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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006 - ISSN 1974-9562
CORTE
DI CASSAZIONE PENALE Sez. III 23/06/2011 (Ud. 31/03/2011) Sentenza n. 25193
RIFIUTI - Fanghi (provenienti da Cave) - Disciplina applicabile - Art. 185,
lett. d), D.Lgs. n. 152/2006. I fanghi sono soggetti alla disciplina sui
rifiuti soltanto quando non derivano dalla attività estrattiva e dalle connesse
attività di cernita e di pulizia, bensì derivano da una successiva e differente
attività di lavorazione dei materiali (estratti, selezionati e puliti), e cioè
quando può affermarsi che tale successiva attività è ontologicamente estranea al
ciclo produttivo dello sfruttamento della cava. In altre parole, solo quando si
dia luogo ad una successiva, nuova e diversa attività di lavorazione sui
prodotti della cava, i residui e gli inerti di questa nuova attività, sganciata
da quella di cava, devono considerarsi rifiuti, sottoposti alla disciplina
generale circa il loro smaltimento, ammasso, deposito e discarica. (annulla con
rinvio sentenza del 27/01/2010 tribunale di Bergamo) Pres. Gentile, Est. Franco,
Ric. Locatelli. CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III 23/06/2011 (Ud.
31/03/2011) Sentenza n. 25193
RIFIUTI - Cave - Gestione dei rifiuti - Fanghi e limi - Cd. «prima pulitura»
del materiale estratto - Disciplina applicabile - Attività di sfruttamento della
cava che esula dal ciclo estrattivo - Art. 185, lett. d), D.Lgs. n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, i materiali derivanti dallo sfruttamento delle
cave, quando restano entro il ciclo produttivo della estrazione e connessa
pulitura, sono esclusi dalla normativa sui rifiuti, mentre, poiché l'attività di
sfruttamento della cava non può confondersi con la lavorazione successiva dei
materiali, se si esula dal ciclo estrattivo, gli inerti provenienti dalla cava
sono da considerarsi rifiuti ed il loro smaltimento, ammasso, deposito e
discarica è regolato dalla disciplina generale (Cass. Sez. 111, 28/11/2005, n.
42966, Viti). In altre parole, i fanghi provenienti dalla prima pulitura
connessa alla attività estrattiva, vanno considerati come derivanti direttamente
dallo sfruttamento della cava e non da diversa e successiva lavorazione delle
materie prime. La c.d. prima pulitura del materiale estratto dalla cava rientra
nella attività di estrazione latamente considerata e per tale ragione è
sottratta alla applicazione della disciplina sui rifiuti ai sensi dell'art. 185,
comma I , lett. d), del d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152. Tale attività può essere
costituita anche da pulitura effettuata mediante lavaggio, con la conseguenza
che anche i rifiuti, ed in particolare i fanghi e limi, derivanti da tale
lavaggio del materiale ricavato dallo sfruttamento delle cave non rientrano nel
campo di applicazione della parte quarta del d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152.
Restano escluse da questa disciplina soltanto le attività successive alla prima
pulitura del materiale estratto e dirette ad una funzione differente, che sono
per questa ragione antologicamente diverse dalla attività di estrazione del
materiale e di sfruttamento della cava. (annulla con rinvio sentenza del
27/01/2010 tribunale di Bergamo) Pres. Gentile, Est. Franco, Ric. Locatelli.
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III 23/06/2011 (Ud. 31/03/2011) Sentenza n.
25193
DANNO AMBIENTALE - Reati ambientali - Legittimazione alla costituzione di
parte civile nel procedimento - Spetta in esclusiva al Ministro dell'Ambiente -
Soggetti, singoli o associati - Risarcimento degli ulteriori danni subiti - Art.
2043 cod. civ. - Art. 311 d. lgs. n.152/2006. Spetta soltanto allo Stato, e
per esso al Ministro dell'Ambiente, la legittimazione alla costituzione di parte
civile nel procedimento per reati ambientali, al fine di ottenere il
risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come
lesione dell'interesse pubblico e generale all'ambiente. Tutti gli altri
soggetti, singoli o associati, ivi comprese le Regioni e gli Enti pubblici
territoriali minori, possono agire ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. per
ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto
da essi subito, diverso da quello ambientale (Cass. Sez. III, 21.10.2010, n.
