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I CONTENUTI DELLA RIFORMA COSTITUZIONALE IN ATTESA DEL REFERENDUM

 Carlo Rapicavoli
 
 

PREMESSA

Dopo una lunghissima rincorsa durata diversi mesi, finalmente si è giunti al traguardo con la scelta del Governo di fissare la data per il referendum costituzionale, utilizzando tutto il tempo concesso dalla vigente normativa.

Tutto il tempo trascorso, però, si è risolto finora in uno stucchevole dibattito, fatto di slogan ad effetto, che però non consentono alcun serio approfondimento sui reali contenuti della riforma.

Sin dall’avvio del dibattito parlamentare e, soprattutto con l’approvazione in prima lettura, si è brandito lo strumento del referendum costituzionale, a più riprese, prima quale strumento di massima partecipazione democratica, concesso dal Governo per suggellare la bontà della riforma, poi, sulla base dei sondaggi del momento, quale strumento plebiscitario per legittimare il ruolo del Governo, per giungere infine alla definizione degli schieramenti pro e contro il Governo e il suo Presidente del Consiglio e non sui contenuti della riforma.

Oggi si prospettano catastrofi inenarrabili in caso prevalga il no alla riforma, con il compiacente avallo dell’informazione che da mesi enfatizza la prossima scadenza e le dichiarazioni apodittiche di un gran numero di soggetti, anche internazionali, che intervengono sul tema, in modo irrituale e disinformato.

Si corre il concreto rischio di amplificare, ogni giorno di più, tale impostazione, considerata come l’unica possibile strategia di successo per i sostenitori della riforma, con l’ultimo beneplacito del Presidente emerito della Repubblica, molto prodigo di consigli, perdendo di vista il merito della riforma stessa.

Emblematico in tal senso è apparso il primo vero confronto televisivo, purtroppo segnato dalla plastica rappresentazione di due mondi lontanissimi e inconciliabili: la pacata e competente riflessione e l’approfondimento delle questioni di merito contro la spiccata capacità comunicativa, per slogan, che rappresenta l’immediato obiettivo politico-elettorale della riforma.

Si sono succedute dichiarazioni ad effetto sulla strabiliante portata innovatrice della riforma, addirittura “attesa da settant’anni” a sentire il Ministro, con buona pace del lavoro dei Costituenti che, ancor prima della promulgazione della Costituzione del 1948, vivevano già in un Paese in trepidante attesa dell’attuale riforma.

Nella nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, approvato dal Consiglio dei Ministri il 27 settembre scorso, si legge: “Affinché tuttavia la politica di bilancio stimoli la crescita e la creazione di occupazione, e le riforme strutturali adottate producano benefici crescenti nel tempo, il Paese ha bisogno di stabilità politica e istituzionale; in tal senso le riforme istituzionali promosse mirano a rendere l’attuale sistema più stabile ed efficiente. In particolare la riforma costituzionale intende snellire il processo legislativo, superando il bicameralismo perfetto e realizzando una più efficiente allocazione delle competenze e una riduzione dei contenziosi tra centro e periferia; la legge elettorale intende garantire governabilità, stabilità e accountability”.

Si fa oggettivamente fatica a comprendere la correlazione tra la riforma costituzionale e i “benefici economici” a più riprese sottolineate dal Governo, spesso – oltre ogni prudenza – azzardando cifre miliardarie e punti percentuali di PIL. Non vi è traccia, peraltro, nello stesso DEF di una volontà di modifica della legge elettorale, ribadita dal Governo il giorno dopo l’approvazione del documento.

E il Governo tralascia di ricordare che, comunque, lo stesso si pone ad oggi al quarto posto per permanenza in carica tra tutti i Governi della Repubblica (e il bisogno di maggiore stabilità?). Qualche riflessione più seria, e meno ad uso comunicativo, dunque andrebbe fatta.

Mai come in questa occasione vi è la piena rappresentazione della mancata attuazione della nostra Costituzione, malgrado le citazioni utilizzate fuori contesto da molti sostenitori della riforma.

Piero Calamandrei scriveva nel 1947:Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti; estraneo del pari deve rimanere il governo alla formulazione del progetto, se si vuole che questo scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana”.

Più recentemente, a pochi anni dalla morte, Giuseppe Dossetti, prestigioso protagonista del processo costituente, commentando le iniziative di riforma costituzionale nella prima metà degli anni Novanta, scriveva: “Si tratta di impedire a una maggioranza, che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo, di mutare la Costituzione: si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un autentico colpo di Stato”.

Ma, al di là del ruolo del Governo nel processo di riforma costituzionale, va ricordata la ratio dell’art. 138 nella parte in cui prevede il referendum costituzionale.

Lo strumento del referendum è stato voluto dai Costituenti come strumento per le minoranze che non hanno condiviso i progetti di revisione costituzionale.  E’ evidente la finalità: se si raggiunge la maggioranza qualificata dei due terzi (va ricordato peraltro che vigeva il regime elettorale proporzionale) non si ricorre al referendum, in quanto la maggioranza è altamente rappresentativa del popolo sovrano. In assenza della maggioranza qualificata, si può ricorrere al referendum se richiesto da un quinto dei parlamentari (o da cinquecentomila elettori o da cinque Consigli Regionali), che evidentemente rappresentano coloro che, in ciascuna Camera, si sono opposti alla emanazione della legge di revisione della Costituzione.

Ecco che la forte caratterizzazione politica, pro o contro il Governo, tradisce lo spirito della Costituzione.

Lo tradisce l’idea, alimentata costantemente, che il ricorso al referendum è stato “concesso” al popolo dallo stesso Governo “costituente”, per dimostrare il comune sentire dei cittadini con le scelte riformatrici.

Lo tradisce l’atteggiamento, almeno iniziale, della campagna referendaria, che lega all’esito della stessa la sorte del Governo e della stessa legislatura o il destino politico e personale dei principali protagonisti della riforma, a cui hanno dato il nome.

l tentativo, forse velleitario, è quello di entrare nel merito della riforma, cercando di affrontare, con successivi interventi, i vari aspetti principali su cui va posta l’attenzione:

a)    Il superamento del bicameralismo perfetto e il nuovo procedimento legislativo;

b)    Il nuovo Senato

c)    La riforma del titolo V – la ridefinizione delle competenze regionali – la sorte delle autonomie locali

d)    Le garanzie costituzionali – il Presidente della Repubblica – la Corte Costituzionale – gli strumenti di partecipazione popolare.

L’esame delle varie questioni non potrà prescindere da un’avvertenza necessaria: l’ineludibile correlazione fra le varie parti del nuovo testo costituzionale.

Un intervento di modifica così ampio non può che porre problemi di coordinamento generale di sistema, non pienamente realizzato, con rischi concreti di disfunzioni e anomalie.

E’ auspicabile che nei prossimi due mesi, fino al referendum, si passi dagli scontri tra tifoserie ad un confronto sul merito.

Ma il punto è: stiamo parlando del futuro assetto del nostro ordinamento costituzionale, dei principi fondamentali che regoleranno la convivenza civile e politica del nostro Paese nei prossimi decenni o del successo elettorale e del futuro politico dei promotori della riforma?

Dalla qualità delle argomentazioni e del dibattito, un’idea finora è emersa abbasta nitida.

IL SUPERAMENTO DEL BICAMERALISMO PARITARIO

 

La riforma affronta certamente una delle questioni sulle quali si è maggiormente discusso da anni: il superamento del bicameralismo fondato su due Camere, quasi gemelle, che svolgono le medesime funzioni, il cosiddetto “bicameralismo paritario e indifferenziato”.

 

Si sono succeduti vari tentativi di riforma a partire dalla Commissione presieduta dal deputato liberale Aldo Bozzi, già membro della Costituente, istituita nel 1983.

 

Tali tentativi non hanno finora avuto successo.

 

L’attuale riforma, soggetta a referendum, si fonda sui seguenti punti:

1)      Si passa ad un bicameralismo differenziato

2)      Si distinguono le funzioni delle due Camere

3)      Si interviene sulla composizione e sulle modalità di elezione delle due Camere.

 

 

I CONTENUTI DELLA RIFORMA

 

Distinzione delle funzioni delle due Camere (nuovo testo dell’art. 55)

 

LA CAMERA DEI DEPUTATI

La Camera dei deputati è titolare del rapporto di fiducia con il Governo ed esercita la funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e quella di controllo dell’operato del Governo”.


IL SENATO DELLA REPUBBLICA

Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato”.



Rapporto di fiducia con il Governo

 

Non sono più le due Camere a dare la fiducia al Governo, ma solo la Camera dei Deputati (art. 55).

Tale principio è ribadito dal nuovo art. 94, secondo il quale: “Il Governo deve avere la fiducia della Camera dei deputati.

 

Stato di guerra

 

Il nuovo art. 78 prevede: “La Camera dei deputati (non più le due Camere) delibera a mag­gioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari”.

 

Amnistia e indulto

 

Il nuovo art. 79 prevede: “L’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti della Camera dei deputati (non più delle due Camere), in ogni suo articolo e nella vo­tazione finale”.

 

Della nomina degli organi di garanzia costituzionale si tratterà in un successivo intervento.

 

**************

 

Risulta evidente, da questo primo esame, come risultano chiaramente delineate le funzioni della Camera dei Deputati quale organo titolare della funzione legislativa, del rapporto di fiducia con il Governo, di indirizzo e controllo.

 

L’importanza delle funzioni esercitate comporta però l’esigenza che venga garantita, nella composizione della Camera, adeguata rappresentanza democratica attraverso una legge elettorale – che non è materia oggetto di legge costituzionale – che sia rispettosa dei principi della prima parte della Costituzione.

 

Basti pensare, solo per fare un esempio, che la Camera, a maggioranza assoluta, delibera lo stato di guerra. Una legge elettorale, con ampio premio di maggioranza attribuito al partito con il maggior numero di voti, tale da assicurare la maggioranza assoluta dei componenti, a prescindere dall’effettiva percentuale di voti (anche a seguito di ballottaggio), attribuisce ad un unico partito tale prerogativa.

 

Il nuovo art. 60 inoltre prevede solo per la Camera dei deputati la proroga in caso di guerra. Un pasticcio istituzionale che determinerebbe, anche in caso di conflitto bellico, che l’Italia potrebbe dover rinnovare il Senato, che a sua volta non può esser sciolto dal Presidente della Repubblica che ha il solo potere di sciogliere la Camera.

 

La riforma, fortunatamente, non modifica l’art. 56 che fissa un principio che è salvaguardia della democrazia parlamentare per cui si afferma “la Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto”, principio che appare naturale attuazione dell’art. 1: “La sovranità appartiene al popolo”.

Questo principio del suffragio diretto per cui l’elettore sceglie direttamente il suo rappresentante risulta ampiamente disatteso allorché si esaminano congiuntamente gli effetti della “nuova” Costituzione e della legge elettorale vigente per la Camera dei deputati e delle scelte anticipatorie della riforma già introdotte con legge ordinaria: deputati capilista bloccati, senatori nominati, squilibrio tra numero dei deputati e dei senatori, possibilità di candidature multiple in più circoscrizioni, abolizione della rappresentanza democratica diretta nelle “nuove” Province – Enti di area vasta.

