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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006 - ISSN 1974-9562



TRIBUNALE DI SANT'ANGELO DEI LOMBARDI, Sez. civile, 12/01/2011


FAUNA E FLORA - Perdita di animale d'affezione - Risarcibilità - Esclusione. Nel caso di perdita da animale d'affezione, non sussiste un'ingiustizia costituzionalmente qualificata, e non può, pertanto, parlarsi di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone, con conseguente impossibilità di ricondurre la perdita di un animale da affezione ad alcuna categoria di danno non patrimoniale (Trib. Milano, Sez. V Civ., 20 luglio 2010, n. 9453 e Cass. Civ., Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14846). La peculiarità del danno non patrimoniale viene individuata, nella sua tipicità, sulla base dell’art. 2059 c.c., quale norma di rinvio ai casi previsti dalla legge (e, quindi, ai fatti costituenti reato o agli altri fatti illeciti produttivi di tale tipo di danno) ovvero ai diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria, con la precisazione, in quest’ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l’interesse leso e non il pregiudizio conseguenzialmente sofferto e che la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave (che superi cioè la soglia minima di tollerabilità, imposto dai doveri di solidarietà sociale) e che il danno non sia futile (vale a dire che non consista in meri disagi e fastidi o sia addirittura immaginario).  Fattispecie in tema di richiesta di danni patrimoniali e morali per la perdita di un cane volpino azzannato da due cani maremmani (di proprietà di parte convenuta), lasciati incustoditi, e deceduto circa sette mesi dopo. Giud. Mon. Levita. TRIBUNALE DI SANT'ANGELO DEI LOMBARDI, Sez. civile, 12/01/2011


DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Ragionevole durata del processo - Poteri del giudice. Il rispetto del diritto fondamentale a una ragionevole durata del processo (derivante dall’articolo 111, secondo comma, della Costituzione e dagli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli articoli 127 e 175 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’articolo 101 c.p.c., da effettive garanzie di difesa (articolo 24 della Costituzione) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (articolo 111, secondo comma, della Costituzione), dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a esplicare i suoi effetti (Cass. Civ., Sez. I, 9 giugno 2010, n. 13896). Giud. Mon. Levita. TRIBUNALE DI SANT'ANGELO DEI LOMBARDI, Sez. civile, 12/01/2011

DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Consulenza tecnica d'ufficio - Natura - Richiesta di CTU volta alla ricerca di circostanze non provate - Rigetto - Legittimità. La consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitano di specifiche conoscenze, con la conseguenza che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (Cass. Civ., Sez. Lav., 17 luglio 2009, n. 16778; Cass. Civ., Sez. III, 13 marzo 2009, n. 6155; Cass. Civ., Sez. III, 5 luglio 2007, n. 15219; Cass. Civ., Sez. I, 2 maggio 2006, n. 10117; Cass. Civ., Sez. III, 14 febbraio 2006, n. 3191; Cass. Civ., Sez. II, 11 gennaio 2006, n. 212). Giud. Mon. Levita. TRIBUNALE DI SANT'ANGELO DEI LOMBARDI, Sez. civile, 12/01/2011

 

DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Danno esistenziale - Risarcibilità - Limiti - Artt. 2059 - 2043 c.c. Il danno c.d. esistenziale, non costituisce una categoria autonoma di pregiudizio, posto che rientra nell'alveo del danno morale, con la conseguenza che non può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato, restando assorbito dal risarcimento del danno morale in tutti i casi in cui quest’ultimo è ritenuto risarcibile (Cass., Sez. Un. n. 3677/2009; Cass. Civ., Sez. III, n. 19816/2010). Tale assunto discende dalla disposizione normativa di cui all’art. 2059 c.c., da leggersi – non già come disciplina di un’autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c. – bensì come norma che regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali (intesa come categoria omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile individuare, se non con funzione meramente descrittiva, ulteriori sottocategorie), sul presupposto dell’esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c., e cioè: la condotta illecita, l’ingiusta lesione di interessi tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso (Cass. Civ., Sez. Un., 19 agosto 2009, n. 18356, Cass. Sez. Un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974 e 26975). Fattispecie in tema di richiesta di danni patrimoniali e morali per la perdita di un cane volpino azzannato da due cani maremmani (di proprietà di parte convenuta), lasciati incustoditi, e deceduto circa sette mesi dopo. Giud. Mon. Levita. TRIBUNALE DI SANT'ANGELO DEI LOMBARDI, Sez. civile, 12/01/2011


