo dell’intenzionalità, allorché, rappresenti un mero pretesto con il quale venga mascherato l’obiettivo reale della condotta. Sicché, il vantaggio o danno per il privato può essere affiancato anche da una finalità pubblica che rappresenti una mera occasione o pretesto per coprire la condotta illecita. La finalità pubblica non deve essere confusa con il fine politico dell’agente, con l’esigenza di dimostrare la propria capacità di “governo” ai consociati, con la smania di protagonismo, con la finalità propagandistica, con l’aspirazione ad aumentare il consenso elettorale perché questi sono motivi egoistici che si pongono in antitesi con la finalità altruistica e collettiva che deve connotare la finalità pubblica. (Fattispecie: lavori realizzati in totale difformità dalla concessione edilizia da parte del Sindaco con smania di protagonismo e finalità propagandistica per aumentare il consenso elettorale). (riforma sentenza della Corte d'appello di Roma del 4/5/2010) Pres. Ferrua, Est. Petti, Ric. Cesaroni ed altri. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III, 13/5/2011 (Ud. 24/2/2011), Sentenza n. 18895


PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Condotta del sindaco - Violazione della normativa di settore - Reato di abuso d'ufficio - Configurabilità - Fattispecie: Esautorazione e sostituzione di funzionari con altri più compiacente e malleabili - Art. 323 c.p.. Integra il reato di abuso d'ufficio la condotta del sindaco di un Comune che, in violazione della normativa di settore, conferisca un incarico dirigenziale a persona priva dei requisiti di legge, arrecando così intenzionalmente un danno ingiusto al dirigente che ne ha diritto. Il perseguimento del fine pubblico dell'agente non vale ad escludere il dolo dell'abuso d'ufficio sotto il profilo dell'intenzionalità allorché rappresenti un mero pretesto con il quale venga mascherato l'obiettivo reale della condotta. (Cass. Sez. VI 19/05/2010 n.23421). (Nella specie: funzionari del comune che avevano espresso parere contrario, sono stati esautorati e sostituiti con altri più compiacente e malleabili). (riforma sentenza della Corte d'appello di Roma del 4/5/2010) Pres. Ferrua, Est. Petti, Ric. Cesaroni ed altri. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III, 13/5/2011 (Ud. 24/2/2011), Sentenza n. 18895


PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Opera economicamente svantaggiosa per la P.A. - Finalità pubblica - Esclusione - Concetto di pubblica utilità - Principio del buon andamento della P.A. - Art. 97 Cost. - Ordine illegittimo del sindaco - Violazione di legge e tutela della finalità pubblica - Reato di abuso d'ufficio - Configurabilità - Art. 323 c.p.. La finalità pubblica non può essere realizzata ad "ogni costo" o "a qualsiasi prezzo". Non si può parlare di realizzazione di una finalità pubblica, ma eventualmente di finalità politica personale dell'agente, se l'opera è economicamente svantaggiosa per la pubblica amministrazione. Il concetto di pubblica utilità non può prescindere dall'osservanza, anche sotto il profilo economico, del principio del buon andamento della pubblica amministrazione. Nei fatti, con la riforma del 1997 si è sì ridotta l'area d'intervento del giudice penale in materia di abuso d'ufficio, ma non si è abrogato l'articolo 97 della Costituzione. Pertanto, in presenza di una macroscopica violazione di legge posta a tutela della finalità pubblica e di un vantaggio patrimoniale arrecato al privato, è difficilmente configurabile il contemporaneo interesse pubblico, specialmente quando la finalità pubblica venga realizzata a costi economici esorbitanti. Si configura, invece, il reato di abuso d'ufficio (art. 323 c.p.). (riforma sentenza della Corte d'appello di Roma del 4/5/2010) Pres. Ferrua, Est. Petti, Ric. Cesaroni ed altri. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III, 13/5/2011 (Ud. 24/2/2011), Sentenza n. 18895


PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di abuso d'ufficio - Dolo intenzionale - Elementi. Il dolo intenzionale, quale atteggiamento psicologico dell'agente, deve ovviamente desumersi dai comportamenti tenuti prima durante e dopo la condotta ed in particolare modo dall'evidenza delle violazioni, dalla competenza dell'agente, dalla reiterazione e gravità delle violazioni, dai rapporti tra agente e soggetto favorito o danneggiato ed, in caso di compresenza di più fini, dalla comparazione dei rispettivi vantaggi o svantaggi; dall'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge (Cass. Sez. VI, n 41365/2006). (riforma sentenza della Corte d'appello di Roma del 4/5/2010) Pres. Ferrua, Est. Petti, Ric. Cesaroni ed altri. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III, 13/5/2011 (Ud. 24/2/2011), Sentenza n. 18895


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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. III Penale


Composta dai sigg. magistrati:


Dott. Giuliana Ferrua                                                 Presidente
Dott. Ciro Petti                                                         Consigliere
Dott. Alfredo Maria Lombardi                                     Consigliere
Dott. Guida Mulliri                                                     Consigliere
Dott. Luca Ramacci                                                  Consigliere