Altrettanta chiarezza manca nella elencazione – ampia – delle funzioni del Senato, che, in buona parte, presenta difficoltà interpretative nella esatta definizione dei confini delle stesse, con possibili conflitti di attribuzione di competenza.

 

IL PROCEDIMENTO LEGISLATIVO

 

Il superamento del bicameralismo paritario trova la sua principale evidenziazione nell’attribuzione della titolarità della funzione legislativa solo alla Camera dei Deputati.

 

L’art. 70 oggi vigente, con estrema semplicità, prevede: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”.

 

Il nuovo testo dell’art. 70 è molto articolato e prevede varie fattispecie.

 

LE MATERIE IN CUI SI MANTIENE IL BICAMERALISMO PARITARIO

 

Il nuovo testo prevede innanzitutto il mantenimento del bicameralismo paritario in alcune materie, per le quali quindi la funzione legislativa è esercitata ancora collettivamente dalla Camera e dal Senato:

a)    leggi di revisione della Costituzione;

b)    altre leggi costituzionali;

c)    leggi di attuazione delle dispo­sizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione popolare di cui al nuovo articolo 71;

d)    le leggi che determinano l’ordinamen­to, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolita­ne e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni;

e)    la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazio­ne dell’Italia alla formazione e all’at­tuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea;

f)     la legge che determina i casi di ineleggibilità e di in­compatibilità con l’ufficio di senatore

g)    le leggi che regolano le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubbli­ca tra i consiglieri e i sindaci;

h)    Le leggi che autorizzano la rati­fica dei trattati relativi all’appartenen­za dell’Italia all’Unione europea;

i)     La legge che disciplina l’ordinamento di Roma capitale;

j)     La legge che può attribuire forme e condizioni particolari di autonomia ad alcune Regioni a statuto ordinario in alcune materie previste dall’art. 116 pur­ché la Regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio;

k)     Le leggi che disciplinano la procedura per i rapporti tra le Regioni e altri Stati;

l)     La legge che disciplina la gestione del patrimonio di Regioni ed Enti Locali;

m)   La legge che disciplina i poteri sostituti dello Stato;

n)    La legge che stabilisce la durata degli organi elettivi delle Regioni e i relativi emolumenti;

o)    Le Leggi che prevedono il distacco dei Comuni da una Regione e la loro aggregazione ad altra Regione.

 

Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi appro­vate con deliberazione delle due Camere.

 

Il nuovo art. 71, primo comma, prevede inoltre che “Il Senato della Repubblica può, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, richiedere alla Camera dei deputati di procedere all’esame di un disegno di legge. In tal caso, la Camera dei deputati procede all’esame e si pronuncia entro il termine di sei mesi dalla data della deliberazione del Senato della Repubblica”.

 

Se, per alcune materie, appaiono chiari e definiti i contenuti, per altre possono porsi innumerevoli problemi applicativi.

 

Basti pensare alle leggi di “at­tuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”.

 

Oggi gli ambiti di intervento della normativa comunitaria sono sempre più ampi e spaziano in tutte le materie: è sufficiente verificare il contenuto delle leggi approvate dal Parlamento nel corso del 2016 per accertare che buona parte delle stesse contengono attuazione di direttive comunitarie.

 

Resta aperto inoltre il tema dei testi normativi cosiddetti omnibus, cui si è fatto largo ricorso negli ultimi anni – si pensi ad esempio ai contenuti disparati delle leggi di stabilità e di bilancio – nei quali facilmente rientrano argomenti riconducibili alle materie riservate alla doppia deliberazione. In questi casi, si pone il problema della disciplina applicabile che, in caso di deliberazione di una sola Camera, porrebbe seri problemi di legittimità costituzionale, almeno per le parti che contemplano la competenza del Senato.

 

Sono talmente ampie le funzioni del Senato che appare velleitario immaginare che possano essere svolte adeguatamente con la composizione che il nuovo testo prevede e la cui analisi è rinviata ad un successivo intervento.

 

LE MATERIE CHE PREVEDONO IL SUPERAMENTO DEL BICAMERALISMO

 

Il nuovo art. 70, al secondo comma, detta il principio: “Le altre leggi sono approvate dalla Ca­mera dei deputati”.

 

Dunque: fine del ping pong tra i due rami del Parlamento almeno per le materie non elencate nel primo comma? 

 

Ma è davvero così?

 

Il terzo comma del nuovo art. 70 prevede che:

 

a)    Ogni disegno di legge approvato dal­la Camera dei deputati è immedia­tamente trasmesso al Senato della Repubblica;

b)    Entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi compo­nenti, il Senato può disporre di esaminarlo;

c)    Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo;

d)    Sulle proposte di modifica deliberate dal Senato, la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva;

e)    Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronun­ciata in via definitiva, la legge può es­sere promulgata.

 

Dunque potenzialmente i disegni di legge approvati dalla Camera, in ogni materia, necessitano di un termine di almeno quaranta giorni affinché il Senato deliberi le proposte di modifica, cui si aggiungono i tempi di trasmissione al Senato, sebbene l’avverbio “immediatamente” faccia prefigurare tempi rapidi anche se non definiti.

 

Trascorsi i quaranta giorni la Camera deve nuovamente calendarizzare la deliberazione definitiva della legge dopo aver esaminato, ed eventualmente accolto, le proposte di modifica del Senato.

 

Non è previsto un termine per la deliberazione definitiva. 

 

Sulla base dell’importanza delle modifiche proposte, il testo potrebbe tornare in Commissione e poi in aula.

 

E’ facile prevedere che tale complesso iter di formazione delle leggi non appare idoneo a superare le, almeno presunte, criticità del bicameralismo.

 

FATTISPECIE PARTICOLARI

 

Supremazia dello Stato

 

Il nuovo art. 117, quarto comma, prevede che su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in ma­terie di competenza regionale quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’inte­resse nazionale.

 

Per queste tipologie di norme si prevede il riesame obbligatorio del Senato, dopo la deliberazione della Camera, nel termine di dieci giorni dal­la data di trasmissione.

 

In questi casi la Camera può non conformarsi alle modifica­zioni proposte dal Senato della Re­pubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti.

 

Si tratta di una formulazione non proprio felice: si prevede solo la possibilità di totale accoglimento delle modifiche del Senato? E’ possibile accoglierne solo una parte? In tal caso si tratta di nuova deliberazione che deve riprendere l’iter ordinario, con la trasmissione al Senato per un nuovo esame?

 

La norma non ribadisce, in questo caso, il principio applicabile per le altre leggi secondo cui “Sulle proposte di modifica deliberate dal Senato, la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva”, lasciando così prevedere un possibile ripetuto ping pong.

 

Legge di bilancio

 

L’art. 81 quarto comma prevede che “La Camera dei deputati ogni anno ap­prova con legge il bilancio e il rendicon­to consuntivo presentati dal Governo”.

 

Per tali norme l’art. 70 prevede che “I disegni di legge approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Sena­to della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quin­dici giorni dalla data della trasmissione”.

 

Cosa accade per tali proposte di modificazione? L’esame del Senato è obbligatorio? La Camera può deliberare in via definitiva o se accoglie parzialmente deve chiedere un nuovo esame? Perché non inserire tali norme nell’iter ordinario prevedendo solo la riduzione dei termini per il riesame?

 

Conversione dei decreti legge

 

Il nuovo art. 77, settimo comma, prevede che “l’esame, a norma dell’articolo 70, terzo e quarto comma, dei disegni di legge di conversione dei decreti è disposto dal Senato della Repubblica entro trenta giorni dalla loro presentazione alla Camera dei deputati. Le proposte di modificazione possono essere deliberate entro dieci giorni dalla data di trasmissione del disegno di legge di conversione, che deve avvenire non oltre quaranta giorni dalla presentazione”.

 

 

Conflitti di competenza

 

Come norma di chiusura di tale articolato meccanismo di rapporti tra le due Camere, l’art. 70 dispone che “I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questio­ni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti”.

 

La norma richiede l’intesa. Se non si raggiunge l’intesa? Non resta che rivolgersi alla Corte Costituzionale, unico organo competente a risolvere i conflitti di attribuzione.

 

E fino alla pronuncia?  Se il conflitto riguarda, com’è probabile, l’inquadramento di una norma tra quelle di competenza bicamerale, il procedimento legislativo rimane sospeso?

 

Criticità

 

A fronte del condivisibile obiettivo del superamento del bicameralismo paritario, si è introdotto un sistema farraginoso, ricco di questioni non chiaramente definite, fonte di possibili frequenti contenziosi, sia in fase di svolgimento dell’iter di formazione delle leggi, sia successivamente, potendo sempre essere sollevata questione di legittimità di una norma perfezionatasi in violazione di norma costituzionale.

 

Criticare il “bicameralismo perfetto” della Costituzione vigente non vuol dire necessariamente sottoscrivere un testo che “non funzionerà mai e complicherà in modo incredibile i lavori del Parlamento”.

 

Appare evidente che il nuovo Senato, con una composizione lontana da qualunque effettiva rappresentanza democratica e con la molto probabile incapacità di esercitare effettivamente i poteri attribuitigli esalta i limiti e le incongruenze della riforma.

 

La convinzione che il bicameralismo impedisca al sistema parlamentare di funzionare è molto diffusa; i ripetuti rimpalli tra le due Camere sono percepiti come patologia del nostro sistema.

 

I dati contenuti in vari studi che certificano la durata media del procedimento legislativo possono facilmente smentire queste conclusioni e dimostrare, invece, che, in gran parte dei casi, il “rimpallo” è stato utilizzato come strumento per riparare a veri propri errori commessi in prima lettura, o altre volte, come di recente avvenuto più volte, allo scopo di alleggerire la tensione politica.

 

Altrettanto evidente è l’abnorme produzione legislativa, spesso rappresentata da ripetuti interventi correttivi, anche a breve termine, su testi normativi approvati di recente, con conseguente decadimento della qualità normativa e scarso o nullo coordinamento dei testi.

 

Oggi il mantra è riformare il sistema: ma secondo quale modello? Con quale reale obiettivo?

 

La comunicazione – meglio la propaganda – incessante ci dice che la riforma semplificherà il sistema. Dalla seppur sommaria analisi del nuovo procedimento legislativo ci si rende conto facilmente che non sarà così, con una proliferazione di fattispecie confuse e senza una comprensibile ragione d’essere.

 

Dal bicameralismo paritario o perfetto si passa ad un bicameralismo difettoso e conflittuale.

 

Un bicameralismo che, senza una significativa modifica della legge elettorale, vedrà una Camera all’interno della quale una minoranza nel Paese avrà la maggioranza assoluta, con ogni effetto conseguente, ed un Senato che, malgrado le buone intenzioni dichiarate, non potrà funzionare e non rappresenterà le autonomie regionali e locali né le comunità che le compongono.

 

Il sillogismo riforma = bene assoluto non è accettabile; se l’esito di una riforma è il caos normativo, l’accentuazione dei conflitti, la centralizzazione del potere, allora è vero esattamente il contrario.