41015, Gravina). (annulla con rinvio sentenza del 27/01/2010 tribunale di
Bergamo) Pres. Gentile, Est. Franco, Ric. Locatelli. CORTE DI CASSAZIONE
PENALE Sez. III 23/06/2011 (Ud. 31/03/2011) Sentenza n. 25193
DANNO AMBIENTALE - Reati ambientali - Legittimazione alla costituzione di
parte civile nei processi - Spetta in esclusiva al Ministro dell'Ambiente -
Soggetti, singoli o associati - Risarcimento degli ulteriori danni subiti - Art.
2043 cod. civ. - Art. 18 L. n. 349/1986 - Art. 311 d. lgs. n.152/2006. La
legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali
spetta non soltanto al ministro dell'ambiente, ai sensi dell'art. 311, comma 1,
d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152. Tutti gli altri soggetti, singoli o associati,
ivi compresi gli enti pubblici territoriali e le regioni, possono invece agire,
in forza dell'art. 2043 cod. civ., per ottenere il risarcimento di qualsiasi
danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito
dalla medesima condotta lesiva dell'ambiente in relazione alla lesione di altri
loro diritti particolari, diversi dall'interesse pubblico e generale alla tutela
dell'ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale.
Pertanto, in conseguenza della abrogazione dell'art. 18 della legge 349/1986 ed
ai sensi dell'art. 311 d. lgs. n.152/2006, titolare esclusivo della pretesa
risarcitoria in materia di danno ambientale è lo Stato nella persona del
Ministro dell'ambiente, relativamente al danno all'ambiente come interesse
pubblico, anche se ad ogni persona singola od associata spetta il diritto di
costituirsi parte civile per il risarcimento degli ulteriori danni subiti (Cass.
Sez. III, 3.10.2006, n. 36514, Censi). (annulla con rinvio sentenza del
27/01/2010 tribunale di Bergamo) Pres. Gentile, Est. Franco, Ric. Locatelli.
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. III 23/06/2011 (Ud. 31/03/2011) Sentenza n.
25193
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. III Penale
Composta dagli ill.mi Sigg.:
1. Dott. Mario Gentile
Presidente
2. Dott. Amedeo Franco
(est.) Consigliere
3. Dott.ssa Guida I. Mulliri
Consigliere
4. Dott. Giulio Sarno
Consigliere
5. Dott. Luca Ramacci
Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
- sul ricorso proposto da Locatelli Basilio, nato a Suisio l'1.1.3.1944;
- avverso la sentenza emessa il 27
gennaio 2010 al giudice del tribunale di Bergamo;
- udita nella pubblica udienza del 31 marzo 2011 la relazione fatta dal
Consigliere Amedeo Franco;
- udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale
dott. Tindari Baglione, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
- udito per l'imputato il difensore avv. Mauro Angarano, in sostituzione
dell'avv. Claudia Zilioli;
- udito per le parti civili persone fisiche l'avv. Fulvio Vitali;
Svolgimento del processo
Con la sentenza in epigrafe il tribunale di Bergamo dichiarò Locatelli Basilio
colpevole dei reati di cui: a) all'art. 256, commi 1, lett. a) e 2, del d. Igs.
3 aprile 2006, n. 152, per avere, quale amministratore della Cava Castello srl,
effettuato attività di raccolta e smaltimento di rifiuti senza autorizzazione, e
segnatamente di limi derivanti dal lavaggio di materiali inerti provenienti da
scavi che venivano raccolti in una vasca di decantazione; nonché effettuato il
deposito incontrollato di rifiuti, segnatamente attrezzatura di cava dimessa,
tra cui nastri trasportatori, ponteggi, una carcassa di autocarro, onduline in
fibrocemento; b) all'art. 137, comma 1, lett. b), d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152,
per avere effettuato scarichi di acque reflue industriali senza autorizzazione,
scaricando sul suolo acque defluenti dall'impianto di lavaggio materiali inerti
provenienti da scavi; c) all'art. 279, comma 1, lett. h), d. Igs. 3 aprile 2006,
n. 152, per avere esercitato un impianto per la frantumazione e vagliatura di
materiali inerti da scavo, in assenza delle prescritte autorizzazioni per le
emissioni in atmosfera dei macchinari costituenti l'impianto, condannandolo alla
pena di € 10.000,00 di ammenda, oltre alla condanna generica al risarcimento dei
danni in favore delle costituite parti civili.