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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI SANT'ANGELO DEI LOMBARDI
 SEZIONE CIVILE

(Omissis)

 


Fatto e diritto


Con citazione ritualmente notificata,  (...) conveniva in giudizio (...) onde ottenere il ristoro dei danni patrimoniali e morali subiti all’esito di un episodio occorso il 30.8.2007 in Guardia dei Lombardi verso le ore 11:40 circa, laddove il proprio cane volpino – utilizzato anche per pet therapy – era stato azzannato da due cani maremmani di proprietà della convenuta, lasciati incustoditi, per poi decedere il successivo 28.3.2008; il tutto, con vittoria delle spese di lite.

Radicatosi il contraddittorio, si costituiva la convenuta, esponendo una diversa ricostruzione dei fatti, contestando la sussistenza del nesso causale fra l’asserita aggressione e la morte del volpino (avvenuta dopo sette mesi) e concludendo per il rigetto della domanda, con vittoria di spese.

Espletata l’attività istruttoria mediante l’interrogatorio libero delle parti finalizzato alla conciliazione, questo Giudice disattendeva tutte le istanze istruttorie e rinviava all’odierna udienza per la discussione orale ex art. 281-sexies c.p.c.

La domanda è infondata e va rigettata, per le considerazioni che di seguito si espongono.

Va preliminarmente evidenziato che, in ragione del criterio della ragione più liquida, la domanda può essere respinta “sulla base di una questione assorbente pur se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare previamente tutte le altre, essendo ciò suggerito dal principio di economia processuale e da esigenze di celerità anche costituzionalmente protette” (così, da ultimo, cfr. Trib. Piacenza, 28 ottobre 2010; sulle conseguenze di tale postulato in materia di giudicato implicito, cfr. Cass. Civ., 16 maggio 2006, n. 11356).

Il richiamo al primato della ragione più liquida si dimostra peraltro decisamente confacente alla luce del recente insegnamento della Suprema Corte, a mente del quale “il rispetto del diritto fondamentale a una ragionevole durata del processo (derivante dall’articolo 111, secondo comma, della Costituzione e dagli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli articoli 127 e 175 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’articolo 101 c.p.c. da effettive garanzie di difesa (articolo 24 della Costituzione) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (articolo 111, secondo comma, della Costituzione), dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato a esplicare i suoi effetti” (così Cass. Civ., Sez. I, 9 giugno 2010, n. 13896).

Nel caso di specie, tale principio può trovare sicura applicazione in quanto, anche prescindendo dalla puntuale ricostruzione fattuale della vicenda (sulla quale le parti avevano articolato le rispettive richieste istruttorie), le doglianze di parte attrice risultano comunque immeritevoli di accoglimento, per accertamento dell’inesistenza dei danni lamentati (il che induce ad affermare, conseguentemente, la superfluità dell’accertamento del fatto costitutivo).

Nella vicenda in esame, l’attrice ha infatti domandato il risarcimento dei danni patrimoniali derivanti dalla morte del proprio cane volpino (quale conseguenza dell’aggressione asseritamente subita), senza tuttavia indicare in alcun modo la concreta misura del pregiudizio economico realmente subito, anzi limitandosi ad affermazioni di stile svuotate di un effettivo contenuto (“grave danno economico patrimoniale”, si legge sic et simpliciter in citazione).

Sul punto, questo Giudice condivide l’insegnamento di Cass. Civ., sez. II, 12 giugno 2008, n. 15814, che efficacemente evidenzia come, nell’attuale ordito normativo, il diritto al risarcimento del danno non rivesta natura punitiva, ma vada correlato alla prova del concreto pregiudizio economico asseritamente subito dal danneggiato. Sulla misura di tale pregiudizio, nondimeno, parte attrice nulla ha efficacemente dedotto ed argomentato, limitandosi ad una richiesta di consulenza tecnica veterinaria sul valore del cane che non può trovare ingresso nel presente giudizio, giacché chiaramente esplorativa, in assenza dell’acquisizione di qualsivoglia elemento utile quantomeno ad allegare la misura del danno patrimoniale subito (cfr. sul punto la pacifica giurisprudenza di: Cass. Civ., Sez. Lav., 17 luglio 2009, n. 16778; Cass. Civ., Sez. III, 13 marzo 2009, n. 6155; Cass. Civ., Sez. III, 5 luglio 2007, n. 15219; Cass. Civ., Sez. I, 2 maggio 2006, n. 10117; Cass. Civ., Sez. III, 14 febbraio 2006, n. 3191; Cass. Civ., Sez. II, 11 gennaio 2006, n. 212: “La consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, con la conseguenza che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati”).