 

Ciò non toglie che un ripensamento del sistema può apparire opportuno, forse necessario, per rendere più efficiente il processo decisionale, purché il rimedio non sia peggiore del male, soprattutto quando una riforma ampia e complessa come quella di cui si discute è l’esito di uno scontro tra fazioni, priva di un progetto organico, dettata da un clima di emergenza che nulla ha a che fare con l’assetto delle Istituzioni e immaginata più a fini di legittimazione di una parte che a vera riforma di sistema.

 

Attribuire all’ordinamento costituzionale i difetti che appartengono alla classe politica non appare, in ogni caso, un commendevole esercizio.

 

Il nuovo Senato

 

LA COMPOSIZIONE DEL NUOVO SENATO

 

Il nuovo art. 57 della Costituzione prevede:

1.    Il Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica.

2.    I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori.

3.    Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a due; ciascuna delle Province autonome di Trento e di Bolzano ne ha due.

4.    La ripartizione dei seggi tra le Regioni si effettua, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, in proporzione alla loro popolazione, quale risulta dall’ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.

5.    La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma.

6.    Con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale. I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio”.



ALCUNE CERTEZZE (poche)

 

Nella composizione del nuovo Senato, la quota certa è quella di 95 componenti indicati dalle Regioni: 21 sindaci, uno per ogni Consiglio Regionale (19) e Provinciale (2), e 74 Consiglieri Regionali, scelti da ciascuna Regione in relazione alla popolazione residente, con un minimo di due per Regione.

 

L’elezione popolare diretta dei Senatori è dunque sostituita con l’elezione degli stessi da parte dei Consigli Regionali e dei Consigli Provinciali di Trento e di Bolzano.

 

Ciascun Consiglio Regionale (nonché i Consigli Provinciali di Trento e di Bolzano) sceglie un componente fra i Sindaci dei rispettivi territori.

 

Sono così ventuno i Senatori Sindaci.

 

Gli altri settantaquattro Senatori sono Consiglieri Regionali (e provinciali autonomi). Infatti essi sono scelti dai Consigli al proprio interno.

 

Nessuna Regione può avere meno di due Senatori.

 

La Provincia autonoma di Trento e la Provincia autonoma di Bolzano hanno ciascuna due Senatori. La ripartizione dei rimanenti seggi tra le Regioni si effettua in proporzione alla loro popolazione, quale risulta dall’ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.

 

Ne consegue una ripartizione non equa rispetto alla rappresentanza della popolazione.

 

Con riferimento ai dati del censimento della popolazione del 2011, ne deriverebbe, solo per fare qualche esempio, che la Regione Veneto eleggerebbe sette Senatori (sei Consiglieri Regionali ed un Sindaco) pari ad un senatore ogni 693.887 abitanti, mentre la Provincia di Bolzano eleggerebbe due Senatori (un Consigliere Provinciale ed un Sindaco)  pari ad un Senatore ogni 252.322 abitanti oppure la Regione Valle d’Aosta eleggerebbe due Senatori (un Consigliere Regionale ed un Sindaco) pari ad un Senatore ogni 63.403 abitanti, con una rappresentanza di oltre dieci volte più elevata rispetto al Veneto, o la Basilicata con un Senatore ogni 289.018 abitanti.

 


MODALITA’ DI ELEZIONE

 

Sulle modalità di elezione /nomina dei senatori non vi è alcuna chiarezza.

 

Il secondo comma si limita a precisare che i Consigli Regionali eleggono tra i propri componenti, con metodo proporzionale, i Senatori.

 

Le modalità di elezione sono rinviate ad una legge approvata da entrambe le Camere con la precisazione che “i seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio”.

 

Fino all’approvazione della legge, che dovrà regolare le modalità di elezione dei Senatori e che dovrebbe essere promulgata entro sei mesi dalla data di svolgimento delle elezioni della Camera dei deputati, secondo quanto previsto dalle disposizioni transitorie, la prima costituzione del Senato della Repubblica ha luogo entro dieci giorni dalla data della prima riunione della Camera dei deputati successiva alle elezioni svolte dopo la data di entrata in vigore della riforma costituzionale.

 

In prima applicazione, per l’elezione del Senato della Repubblica, nei Consigli Regionali e della Provincia autonoma di Trento, ogni Consigliere può votare per una sola lista di candidati, formata da Consiglieri e da Sindaci dei rispettivi territori e i seggi sono attribuiti con il sistema proporzionale secondo il metodo d’Hondt.

 

Per la lista che ha ottenuto il maggior numero di voti, può essere esercitata l’opzione per l’elezione del Sindaco o, in alternativa, di un Consigliere, nell’ambito dei seggi spettanti. In caso di cessazione di un Senatore dalla carica di Consigliere o di Sindaco, è proclamato eletto rispettivamente il Consigliere o Sindaco primo tra i non eletti della stessa lista.


I Senatori a vita in carica alla data di entrata in vigore della riforma costituzionale permangono nella stessa carica, ad ogni effetto, quali membri del Senato della Repubblica.

 

 

LIMITE DI ETA’

 

Non è più previsto alcun limite di età. Quindi è sufficiente aver compiuto il diciottesimo anno di età per essere eletto Senatore. 

 

Con la Costituzione vigente occorre avere compiuto il quarantesimo anno di età.

 

Per la Camera dei Deputati occorre avere compiuto il venticinquesimo anno di età.

 

CRITICITA’

 

La formulazione del nuovo art. 57, per molti aspetti, risulta di difficile comprensione, frutto delle modifiche intervenute nel corso del dibattito parlamentare, non chiaramente definite nella ratio e nel coordinamento complessivo del testo.

 

Lo stesso articolo afferma:

1)    I Senatori sono eletti dai Consigli Regionali, tra i propri componenti, con metodo proporzionale (oltre ai Sindaci, uno per Regione);

2)    La ripartizione dei seggi tra le Regioni si effettua in proporzione alla loro popolazione (fermo restando che nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a due; ciascuna delle Province autonome di Trento e di Bolzano ne ha due);

3)    I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio;

4)    La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi.

 

Se i Senatori sono eletti con metodo proporzionale (secondo comma), cosa si intende con la previsione che i “seggi sono attribuito in ragione dei voti espressi (da chi? dai cittadini elettori o dai Consiglieri Regionali?) e della composizione di ciascun Consiglio (sesto comma)”?

 

In gran parte delle Regioni vige un sistema elettorale con premio di maggioranza; pertanto, se si tiene conto della composizione del Consiglio, i seggi non possono essere rappresentazione dei voti espressi dai cittadini in misura proporzionale.

 

In questo contesto, ancora più criptica appare la previsione del quinto comma allorché precisa che la durata del mandato dei Senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi”.

 

Posto che gli elettori non hanno alcuna possibilità di scelta rispetto alla durata degli organi territoriali (Sindaci e Consigli Regionali), fissata dalla legge, bisognerebbe comprendere in cosa consista la conformità con le scelte espresse dagli elettori per i candidati Consiglieri in occasione del rinnovo degli organi.

 

Esclusa ogni possibile connessione con l’elezione dei Sindaci – la norma parla di Consiglieri -, cosa possono esprimere gli elettori, in occasione del rinnovo dei Consigli Regionali, in ordine alla durata del mandato dei Senatori?

 

Se l’intento del legislatore costituente possa essere quello di valorizzare la volontà dei cittadini elettori anche nella scelta dei Senatori, allora non si comprende perché tale inciso sia stato inserito nel comma che tratta della durata del mandato e non in quello che si occupa dell’elezione dei Senatori.

 

Come formulata, la norma costituzionale appare incomprensibile e inapplicabile.

 

Altrettanto nebulosa appare le previsione del nuovo art. 63 allorché precisa che “Il regolamento stabilisce in quali casi l’elezione o la nomina alle cariche negli organi del Senato della Repubblica possono essere limitate in ragione dell’esercizio di funzioni di governo regionali o locali”.

 

In cosa consiste questa possibile limitazione?  Non tutti i Senatori avranno le medesime prerogative? Non tutti possono assumere la carica di Presidente del Senato?

 

 

DURATA DEL SENATO

 

Non è prevista alcuna durata del mandato del Senato né è prevista l’ipotesi di scioglimento dello stesso da parte del Presidente della Repubblica.

 

L’art. 57, quinto comma, prevede infatti che la durata del mandato dei Senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti.

 

Pertanto, i singoli Consiglieri Regionali, eletti Senatori, decadono dalla carica di Senatore alla scadenza del mandato del Consiglio Regionale dal quale sono stati eletti.

 

Fino all’approvazione della legge che dovrà disciplinare le elezioni del Senato, i Consigli Regionali sono convocati in collegio elettorale entro tre giorni dal loro insediamento.

 

Potrebbe verificarsi un periodo, anche lungo, coincidente con le scadenze elettorali regionali, nel quale il Senato potrebbe trovarsi in una condizione di non completa costituzione, con possibile paralisi dell’attività legislativa per le materie di competenza.

 

Inoltre, la formulazione, ancora una volta poco felice, pone dei dubbi sulla durata del mandato di Senatore attribuito ai Sindaci eletti dai Consigli Regionali.

 

La norma costituzionale prevede che la durata del mandato dei Senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti.  Pertanto, poiché il Sindaco è eletto Senatore dal Consiglio Regionale, sulla base di tale formulazione, manterrebbe tale carica anche dopo la decadenza dalla carica di Sindaco. 

 

La norma costituzionale, infatti, non fa coincidere la durata del mandato con quella della carica ricoperta dal Senatore eletto ma con la durata del mandato degli organi territoriali – Consigli Regionali e Provinciali – dai quali i Senatori sono stati eletti.

 

E se un Consigliere Regionale si dimette dal Consiglio resterebbe Senatore?

 

Anche in questo caso la formulazione del testo non è chiara.

 

Per essere eletti Senatori, occorre che i Consiglieri Regionali siano in carica – “I Consigli Regionali e i eleggono (…) i Senatori tra i propri componenti”.  Nulla dice la norma in caso di cessazione dalla carica, limitandosi a collegare la durata del mandato di Senatore con quella dell’organo dal quale è stato eletto.

 

Sembra fare maggiore chiarezza il nuovo art. 66 allorché precisa che: “Il Senato della Repubblica prende atto della cessazione dalla carica elettiva regionale o locale e della conseguente decadenza da Senatore”, facendo così presumere la decadenza del singolo Senatore – sia esso Consigliere Regionale o Sindaco – con la cessazione dalla carica elettiva.

 

Tuttavia un maggiore coordinamento tra le due norme sarebbe stato certamente auspicabile ed avrebbe evitato questioni interpretative.

 

VINCOLO DI MANDATO

 

Altra evidente contraddittorietà del nuovo testo costituzionale.

 

Il nuovo art. 55 proclama: “Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali”.

 

Ma il nuovo art. 67 precisa: “I membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato”.

 

Quindi anche i Senatori.

