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Corte di Cassazione Civile Sezione I Sentenza n. 4211/2016  

 

FUMO PASSIVO: il datore di lavoro risponde per i danni da fumo passivo se non prova di aver sanzionato i trasgressori

 

di Fulvio Graziotto

 

In tema di danno da cd. fumo passivo, il generico richiamo a circolari e disposizioni organizzative interne, senza l’allegazione di sanzioni disciplinari effettivamente comminate ma solamente ipotizzate, non sono idonei a dimostrare l’esistenza di una causa non imputabile al datore di lavoro.

 
 
Decisione: Sentenza n. 4211/2016 Cassazione Civile – Sezione I 
 
 
Il caso.
 
A una giornalista era stato riconosciuto, in base a consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado e poi con supplemento di operazioni peritali, il diritto al risarcimento del danno biologico e del danno morale nella misura del 15% per esposizione a fumo passivo in azienda.
 
La lavoratrice lamentava inoltre di aver subito il demansionamento ad opera del datore di lavoro.
 
Il giudice di appello aveva respinto la domanda di riconoscimento della dequalificazione e aveva accolto quella di risarcimento per danno da esposizione a fumo passivo.
 
La giornalista ricorreva, con tre motivi, in Cassazione avverso la decisione della Corte d’Appello, che aveva deciso sulla sentenza in primo grado vertente su due punti: 1) la violazione dell’art. 2103 codice civile (demansionamento della lavoratrice) e 2) la responsabilità del datore di lavoro per l’esposizione della lavoratrice al cd. fumo passivo.
 
La Cassazione accoglie il ricorso della lavoratrice, cassa la sentenza di appello e rinvia alla Corte di Appello in diversa composizione per una nuova pronuncia.
 

La decisione.
 
Tralasciando la parte della decisione relativa agli aspetti del demansionamento, in merito al risarcimento del danno da cd. fumo passivo la Cassazione fa alcune precisazioni.
 
Dapprima ha descritto quanto deciso dalla Corte di Appello, la quale aveva affermato che «doveva invece affermarsi la responsabilità di parte datoriale ex art. 2087 cod. civ. per non aver posto in essere misure idonee a prevenire la nocività dell’ambiente lavorativo derivante dal fumo, come risultante dall’istruttoria svolta e dal supplemento di perizia, disposto in secondo grado, che aveva confermato la riconducibilità eziologica della patologia riscontrata a carico della lavoratrice alle condizioni di lavoro, ravvisando un danno biologico pari al 15%, con conseguente risarcimento liquidato».
 
Anche il ricorso incidentale del datore di lavoro era articolato in tre motivi: 
 
«1. – con il primo, la società assume, in relazione all’art. 360, co. I, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2087 cod. civ., anche in relazione all’art. 1223 cod. civ., per aver riconosciuto la responsabilità per “fumo passivo” in difetto di puntuali e precisi elementi a carico del datore di lavoro, che si era adoperato emanando specifiche circolari e direttive;
 
2. – con il secondo motivo la RAI denuncia, in relazione all’art. 360, co. I, n. 5, cod. proc. civ., la carenza di motivazione in ordine all’accertamento circa la concreta idoneità patogenetica dell’esposizione al fumo passivo, anche in relazione alla ipotetica concentrazione della medesima;
 
3. – con il terzo motivo la controricorrente si duole, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., della carenza di motivazione in ordine alla ritenuta efficacia concausale dell’esposizione al fumo passivo, cui ha tuttavia corrisposto l’adozione di una condanna risarcitoria commisurata all’intera percentuale di invalidità riconosciuta, mentre con l’atto di appello era stato dedotto che trattandosi ad ogni modo di incidenza concausale, il danno risarcibile andava congruamente ridotto, se non addirittura escluso, nell’assoluta incertezza circa l’effettiva prevalenza della rilevanza del fumo passivo sugli altri elementi concausale. Per contro, la Corte d’Appello non aveva affatto risposto a tale rilevo, pur ribadendo in motivazione la natura meramente concausale dell’esposizione al fumo passivo, ciò che determinava un ulteriore vizio motivazionale della sentenza impugnata, riguardante all’evidenza un fatto decisivo, quale la determinazione della concreta misura della prestazione risarcitoria a carico dell’azienda».
 