L'imputato propone ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza nonché
avverso l'ordinanza del 19.6.2009 deducendo:
1) violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento al rigetto della
richiesta dell'imputato di essere ammesso alla oblazione ex art. 162 bis cod.
pen., sotto quattro profili:
a) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta gravità
del fatto, desunta dalla astratta risarcibilità dei danni lamentati dalle
persone offese e dalla prospettazione accusatoria. Osserva che il giudice deve
motivare sulla gravità del fatto in concreto e che la sentenza impugnata ha
ritenuto una situazione di pericolo ambientale che non trova riscontro né nella
natura meramente formale dei reati contestati né nella documentazione contenuta
nel fascicolo del pubblico ministero. Del resto, l'asserito grave pregiudizio
del bene ambiente contrasta con la natura di rifiuti non pericolosi di cui si
contesta il trattamento in assenza di autorizzazione, e si risolve in una
formula di stile.
b) violazione dei parametri di cui ad entrambi i commi dell'art. 133 cod_ pen.
ai quali correlare l'apprezzamento relativo alla gravità del fatto, mentre il
giudice a quo ha fatto riferimento ad una astratta risarcibilità del
datino, ossia ad un parametro non indicato dalla legge ed ha trascurato elementi
quali lo stato di incensuratezza, la natura formale delle contestazioni, la
condotta successiva all'accertamento, ed in specie l'aver ottenuto le
autorizzazioni e l'avere volontariamente effettuato interventi di bonifica.
c) violazione dell'art. 162 bis, comma 4, cod. pen. per manifesta illogicità e
contraddittorietà della motivazione in ordine al rigetto della richiesta di
oblazione, in quanto in contrasto con l'applicazione della sola pena pecuniaria,
prevista in via alternativa a quella detentiva;
d) violazione dell'art. 162 bis, comma 3, cod. pen. per mancanza o manifesta
illogicità della motivazione circa la permanenza di condizioni ostative alla
concessione del beneficio e delle conseguenze dannose dei reati. Lamenta che il
giudice ha fatto derivare la permanenza delle conseguenze dannose dei reati
dalla astratta risarcibilità del danno. La motivazione è apparente ed illogica,
e confonde le cause con gli effetti, fondandosi sulla astratta risarcibilità del
danno prospettato dalle persone offese per escludere che sia avvenuta
l'eliminazione delle conseguenze dannose del reato. L'accertamento di tale
eliminazione è del tutto mancato ed il tribunale ha anche omesso di esaminare la
documentazione depositata. Del resto il sito, già sequestrato, era stato
restituito dalla autorità giudiziaria ed erano state completate le imposte
operazioni di bonifica. Inoltre, l'attività era cessata.
2) travisamento del fatto e violazione di legge in ordine al reato di cui
all'art. 256, comma 1, lett. a), d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, in particolare
per quanto riguarda i limi, che non possono essere qualificati come rifiuti.
Osserva che nella specie i limi erano generati dalla sedimentazione delle acque
di lavaggio dell'inerte, e quindi all'interno del ciclo produttivo, sicché non
potevano considerarsi rifiuti.
3) violazione dell'art. 62 bis cod. pen., travisamento del fatto e mancanza o
manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata concessione delle
attenuanti generiche. Lamenta che le attenuanti generiche sono state escluse
solo in considerazione di una condanna in primo grado risalente al 1992 per un
reato dichiarato prescritto in appello, senza prendere in considerazione il
fatto che egli aveva volontariamente iniziato e concluso una procedura di
bonifica.
4) violazione di legge in ordine alla ammissione della costituzione di parte
civile dell'associazione ambientalista WWF e di privati, ed in particolare:
a) carenza di legittimazione per violazione degli artt. 74 cod. proc. pen_, 185
cod. pen., 317, comma 1 , 309, commi 1 e 2, lett. d), d. lgs. 3 aprile 2006, n.
152. Osserva che in forza dell'art. 311 del codice dell'ambiente la
legittimazione a costituirsi parte civile per chiedere il risarcimento del danno
ambientale spetta ora esclusivamente allo Stato, e precisamente al ministero
dell'ambiente, per mezzo della Avvocatura dello Stato. In ogni modo non esiste
alcun danno ambientale e non è stata nemmeno indicata quale alterazione,
deterioramento o distruzione dell'ambiente si siano nella specie verificati.
Nemmeno è spiegato quale collegamento vi sia tra i danni lamentati dai privati e
l'attività svolta in assenza di autorizzazione.
b) violazione dell'art. 539, comma 1, cod. proc. pen. nella liquidazione del
danno. Lamenta che mancava qualsiasi prova di ulteriore compromissione
dell'ambiente, oltre a quella già esistente, causata per effetto della specifica
attività contestata che non riguarda alcun concreto episodio di inquinamento.
La parte civile WWF Italia ha depositato una memoria difensiva eccependo
l'infondatezza dei motivi di ricorso.