 

Delle due l’una: se i Senatori devono rappresentare le istituzioni territoriali da cui sono stati eletti, devono agire con vincolo di mandato; l’assenza di vincolo di mandato, sin dal dibattito in assemblea costituente, è stato sempre collegato al principio secondo il quale il Parlamentare rappresenta la Nazione e sottrarlo alla rappresentanza di interessi particolari significa che esso non rappresenta il suo partito o la sua categoria, ma la Nazione nel suo insieme.

 

Se il singolo Senatore non ha alcun vincolo, non si vede come il Senato possa configurarsi come Camera delle Autonomie o come vengono rappresentati gli interessi delle istituzioni territoriali.

 

Ne consegue altresì che – anche laddove si ritenesse che il sistema di elezione dei Senatori, in concreto prescelto, produca un’elezione indiretta o di secondo grado basata su uno specifico rapporto tra maggioranza (o minoranza) del Consiglio Regionale ed eletto – non vi sia revocabilità dell’incarico ove venga meno il rapporto di rappresentatività fra il Senatore-Consigliere Regionale e la parte consiliare che lo ha espresso.

 

SENATORI DI DIRITTO E A VITA – SENATORI NOMINATI DAL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA


I Senatori a vita, in carica alla data di entrata in vigore della riforma costituzionale, permangono nella stessa carica, ad ogni effetto, quali membri del Senato della Repubblica.

 

Il Presidente della Repubblica può inoltre nominare Senatori cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Tali Senatori durano in carica sette anni e non possono essere nuovamente nominati.

 

Fermo restando il principio che sono Senatori di diritto e a vita gli ex Presidenti della Repubblica, i Senatori nominati dal Presidente della Repubblica non possono eccedere, in ogni caso, il numero complessivo di cinque, tenuto conto della permanenza in carica dei Senatori a vita già nominati alla data di entrata in vigore della riforma costituzionale.

 

Lo stato e le prerogative dei senatori di diritto e a vita restano regolati secondo le disposizioni già vigenti alla data di entrata in vigore della riforma costituzionale.

 

Questo significa che gli attuali Senatori di diritto (ex Presidenti della Repubblica, oggi soltanto Napolitano) e gli attuali Senatori a vita (Mario Monti, Elena Cattaneo, Renzo Piano e Carlo Rubbia) mantengono tutte le attuali prerogative, comprese le indennità (non più previste per i nuovi Senatori).

 

Va rilevato altresì che il numero dei Senatori nominati rappresenta una percentuale molto più rilevante rispetto all’attuale situazione, raggiungendo (e potendo superare con i Senatori di diritto) il 5% dell’assemblea, mentre oggi rappresentano soltanto l’1,86%.

 

IMMUNITA’

 

Non viene modificato l’attuale art. 68 della Costituzione.  Pertanto anche i nuovi Senatori godranno della cosiddetta immunità parlamentare.

 

Quando l’autorità inquirente ha intenzione di applicare un provvedimento di restrizione per motivi cautelari della libertà personale di un Senatore, sia esso Sindaco o Consigliere Regionale o nominato dal Presidente della Repubblica (perquisizioni, intercettazioni delle comunicazione o arresto), è necessaria l’autorizzazione a procedere da parte del Senato.

 

 

 

 

OBBLIGO DI SVOLGERE IL MANDATO

 

Il nuovo art. 64 prevede che “I membri del Parlamento hanno il dovere di partecipare alle sedute dell’Assemblea e ai lavori delle Commissioni”.

 

I Senatori – Sindaci e Consiglieri Regionali – hanno dunque il dovere costituzionale di partecipare a tutti i lavori di aula e di commissione.

 

Come quest’obbligo possa conciliarsi con le incombenze derivanti dal mandato elettivo ricoperto è difficile da definire.

 

Malgrado quanto diffusamente divulgato sul ruolo limitato del nuovo Senato, basta considerare le innumerevoli prerogative ad esso attribuite dall’art. 70 per essere ampiamente smentiti.

 

Appare evidente che il nuovo Senato, con una composizione lontana da qualunque effettiva rappresentanza democratica e con la molto probabile incapacità di esercitare effettivamente i poteri attribuitigli, esalta i limiti e le incongruenze della riforma.

 

 

BREVI CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

 

Dalle breve analisi che precede, risultano molti aspetti non chiari.

 

Nessuno sa come saranno scelti, dopo la prima fase transitoria, i nuovi Senatori.

 

Non esiste una legge elettorale per il nuovo Senato né il Governo si è mai espresso chiaramente sulle modalità che intende proporre.

 

Non si comprende in che modo il nuovo Senato e i singoli Senatori possano rappresentare le istituzioni territoriali.

 

Non si ravvisa con quali modalità possa essere garantita la coerenza tra la composizione del Senato e le scelte espresse dagli elettori.

 

Non si vede come possa ragionevolmente essere assicurata la piena funzionalità del nuovo Senato in rapporto alle esigenze di governo territoriale dei suoi componenti.

 

Non è garantito alcun serio principio di rappresentatività, nemmeno territoriale, e si fa fatica a comprendere perché fra una Regione e l’altra vi sia sproporzione, anche di oltre dieci volte, nella rappresentanza, anche semplicemente per numero di abitanti.

 

Non si comprende secondo quale modalità i Consigli Regionali possano individuare un Sindaco del territorio regionale a rappresentare in Senato il territorio.  Tale Sindaco sarà portatore di quali istanze?  Quale legittimazione ha il Consiglio Regionale per scegliere un Sindaco che dovrebbe rappresentare le istanze di tutti gli altri Sindaci della Regione (pur senza vincolo di mandato)? Non prevarranno forse le appartenenze politico-partitiche o le maggioranze dei Consigli Regionali che possono certamente non corrispondere con quelle delle autonomie locali?

 

Secondo quale principio di rappresentanza il Consiglio Regionale del Piemonte sceglie un Sindaco tra i 1.202 Comuni del proprio territorio o il Consiglio Regionale della Lombardia tra i 1.527 Sindaci lombardi?

 

Forse, anche senza ricorrere ad una consultazione di tutti i Sindaci che eleggano il loro rappresentante, poteva farsi riferimento ai Consigli delle Autonomie Locali per la designazione del Sindaco-Senatore, previsti dall’art. 123 della Costituzione.

 

Il nuovo assetto costituzionale risulta il frutto di una riforma mal ponderata e poco coordinata in molte sue parti, con il rischio di vanificare gli aspetti positivi che pure la stessa contiene, esaltando invece contraddizioni e criticità che peggioreranno, e non poco, il funzionamento delle nostre Istituzioni oltre a contrastare, per molti versi, i principi di sovranità popolare e di rappresentanza democratica.

 

 

Le Regioni e le Autonomie Locali

 

 

Il tanto contestato quesito che apparirà sulla scheda referendaria, che, com’è noto, riproduce il titolo della norma di revisione costituzionale, chiede di esprimersi, fra gli altri temi, sulla “revisione del titolo V della parte II della Costituzione”.

 

Al di là di ogni considerazione sulla correttezza formale della formulazione del quesito – sul tema bisogna prendere atto anche della recente pronuncia del TAR Lazio – la questione è certamente sostanziale, se riferita ai contenuti della riforma.

 

Ebbene la “revisione del titolo V” – enunciata in modo formalistico e di minore impatto mediatico rispetto alla “riduzione del numero dei parlamentari”, al “contenimento dei costi”, alla “soppressione del CNEL” – contiene in realtà una radicale inversione di rotta rispetto al ruolo delle autonomie regionali e locali, che appaiono sostanzialmente subordinate allo Stato centrale.

 

Si registra il netto ridimensionamento complessivo del ruolo legislativo regionale, con un notevole ampliamento dell’elenco delle materie di legislazione esclusiva statale.

 

Si sostiene che la revisione risulterebbe necessaria per rimediare alle incertezze determinate dalla riforma del 2001, che sarebbero adesso risolte con la cancellazione dell’attuale potestà legislativa “concorrente”, in base alla quale lo Stato è competente a formulare i principi fondamentali della materia e la Regione è competente a varare la normativa di dettaglio, che ha dato luogo al proliferare del contenzioso innanzi alla Corte Costituzionale.

 

Non si sottace altresì che si è voluto introdurre dei correttivi per rimediare alla non esaltante gestione politica delle Regioni.

 

Obiettivi anche generalmente condivisibili, che però nascondono e realizzano un disegno ben diverso, fortemente neocentralistico, che tradisce il principio fondamentale sancito dall’art. 5. E tale nuovo disegno viene realizzato senza la necessaria e chiara esplicitazione, anche nei confronti dei cittadini, senza un mandato popolare forte, e con una formulazione del testo ricca di contraddizioni che rischiano di non risolvere, o addirittura accentuare, proprio i difetti della riforma del 2001.

 

IL NUOVO ASSETTO DI COMPETENZE STATALI E REGIONALI

 

La modifica costituzionale interviene in particolare sull’art. 117.

 

La nuova formulazione integra le materie attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, già previste dal testo vigente con le seguenti (si riportano solo le principali rinviando, per il dettaglio, alla lettura del testo di legge):

 

a)    coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; perequazione delle risorse finanziarie

b)    norme sul procedimento amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche tese ad assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale;

c)    disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare

d)    disposizioni generali e comuni sull’istruzione; ordinamento scolastico; istruzione universitaria e programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica;

e)    ordinamento, legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni e Città metropolitane; disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni;

f)     previdenza sociale, ivi compresa la previdenza complementare e integrativa; tutela e sicurezza del lavoro; politiche attive del lavoro; disposizioni generali e comuni sull’istruzione e formazione professionale;

g)    tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema; ordinamento sportivo; disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo;

h)    ordinamento delle professioni e della comunicazione;

i)     disposizioni generali e comuni sul governo del territorio; sistema nazionale e coordinamento della protezione civile;

j)     produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia;

k)    infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale.

 

Spetta alle Regioni la potestà legislativa in materia di rappresentanza delle minoranze linguistiche, di pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno, di dotazione infrastrutturale, di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali, di promozione dello sviluppo economico locale e organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese e della formazione professionale; salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, in materia di servizi scolastici, di promozione del diritto allo studio, anche universitario; in materia di disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici, di valorizzazione e organizzazione regionale del turismo, di regolazione, sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della Regione per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di finanza pubblica, nonché in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato.


Appare evidente che la riforma riporta in capo allo Stato materie finora tipiche della competenza regionale, quali il governo del territorio, la formazione professionale, la protezione civile, il turismo, ecc.

 

Ma il tema principale è che la riforma aprirà innumerevoli questioni interpretative e di conflitto, contraddicendo proprio il principale obiettivo dichiarato.

 

La riforma infatti non delinea in modo netto il confine tra l’ambito di competenza dello Stato e l’ambito di competenza delle Regioni.

 

In molti casi questo confine è assolutamente confuso, soprattutto per tutte quelle materie per le quali è attribuita, dal nuovo testo, allo Stato la potestà legislativa esclusiva per dettare le “disposizioni generali e comuni”.

 

A ben vedere si tratta di materie di straordinaria rilevanza:

a)    la tutela della salute

b)    le politiche sociali

c)    la sicurezza alimentare

d)    l’istruzione

e)    le attività culturali

f)     il turismo

g)    il governo del territorio.