Ha pronunciato la seguente


SENTENZA


- Sul ricorso proposto dal pubblico ministero nei confronti di:
1) Cesaroni Bruno, nato a Bassiano il 7 aprile del 1944;
2) Righini Lino, nato a Latina l'8 novembre del 1939;.
3) Pagliei Carla, nata a Roma il 14 settembre del 1959;
4) Nardini Francesco, nato a Velletri il 1° gennaio del 1949;
5) Cianfano Fausto, nato a Roma il 23 gennaio del 1948;
6) Evangelisti Giancarlo, nato a Velletri il 7 novembre del 1950;
- avverso la sentenza della Corte d'appello di Roma del 4 maggio del 2010;
- Udita la relazione svolta dal consigliere dott. CiroPetti;
- sentito il Procuratore generale nella persona del dott. Guglielmo Passacantando il quale ha concluso per il rigetto del ricorso;
- uditi i difensori avv.ti Lemme Fabrizio Vittorio e Moggiorelli.G.B, i quali hanno concluso per il rigetto del ricorso del P.M nonché Palazzi Anna che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;


IN FATTO


Con sentenza del 4 maggio del 2010, la Corte d'appello di Roma confermava quella resa dal tribunale di Velletri il 5 maggio del 2008, con cui, per quanto ancora rileva in questa fase, gli imputati indicati in epigrafe erano stati assolti dai delitti di abuso d'ufficio loro contestati ai capi A), B) e D) con la formula " perché il fatto non costituisce reato".


Il presente procedimento ha avuto origine dalla deliberazione del 24 maggio del 2000,con cui il Consiglio Comunale di Velletri, preso atto che il Comune era decaduto dal potere ablatorio senza avere espropriato l'intera superficie necessaria per la realizzazione di un Centro Culturale Amministrativo, aveva deciso di cedere le aree già acquistate ad una società, che era proprietaria di altre aree nella zona, per consentirle di realizzare l'opera programmata dall'Amministrazione. A detta delibera aveva fatto seguito la stipulazione di una convenzione, tra la società ed il Comune, ed il rilascio di una concessione edilizia e successivamente di una concessione in sanatoria per una variante in corso d'opera.


Ai prevenuti erano stati contestati tre reati di abuso d'ufficio ex articolo 323 c.p. (capi A, B, e D) nonché la contravvenzione di cui all'articolo 20 lettera b) della legge n 47 del 1985, per lavori realizzati in totale difformità dalla concessione edilizia (capo C).


Gli estremi del reato di abuso d' ufficio sono stati dal P.M. ravvisati nel contenuto della delibera consiliare del 24-5¬2000 (capo A), nel parere favorevole espresso nella seduta del 20 ottobre del 2000 dai componenti la commissione edilizia e dal dirigente l'ufficio urbanistico, nel rilascio della concessione edilizia (capo B) e successivamente nel rilascio della concessione edilizia in sanatoria del 28 agosto del 2003 (capo D), mentre per la realizzazione dell'opera in totale difformità dalla concessione (teatro in sostituzione della sala conferenza) è stata contestata la relativa contravvenzione edilizia (capo C), poi dichiarata estinta per prescrizione.


Secondo la ricostruzione fattuale contenuta nelle sentenze di merito l'area di mq 6789 su cui avrebbe dovuto sorgere il centro era stata individuata in un comprensorio che il Piano regolatore del Comune di Velletri, approvato nel 1976, aveva destinato, come previsto dalla legge n 167 del 1962, a piano di zona per l'edilizia economica e popolare. I1 piano aveva una durata di 18 anni, termine che era già decorso senza che il comune avesse potuto espropriare tutte le aree necessarie per l'attuazione del piano stesso , in quanto aveva acquisito aree per mq 3989 a fronte dei mq 6789 necessari per l'intervento edilizio. La COGEMI, proprietaria della superficie non espropriata,che già nel 1989 aveva manifestato la propria intenzione di realizzare il Centro Culturale, dopo che era intervenuta la decadenza, in data 25 febbraio del 1998, aveva proposto l'acquisto ex articolo 35 della legge 22 ottobre del 1971 n 865 delle aree espropriate al fine di realizzare l'opera con proprie risorse con l'impegno di darla in locazione al Comune a canoni convenzionati e con il diritto di opzione di acquisto su una parte del complesso. In sede consiliare alcuni esponenti di minoranza avevano sottolineato l'impossibilità della cessione ad un privato di aree facenti parte del patrimonio indisponibile del Comune con il rischio di subire azioni di retrocessione da parte dei proprietari espropriati. Per superare tali perplessità l'amministrazione diretta dal Cesaroni aveva chiesto e sollecitato pareri a funzionari e studi legali. Tali pareri, secondo il tribunale, non erano per l'Amministrazione funzionali ad un'approfondita conoscenza del problema ed ad una successiva meditata decisione, ma a supportare (se ed in quanto conformi) una decisione in pectore già adottata in modo da conferirle una veste di correttezza e legittimità amministrativa (cfr. la motivazione della sentenza di primo grado alla pag 3). Secondo il tribunale il Cesaroni intendeva a tutti i costi realizzare l'opera per attribuire all'operato della propria amministrazione il merito della realizzazione.