Motivi della decisione
Va innanzitutto esaminato il secondo motivo, che si rivela fondato.
Preliminarmente si osserva che, con il capo A), è stato contestato all'imputato
il reato di cui all'art. 256, commi 1, lett. a) e 2, del d. Igs. 3 aprile 2006,
n. 152, in particolare per avere effettuato, nella qualità, senza autorizzazione
raccolta e smaltimento di rifiuti, e «segnatamente di limi derivanti dal
lavaggio di materiali inerti provenienti da scavi che venivano raccolti in una
vasca di decantazione», nonché per avere effettuato un deposito incontrollato di
materiali di altro genere. La contestazione, cioè, riguarda unicamente i limi
derivanti dal lavaggio degli inerti provenienti dalla attività di cava. La
contestazione, invece, non riguarda anche una diversa ipotetica condotta avente
ad oggetto limi e fanghi derivanti dal lavaggio di inerti acquistati presso
terzi fornitori e non risulta che sul punto sia stata elevata una contestazione
suppletiva. Sono quindi del tutto irrilevanti le considerazioni contenute nella
sentenza impugnata relative a una presunta (e non provata) attività di lavaggio
di inerti non provenienti dall'attività di cava ma acquistati all'esterno.
Ciò posto, deve ricordarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte,
costantemente seguita negli ultimi anni - che il Collegio ritiene di dover
confermare non essendo stata addotta alcuna argomentazione che possa
giustificare un diverso orientamento - «in tema di rifiuti, i fanghi ed i limi
derivanti dalla prima pulitura mediante lavaggio del materiale ricavato dallo
sfruttamento delle cave non rientrano nel campo di applicazione della disciplina
sui rifiuti, di cui alla parte quarta del D.Lgs n. 152 del 2006, in quanto
l'art. 185, comma primo lett. d), del citato decreto, esclude dalla disciplina
in questione i rifiuti risultanti dallo sfruttamento delle cave, e non possono
essere ritenuti tali soltanto quelli risultanti dalla pulitura effettuata
mediante grigliatura a secco o setacciatura» (Sez. III, 11.10.2006, n. 5315/07,
Doneda, m. 235640; conf. Sez. III, 9.10.2007, n. 41584, Frezza, m. 237955).
Hanno in particolare osservato queste decisioni che non vi è nessuna ragione per
ritenere che la cd. «prima pulitura» del materiale estratto, necessaria per
separare il materiale commerciale, debba avvenire esclusivamente mediante
setacciatura o grigliatura e non possa invece avvenire, quando necessità
tecniche lo richiedano o lo rendano opportuno, mediante lavaggio, e quindi non
vi è ragione per ritenere che il lavaggio non rientrerebbe anch'esso nella prima
pulitura del materiale estratto bensì costituirebbe, a differenza della
setacciatura o grigliatura, attività ontologicamente successiva alla estrazione
vera e propria. Pertanto, i materiali derivanti dallo sfruttamento delle cave,
quando restano entro il ciclo produttivo della estrazione e connessa pulitura,
sono esclusi dalla normativa sui rifiuti, mentre, poiché l'attività di
sfruttamento della cava non può confondersi con la lavorazione successiva dei
materiali, se si esula dal ciclo estrattivo, gli inerti provenienti dalla cava
sono da considerarsi rifiuti ed il loro smaltimento, ammasso, deposito e
discarica è regolato dalla disciplina generale (Sez. 111, 28 novembre 2005, n.
42966, Viti, m. 232.243). In altre parole, i fanghi provenienti dalla prima
pulitura connessa alla attività estrattiva, vanno considerati come derivanti
direttamente dallo sfruttamento della cava e non da diversa e successiva
lavorazione delle materie prime. La c.d. prima pulitura del materiale estratto
dalla cava rientra nella attività di estrazione latamente considerata e per tale
ragione è sottratta alla applicazione della disciplina sui rifiuti ai sensi
dell'art. 185, comma I , lett. d), del d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152. Tale
attività può essere costituita anche da pulitura effettuata mediante lavaggio,
con la conseguenza che anche i rifiuti, ed in particolare i fanghi e limi,
derivanti da tale lavaggio del materiale ricavato dallo sfruttamento delle cave
non rientrano nel campo di applicazione della parte quarta del d. Igs. 3 aprile
2006, n. 152. Restano escluse da questa disciplina soltanto le attività
successive alla prima pulitura del materiale estratto e dirette ad una funzione
differente, che sono per questa ragione antologicamente diverse dalla attività
di estrazione del materiale e di sfruttamento della cava.