 

Si torna dunque alla legislazione concorrente, che a gran voce i sostenitori della riforma indicano come difetto principale dell’attuale assetto di competenze e che invece, nella sostanza, si ripropone in tutte le ambiguità.

 

La novità dunque è soltanto quella di avere notevolmente ampliato gli ambiti riservati alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, non di avere risolto le incongruenza e i potenziali conflitti.

 

Per la dottrina che sarà chiamata ad approfondire il nuovo ordinamento costituzionale, il dibattito dovrà incentrarsi sul superamento dell’attuale rapporto tra “principi fondamentali e normativa di dettaglio” o di “legge cornice (statale) e legge regionale di dettaglio” con il rapporto tra “disposizioni generali e comuni” di competenza statale e “disposizioni non generali e non comuni” di competenza regionale”.

 

Sarà ancora più difficile districarsi tra la competenza legislativa statale sul governo del territorio e la pianificazione del territorio attribuita espressamente alle Regioni o tra la tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici (di competenza dello Stato) e la promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici (di competenza delle Regioni).

 

Ma l’obiettivo dichiarato non era quello di superare il contenzioso innanzi alla Corte Costituzionale?

 

Trarre vanto infine dalla riforma per avere previsto in Costituzione che con legge della Repubblica si determinano gli emolumenti degli organi elettivi regionali nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione rende chiaramente un’idea non certo lusinghiera del nuovo spirito costituente.

 

 

Supremazia dello Stato

 

Il nuovo art. 117, quarto comma, prevede che su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in ma­terie di competenza regionale quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’inte­resse nazionale.

 

Quindi su ogni materia nessuna esclusa, sia quelle espressamente elencate di competenza regionale, sia quelle residuali.

 

Per queste tipologie di norme si prevede il riesame obbligatorio del Senato, dopo la deliberazione della Camera, nel termine di dieci giorni dal­la data di trasmissione.

 

In questi casi la Camera può non conformarsi alle modifica­zioni proposte dal Senato della Re­pubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti.

 

E’ forse questa la vera norma di chiusura del sistema.

 

Tale “espropriazione” da parte dello Stato delle competenze regionali, dipende dall’esigenza di tutelare “l’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’inte­resse nazionale”.

 

Quale organo costituzionale può valutare l’effettiva sussistenza di tale presupposto?

 

E’ evidente che si tratta di una formula di fortissima valenza politica e non giuridica sulla quale difficilmente la stessa Corte Costituzionale potrà intervenire per giudicare la sussistenza e la conseguente incostituzionalità dell’intervento “di supremazia” del legislatore statale.

 

In altri termini, la nuova norma costituzionale rimette nelle mani del Governo il potere di decisione su qualunque materia: sull’opportunità dell’intervento del legislatore statale, quindi del Parlamento, sia sulla sussistenza dei presupposti richiesti dalla clausola, senza che possa opporsi alcunché.

 

Il potere di riesame obbligatorio del Senato non appare certamente un efficace deterrente verso qualunque iniziativa centralistica.

 

Questa è la vera novità della riforma.

 

LE REGIONI A STATUTO SPECIALE

 

Le competenze delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome non vengono per nulla messe in discussione dalla riforma, che all’art. 39, comma 13, prevede “Le disposizioni di cui al capo IV della presente legge costituzionale (riforma del titolo V) non si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome”.

 

Si consolida così una disparità di trattamento di portata assai rilevante, con una inspiegabile ulteriore divaricazione tra le due categorie di Regioni, quelle di diritto comune fortemente ridimensionate, quelle speciali di fatto rafforzate.

 

Si accentua il divario, che già segna il nostro ordinamento, e che si traduce, a vantaggio delle Regioni a statuto speciale, non solo in maggiori competenze legislative e amministrative, ma anche garanzie specifiche di maggiori risorse finanziarie rispetto a quelle ordinarie, in base a leggi speciali o alle previsioni dei rispettivi statuti, approvati con leggi costituzionali.

 

La riforma costituzionale subordina e rinvia la possibile applicazione alle Regioni speciali e alle Province autonome di Trento e Bolzano del nuovo titolo V a future intese con le istituzioni territoriali interessate.

 

Il termine “intese” non lascia spazio a dubbi interpretativi: dette Regioni possono esercitare un potere di veto, rifiutando l’intesa, su qualunque ipotesi di modifica statutaria o finanziaria o di assetto di competenze ritenute sfavorevoli.

 

E’ sostanzialmente rinviato sine die ogni possibile riallineamento o superamento di una specialità, soprattutto sul piano finanziario, oggi difficilmente tollerabile.

 

Nessun parametro applicabile alle autonomie speciali su standard oggettivi di costo, su fabbisogni, su adeguatezza dei servizi, con un divario sempre più ampio tra regioni ordinarie depotenziate e regioni speciali del tutto indifferenti alla riforma.

 

Non applicandosi alle stesse il titolo V riformato, non trova applicazione neanche la “clausola di supremazia” contenuta nel nuovo art. 117; per le Regioni a statuto speciale e per le Province autonome non può prevalere la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica né la tutela dell’inte­resse nazionale.

 

LE AUTONOMIE TERRITORIALI – L’ABOLIZIONE DELLE PROVINCE

 

Sull’assetto delle autonomie locali, manca del tutto un disegno organico.

 

La riforma “costituzionalizza” (male!) una decisione già assunta con legge ordinaria: la cosiddetta “soppressione” delle Province, operata dalla Legge 56/2014 (Legge Delrio), che, non a caso, nelle norme di disciplina delle Città metropolitane e delle Province, premette “in attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione…”, ribaltando l’ordine logico e di gerarchia delle fonti del nostro ordinamento.

 

Ne consegue che la riforma costituzionale in discussione opera semplicemente la cancellazione della parola “Provincia” ovunque ricorra nel testo costituzionale.

 

L’art. 29 della riforma rubricato “abolizione delle Province” sancisce la cancellazione della Provincia tra gli enti costitutivi della Repubblica, previsti dall’art. 114, la cui nuova formulazione direbbe: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento”.

 

Conseguentemente non si ritrova più il richiamo alle Province agli articoli 118 e 119 della Costituzione.

 

E’ altresì prevista l’abrogazione del primo comma dell’art. 133 vigente: “Il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell’ambito d’una Regione sono stabiliti con leggi della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa Regione”, non sostituito da altra disciplina.

 

Null’altro è previsto per le autonomie locali nel nuovo testo costituzionale se si fa eccezione al secondo comma che verrebbe inserito all’art. 118: “Le funzioni amministrative sono esercitate in modo da assicurare la semplificazione e la trasparenza dell’azione amministrativa, secondo criteri di efficienza e di responsabilità degli amministratori”.

 

In materia di autonomia finanziaria, è sancita dal nuovo articolo 119 la riserva di legge statale su tributi, entrate e compartecipazioni “ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, così restringendo ulteriormente l’ambito di autonomia, già fortemente compresso dalla riforma costituzionale approvata con Legge Cost. 1/2012, la cosiddetta riforma sul pareggio di bilancio, passata quasi sotto silenzio malgrado la rilevanza enorme degli effetti, ancora non pienamente percepiti, sulla gestione delle risorse pubbliche.

 

L’unica disposizione che sembra manifestare attenzione alle autonomie locali è la precisazione introdotta all’art. 119 secondo cui: “Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti assicurano il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche attribuite ai Comuni, alle Città metropolitane e alle Regioni. Con legge dello Stato sono definiti indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza nell’esercizio delle medesime funzioni”.

 

Si tratta di una norma che, da un lato sembra voler assicurare le risorse necessarie all’esercizio delle funzioni, ma dall’altro rimette totalmente allo Stato ogni valutazione in materia.

 

Pertanto, sembra che la riforma costituzionale si occupi delle autonomie locali soltanto per eliminare dall’ordinamento costituzionale le Province, senza però alcun intervento di riassetto del sistema che perde naturalmente il suo equilibrio originario, che aveva trovato la sua sintesi nel testo originario della Costituzione, poi modificata nel 2001, che, rispetto ai livelli di governo, ha introdotto le Città metropolitane che, a legislazione ordinaria, non costituivano un ulteriore livello di governo, ma sono sostitutive delle Province nelle aree individuate come metropolitane.

 

E’ evidente che intervenire in un assetto costituzionale definito, cancellando uno degli enti costitutivi della Repubblica, senza delineare un nuovo e diverso ordinamento, rischia di determinare gravi conseguenze.

 

Difficile conciliare tale scelta con i principi fondamentali dell’art. 5 della Costituzione: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della   sua   legislazione   alle   esigenze dell’autonomia e del decentramento”.

 

Si dubita fortemente che questo processo di decostituzionalizzazione e di sostanziale regionalizzazione degli enti autonomi intermedi, salvo nelle aree metropolitane, sia compatibile col principio autonomistico, visto che queste istituzioni – espressive di comunità territoriali che non sono certo venute meno, anzi si sono nel tempo consolidate – erano state finora riconosciute e ricomprese tra le istituzioni costitutive della Repubblica, in applicazione di quanto sancito dall’art. 5 Cost.

 

C’è poi anche da chiedersi, come spesso ricorda il prof. Gian Candido De Martin, se sia compatibile col medesimo principio costituzionale e con la ratio della sussidiarietà sancita dall’art. 118 Cost. la deriva conseguente al depotenziamento delle province, che finisce per tradursi, in gran parte dei casi, in un processo di accentramento a livello regionale di molte funzioni amministrative già provinciali.

 

Cercando di comprendere la ratio della riforma – per non cadere nella considerazione che trattasi di una scelta che ha poco di “costituente” ma molto di più rispondente esclusivamente dall’esigenza “elettoralistica” di rispondere a opinionisti offrendo un taglio di “poltrone” e di livelli politici ignorando funzioni e assetto ordinamentale – ricorriamo alla lettura della relazione illustrativa al progetto di riforma

 

Si legge: “I pilastri sui quali si fonda il presente disegno di legge sono quelli contenuti negli articoli 1 e 5 della Costituzione, che, rispettivamente, sanciscono il principio democratico e quello autonomistico.

È infatti proprio la ricerca di un nuovo equilibrio tra l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, e l’esigenza di salvaguardare e promuovere le sfere di autonomia delle regioni e degli enti locali, il filo conduttore che lega le proposte di revisione costituzionale contenute nel progetto di riforma.

Riforma che, è bene evidenziarlo in via preliminare, lungi dal voler comprimere gli spazi di autonomia degli enti territoriali, intende invece, da una parte, semplificare il sistema, sia confermando l’eliminazione dalla Costituzione del riferimento al livello di governo provinciale, sia riformando in modo radicale i criteri di riparto delle competenze; dall’altra valorizzare, declinandolo in modo nuovo, il pluralismo istituzionale e il principio autonomistico, con l’obiettivo ultimo di incrementare complessivamente il tasso di democraticità del nostro ordinamento.