Tale argomento consente peraltro di prescindere da qualsivoglia considerazione sulla circostanza dell’avvenuto decesso del volpino a ben sette mesi di distanza dal momento dei fatti, senza che a tal fine possa rilevare la documentazione veterinaria prodotta dall’attrice (nel corpo della quale il dott. (...) fa generico riferimento ad “aderenze intestinali” derivanti “verosimilmente” da “morso di animali”); trattasi infatti di diagnosi laconica e generica, non corroborata da alcun elemento scientifico a sostegno, esposta in termini meramente probabilistici oltre che priva di qualsivoglia legame causale con i fatti dedotti in citazione, il che conferma la sostanziale esploratività della pretesa azionata in parte qua.

Similmente, anche la doglianza di aver subito pregiudizi morali è rimasta a livello di mera asserzione, non suffragata da alcuna dimostrazione in tal senso (in argomento, cfr. la traiettoria ermeneutica di Trib. Roma, 17 aprile 2002).

Sul punto, valgono le considerazioni esposte dalla recente giurisprudenza di legittimità in merito alla necessità di evitare che la sistematizzazione dei danni nelle categorie “danno patrimoniale/non patrimoniale” possa condurre ad ingiustificate moltiplicazioni risarcitorie; ed infatti, quanto al danno esistenziale, il recente dictum delle Sezioni Unite (n. 3677/2009), cui questo Giudice ritiene di aderire, ha evidenziato che “il danno c.d. esistenziale, non costituendo una categoria autonoma di pregiudizio, ma rientrando nel danno morale, non può essere liquidato separatamente solo perché diversamente denominato, restando assorbito dal risarcimento del danno morale in tutti i casi in cui quest’ultimo è ritenuto risarcibile” (cfr. altresì Cass. Civ., Sez. III, 17 settembre 2010, n. 19816).

Orbene, impostando un discorso unitario con riguardo ai pregiudizi non patrimoniali (sul quale si rinvia alle illuminanti considerazioni di Cass. Civ., Sez. III, 19 febbraio 2009, n. 4053), è noto che le Sezioni Unite, con quattro sentenze di contenuto identico (n. 26972, 26973, 26974 e 26975 del 11 novembre 2008), hanno proceduto ad una rilettura in chiave costituzionale del disposto dell’art. 2059 c.c., ritenuto principio informatore del diritto da leggersi – non già come disciplina di un’autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c. – bensì come norma che regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali (intesa come categoria omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile individuare, se non con funzione meramente descrittiva, ulteriori sottocategorie), sul presupposto dell’esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c., e cioè: la condotta illecita, l’ingiusta lesione di interessi tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso (sul punto, da ultimo, cfr. altresì Cass. Civ., Sez. Un., 19 agosto 2009, n. 18356).

In tale prospettiva la peculiarità del danno non patrimoniale viene individuata nella sua tipicità, avuto riguardo alla natura dell’art. 2059 c.c., quale norma di rinvio ai casi previsti dalla legge (e, quindi, ai fatti costituenti reato o agli altri fatti illeciti riconosciuti dal legislatore ordinario produttivi di tale tipo di danno) ovvero ai diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria, con la precisazione in quest’ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l’interesse leso e non il pregiudizio conseguenzialmente sofferto e che la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave (che superi cioè la soglia minima di tollerabilità, imposto dai doveri di solidarietà sociale) e che il danno non sia futile (vale a dire che non consista in meri disagi a fastidi o sia addirittura immaginario).