Le suddette decisioni sono state confermate successivamente da altra decisione
pure ricordata dalla sentenza impugnata, la quale ha ribadito che «In tema di
gestione dei rifiuti, l'esclusione dalla disciplina sui rifiuti dei fanghi
derivanti dallo sfruttamento delle cave (art. 185, lett. d), D.Lgs. 3 aprile
2006, n. 152) è subordinata alla condizione che gli stessi derivino direttamente
dallo sfruttamento e restino entro il ciclo produttivo dell'estrazione e
connessa pulitura, in quanto l'attività di sfruttamento del materiale di cava è
distinta da quella della sua lavorazione successiva» (Sez. III, 28.1.2009, n.
10711, Precetti, m. 243 108, che peraltro riguarda un caso in cui i fanghi non
provenivano dallo sfruttamento di una cava, ma da inerti provenienti da residui
della lavorazione dei manufatti e dall'attività di demolizione e costruzione).
In conclusione, secondo tutte le suddette decisioni, i fanghi sono soggetti alla
disciplina sui rifiuti soltanto quando non derivano dalla attività estrattiva e
dalle connesse attività di cernita e di pulizia, bensì derivano da una
successiva e differente attività di lavorazione dei materiali (estratti,
selezionati e puliti), e cioè quando può affermarsi che tale successiva attività
è ontologicamente estranea al ciclo produttivo dello sfruttamento della cava. In
altre parole, solo quando si dia luogo ad una successiva, nuova e diversa
attività di lavorazione sui prodotti della cava, i residui e gli inerti di
questa nuova attività, sganciata da quella di cava, devono considerarsi rifiuti,
sottoposti alla disciplina generale circa il loro smaltimento, ammasso, deposito
e discarica.
Ora, nella specie, la sentenza impugnata non ha specificato se si trattasse di
fanghi derivanti da una nuova e diversa attività di lavorazione del materiale
estratto, ma - erroneamente applicando i principi di diritto ricordati - ha
semplicemente ritenuto che gli stessi dovessero essere soggetti alla disciplina
dei rifiuti solo perché il ciclo estrattivo era esaurito. La sentenza impugnata
ha infatti espressamente affermato che i limi non potevano considerarsi
provenienti dalla attività estrattiva e dalla pulizia del relativo materiale ma
si erano per così dire trasformati in rifiuti solo perché essi erano stati
raccolti, depositati e ammassati per lungo tempo al di fuori del ciclo
estrattivo ed a seguito dell'esaurimento dello stesso. Sennonché, se si trattava
di limi prodotti nella fase di pulitura del materiale estratto, questa loro
qualità non poteva modificarsi solo per il passare del tempo e per essere stati
gli stessi depositati ed ammassati. Ciò invero - senza l'intervento di una
successiva diversa lavorazione dei materiali - non faceva venire meno la loro
qualità di rifiuti risultanti dallo sfruttamento delle cave. Né risulta una
norma che imponga di disfarsi di questi rifiuti, salvo ovviamente le ricadute
negative che il loro deposito e le eventuali modalità di trattamento del
materiale potrebbero avere sull'ambiente circostante e sulle acque e salvo il
rispetto della normativa a tutela delle acque e della loro qualità. Nella
specie, peraltro, non sono state ipotizzate né contestate violazioni e ricadute
di nessun altro genere, se non la raccolta dei limi senza autorizzazione.
La sentenza impugnata deve quindi essere annullata per errore di diritto e per
vizio di motivazione in ordine alla ipotesi di raccolta e smaltimento senza
autorizzazione dei limi in questione, con rinvio perché il giudice di merito
accerti se si trattava di fanghi provenienti da una nuova e diversa attività di
lavorazione dei materiali estratti ovvero di fanghi provenienti dalla attività
di pulitura del suddetto materiale, e quindi da una attività che rientrava nel
ciclo produttivo dello sfruttamento della cava.