Sotto il profilo della politica costituzionale, il Governo ritiene, infatti, che l’autonomia degli enti diversi dallo Stato costituisca un insostituibile elemento di arricchimento del sistema istituzionale e che quanto più il potere pubblico è prossimo ai cittadini, tanto più è elevata la qualità della vita democratica e la capacità delle istituzioni di soddisfare i diritti civili e sociali ad essi riconosciuti, secondo il principio della sussidiarietà verticale, incorporato anche nell’architettura istituzionale dell’Unione europea. (…)

Oggi si tratta, di dare impulso a un processo che garantisca davvero alle autonomie regionali e locali un virtuoso coinvolgimento nel circuito decisionale di livello nazionale, in modo meno conflittuale e più proficuo di quanto sinora accaduto.

A questa logica di fondo risponde la trasformazione del Senato della Repubblica nel Senato delle Autonomie, rappresentativo delle istituzioni territoriali. Esso si configura proprio come quella sede di raccordo tra lo Stato e gli enti territoriali la cui sostanziale assenza nel disegno di riforma del titolo V ha impedito la realizzazione di un sistema di governo multilivello ordinato, efficiente e non animato da dinamiche competitive, in grado di bilanciare interessi nazionali, regionali e locali e di assicurare politiche di programmazione territoriale coordinate con le più ampie scelte strategiche adottate a livello nazionale”.

 

Si fa davvero fatica a ritrovare nel nuovo testo costituzionale, i principi e gli obiettivi, peraltro ampiamente condivisibili, contenuti nella relazione.

 

Si ha quasi l’impressione di leggere nella relazione, una sorta di “excusatio non petita”, quale risposta preventiva da parte del Governo alle obiezioni di merito.

 

Si dice che “si vuole incrementare il tasso di democraticità…”, ma si elimina il livello elettivo provinciale (oltre al Senato) e, non prevedendo alcunché al riguardo, si conferma l’assenza di elezione diretta degli organi della Città metropolitana.

 

Si dice “quanto più il potere pubblico è prossimo ai cittadini, tanto più è elevata la qualità della vita democratica e la capacità delle istituzioni di soddisfare i diritti civili e sociali ad essi riconosciuti”, ma si elimina proprio uno dei livelli di potere pubblico più vicino ai cittadini.

 

Si fa riferimento al nuovo Senato quale soluzione attuativa dell’art. 5 della Costituzione, ma francamente le argomentazioni non appaiono convincenti.

 

I NUOVI ENTI DI AREA VASTA

 

Il nuovo assetto costituzionale risulta “completato” da quanto disposto dall’art. 40 del testo di riforma: “Per gli enti di area vasta, tenuto conto anche delle aree montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori disposizioni in materia sono adottate con legge regionale. Il mutamento delle circoscrizioni delle Città metropolitane è stabilito con legge della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la Regione”.

 

Al di là della involuta tecnica legislativa e di una formulazione di un testo davvero infelice, emerge quasi un ripensamento del legislatore che non può rinnegare l’annuncio dell’eliminazione delle Province, ma sancisce, costituzionalmente, la necessità di un ente di area vasta che eserciti, di fatto, le funzioni già esercitate dalle Province.

 

Le problematiche che emergono e che restano irrisolte sono molteplici.

 

Nell’assetto ordinamentale emergono diversità inconciliabili tra le porzioni del territorio che vedono la presenza della Città metropolitana e la restante parte del territorio.

 

Per le prime, in assenza di qualsivoglia precisazione costituzionale sulla natura di questo nuovo Ente, non si può che fare riferimento alla legge Delrio ed alle dieci città metropolitane così istituite e coincidenti con il territorio delle Province di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria.

 

Ne deriverebbe costituzionalizzata la loro istituzione, almeno per quanto concerne la delimitazione territoriale, posto che, dall’entrata in vigore della riforma, si applicherebbe la previsione dell’art. 40 sopra richiamato, che prevede che il mutamento delle circoscrizioni delle Città metropolitane è stabilito con legge della Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la Regione. Non è più applicabile l’art. 133, che sarebbe abrogato, richiamato dalla Legge Delrio.

 

Possono essere istituite nuove Città Metropolitane?

 

L’abrogazione dell’art. 133, primo comma, che disciplinava l’istituzione di nuove Province e l’assenza di nuova disciplina lascia irrisolta la questione, con possibile moltiplicazione di questi Enti.

 

E’ sufficiente ricordare al riguardo che la Sicilia ha previsto l’istituzione di tre città metropolitane: Catania, Messina e Palermo. Queste ultime hanno analoga copertura costituzionale?

 

Si pone un’evidente difficoltà di coordinamento, posto che nulla è detto sul mutamento delle circoscrizioni delle attuali Province, che, a riforma approvata, si tramutano in enti di area vasta, su cui sembrerebbe che la competenza sia attribuita alle Regioni, essendo riservati alla legge dello Stato soltanto “i profili ordinamentali generali”, sebbene non ulteriormente precisati.

 

Ma ne deriva un’altra, ben più fondamentale, conseguenza: la previsione necessaria, in quanto prevista da legge costituzionale, dell’ente di area vasta, la cui presenza, nell’ambito dell’ordinamento amministrativo (non più costitutivo della Repubblica, cui fanno parte solo le città metropolitane) viene sancita come strutturale e non eliminabile.

 

Resta irrisolto anche il tema delle funzioni degli enti di area vasta, non essendo più sancito il principio delle funzioni proprie di cui all’art. 118: sono attribuite con legge dello Stato (rientrano tra i profili ordinamentali generali) o con legge regionale?

 

La questione porta con sé, naturalmente, anche l’aspetto finanziario di finanziamento delle funzioni.

 

Probabilmente l’attribuzione segue le competenze di cui all’art. 117 e, conseguentemente, anche il finanziamento.

 

I Comuni, che secondo la legge Delrio amministrano gli Enti di area vasta, hanno un ruolo sul nuovo assetto territoriale e la delimitazione delle circoscrizioni?

 

Le fonti regolamentari oggi vigenti, approvati dalle Province nelle materie di competenza, che trovano oggi copertura costituzionale all’art. 117, mantengono efficacia o si determina una deregolamentazione in varie materie, anche di generale importanza?

 

Le criticità determinate da un intervento costituzionale disorganico, senza una visione d’insieme complessiva, ma soltanto parziale, sono innumerevoli. Quelli riportati servono solo a rendere una prima idea delle problematiche irrisolte.

 

CRITICITA’

 

La revisione del titolo V porta con sé molteplici contraddizioni.

 

Non chiarisce né risolve le principali questioni critiche derivanti dalla riforma del 2001; sancisce il ritorno al potere dello Stato, imprimendo al sistema delle relazioni tra Stato ed enti territoriali una netta svolta centralista, registrando una radicale inversione di rotta rispetto alla riforma del 2001, che, almeno nei punti fondanti, realizzava un disegno autonomistico della Repubblica, fondato sul maggior ruolo possibile, oltre che delle Regioni, specie sul piano legislativo, anche dei Comuni e delle Province o delle Città metropolitane, sulla base di quei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, che permangono affermati anche nel nuovo testo dell’art. 118, ma che vengono sostanzialmente disattesi nel nuovo assetto costituzionale.

 

Viene limitato fortemente il potere legislativo delle Regioni; non si rinvengono elementi di chiarezza nella distribuzione delle competenze tali da far presumere il superamento del contenzioso, a meno di non assistere ad un frequente richiamo alla supremazia statale.

 

Viene limitata fortemente l’autonomia normativa e organizzativa delle istituzioni locali attribuendo alla potestà esclusiva statale l’ordinamento (oltre alle legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali) degli Enti Locali così comprimendo quello spazio di auto ordinamento, statutario e regolamentare, legittimato dalla riforma del 2001 per tornare ad un’autonomia locale del tutto subordinata al potere di ordinamento statale.

 

Si cancella un lento e difficile percorso di decentramento amministrativo e di valorizzazione delle autonomie verso un nuovo centralismo di cui non si percepiscono i vantaggi.

 

Si perpetua e si rafforza una netta differenziazione tra territori – Regioni a statuto speciale e a statuto ordinario – non giustificabile se non per ragioni di convenienza politica immediata e di consenso necessario per la riforma.

 

Si tradisce e contraddice il principio fondamentale del nostro ordinamento sancito dall’art. 5 della nostra Costituzione.

 

Le garanzie costituzionali e gli strumenti di partecipazione popolare

Il quesito che appare sulla scheda referendaria, sul quale saremo chiamati ad esprimere il voto il 4 dicembre, omette ogni riferimento alle modifiche che la riforma introduce sulle garanzie costituzionali e sugli strumenti di partecipazione popolare.

 

Si tratta probabilmente di aspetti di minore impatto mediatico, quindi da tenere sotto traccia, ma non per questo meno rilevanti nel contesto complessivo della riforma costituzionale.

 

 

IL POTERE DI INIZIATIVA LEGISLATIVA POPOLARE

Si passa di cinquantamila a centocinquantamila firme per la presentazione di progetti di legge.

 

L’art. 71 della Costituzione oggi riconosce il potere di iniziativa legislativa popolare “mediante la proposta, da parte di alme­no cinquantamila elettori, di un proget­to redatto in articoli”.

 

Il nuovo testo, dopo la riforma, triplica il numero di firme necessarie per presentare progetti di legge popolari, fissandolo in centocinquantamila.

 

La riformulazione del testo aggiunge che “la discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte di legge d’iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari”.

 

La modifica rende ulteriormente difficoltosa l’iniziativa legislativa popolare già fortemente, se non totalmente, vanificata già con le previsioni attuali che non tutelano in alcun modo il diritto alla trattazione delle proposte di legge che, nella gran parte dei casi, non hanno mai raggiunto le aule parlamentari, rimanendo bloccate in Commissione.

 

 

REFERENDUM ABROGATIVO

Per abbassare il quorum sono richieste ottocentomila (anziché cinquecentomila) firme

 

Viene mantenuta l’attuale disciplina costituzionale del referendum abrogativo che prevede:

a)    Cinquecentomila firme per la richiesta del referendum

b)    Quorum del 50% degli aventi diritto al voto per la validità del referendum

 

La riforma aggiunge una nuova fattispecie: nel caso in cui la proposta di referendum sia avanzata da ottocentomila elettori, il quorum per la validità del referendum è pari alla “maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati”.

 

E’ chiaro che raggiungere la quota di ottocentomila firme appare sostanzialmente proibitivo.

 

Viene solo ipotizzata, ma rinviata a successiva legge costituzionale, la possibilità di indire referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali.


ELEZIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti

 

La Costituzione vigente prevede che il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune integrato da tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regio­nale in modo che sia assicurata la rap­presentanza delle minoranze. E’ richiesta, nei primi tre scrutini, la maggioranza dei due terzi (659 voti) e, dal quarto scrutinio, la maggioranza assoluta (495 voti).

 

Il nuovo testo prevede sempre il Parlamento in seduta comune. 

 

Ma evidentemente non si tratta più delle due Camere elettive, ma della Camera dei Deputati (630 componenti) e del nuovo Senato (100 senatori) eletto dai Consigli Regionali.  Non è più prevista l’integrazione con i rappresentanti delle Regioni, visto che sono presenti nel nuovo Senato, e non vi è più, per queste ultime, la garanzia di rappresentanza delle minoranze.