Ciò precisato, ritiene questo Giudice che, nella specie, non sussista un’ingiustizia costituzionalmente qualificata, tanto che la perdita da animale d’affezione è stata proprio indicata in maniera esemplificativa, dalle Sezioni Unite, quale risibile prospettazione di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone, unitamente ad altre ipotesi pure ivi elencate (la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico); va inoltre evidenziato ad abundantiam che, nella presente vicenda, l’attrice si è limitata a dedurre di aver utilizzato il proprio cane nell’ambito di una pet therapy (con ciò lasciando sottintendere la sussistenza di un rapporto non solo affettivo ma anche terapeutico con la propria bestiola), senza tuttavia corroborare in alcun modo sul versante probatorio il proprio assunto, con ciò omettendo di contribuire – nel caso concreto – all’erosione dell’”equazione” tratteggiata dalle Sezioni Unite (cfr. in merito anche Trib. Milano, Sez. V Civ., 20 luglio 2010, n. 9453 e Cass. Civ., Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14846, secondo cui “non è riconducibile ad alcuna categoria di danno non patrimoniale risarcibile la perdita, a seguito di un fatto illecito, di un cavallo indicato dalla parte come animale di affezione, in quanto essa non è qualificabile come danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente tutelata, non potendo essere sufficiente, a tal fine. la deduzione di un danno "in re ipsa", con il generico riferimento alla perdita della "qualità della vita"”).

Né può condividersi il pur recente arresto di altra giurisprudenza di merito (Trib. Rovereto, 18 ottobre 2009), il quale predica una rimeditazione dei dicta delle Sezioni Unite elevando al rango di “diritto inviolabile” ex art. 2 Cost. la tutela dell’animale d’affezione, sulla scorta dei recenti interventi novellistici (su tutti, la legge n. 189/2004) tendenti ad assicurare speciale protezione agli animali mediante lo strumentario repressivo penalistico; trattasi tuttavia – a sommesso avviso di questo Giudice – di argomentazione non persuasiva, laddove si pone sul medesimo piano il bene giuridico tutelato dal diritto penale (il “sentimento per gli animali”, caratterizzato da una valenza oggettiva e superindividuale) e la percezione della sofferenza correlata alla lesione della propria sfera personale civilisticamente rilevante (di natura eminentemente soggettiva ed individuale).

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, la domanda va quindi rigettata.

Non si ravvisano infine i presupposti per la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., in assenza della prova della mala fede o della colpa grave alternativamente richieste dalla norma (cfr. da ultimo Cass. Civ., Sez. III, 30 giugno 2010, n. 15629: “La condanna per responsabilità processuale aggravata, per lite temeraria, quale sanzione dell’inosservanza del dovere di lealtà e probità cui ciascuna parte è tenuta, non può derivare dal solo fatto della prospettazione di tesi giuridiche riconosciute errate dal giudice, occorrendo che l’altra parte deduca e dimostri nell’indicato comportamento dell’avversario la ricorrenza del dolo o della colpa grave, nel senso della consapevolezza, o dell’ignoranza, derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell’infondatezza delle suddette tesi”).

Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, giusta la natura ed il valore della controversia, il rifiuto di addivenire ad una soluzione conciliativa pure caldeggiata da questo Giudice nel corso dell’istruttoria, nonché la fase di chiusura del processo, ed alla luce del principio di adeguatezza e proporzionalità (che impone, peraltro, una costante ed effettiva relazione tra la materia del dibattito processuale e l’entità degli onorari per l’attività professionale svolta, assegnando la prevalenza del decisum sul disputatum: Cass. Civ., Sez. Un., 11 settembre 2007, n. 19014).

Va evidenziato in proposito che il rimborso c.d. forfetario delle spese generali costituisce una componente delle spese giudiziali, la cui misura è predeterminata dalla legge, che spetta automaticamente al professionista difensore, anche in assenza di allegazione specifica e di apposita istanza, dovendosi, quest’ultima, ritenere implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali che incombe sulla parte soccombente (Cass. Civ., Sez. III, 1 giugno 2010, n. 13433; Cass. Civ., Sez. III, 19 aprile 2010, n. 9192; Cass. Civ., Sez. III, 22 febbraio 2010, n. 4209).


P.Q.M.

 

Il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, in composizione monocratica, in persona del Giudice unico dott. Luigi Levita, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa, così provvede:

- rigetta la domanda;

- condanna l’attrice al pagamento delle spese processuali in favore della convenuta, che liquida in euro 1.000,00 per diritti ed euro 1.100,00 per onorari, oltre rimborso forfetario per spese generali, IVA e CPA come per legge.



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