Nella cessione in proprietà ad un privato di un bene patrimoniale indisponibile l'accusa aveva ravvisato la violazione di norme che vietano la cessione di beni patrimoniali indisponibili, peraltro a licitazione privata e non con gara pubblica e non a prezzo di mercato, ma a prezzo d'esproprio L'operazione aveva danneggiato il Comune ed avvantaggiato il Cianfano perché:
a) il Cianfano, proprietario di un terreno ricadente in un piano di zona, che avrebbe potuto essere acquisito dal Comune a prezzo di esproprio e che, comunque, ad opera del privato non era suscettibile di sfruttamento edilizio, era riuscito a farsi cedere dal Comune, a trattativa privata ed a prezzo di esproprio, altra
area, di superficie di poco superiore alla sua, su cui realizzare un edificio di rilevanti dimensioni e di rilevante valore in tal modo ottenendo un valore edificatorio sull'intera area dell'intervento;
b) nella convenzione il Cianfano era riuscito a far inserire clausole di estremo vantaggio per la sua società e di scarso vantaggio per il Comune: a favore dell'ente era riconosciuta un'opzione di acquisto da esercitarsi entro 2 anni dall’inizio della locazione e, quindi, in termine estremamente ridotto rispetto a quello di 20-30- anni previsto dalla legge, di guisa che era prevedibile che il Comune (che, anche per la indisponibilità di fondi, aveva demandato al privato la realizzazione dell'opera a sue spese), non avrebbe esercitato il diritto di opzione ed in effetti non lo fece. Alla società era stato, invece, riconosciuto il diritto di gestire l'intero complesso, destinato a servizi pubblici, senza che fosse stato previsto a suo carico il pagamento di un canone per la concessione e senza alcuna interferenza del Comune. Non era stato stabilito né il prezzo d'acquisto né il canone della locazione. Ulteriori profili d'illegittimità, che avevano avvantaggiato il Cianfano, sono stati ravvisati nell'insufficienza dei parcheggi, realizzati peraltro in parte su suolo comunale, e nell'inadeguatezza del contributo del costo di costruzione nonché nel contrasto della concessione edilizia con la destinazione d'uso prevista dallo strumento urbanistico.


Relativamente all'abuso contestato al capo D), l'unico che rileva in questa sede, secondo i giudici del merito le violazioni di legge consistevano nel mancato contenimento dell'edificio nella sagoma d'ingombro, nel mancato rispetto dell'altezza, nella violazione dell'obbligo di assicurare a parcheggio una superficie rapportata a quella dell'intervento, nell'accettazione del versamento a titolo di oblazione di una somma inferiore a quella dovuta.


La Corte territoriale, pur non escludendo le illegittimità e le palesi violazioni di legge contestate dal pubblico ministero e sinteticamente dianzi evidenziate e, pur affermando che il Cesaroni era certamente consapevole del vantaggio arrecato al Cianfano, ha tuttavia escluso il dolo intenzionale dell'abuso per tutti e tre le fattispecie conteste, in quanto, non v'era prova che il sindaco avesse agito al fine primario di arrecare intenzionalmente vantaggio ad un privato, posto che voleva realizzare,sia pure ad ogni costo, il Centro Culturale che aveva rilevanza pubblica. Per quanto concerne l'abuso sub D), unica fattispecie, come già evidenziato, oggetto del presente ricorso ed unica fattispecie allo stato non ancora prescritta, pur dando per pacifiche le illegittimità evidenziate dal pubblico ministero, ha osservato che, se si era esclusa la possibilità di rinvenire piena prova del dolo intenzionale con riferimento ai delitti contestati ai capi A) e B) e cioè all'attività relativa alla cessione delle aree ed alla convenzione per l'esecuzione e locazione del centro, appariva assai problematico postulare che una volta ritenuta non sanzionabile penalmente l'attività che aveva fissato i diritti ed i rapporti tra le parti in relazione all'opera nel suo complesso, potesse ritenersi autonomamente sussistente il dolo intenzionale solo per la variante in corso d'opera richiesta alla COGEMI direttamente dal Cesaroni.


Ricorre il Procuratore generale presso la Corte d'appello di Roma nei confronti delle sole persone indicate in rubrica e limitatamente al reato di cui al capo d), posto che gli altri abusi al momento della proposizione del ricorso si erano prescritti, deducendo contraddittorietà della motivazione e violazione di legge. Sostiene che la Corte territoriale aveva erroneamente interpretato la giurisprudenza di legittimità e l'ordinanza della Corte Costituzionale n. 251 del 2006, giacché, per escludere il reato, non è sufficiente la presenza di un interesse pubblico essendo necessario che tale pubblico interesse costituisca il fine primario dell'agente. Anzi erroneamente la Corte aveva ritenuto sussistente la finalità di interesse generale, nonostante che l'opera realizzata fosse diversa da quella programmata nel piano di zona, essendo stata realizzata con modalità diverse da quelle previste: l'illiceità, secondo il ricorrente, riguardava le modalità di realizzazione e non la previsione originaria. Inoltre la Corte territoriale si è soffermata a delineare la distinzione teorica tra dolo diretto e dolo intenzionale senza apprezzare i numerosi indizi che rivelavano l'intenzione di favorire il privato. Infine, pur registrando che le clausole della convenzione erano vantaggiose per il privato, si era disinteressata delle ripercussioni che tale vantaggio avrebbe potuto avere sull'effettiva finalità dell'operazione e quindi degli interessi sottesi: speculativo, da un lato, e politico personale dall'altro. In conclusione il Cesaroni non aveva agito per un fine pubblico, ma per un fine politico che creava enormi vantaggi al Cianfano e svantaggi al Comune. Le anzidette considerazioni, secondo il ricorrente, valgono anche per la concessione in sanatoria relativa alla costruzione del teatro effettuata in luogo della sala conferenze originariamente prevista, in quanto la sanatoria, anch'essa illegittima, è stata rilasciata per favorire il Cianfano che aveva subito il sequestro del cantiere la prova dell'intenzionalità del dolo secondo il ricorrente nella vicenda relativa alla costruzione del teatro si desume:
a) dal fatto che i funzionari del comune che avevano espresso parere contrario alla sanatoria, erano stati esautorati e sostituiti con il più compiacente architetto Evangelisti, secondo la prassi già consolidata alla quale prima si è fatto riferimento;
b) dalla macroscopicità delle violazioni di legge in quanto l'opera era stata originariamente costruita senza la concessione edilizia e senza i preventivi adempimenti previsti per le costruzioni in cemento armato e, una volta realizzata, per sbloccare il sequestro che danneggiava il Cianfano, è stata sanata con una concessione illegittima perché in contrasto con le norme urbanistiche ;
c) dall'esonero di qualsiasi forma di vigilanza sulla corretta realizzazione dell'opera da parte del privato e sull'assolvimento dei relativi oneri patrimoniali nei confronti del Comune rimessi alla determinazione del privato;
d) dall'indifferenza dei risultati per avere l'amministrazione comunale ignorato le deviazioni della procedura a suo svantaggio nonché dall'insufficienza dell'area destinata a parcheggio.