La Suprema Corte così motiva: «va senz’altro disatteso il ricorso incidentale le cui doglianze appaiono inammissibili e/o comunque infondate, alla stregua di quanto ampiamente e correttamente valutato nonché deciso con la pronuncia de qua. 
 
Ed invero, non sussiste alcuna violazione o falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. anche in relazione all’art. 1223 c.c., laddove sul punto la società, a fronte delle specifiche argomentazioni circa la riconosciuta responsabilità (evidentemente di natura contrattuale, a carico di parte datoriale a titolo di risarcimento danni per esposizione a fumo passivo in ambito aziendale), si è limitata a richiamare, peraltro senza alcuno specifico riferimento, non meglio indicate circolari e disposizioni organizzative, e senza che neppure sia stata allegata l’effettiva inflizione di qualche sanzione disciplinare in merito, invece soltanto ipotizzata. Ne deriva che la RAI sicuramente non ha fornito la prova che le incombeva a norma dell’art. 1218 c.c. (responsabilità del debitore: — Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile).
 
Parimenti vanno disattesi il secondo ed il terzo motivo del ricorso incidentale, poiché inammissibilmente si pretende con tali censure di asserita carente motivazione di rimettere in discussione quanto in punto di fatto accertato congruamente dal giudice di merito mediante l’espletamento di idonea e pertinente c.t.u. medico-legale già in prime cure, per di più confermata in secondo grado a seguito di supplemento peritale, disposto a seguito dei rilievi mossi da entrambe le parti, i cui risultati sono stati, invece, recepiti in modo convinto ed ampiamente argomentato dalla Corte distrettuale … alla luce delle suesposte valutazioni tecniche -peraltro ribadite all’esito dei rilievi critici del CT di parte RAI- e che il collegio non ha ragione di disattendere, la ricorrente ha diritto al risarcimento del danno biologico e del danno morale ragguagliato alla percentuale del 15%…).
 
Pertanto, il ricorso incidentale va respinto, in quanto tende in effetti ad una nuova valutazione di merito, rispetto a quella compiuta dalla Corte capitolina in forza di motivazione esente da vizi. Infatti, l’assunta emanazione di circolari e direttive (praticamente inattuate … il c.d. approccio persuasivo e non repressivo … , cfr. pag. 8 della sentenza n. 4645/11) non costituisce, evidentemente, misura idonea a contrastare i rischi da esposizione al fumo passivo, né di conseguenza idonea prova liberatoria ai sensi del citato art. 1218 c.c.; mentre, quanto alle ulteriori censure, la torte si è basata sulle valutazioni espresse, conformemente, dai consulenti tecnici di ufficio di primo e di secondo grado (quest’ultimo pure a seguito dei rilievi del c.t.p. appellante), anche in ordine all’efficacia causale della manchevole condotta posta in essere dalla datrice di lavoro».
 
 
Osservazioni.
 
Relativamente al risarcimento dei danni da cd. fumo passivo, la Cassazione condanna il datore di lavoro per non aver assolto all’onere della prova previsto dall’art. 1218 codice civile.
 
Per la corte di legittimità, il generico richiamo a circolari e disposizioni organizzative interne, senza l’allegazione di sanzioni disciplinari effettivamente comminate ma solamente ipotizzate, non sono idonei a dimostrare l’esistenza di una causa non imputabile al datore di lavoro.
 
 
 
Disposizioni rilevanti.
 
 
 
REGIO DECRETO 16 marzo 1942, n. 262
 

Codice Civile
 
 
Art. 1218 – Responsabilità del debitore
Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
 
Art. 2087 – Tutela delle condizioni di lavoro
L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
 
 
 ***
 
Pubblicato su AmbienteDiritto.it il 29 Marzo 2016
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