 

E’ mantenuta, nei primi tre scrutini, la maggioranza dei due terzi (che si riduce a 487 voti); dal quarto al sesto scrutinio è richiesta la maggioranza dei tre quinti (438 voti); dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti.

 

E’ dunque legittimata costituzionalmente l’elezione del Presidente della Repubblica senza un numero minimo di votanti (paradossalmente, in caso siano presenti due soli votanti, anche con il voto favorevole di un unico parlamentare) ma, soprattutto, facendo venir meno il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica, quale espressione di un consenso naturalmente più ampio della maggioranza politica o di governo presente al momento dell’elezione.

 

Nello spirito della Costituzione vigente, anche la durata del mandato settennale, svincolato dal mandato quinquennale del Parlamento, intendeva segnare il ruolo super partes del Capo dello Stato; la garanzia della maggioranza assoluta dei voti del Parlamento in seduta comune, integrato dai rappresentanti regionali, con presenza delle minoranze, assicurava, all’atto della elezione, il ruolo del Presidente.

 

Con il nuovo sistema di elezione viene meno tale garanzia.

 

 

ELEZIONE DEI GIUDICI DELLA CORTE COSTITUZIONALE

 

Il testo di riforma prevede che “La Corte costituzionale è composta da quindici giudici, dei quali un terzo nominati dal Presidente della Repubblica, un terzo dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative, tre dalla Camera dei deputati e due dal Senato della Repubblica”.

 

Il testo vigente prevede che un terzo (cinque giudici) siano eletti dal Parlamento in seduta comune.

 

Risulta evidente che le modalità di elezione dei giudici della Corte Costituzionale, massimo organo di garanzia, devono assicurare assoluta imparzialità.

 

Il nuovo sistema di elezione lascia aperte molte criticità.  In un sistema elettorale fortemente maggioritario, quale delineato dalla vigente legge elettorale (cd. Italicum), porta come conseguenza che i tre giudici nominati dalla Camera dei Deputati, potenzialmente, sono espressione della maggioranza politica del momento; il nuovo Senato, per la sua composizione e per la nebulosa modalità di elezione, non può assicurare le garanzie necessarie.

 

Se si aggiungono le possibili criticità derivanti dall’elezione del Presidente della Repubblica, sopra evidenziate, i meccanismi di garanzia costituzionale, che l’Assemblea Costituente aveva faticosamente ed efficacemente costruito, risultano depotenziati.

 

Qui non si tratta – va chiarito – di denunziare rischi per la democrazia o di lanciare infondati allarmi.

 

La Costituzione detta le supreme regole dell’ordinamento che, per natura ed essenza, devono “resistere” ad ogni situazione di potenziale rischio, delineando un sistema comunemente definito di pesi e contrappesi, volto a scongiurare derive autoritarie o di “prepotenza” della maggioranza di turno; si tratta di quelle regole che mettono al riparo le Istituzioni dalle patologie del sistema politico rendendole, il più possibili, immuni dalle situazioni contingenti.

 

Ebbene, la riforma costituzionale attenua in modo significativo tali garanzie.

 

RAPPORTI GOVERNO – PARLAMENTO

Il Governo può decidere il calendario dei lavori parlamentari

 

Da più commentatori viene sottolineato che la riforma costituzionale non incide – non amplia – i poteri del Governo e del Presidente del Consiglio.

 

Gli stessi rappresentanti del Governo, a sostegno della riforma, insistono ripetutamente su questo tema, quasi a voler prevenire qualunque obiezione di merito.

 

Se si circoscrive l’ambito di indagine agli articoli da 92 a 96 della Costituzione, dedicati al Consiglio dei Ministri, la precisazione apparirebbe corretta.

 

E’ comunque evidente che, in coerenza con il superamento del bicameralismo paritario, viene meno il rapporto fiduciario con le due Camere. Il nuovo art. 94 prevede che “il Governo deve avere la fiducia della Camera dei Deputati” e non più delle due Camere come oggi previsto.

 

Non ci si sofferma in questa sede sul principale oggetto di dibattito delle ultime settimane relativo al “combinato disposto” riforma costituzionale – legge elettorale, che conserva una rilevanza centrale sul futuro del nostro ordinamento e sull’effettiva rappresentanza parlamentare e quindi del Governo.

 

Ma, si ribadisce spesso, la legge elettorale non è materia costituzionale e non è oggetto del referendum.

 

Seguendo questa impostazione, non può essere però non rilevato che il ruolo predominante del Governo è definito nello stesso nuovo testo costituzionale, tale da scalfire in profondità il principio di separazione dei poteri chiaramente delineato dall’attuale Costituzione.

 

Fino ad oggi il Governo ha “abusato” del Parlamento attraverso l’abnorme ricorso alla decretazione d’urgenza, sollevando spesso la censura della Corte Costituzionale.

 

Il nuovo testo dell’art. 77 sui decreti legge aggiunge in realtà alcune precisazioni tratte dalla giurisprudenza costituzionale consolidata secondo cui il Governo non può:

a)    reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge e regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi;

b)    ripristinare l’efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al procedimento;

c)    inserire, nel corso i esame, disposizioni estranee all’oggetto o alle finalità del decreto


Ma la più rilevante novità si trova nel nuovo testo dell’art. 72 che attribuisce al Governo un ruolo centrale, legittimato dalla Costituzione, sui lavori parlamentari allorché prevede che “il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione”.

 

La nuova previsione estende, senza limite, il ruolo del Governo nella calendarizzazione dei lavori parlamentari.

 

E’ sufficiente qualificare il disegno di legge come “essenziale per l’attuazione del programma” per ottenere dalla Camera dei Deputati l’inserimento all’ordine del giorno e la pronuncia definitiva entro settanta giorni.

 

Chi può ritenere “essenziale” un disegno di legge per l’attuazione del programma se non il Governo stesso?

 

Trattasi evidentemente di valutazione esclusivamente politica e non giuridica difficilmente sanzionabile anche dalla stessa Corte Costituzionale.

 

L’effetto combinato della decretazione d’urgenza (da convertire entro sessanta giorni o, novanta giorni nei casi in cui il Presidente della Repubblica abbia chiesto, a norma dell’articolo 74, una nuova deliberazione) e del “procedimento legislativo prioritario” richiesto, senza contraddittorio, dal Governo, determina sostanzialmente il venir meno di ogni ragionevole possibilità di organizzazione autonoma dei lavori parlamentari o di trattazione in tempi ragionevoli delle iniziative legislative parlamentari o di fonte regionale o popolare, sancendo di fatto e di diritto costituzionale la supremazia del Governo.

 

CRITICITA’

 

Pur con riserva di trarre successivamente delle valutazioni complessive sulla riforma, a conclusione della breve trattazione dei vari aspetti del testo, non si può subito non rilevare che anche il sistema di garanzie costituzionali perde il suo equilibrio originario.

 

Il tema della “modernizzazione” delle Istituzioni, per rendere il Paese al passo con i tempi, di indubbia attualità, sembra cedere il passo alle esigenze contingenti ed alla crisi del sistema politico-partitico, attribuendo alle Istituzioni i difetti e i limiti della classe politica.

 

Eliminare o comprimere i luoghi della rappresentanza democratica (troppi livelli di governo!), facilitare il raggiungimento di maggioranze parlamentari, anche prive di reale rappresentatività, attenuare i sistemi di garanzia, che, per loro natura, possono “rallentare” i meccanismi decisionali, sembrano essere le ricette per superare la farraginosità delle procedure.

 

La realtà è ben diversa.

 

Sempre meno garantita è la partecipazione e l’occasione per concorrere a determinare le politiche del Paese; nessuna riforma è stata mai realizzata per adeguare i partiti al ruolo che la Costituzione attribuisce agli stessi. La mancata attuazione dell’art. 49 della Costituzione “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” ne è l’emblema.

 

C’è il rischio di custodire la prima parte della Costituzione come un enorme e straordinario modello di avanzata civiltà giuridica e democratica, che i nostri Costituenti hanno realizzato, relegandola più come pezzo di storia e di orgoglio del Paese, che come materia viva e, ancora oggi, dalle straordinarie potenzialità inespresse. E, contestualmente, di plasmare la seconda parte, in modo indipendente e anche contraddittorio rispetto alla prima, alle esigenze del momento.

 

La campagna referendaria sta mostrando tutti i limiti e le criticità di questo modello; tralasciando tutte le strumentalizzazioni volte alla legittimazione o bocciatura dell’attuale Governo, tramite la riforma costituzionale, già di per sé intollerabile e snaturante l’oggetto del confronto, si delineano scenari apocalittici, soprattutto del sistema economico-produttivi, legati all’esito della consultazione.

 

Scenari surreali che nulla hanno a che fare con l’organizzazione dello Stato e delle garanzie costituzionali.

 

A fronte di una progressiva degenerazione della qualità legislativa, di ripetuti e ridondanti interventi normativi, spesso contraddittori, su ogni materia, con una produzione sovrabbondante, di difficile interpretazione e applicazione, come si può ragionevolmente sostenere che le difficoltà del nostro Paese, determinate dalle presunte lentezze del sistema, dipendono dall’ordinamento costituzionale?

 

Accelerare la produzione di norme inutili o dannose e di interventi di scarsa qualità normativa non è certo la migliore soluzione.

 

conclusioni

Il breve esame dei contenuti della riforma costituzionale, sulla quale saremo chiamati ad esprimerci il 4 dicembre, svolto nelle ultime settimane, è stato articolato nelle quattro parti essenziali:

e)    Il superamento del bicameralismo perfetto e il nuovo procedimento legislativo;

f)     Il nuovo Senato

g)    La riforma del titolo V – la ridefinizione delle competenze regionali – la sorte delle autonomie locali

h)    Le garanzie costituzionali – il Presidente della Repubblica – la Corte Costituzionale – gli strumenti di partecipazione popolare.

Si è cercato, in tal modo, di evidenziarne contenuti e criticità, senza alcuna pretesa di esaustività, data la complessità degli argomenti e tutti gli aspetti che una riforma, di così ampia portata, investe.

 

Si possono trarre a questo punto alcune valutazioni conclusive.

 

Va evidenziato, innanzitutto, come il dibattito che sta animando, da mesi, la campagna referendaria è focalizzato solo in minima parte sui contenuti della riforma, assumendo una connotazione di contrapposizione politico-partitica del tutto estranea alla materia costituzionale.

 

Tale eccessiva caratterizzazione del confronto ha snaturato la natura stessa del referendum e determinato una diffusa disinformazione sul merito della riforma.

 

Non si può non constatare come gli stessi messaggi “istituzionali”, per loro finalità destinati ad informare i cittadini, finiscono per assumere valenza di parte, a tale scopo indotti o facilitati dalla stessa formulazione del quesito (corrispondente al titolo della legge) che evidenzia, in modo efficace, le finalità della riforma con valenza mediatica.

 

Ci si è spinti al punto da prospettare catastrofi inenarrabili in caso prevalga il no alla riforma, con il compiacente avallo dell’informazione che da mesi enfatizza la prossima scadenza e le dichiarazioni apodittiche di un gran numero di soggetti, anche internazionali, che intervengono sul tema, in modo irrituale e disinformato.