Resiste al ricorso il difensore del Cianfano con memoria con cui deduce che l'assoluzione dei prevenuti dai delitti di cui ai capi A) e B) è ormai passata in giudicato, avendo il pubblico ministero impugnato la sentenza solo relativamente al capo D) perché gli altri reati erano prescritti. Pertanto, per la stretta dipendenza del reato contestato al capo D) da quelli indicati ai capi A) e B), sarebbe difficilmente configurabile un'autonoma responsabilità dei prevenuti per il reato di cui al capo D).


IN DIRITTO


Prima di esaminare il ricorso occorre puntualizzare i limiti del devolutum. Certamente il pubblico ministero, avendo impugnato la decisione solo relativamente al capo D), pur potendola impugnare anche per i capi A) e B), ancorché i relativi reati si fossero estinti per prescrizione, al fine di ottenere una formula di proscioglimento meno favorevole per gli imputati, non può fondare la prova dell'intenzionalità del dolo del reato oggetto d'impugnazione solo su elementi sintomatici già ritenuti insufficienti ai fini della configurabilità dei reati coperti dal giudicato. Il giudicato interno però non impedisce di richiamare gli elementi fattuali sintomatici relativi agli abusi di cui ai capi A) e B), non esclusi dai giudici del merito ma ritenuti insufficienti a configurare il dolo, non solo al fine di inquadrare il reato contestato al capo D) nel suo contesto fattuale, ma anche allo scopo di utilizzare gli elementi sintomatici relativi agli abusi contestati ai capi A) e B) unitamente a quelli specifici del fatto contestato al capo D), per superare le perplessità manifestate dai giudici del merito. In definitiva il giudicato interno sui reati contestati ai capi A) e B) non impone l'automatica assoluzione anche per il reato contestato al capo D), e non impedisce di integrare gli elementi ritenuti insufficienti dai giudici del merito, relativamente ai reati oggetto del giudicato, con quelli specifici del delitto di cui al capo D) non coperto dal giudicato, sia perché quest'ultimo reato, ancorché connesso con gli altri due, ha una propria autonomia fattuale con proprie violazioni di legge e di regolamento, sia perché gli elementi fattuali dell'intera vicenda non sono stati esclusi dai giudici del merito, anzi sono stati confermati, in quanto i prevenuti sono stati assolti non per l'insussistenza dei fatti materiali loro addebitati, ma perché gli elementi indicati dalla pubblica accusa per dimostrare l'intenzionalità del dolo sono stati ritenuti insufficienti per la presenza di un interesse pubblico. Di conseguenza gli elementi non esclusi dai giudici del merito, ma ritenuti insufficienti, possono essere integrati con quelli specifici del reato contestato al capo D) per fornire la prova dell'intenzionalità del dolo.


Puntualizzati i limiti del devolutum, va altresì precisato che l'indagine attribuita a questo collegio riguarda solo la configurabilità del dolo nel reato di cui al capo D), posto che la violazione di legge è stata accertata per tutti i reati e segnatamente per quello oggetto dell'impugnazione.


