Mai dire mai: dopo la Conferenza di Durban nuove prospettive per un accordo globale per il contenimento del cambiamento climatico
STEFANO NESPOR*
Numerose sono le critiche rivolte ai convegni internazionali organizzati dalle Nazioni Unite per predisporre accordi in materia ambientale e, specificatamente, in materia di cambiamento climatico.
La tesi sempre più diffusa è che troppo diverse siano le esigenze e i problemi economici e sociali dei vari Paesi per individuare punti comuni di interesse intorno ai quali formare una uniformità di vedute che permetta di giungere a accordi vincolanti. Di conseguenza, tutti gli sforzi sono diretti al limitato obiettivo di trovare punti di convergenza tra molteplici e spesso contrapposte esigenze, essendo inutili i tentativi di risolvere i problemi sul tappeto.
A ciò deve aggiungersi che la maggior parte degli accordi in materia ambientale, e soprattutto gli accordi per contenere il cambiamento climatico, incidono in modo rilevante sulle prospettive di crescita economica e, per i Paesi meno sviluppati, sul diritto allo sviluppo, riconosciuto dalle stesse Nazioni Unite come diritto umano fondamentale. Questa è la ragione per la quale i Paesi emergenti si sono finora categoricamente rifiutati di assumere impegni per la riduzione delle emissioni di gas serra, visti non come semplici obiettivi rivolti alla tutela dell’ambiente, ma come un ingiusto consolidamento dello status quo esistente e una limitazione del loro diritto alla crescita economica.
Il fallimento della COP-15 di Copenhagen del dicembre 2009 sul cambiamento climatico, conclusasi con la semplice “presa d’atto” di un accordo non vincolante dopo due anni di negoziazioni rivolte a porre le basi di un nuovo regime globale per il contenimento del cambiamento climatico, sostitutivo del Protocollo di Kyoto destinato a scadere nel 2012, è stato considerato da molti la dimostrazione di questo assunto. Il nulla di fatto nella COP-16 dell’anno seguente di Cancun è parsa una ulteriore, definitiva conferma: con le conferenze globali non si va da nessuna parte: vanno quindi accantonate una volta per tutte per intraprendere la diversa strada di accordi su specifici punti tra pochi Paesi che condividono interessi, bisogni e prospettive e possono quindi elaborare strategie comuni anche in campo ambientale. Questi accordi dovrebbero costituire poi il punto di aggregazione per altri Paesi che intendono condividerne gli obiettivi e, eventualmente, i vantaggi.
Ma ecco che la COP-17 di Durban del dicembre dello scorso anno sembra aver buttato all’aria tutte queste convinzioni.
Non più all’ultimo minuto, come di consueto, ma addirittura due giorni dopo la data prevista di chiusura della Conferenza (tutti occupati da interminabili diatribe linguistiche tra rappresentanti di Unione europea e India sulle singole parole utilizzate), è stata approvata una “piattaforma” (Durban Platform for Enhanced Action) che impone ai 194 Stati che hanno ratificato la Convenzione Quadro di sviluppare entro il 2015 un protocollo o comunque uno strumento vincolante per tutti che imponga la riduzione delle emissioni di gas serra e nello stesso tempo offra i mezzi ai Paesi in via di sviluppo per passare verso sistemi più puliti di produzione dell’energia. L’attuazione del protocollo è prevista a partire dal 2020.
Ha affermato la costaricana Christiana Figueres, segretario esecutivo della Convenzione quadro, che gli accordi raggiunti a Durban si dimostreranno tra i più importanti e decisivi per il controllo del clima. Analoga valutazione è stata manifestata anche dal Commissario dell’Unione europea per le azioni in materia di cambiamento climatico Connie Hedegaard, e, sia pure con modalità più contenute, anche dagli esponenti delle principali organizzazioni ambientaliste: questi, pur criticando il rinvio al 2020 delle iniziative concrete per il contenimento delle emissioni, hanno ritenuto un fatto assai positivo che finalmente sia stata concordata con la partecipazioni di tutti i maggiori responsabili del cambiamento climatico una road-map per giungere a una normativa internazionale vincolante per tutti. Perché questa è la grande novità: per la prima volta viene accantonata la distinzione tra Paesi ricchi e Paesi poveri e non si fa parola del principio della responsabilità storica dei Paesi già sviluppati nella produzione del cambiamento climatico, principio che sinora aveva permesso ai Paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Sudafrica) di essere esentati da qualsiasi impegno vincolante e aveva indotto gli Stati Uniti a non aderire proprio per la ritenuta assurdità di questa esenzione. In base a quanto stabilito nella piattaforma tutti i Paesi sono tenuti a contribuire, secondo le loro capacità, al raggiungimento dell’obiettivo di riduzione del cambiamento climatico.
* Avvocato in Milano