Non può invece essere accolto il terzo motivo, perché esso in realtà si risolve
in una censura in punto di Tatto della decisione impugnata, con la quale si
richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata
al giudice del merito. Il motivo è comunque infondato perché il giudice ha dato
una adeguata e non manifestamente illogica motivazione sulle ragioni per le
quali ha ritenuto di non dover concedere le attenuanti generiche in
considerazione della personalità dell'imputato, sotto il profilo della condotta
di vita antecedente alla commissione del reato, ed in particolare di un
precedente per un reato in materia ambientale risalente al 1992, conclusosi con
una condanna in primo grado e con una sentenza di prescrizione in secondo grado,
ma con conferma delle statuizioni civili. Il ricorrente sostiene che la condotta
antecedente avrebbe dovuto essere valutata insieme alla condotta successiva, ed
in particolare con la condotta riparatoria, avendo iniziato e concluso una
procedura di bonifica dei luoghi volontariamente, senza esserne tenuto e senza
esserne richiesto dagli enti preposti alla tutela del territorio. 11 giudice,
però, con un accertamento in fatto non censurabile in questa sede, ha ritenuto
che la circostanza non poteva essere valorizzata ai fini della concessione della
attenuante, perché il progetto di bonifica era stato proposto solo in data 9
marzo 2007, a seguito della diffida della provincia in data 14 dicembre 2006 e
dei sequestro preventivo dell'area disposto il 21 gennaio 2007, ossia quando la
condotta illecita era già stata accertata e gli interventi di ripristino erano
ormai ineludibili.
E' invece fondato il quarto motivo. Questa Corte ha invero affermato il
principio - che deve qui essere confermato - che, alla luce della normativa
attualmente in vigore «Spetta soltanto allo Stato, e per esso al Ministro
dell'Ambiente, la legittimazione alla costituzione di parte civile nel
procedimento per reati ambientali, al fine di ottenere il risarcimento del danno
ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell'interesse
pubblico e generale all'ambiente. (In motivazione la Corte ha precisato che
tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi comprese le Regioni e gli
Enti pubblici territoriali minori, possono agire ai sensi dell'art. 2043 cod.
civ. per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e
concreto da essi subito, diverso da quello ambientale)» (Sez. III, 21.10.2010,
n. 41015, Gravina, m. 248707). Ha osservato questa decisione che l'art. 18 della
legge 8 luglio 1986, n. 349, al comma 3, attribuiva allo Stato e agli enti
territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo la
legittimazione a promuovere la relativa azione per il risarcimento del danno,
anche se esercitata in sede penale. Il suddetto art. 18 è stato però abrogato
dall'art. 318, comma 2, lett. a), del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (ad
eccezione del comma 5, che riconosce alle associazioni ambientaliste il diritto
di intervenire nei giudizi per danno ambientale). Attualmente, l'art. 311 del d.
lgs. 3 aprile 2006, n. 152, riserva allo Stato, ed in particolare al ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio, il potere di agire per il
risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per
equivalente patrimoniale, anche esercitando l'azione civile in sede penale. Le
regioni e gli enti locali, nonché le persone fisiche o giuridiche che sono o
potrebbero essere colpite dal danno ambientale, in forza dell'art. 309, comma 1,
possono ora presentare denunce ed osservazioni nell'ambito di procedimenti
finalizzati all'adozione di misure di prevenzione, precauzione e ripristino
oppure possono sollecitare l'intervento statale a tutela dell'ambiente, mentre
non hanno più il potere di agire iure proprio per il risarcimento del
danno ambientale. La giurisprudenza di questa Corte successiva all'appena
ricordato mutamento legislativo ha poi rilevato la legittimazione a costituirsi
parte civile nei processi per reati ambientali spetta non soltanto al ministro
dell'ambiente, ai sensi dell'art. 3 1 1 , comma 1, d. Igs. 3 aprile 2006, n.
152, ma anche all'ente pubblico territoriale (come la provincia) ed ai soggetti
privati che per effetto della condotta illecita abbiano subito un danno
patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. (Sez. IIl,
28.10.2009, n. 755/10, Ciarloni, in. 246015). La sentenza della Sez. III,
3.10.2006, n. 36514, Censi, m. 235059, ha più dettagliatamente precisato che, a
seguito della abrogazione dell'art. 18 della legge 349/1986 ed ai sensi
dell'art. 311 d. lgs. 152/2006, «titolare esclusivo della pretesa risarcitoria
in materia di danno ambientale è lo Stato nella persona del Ministro
dell'ambiente» (punto 3 della motivazione) relativamente al danno all'ambiente
come interesse pubblico, anche se ad ogni persona singola od associata spetta il
diritto di costituirsi parte civile per il risarcimento degli ulteriori danni
subiti. La sentenza Sez. III, 11.2.2010, n. 14828, De Flammineis, m. 246812, ha
poi affermato che il d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 «ha attribuito in via
esclusiva la richiesta risarcitoria per danno ambientale al Ministero
dell'Ambiente» (sicché le associazioni ecologiste sono legittimate a costituirsi
parte civile al solo fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali
patiti a causa del degrado ambientale, «mentre non possono agire in giudizio per
il risarcirmento del danno ambientale di natura pubblica»). Infine, la ricordata
sentenza Sez. II1, 21.10.2010, n. 41015, Gravina, m. 248707, ha precisato che i
rapporti tra la norma di cui all'art. 311, comma 1, d. lgs. 3 aprile 2006, n.