Prima di valutare le censure è opportuno richiamare i principi vigenti in materia di dolo nel delitto di abuso d'ufficio. Con la riforma introdotta con la legge 16 luglio 1997, n.234, il legislatore ha abbandonato la formulazione del testo dell'articolo 323 c.p., che delineava un reato a dolo specifico e, inserendo l'avverbio "intenzionalmente" per qualificare il dolo, ha trasformato il fine dell'agente in evento. Quindi, il dolo costitutivo del reato è generico, ma rispetto agli eventi che completano il fatto, assume la forma del dolo intenzionale. Tale forma limita il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare un ingiusto danno. Da ciò consegue che la configurabilità del reato è esclusa, sotto il profilo soggettivo, non solo in presenza del dolo eventuale (caratterizzata dall'accettazione del verificarsi dell'evento), ma anche in presenza del dolo diretto (che ricorre nell'ipotesi in cui l'agente si rappresenti l'evento come verificabile con elevato grado di probabilità o con certezza), occorrendo invece il dolo intenzionale che è ravvisabile quando l'evento sia voluto dall'agente come obiettivo primario della sua condotta. La differenza rispetto al passato, allorché cioè era richiesto il dolo specifico, consiste nel fatto che, mentre in precedenza, era irrilevante il conseguimento del fine richiesto dalla norma, con la riforma occorre che l'evento preso di mira si verifichi effettivamente. Come sottolineato da attenta dottrina, intenzionalità non significa però esclusività del fine che deve animare l'agente. La legge del 1997 non richiede,come invece accade in altre norme incriminatici, che le condotte abusive, quale ne sia la forma vengano realizzate "al solo scopo" di conseguire questo o quell'evento tipico. Affermare infatti che l'agente deve agire "al solo scopo di" equivarrebbe ad abrogare il delitto in questione. Invero, trattandosi di delitto che può essere commesso solo dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio nell'esercizio di attività pubbliche, viene sempre esternata una finalità pubblica che serve per mascherare il vero fine. D'altra parte, se fosse stata chiesta l'esclusività, questa sarebbe stata espressa con la formula "al solo scopo di", già altre volte inserita nel codice penale. In realtà, come risulta dai lavori preparatori, il novellatore ha inserito l'avverbio "intenzionalmente" senza la consapevolezza dei futuri risultati applicativi volendo semplicemente escludere il dolo eventuale. Allorché accanto all'esternazione del fine pubblico si affianca anche uno privato, occorre accertare quale sia la finalità prevalente dell'agente. Prima della riforma questa Corte aveva precisato che per la realizzazione dell'elemento soggettivo del reato in questione (allora il dolo specifico) non era necessario il perseguimento in via esclusiva del fine privato da parte dell'agente, poiché l'unicità del fine privatistico non è richiesta dalla norma e contrasta con i principi costituzionali del buon andamento della pubblica amministrazione (cfr Cass. 1 marzo 1993, Atzori, Cass. Sez. VI 16 febbraio 1996 ric PG in proc. Scopinaro n 55079). Tale orientamento è stato ribadito, anche dopo la riforma, da questa Corte nella decisione del 7 maggio del 1998 Verratti. Nell'ipotesi in cui al fine di vantaggio privato si affianchi una finalità pubblica, occorrerà verificare quali sia stato il vero fine che ha mosso l'agente ed in che misura un fine abbia avuto la prevalenza sull'altro ed escludere il reato allorché il fine pubblico ha avuto la prevalenza sull'altro. Siffatta interpretazione è stata avallata dalla Corte Costituzionale con l'ordinanza n 251 del 2006. Invero il giudice dell'udienza preliminare presso il tribunale di Ragusa aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell' articolo 323 c.p. sulla premessa che in base al diritto vivente, per la configurabilità dell'elemento psicologico, fosse necessaria l'esclusività del fine. La Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile la questione osservando, tra l'altro, che l'affermazione dell'esclusività del fine era erronea. In proposito ha precisato che nelle pronunce di legittimità citate dal giudice ragusano ed in altre successive non è stato affermato che la mera compresenza di una finalità pubblicistica basti ad escludere la sussistenza del dolo (intenzionale) previsto dalla norma né si è mai affermato, come sostiene il rimettente, che " intenzionalmente" significhi "al solo scopo di"; che in base ai principi affermati nella giurisprudenza di legittimità non è sufficiente che l'imputato abbia perseguito il fine pubblico accanto a quello privato affinché la sua condotta, ancorché illecita dal punto di vista amministrativo, non sia soggetta a sanzione penale, ma è necessario che abbia perseguito tale fine pubblico come proprio obiettivo principale, con conseguente degradazione del dolo di danno odi vantaggio da dolo di tipo in menzionale a mero dolo diretto od eventuale. Tale valutazione della Consulta non si pone in contrasto con il recente orientamento di questa Corte. Nella sentenza citata dalla Corte territoriale (la numero 3844 del 2008) la Cassazione si è limitata ad affermare che "per la configurabilità dell'elemento soggettivo è richiesto che l'evento - costituito dall'ingiusto vantaggio patrimoniale o dal danno ingiusto - sia voluto dall'agente e non semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta, per cui deve escludersi la sussistenza del dolo sotto il profilo dell'intenzionalità, qualora risulti, con ragionevole certezza, che l'agente si sia proposto il raggiungimento di altro fine pur apprezzabile sotto il profilo collettivo." Non risulta quindi dalla motivazione della sentenza citata dal giudice del merito l'esclusività del fine. Anzi recentemente questa Corte ha sentenziato che "integra il reato di abuso d'ufficio la condotta del sindaco di un Comune che, in violazione della normativa di settore, conferisca un incarico dirigenziale a persona priva dei requisiti di legge, arrecando così intenzionalmente un danno ingiusto al dirigente che ne ha diritto. Il perseguimento del fine pubblico dell'agente non vale ad escludere il dolo dell'abuso d'ufficio sotto il profilo dell'intenzionalità allorché rappresenti un mero pretesto con il quale venga mascherato l'obiettivo reale della condotta". (cfr Cass Sez VI 19 maggio del 2010 n 23421). In definitiva il vantaggio o danno per il privato può essere affiancato anche da una finalità pubblica che rappresenti una mera occasione o pretesto per coprire la condotta illecita. Ma nella fattispecie il problema della compresenza di una finalità pubblica neppure si poneva in quanto, per quello che si dirà in seguito, non sussisteva alcuna finalità pubblica. Questa, invero, non deve essere confusa con il fine politico dell'agente, con l'esigenza di dimostrare la propria capacità di "governo" ai consociati, con la smania di protagonismo, con la finalità propagandistica, con l'aspirazione ad aumentare il consenso elettorale perché questi sono motivi egoistici che si pongono in antitesi con la finalità altruistica e collettiva che deve connotare la finalità pubblica (cfr Cass n42839 del 2002). La finalità pubblica non può essere realizzata ad "ogni costo", come si è affermato nella fattispecie da parte dei giudici del merito o "a qualsiasi prezzo". Non si può parlare di realizzazione di una finalità pubblica, ma eventualmente di finalità politica personale dell'agente, se l'opera è economicamente svantaggiosa per la pubblica amministrazione. Il concetto di pubblica utilità non può prescindere dall'osservanza, anche sotto il profilo economico, del principio del buon andamento della pubblica amministrazione. Con la riforma del 1997 si è sì ridotta l'area d'intervento del giudice penale in materia di abuso d'ufficio, ma non si è abrogato l'articolo 97 della Costituzione. Nella sentenza del 7 maggio 1998, Verratti, prima citata, si è affermato che nel caso in cui la condotta criminosa viene a concretarsi nella violazione di norme di legge o regolamento, la realizzazione di un ingiusto vantaggio patrimoniale del privato è incompatibile con il contemporaneo raggiungimento di un interesse pubblico, atteso che da una condotta attuata in violazione di un generale interesse pubblicistico per definizione non può derivare alla pubblica Amministrazione altra situazione di vantaggio, che non sia quella connessa all'esclusivo rispetto della norma in materia con esclusione perciò di altra difforme valutazione di natura discrezionale. Tale decisione, per la verità rimasta isolata, merita una puntualizzazione. Essa non è condivisibile quando sembra escludere la finalità pubblica per la semplice violazione di una norma posta a presidio di un interesse pubblico, giacché questo può realizzarsi anche mediante una violazione di legge o di regolamento specialmente quando si tratta di violazioni formali. E' invece condivisibile o comunque meritevole di approfondimento allorché, in presenza di una macroscopica violazione di legge posta a tutela della finalità pubblica e di un vantaggio patrimoniale arrecato al privato, ritiene difficilmente configurabile il contemporaneo interesse pubblico, specialmente quando la finalità pubblica venga realizzata a costi economici esorbitanti.