Si è persa così di vista l’esigenza di un confronto serio e approfondito.

Le prospettive di esame variano sostanzialmente se si concentra l’attenzione sul complesso della riforma anziché su singole parti di essa.

L’artificio, certamente efficace sul piano comunicativo, di suddividere per punti le questioni, peraltro riportate nel titolo della legge e, conseguentemente, nel quesito referendario è parziale e fuorviante.

Titolo della legge e quesito scindono la riforma in cinque parti:

1)    Superamento del bicameralismo paritario

2)    Riduzione del numero dei parlamentari

3)    Contenimento dei costi di funzionamento delle Istituzioni

4)    Soppressione del CNEL

5)    Revisione del titolo V

Non v’è dubbio che articolata in questi termini la proposta, appare difficilmente non condivisibile.

Chi, di principio, può essere contrario al contenimento dei costi delle Istituzioni o alla riduzione del numero dei parlamentari o allo stesso superamento del bicameralismo paritario?

La soppressione del CNEL è poi diventata un simbolo, una bandiera della portata riformatrice del progetto in discussione, con una campagna di denigrazione e delegittimazione, amplificata dalla stampa, senza sosta, senza il benché minimo sforzo di approfondimento.

In realtà scindere il progetto di riforma in punti, o peggio per slogan, non è operazione corretta.

L’approfondimento ed il dibattito dovrebbero concentrarsi sul progetto complessivo di modifica, meglio su come la “nuova” Costituzione, che deriverebbe dalla riforma, disegna il nostro ordinamento e il modello della nostra Repubblica.

Non si può infatti affermare che la revisione in atto ha solo l’obiettivo di “modernizzare” il Paese senza intaccare i principi fondamentali della Costituzione del 1948, soltanto perché formalmente non si modifica la prima parte.  E’ ovvio ed evidente che la seconda parte, profondamente modificata, che disciplina l’ordinamento della Repubblica, deve discendere dalla parte sui principi ed essere a questi conforme, in un disegno unitario che è invece venuto meno.

Si può essere favorevoli o contrari, ma bisogna avere consapevolezza che la riforma introduce un nuovo e diverso modello di organizzazione della Repubblica.

Rinviando alla trattazione delle varie parti della riforma l’esame delle criticità, va evidenziato in conclusione che il modello che ne deriva:

 

a)    limita notevolmente le autonomie locali e regionali

·         Non chiarisce né risolve le principali questioni critiche derivanti dalla riforma del 2001; sancisce il ritorno al potere dello Stato, imprimendo al sistema delle relazioni tra Stato ed enti territoriali una netta svolta centralista, registrando una radicale inversione di rotta rispetto alla riforma del 2001, che, almeno nei punti fondanti, realizzava un disegno autonomistico della Repubblica, fondato sul maggior ruolo possibile, oltre che delle Regioni, specie sul piano legislativo, anche dei Comuni e delle Province o delle Città metropolitane, sulla base di quei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, che permangono affermati anche nel nuovo testo dell’art. 118, ma che vengono sostanzialmente disattesi nel nuovo assetto costituzionale.

·         Viene limitato fortemente il potere legislativo delle Regioni; non si rinvengono elementi di chiarezza nella distribuzione delle competenze tali da far presumere il superamento del contenzioso, a meno di non assistere ad un frequente richiamo alla supremazia statale.

·         Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in ma­terie di competenza regionale quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’inte­resse nazionale.

 

b)    prevede un diverso procedimento legislativo che non supera del tutto il bicameralismo

·         A fronte del condivisibile obiettivo del superamento del bicameralismo paritario, si è introdotto un sistema farraginoso, ricco di questioni non chiaramente definite, fonte di possibili frequenti contenziosi, sia in fase di svolgimento dell’iter di formazione delle leggi, sia successivamente, potendo sempre essere sollevata questione di legittimità di una norma perfezionatasi in violazione di noema costituzionale.

·         Criticare il “bicameralismo perfetto” della Costituzione vigente non vuol dire necessariamente sottoscrivere un testo che “non funzionerà mai e complicherà in modo incredibile i lavori del Parlamento”.

 

c)    rafforza in modo significativo il ruolo del Governo

·         La riforma delinea un ruolo predominante del Governo, tale da scalfire in profondità il principio di separazione dei poteri chiaramente delineato dall’attuale Costituzione, in particolare nel nuovo testo dell’art. 72 che attribuisce al Governo un ruolo centrale, legittimato dalla Costituzione, sui lavori parlamentari.

E’ sufficiente qualificare il disegno di legge come “essenziale per l’attuazione del programma” per ottenere dalla Camera dei Deputati l’inserimento all’ordine del giorno e la pronuncia definitiva entro settanta giorni.

Chi può ritenere “essenziale” un disegno di legge per l’attuazione del programma se non il Governo stesso?

Trattasi evidentemente di valutazione esclusivamente politica e non giuridica difficilmente sanzionabile anche dalla stessa Corte Costituzionale.

·         L’effetto combinato della decretazione d’urgenza (da convertire entro sessanta giorni o, novanta giorni nei casi in cui il Presidente della Repubblica abbia chiesto, a norma dell’articolo 74, una nuova deliberazione) e del “procedimento legislativo prioritario” richiesto, senza contraddittorio, dal Governo, determina sostanzialmente il venir meno di ogni ragionevole possibilità di organizzazione autonoma dei lavori parlamentari o di trattazione in tempi ragionevoli delle iniziative legislative parlamentari o di fonte regionale o popolare, sancendo di fatto e di diritto costituzionale la supremazia del Governo.

 

d)    attenua in modo significativo le garanzie costituzionali e non favorisce gli strumenti di partecipazione popolare né facilita l’iniziativa dei cittadini nel costituirsi nei corpi intermedi;

Sempre meno garantita è la partecipazione e l’occasione per concorrere a determinare le politiche del Paese; nessuna riforma è stata mai realizzata per adeguare i partiti al ruolo che la Costituzione attribuisce agli stessi.

Il tema della “modernizzazione” delle Istituzioni, per rendere il Paese al passo con i tempi, di indubbia attualità, sembra cedere il passo alle esigenze contingenti ed alla crisi del sistema politico-partitico, attribuendo alle Istituzioni i difetti e i limiti della classe politica.

 

e)    comprime i livelli di partecipazione e di rappresentanza democratica

·         Elimina il Senato elettivo

·         Elimina le Province elettive

 

f)     disegna un Paese con fortissime disomogeneità

·         accentua le differenze tra le Regioni a statuto speciale, che non subiscono alcun effetto dalla riforma, dalle Regioni a statuto ordinario che, al contrario, vedono fortemente circoscritti gli ambiti di competenza legislativa.

Si accentua così il divario, che già segna il nostro ordinamento, e che si traduce, a vantaggio delle Regioni a statuto speciale, non solo in maggiori competenze legislative e amministrative, ma anche garanzie specifiche di maggiori risorse finanziarie rispetto a quelle ordinarie, in base a leggi speciali o alle previsioni dei rispettivi statuti, approvati con leggi costituzionali.

La riforma costituzionale subordina e rinvia la possibile applicazione alle Regioni speciali e alle Province autonome di Trento e Bolzano del nuovo titolo V a future intese con le istituzioni territoriali interessate.

Il termine “intese” non lascia spazio a dubbi interpretativi: dette Regioni possono esercitare un potere di veto, rifiutando l’intesa, su qualunque ipotesi di modifica statutaria o finanziaria o di assetto di competenze ritenute sfavorevoli.

Gli statuti speciali sono più garantiti della Costituzione medesima, giacché nel loro caso occorre un passaggio in più rispetto alla procedura di revisione costituzionale, l’intesa, con un procedimento ultrarafforzato, che impedisce di fatto ogni possibile modifica.

·         riconosce tutela e autonomia costituzionale alle Città metropolitane (ad oggi 14 Enti di secondo livello corrispondenti ad altrettante ex Province) ma elimina le Province dagli Enti costitutivi della Repubblica per organizzare la rimanente parte del territorio nazionale in Enti di area vasta, anch’essi previsti in Costituzione, senza una precisa fisionomia istituzionale.

E’ evidente che intervenire in un assetto costituzionale definito, cancellando uno degli enti costitutivi della Repubblica, senza delineare un nuovo e diverso ordinamento, rischia di determinare gravi conseguenze.

Si dubita fortemente che questo processo di decostituzionalizzazione e di sostanziale regionalizzazione degli enti autonomi intermedi, salvo nelle aree metropolitane, sia compatibile col principio autonomistico, visto che queste istituzioni – espressive di comunità territoriali che non sono certo venute meno, anzi si sono nel tempo consolidate – erano state finora riconosciute e ricomprese tra le istituzioni costitutive della Repubblica, in applicazione di quanto sancito dall’art. 5 Cost.

 

Nasce dunque un nuovo ordinamento della Repubblica, senza un vero confronto nel Paese e senza un preventivo mandato popolare costituente.

 

Si segna una decisiva inversione di tendenza rispetto alla riforma del 2001, riaccentrando il potere a livello centrale, dopo aver individuato nel decentramento (o federalismo mai realizzato) la principale causa di inefficienza nell’utilizzo delle risorse.

 

Ma siamo così certi che centralizzare è la soluzione?

 

L’attuale debito pubblico non si è determinato a causa delle Regioni ed ancor meno degli enti locali. È passato dal 60% a oltre il 100% negli anni Ottanta del secolo scorso, prima della riforma del 2001.

 

Lo Stato ha sempre conservato ed esercitato, a norma dell’art. 119, la funzione di indirizzo e coordinamento finanziario. Nessuna modificazione è stata introdotta con la riforma del 2001 e la Corte costituzionale ha attribuito a tale funzione una capacità espansiva eccezionale, legittimando spesso interventi invasici della legge statale rispetto alle competenze regionali e locali.

 

La riforma costituzionale del 2012 ha ulteriormente rafforzato la centralità dello Stato nel sistema di finanza pubblica riducendo l’ambito di autonomia delle Regioni e degli Enti Locali prevista dal Titolo V della Costituzione.  

 

L’appuntamento referendario, già complesso e di grande criticità, è stato caricato di argomenti e contenuti totalmente estranei, facendo perdere di vista il reale contenuto, già compresso dal dover esprimere un sì o un no su una riforma articolata e che potrebbe essere in parte condivisibile.

 

Fare dell’esito referendario un punto di non ritorno, che farà prevalere definitivamente chi vuole modernizzare il Paese oppure chi vuole cacciarlo nella crisi e nell’immobilismo, è irresponsabile.

 

Riportare il dibattito sul merito della riforma, spiegandone davvero i contenuti nonché il modello e la visione dello Stato che racchiude, sarebbe doveroso e auspicabile.

 

In ogni caso continuare a fare della riforma terreno di scontro fra fazioni, per finalità diverse e contingenti, del tutto estranee ad ogni processo costituente, rappresenta il più grande tradimento dei valori fondanti della nostra Carta Costituzionale e ne segna già il fallimento qualunque sia l’esito referendario.

 

 

 Pubblicato su AmbienteDiritto.it  – 2 Novembre 2016 –
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