152 (che attribuisce a tutti il diritto di ottenere il risarcimento del danno
per la lesione di un diritto) e quella di cui all'art. 311, comma 1, d. lgs. 3
aprile 2006, n. 152 (che riserva esclusivamente allo Stato la legittimazione ad
agire per il risarcimento del danno da lesione all'ambiente, inteso come diritto
pubblico generale a fondamento costituzionale), si svolgono come i normali
rapporti tra norma generale e norma speciale. Pertanto, per effetto dell'entrata
in vigore della norma speciale, l'estensione della norma generale si è
ristretta, sicché il suo ambito di applicazione non comprende più la fattispecie
ora disciplinata dalla norma speciale. Di conseguenza, il risarcimento del danno
ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell'interesse
pubblico all'ambiente, è ora previsto e disciplinato soltanto dall'art. 311
cit., sicché il titolare della pretesa risarcitoria per tale danno ambientale è
esclusivamente lo Stato, in persona del ministro dell'ambiente. Tutti gli altri
soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli enti pubblici territoriali e le
regioni, possono invece agire, in forza dell'art. 2043 cod. civ., per ottenere
il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che
abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell'ambiente
in relazione alla lesione di altri loro diritti particolari, diversi
dall'interesse pubblico e generale alla tutela dell'ambiente come diritto
fondamentale e valore a rilevanza costituzionale.
La sentenza impugnata si è invece riferita unicamente al danno ambientale
tradizionalmente inteso come interesse alla tutela dell'ambiente, come danno del
singolo o della associazione alla relazione che questi vivono con l'ambiente che
li circonda, e non già al danno a singoli beni o a posizioni soggettive
patrimoniali, tutelabili secondo le ordinarie disposizioni civilistiche.
In particolare, mentre per le persone fisiche la sentenza impugnata ha
correttamente fatto riferimento al danno alla salute, alla qualità della vita ed
ai beni immobili, relativamente alla costituzione di parte civile del WWF, ha
fatto riferimento ancora al vecchio indirizzo giurisprudenziale - antecedente
alle riforme legislative dianzi ricordate -, che riteneva risarcibile il diritto
morale del sodalizio identificato in un interesse ambientale storicamente e
geograficamente circostanziato che il sodalizio avesse assunto come proprio
scopo statutario.
Ma, a prescindere dalla natura del danno ora risarcibile a seguito del mutamento
legislativo - finalizzato proprio a regolare la materia ed eliminare possibilità
di eccessi e di abusi - nella sentenza impugnata non si prospetta nemmeno in
astratto l'esistenza di un danno risarcibile, diverso o meno da quello
ambientale, derivante dalle condotte cosi come contestate. Per il WWF, invero,
la sentenza si limita a fare riferimento allo statuto dell'associazione ed al
fatto che questo prevede la finalità di protezione e difesa del bene ambiente e
di diffusione della cultura ambientale (e non ad un qualche danno patrimoniale
subito in concreto dalla associazione). Per le persone fisiche, poi, fa
riferimento al rumore, al sollevamento di polveri, a vibrazioni, alla
diminuzione del valore degli immobili, con ciò però ponendosi di nuovo in
contrasto con il principio di corrispondenza tra contestazione e sentenza. Con i
capi di imputazione, infatti, non sono stati contestati i reati di getto di
cose, emissione di polveri, o rumori, o vibrazioni, danneggiamento, disturbo
alle occupazioni o al riposo delle persone, modifiche ambientali, e comunque non
sono state contestate nemmeno in fatto condotte che abbiano potuto comportare
rumori, polveri, vibrazioni, o emissioni in atmosfera superiori ai limiti
tabellari, o immissioni nel terreno o nelle acque eccedenti quelle consentite, o
danni alla salute, o modifiche al paesaggio, o più in generale inquinamenti o
danni all'ambiente di qualsiasi tipo. Ciò che è stato contestato, invero, sono
esclusivamente i reati formali di avere raccolto e smaltito rifiuti senza
autorizzazione, di avere effettuato scarichi di acque reflue industriali senza
autorizzazione, e di avere esercitato un impianto senza l'autorizzazione per le
emissioni in atmosfera. Dal capo di imputazione non è possibile ricavare una
contestazione, neppure in fatto, di una condotta che abbia avuto, sia pure
potenzialmente, conseguenze dannose, ed in particolare che la raccolta di
rifiuti abbia provocato danni ambientali, o che lo scarico delle acque o le
emissioni in atmosfera abbiano superato i limiti di tollerabilità e provocato
inquinamenti.