Il dolo intenzionale, quale atteggiamento psicologico dell'agente, deve ovviamente desumersi dai comportamenti tenuti prima durante e dopo la condotta ed in particolare modo dall'evidenza delle violazioni, dalla competenza dell'agente, dalla reiterazione e gravità delle violazioni, dai rapporti tra agente e soggetto favorito o danneggiato ed, in caso di compresenza di più fini, dalla comparazione dei rispettivi vantaggi o svantaggi.; dall'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge (cfr. per tutte Cass. Sez. VI novembre del 2006 n 41365).

Richiamati i principi generali sull'intenzionalità del dolo in materia di abuso d'ufficio, si rileva che nella fattispecie sono fondate entrambe le censure (violazione di legge e carenze motivazionali) mosse alla sentenza della Corte d'appello.


Violazione di legge . Sussiste tale vizio non solo perché si è erroneamente interpretato la giurisprudenza di legittimità escludendo il dolo per la semplice compresenza di un asserito interesse pubblico, ma anche e soprattutto perché si è confuso l'interesse pubblico con quello politico personale dell'agente.


Con l'appello il pubblico ministero aveva sottolineato che nella fattispecie il Cesaroni non aveva agito per una finalità pubblica, ma solo per favorire se stesso dal punto di vista politico elettorale e per recare vantaggi patrimoniali al privato ed aveva indicato gli elementi sintomatici dai quali desumere l'effettiva intenzione dell'agente.


La Corte sul punto, da un lato, si è limitata a richiamare la sentenza di primo grado nella quale però non si delineava la distinzione tra finalità pubblica ed interesse politico elettorale e, dall'altro, ha identificato la finalità pubblica nella mera realizzazione dell'opera avente rilevanza pubblica.


La tesi sarebbe stata plausibile se l'opera realizzata fosse stata quella prevista nel piano ossia se si fosse trattato di un'opera pubblica. Invece l'opera prevista nel piano era cosa diversa da quella effettivamente realizzata. In base al piano l'opera avrebbe dovuto essere realizzata su suolo espropriato direttamente dal Comune. Invece è stata realizzata da un privato su suolo già facente parte del patrimonio indisponibile del comune, ma ceduto a trattativa privata alla società amministrata dal Cianfano. A favore del comune si è previsto solo un diritto di opzione, peraltro, solo su una parte dell'immobile, diritto da esercitare nel termine breve di due anni, che in effetti non è stato esercitato e che, come risulta dalle stesse sentenze impugnate, era prevedibile che non sarebbe stato esercitato per mancanza di fondi, posto che il comune non aveva potuto, proprio per la mancanza di fondi, espropriare tutte le aree occorrenti per la realizzazione del centro. Come risulta dalle sentenze dei giudici del merito non si era neppure stabilito il prezzo dell'opzione. In favore del comune era stato prevista altresì il diritto di prendere in locazione l'immobile a canone convenzionato sennonché, come risulta dalla motivazione della sentenza di primo grado alla pagina 16, l'importo del canone era stato convenzionato soltanto nei confronti del Comune e non anche nei confronti dei terzi ai quali avrebbe potuto chiedersi un canone libero e comunque, secondo gli accertamenti del tribunale, il convenzionamento del canone era stato convenuto a prezzi che costituivano le quotazioni di mercato. Alla società, sempre secondo quanto risulta dalla sentenza di primo grado confermata in appello; era stato riconosciuto il diritto di gestire l'intero complesso, destinato a servizi pubblici, senza che si sia previsto a suo carico il pagamento di un canone per la concessione e senza alcuna interferenza del Comune (cfr. sentenza di primo grado alla pag 16 della motivazione). Sull'autonomia di gestione emblematica è la circostanza evidenziata dal tribunale alla pagina 17 della motivazione. Secondo gli accertamenti compiuti dal tribunale, su segnalazione del CESARONI, la COGEMI aveva offerto alle Poste Italiane S.P.A la locazione di un ufficio della superficie di mq 75 ad un canone annuale di euro 52.678,60 ossia più di euro 4300,00 al mese somma notevolmente superiore alle quotazioni di mercato nella città di Velletri all'epoca del fatto, tanto è vero che l'offerta è stata respinta. Per quanto concerne il teatro, oggetto dell'imputazione non coperta dal giudicato e devoluta all'esame di questa corte, appartenente anch'esso al privato, non risulta indicato il prezzo pagato dal comune per la sua eventuale utilizzazione. Nella sentenza d'appello la Corte ha dato atto che il costo della locazione si era dimostrato insostenibile per il Comune che si era reso moroso per oltre cinque milioni di euro ed aveva subito numerose azioni esecutive da parte della COGEMI fino "all'orlo della bancarotta" (cfr. sentenza d'appello alla pagina 12). Nella sentenza di primo grado il tribunale ha dato atto che il Cesaroni intendeva realizzare "a tutti i costi" il Centro Culturale per attribuire all'operato della propria amministrazione il merito della realizzazione di tale opera, che altre amministrazioni avevano infruttuosamente programmato (cfr. motivazione della sentenza di primo grado alla pagina 3). Ed allora se, secondo i giudici del merito, il complesso, pur essendo destinato a servizi pubblici, apparteneva al privato e non al Comune che non era stato in grado di esercitare il diritto di opzione e, sempre secondo i giudici del merito, era prevedibile che non sarebbe stato esercitato; se il Comune non era in grado di pagare i canoni richiesti dal locatore, il quale, quindi, per il mancato pagamento dei canoni legittimamente poteva vietare l'uso del complesso; se era impensabile l'appartenenza di un teatro ad un privato, come denunciato dall'opposizione; se gli oneri di urbanizzazione e l'oblazione per la sanatoria sono stati calcolati in misura inferiore a quella dovuta e se l'opera aveva economicamente danneggiato il Comune fino a spingerlo sull'orlo del fallimento come si legge nella sentenza d'appello, non si vede in cosa consisterebbe la finalità pubblica, indicata ma non dimostrata dai giudici del merito, posto che l'opera non apparteneva al Comune ma ad un privato e, per le modalità attuative, era persino diversa da quella programmata nei piani. Gli unici soggetti avvantaggiati erano il privato ed il sindaco: il primo come già accennato aveva tratto vantaggi patrimoniali dalla costruzione, il secondo aveva fatto credere agli elettori di essere stato capace di realizzare un'opera che altra amministrazione, forse più rispettosa delle regole, non era stata in grado di attuare. Non si può parlare di realizzazione di una finalità pubblica, ma eventualmente di finalità politica personale dell'agente, se l'opera è economicamente svantaggiosa per la pubblica amministrazione. Il concetto di pubblica utilità, come già precisato, non può prescindere dall'osservanza anche sotto il profilo economico, del principio del buon andamento della pubblica amministrazione.


Carenze motivazionali. I giudici del merito, pur rilevando che gli elementi indicati dal pubblico ministero a sostegno dell'intenzionalità del dolo avevano un'indubbia valenza indiziaria, li hanno ritenuti insufficienti a dimostrare l'esclusività o comunque l'assoluta prevalenza del fine privato per la comprensenza di una finalità pubblica ravvisata nella semplice realizzazione dell'opera. Con riferimento specifico all'abuso devoluto alla cognizione di questa Corte, pur ammettendo la sussistenza delle violazioni di legge o regolamenti dedotti dal pubblico ministero e, pur riconoscendo che anche per il teatro, il Comune non aveva potuto esercitare il diritto di opzione (pag 23 della sentenza di appello), hanno osservato che il dolo intenzionale ritenuto non provato per tutto l'affare, non poteva considerarsi sussistente per una modificazione di una parte dell'opera ossia per l'abuso che non si era ancora prescritto, in quanto occorreva dimostrare che la concessione in sanatoria era una mera occasione per fare conseguire al Cianfano un ulteriore vantaggio economico.