In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata è mancante non solo
sulla sussistenza in concreto di un danno e sul nesso di causalità con le
condotte contestate con il capo di imputazione, ma altresì sulla stessa
potenzialità delle violazioni solo formali contestate ad essere produttive di
conseguenze dannose, e pertanto manca una adeguata e congrua motivazione sia
sulla legittimazione a costituirsi parte civile sia comunque sull'an debeatur.
Può ora esaminarsi il primo motivo, che risulta anch'esso fondato. Il giudice ha
respinto la richiesta di oblazione riproposta in sede di discussione: a) perché
la condanna generica al risarcimento dei danni determinava il persistere della
condizione ostativa inerente alla permanenza delle conseguenze dannose degli
illeciti; b) perché i reati sono risultati di una tale gravità da pregiudicare
potenzialmente sia il bene ambiente nella sua dimensione pubblicistica che le
posizioni giuridiche soggettive di coloro che abitano nelle vicinanze, in
relazione alla diminuzione della qualità della vita ed alla perdita di valore
degli immobili. Si tratta di una motivazione meramente apparente, apodittica,
fondata su ipotesi e manifestamente illogica.
Quanto al permanere delle conseguenze dannose degli illeciti manca, come si è
dianzi rilevato, qualsiasi motivazione sulla sussistenza, sia in concreto e sia
pure in astratto, di conseguenze dannose derivanti dagli illeciti formali
contestati. Inoltre, fondatamente il ricorrente lamenta che il giudice ha omesso
di esaminare e di motivare sulla tesi difensiva dell'avvenuta eliminazione delle
conseguenze dannose e pericolose dei reati e sulla relativa documentazione. In
particolare, l'imputato aveva eccepito: in relazione al capo A), che era
intervenuta l'autorizzazione allo smaltimento dei rifiuti e che era stata
completata la bonifica del sito; in relazione al capo B), che era intervenuto il
provvedimento abilitativo della provincia di Bergamo in data 16 gennaio 2009; in
relazione al capo C), che la sua domanda di autorizzazione alle emissioni era
stata archiviata dalla provincia perché si trattava di impianto esistente, tanto
che era stato ottenuto il dissequestro dell'intera area, sicché egli doveva
presentare una nuova domanda di autorizzazione entro il 29 ottobre 2010. Su
questi elementi manca un accertamento ed una motivazione.
Come si è in precedenza rilevato, manca una adeguata e congrua motivazione anche
sulla esistenza dei presupposti per una condanna generica al risarcimento dei
danni.
Quanto poi alla affermazione che dagli atti contenuti nel fascicolo del PM
emergerebbe che i reati sarebbero «di gravità tale da pregiudicare
potenzialmente sia il bene ambiente nella sua dimensione pubblicistica che le
posizioni giuridiche soggettive di tutti coloro che vedono radicali i propri
interessi nei luoghi di cui all'imputazione e nelle immediate vicinanze», deve
osservarsi che sarà. pure vero che nel fascicolo del PM sussistono elementi (che
peraltro non sono stati specificati nella sentenza) indicativi di danni
all'ambiente o ai singoli abitanti, ma questi elementi sono stati tenuti
dall'accusa al di fuori del presente processo penale, dal momento che sono stati
contestati unicamente reati formali e che nei capi di imputazione non si fa
cenno a condotte produttrici di emissioni nocive, superamenti di limiti
tabellari, inquinamenti dei terreni, dell'atmosfera o delle acque, modifiche del
paesaggio, o di qualsiasi concreto pregiudizio per l'ambiente. La elevata
gravità dei reati e il grave pregiudizio da essi potenzialmente derivante sono,
quindi, solo apoditticamente affermati, ma non adeguatamente provati e motivati.
In conclusione, è mancante o manifestamente illogica anche la motivazione in
ordine al rigetto della domanda di oblazione.
Il ricorso deve dunque essere accolto nei limiti sopra indicati, con rinvio per
nuovo esame al tribunale di Bergamo. E' opportuno precisare che, con la presente
decisione, passa in giudicato la declaratoria di responsabilità sui reati di cui
ai capi B) e C) e sul deposito incontrollato di attrezzature di cava dismessa di
cui alla seconda parte del capo A), in ordine ai quali non vi è stata
impugnazione.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
annulla la sentenza impugnata con rinvio al tribunale di Bergamo.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 31 marzo
2001.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA 23 GIU. 2011
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