L'assunto non può essere condiviso perché non sono stati apprezzati gli elementi sintomatici propri del reato sub D), i quali fornivano ulteriori elementi a riprova della collusione tra sindaco e privato imprenditore. La costruzione del teatro in luogo della sala conferenze prevista nel progetto serviva ad avvalorare la finalità politica personale dell'agente e l'ulteriore vantaggio economico arrecato al Cianfano.


Come risulta dalla stessa sentenza impugnata, il predetto non aveva alcun personale interesse a costruire il teatro in luogo della sala conferenza, ma aveva agito per eseguire precise disposizioni del Cesaroni. Il teatro è stato realizzato senza il preventivo permesso di costruire, necessario perché trattavasi di opera totalmente difforme da quella progettata, e senza la preventiva denuncia dei lavori al Genio Civile trattandosi di costruzione in cemento armato Per tali violazioni è stato disposto il sequestro del manufatto. I giudici del merito hanno omesso di apprezzare l'obiettiva circostanza costituita dal fatto che il Cianfano, senza un personale interesse, si era esposto al rischio di un procedimento penale, poi instaurato, al solo scopo di eseguire un ordine del sindaco che non era tenuto ad osservare. Come prima precisato, tra gli elementi sintomatici dell'intenzionalità del dolo rientrano i rapporti tra soggetto agente e soggetto avvantaggiato o danneggiato e la macroscopicità della violazione. I giudici del merito avrebbero dovuto approfondire le indagini sulla ragione per la quale il Cianfano rischiando un procedimento penale, che poi si è instaurato, abbia eseguito un ordine illegittimo del sindaco alla cui esecuzione non aveva personale interesse. L'ordine del Cesaroni di costruire il teatro in luogo della sala conferenza ha inizialmente danneggiato il Cianfano perché ha determinato il sequestro dell'opera con il conseguente blocco dei lavori mentre l'imprenditore continuava ad essere esposto verso le banche. Pertanto il Cianfano si è dovuto rivolgere al sindaco che aveva commissionato la variante per ottenere una concessione in sanatoria e fare cessare gli effetti del sequestro. I1 sindaco, che era colui che aveva ordinato il teatro, non poteva rifiutare la sanatoria. Pertanto si è rivolto ai responsabili del procedimento ing. Gruttola e geometra Ascenzi, i quali hanno però espresso parere contrario al rilascio della concessione per il contrasto della costruzione con le norme urbanistiche. Il Cesaroni, avvalendosi della consueta prassi adottata in precedenza, ha esautorato i responsabili del procedimento sostituendoli con l'architetto Evangelisti, più malleabile. Il procedimento si è concluso con il rilascio di una concessione illegittima per le ragioni indicate dal pubblico ministero ed in larga misura recepite dai giudici del merito. L'ulteriore vantaggio per il Ciafano è costituito, oltre che dalla cessazione degli effetti del sequestro, dal pagamento degli oneri di urbanizzazione e dell'oblazione in misura inferiore a quella prevista nonché nella destinazione a parcheggio di una superficie inferiore a quella prescritta. Sussiste quindi per il Cianfano un vantaggio, diverso ed ulteriore, rispetto a quelli conseguiti per gli altri abusi coperti dal giudicato. Il danno per il Comune è costituito dalla ricezione di somme inferiori a quelle dovute per oneri di urbanizzazione ed oblazione nonché dal fatto che il teatro stesso non appartiene al Comune ma ad un privato perché l'opzione di acquisto non è stata esercitata neppure limitatamente al teatro e, secondo quanto risulta dalla sentenza di appello, il Comune non era neppure in grado di pagare i canoni di locazione. Se la concessione in sanatoria (ritenuta illegittima dai giudici del merito) non fosse stata concessa, a seguito di una presumibile condanna del Cianfano per abuso edilizio (gli imputati sono stati prosciolti dal reato edilizio perché si è estinto per prescrizione), il manufatto sarebbe stato acquisito al patrimonio indisponibile del Comune. Ma questa strada non poteva essere percorsa dal sindaco proprio perché l'ordine di costruire il teatro in luogo della sala conferenza era stato illegittimamente impartito proprio da lui ed il Cianfano ha dovuto subirlo per essere stato in precedenza avvantaggiato. In seguito si è adoperato per contenere i danni conseguenti al sequestro versando somme inferiori a quelle dovute per oneri di urbanizzazione ed oblazione e destinando a parcheggio una superficie inferiore a quella prescritta. L'Evangelisti, a proposito del calcolo delle somme dovute al Comune, si è giustificato asserendo che esse erano state determinate in difetto per mero errore. Ma su questi temi, come risulta dalla sentenza impugnata, pende procedimento contabile già concluso con una sentenza di condanna non ancora definitiva.


Alla stregua delle considerazioni svolte la sentenza impugnata va annullata con rinvio limitatamente al reato contestato al capo d) La corte del rinvio dovrà procedere ad una rivalutazione degli elementi sintomatici del dolo evidenziati dal pubblico ministero e dianzi richiamati, ovviamente se nel frattempo anche il reato sub D) non si sarà estinto per prescrizione


P.Q.M.


LA CORTE
Letto l'articolo 623 c.p.p.


Annulla


La sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo d), con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'appello di Roma

Così deciso in Roma il 24 febbraio del 2011-

DEPOSITATA IN CANCELLERIA 13/05/2011



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