Dopo l’Adunanza Plenaria interviene nel dibattito il legislatore con il decreto legge 13 agosto 2011, n. 138.
D.I.A., S.C.I.A. E TUTELA DEL TERZO
L’Adunanza Plenaria interviene nel dibattito il legislatore con il decreto legge 13 agosto 2011, n. 138.
RUGGERO TUMBIOLO*
Il 29 luglio 2011 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 15 (in questa Rivista, nella Sezione Giurisprudenza), ha risolto finalmente il dibattito giurisprudenziale sulla natura della d.i.a. (oggi s.c.i.a.) e sulle conseguenti tecniche di tutela azionabili dal terzo leso.
L’Adunanza Plenaria ha qualificato il silenzio serbato dalla pubblica amministrazione nel termine perentorio previsto dalla legge per l’esercizio del potere inibitorio alla stregua di un atto tacito di diniego del provvedimento restrittivo; trattasi quindi, secondo la ricostruzione operata dai giudici di Palazzo Spada, di un provvedimento per silentium con cui la p.a., esercitando in senso negativo il potere inibitorio, riscontra che l’attività è stata dichiarata in presenza dei presupposti di legge e, di conseguenza, decide di non impedirne l’inizio o la protrazione.
Detto silenzio significativo si distingue dal silenzio-rifiuto (o inadempimento) in quanto quest’ultimo integra una mera inerzia improduttiva di effetti costitutivi e non conclude il procedimento.
La configurazione del silenzio in esame alla stregua di silenzio significativo onera, di conseguenza, il terzo portatore dell’interesse leso ad impugnare il provvedimento per silentium nell’ordinario termine decadenziale, nel rispetto dei principi di certezza dei rapporti giuridici e di tutela dell’affidamento; a completamento ed integrazione dell’azione di annullamento del silenzio significativo negativo è consentita anche l’azione di condanna pubblicistica (c.d. azione di adempimento) tesa ad ottenere una pronuncia che imponga all’amministrazione, sulla scorta dell’accertamento dell’esistenza dei presupposti per l’esercizio del doveroso potere inibitorio, l’adozione del negato provvedimento restrittivo, ove tuttavia non vi siano spazi per la regolarizzazione della denuncia, ai sensi del comma 3 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
Rimane, poi, salva la possibilità per il terzo di agire in giudizio nell’arco di tempo anteriore al decorso del termine perentorio per l’esercizio del potere inibitorio, mediante un’azione di accertamento tesa ad ottenere una pronuncia che verifichi l’insussistenza dei presupposti di legge per l’esercizio dell’attività oggetto della denuncia; in questo caso, in pendenza del termine di conclusione del procedimento amministrativo potranno adottarsi misure cautelari, ma non una pronuncia di merito, che potrà intervenire solo dopo la scadenza del termine predetto, in ossequio al disposto dell’art. 34, comma 2, del codice, che fa divieto al giudice amministrativo di pronunciare su poteri ancora non ancora esercitati.
La lucida e coerente ricostruzione dell’istituto della d.i.a. (oggi s.c.i.a.) operata dal massimo Organo della giustizia amministrativa corre, tuttavia, il rischio di avere vita breve.
Il recente decreto legge n. 138 emanato il 13 agosto 2011 e convertito dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 reca, tra le numerose disposizioni finalizzate alla stabilizzazione finanziaria, al contenimento della spesa pubblica, a favorire lo sviluppo e la competitività del Paese ed il sostegno dell’occupazione, anche una modifica all’art. 19 della legge n. 241 del 1990.
L’art. 6 di detto decreto legge n. 138 del 2011, nel testo modificato dalla legge di conversione, introduce, infatti, il comma 6 ter all’art. 19 della legge 241 del 1990, avente il seguente tenore letterale: «6-ter. La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104».
Mentre sulla non equiparabilità della d.i.a. e della s.c.i.a. ad atti amministrativi impliciti si può convenire, il rinvio (addirittura «esclusivamente») all’azione sul silenzio inadempimento di cui all’art. 31 c.p.a. rischia di portare nuove nubi (appena dissipate dall’Adunanza Plenaria) sulla natura sostanziale dell’istituto ed alle conseguenti azioni esperibili dal terzo controinteressato all’esercizio dell’attività denunciata/segnalata; specie ora che lo stesso legislatore, con l’art. 5, comma 2, lettere c) e b), del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, ha chiarito che le disposizioni di cui all’art. 19 della legge n. 241 del 1990 si interpretano nel senso che le stesse si applicano anche alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal d.P.R. n. 380 del 2001, con esclusione dei casi in cui le denunce stesse siano alternative o sostitutive del permesso di costruire, ed ha contestualmente ridotto a trenta giorni il termine di cui al primo periodo del comma 3 dello stesso art. 19 per l’esercizio del potere inibitorio nei casi di s.c.i.a. in materia edilizia (introducendo all’uopo il comma 6 bis).
In disparte la circostanza che l’imposizione dell’onere, prima di agire in giudizio, di presentare apposita istanza sollecitatoria alla p.a. comporta una ingiustificata procrastinazione del momento dell’accesso alla tutela giurisdizionale, va messo in risalto che l’azione di accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere prevista dall’art. 31 c.p.a. postula, da una parte, il decorso del termine per la conclusione del procedimento e, dall’altra, la sopravvivenza del potere al decorso del suddetto termine.
Ora, se prima del decorso del termine fissato dalla legge non appare ipotizzabile alcuna inerzia rispetto alla quale esperire l’azione di cui all’art. 31 c.p.a., nella architettura normativa del rinnovato art. 19 della legge n. 241 del 1990 lo spirare del termine perentorio di legge concesso alla p.a. dalla legge per adottare i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività implica la consumazione del potere inibitorio di carattere generale.
Trascorso il suddetto termine – fatta salva l’ipotesi di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà (che concernono stati, qualità personali e fatti) false o mendaci, in presenza delle quali il summenzionato limite temporale non opera (ultimo periodo del terzo comma dell’art. 19) – all’amministrazione è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell’impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente (comma 4 dell’art. 19).
Non è chiaro se tale potere configuri o meno una specificazione dei limiti del potere generale di autotutela richiamato nel secondo comma della stessa norma, là dove viene fatto comunque salvo il potere dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21 quinquies e 21 nonies della legge n. 241 del 1990.
In ogni caso, il potere inibitorio di carattere generale, avente natura vincolata e rivolto ad accertare la sussistenza dei requisiti e dei presupposti di legge per l’avvio dell’attività segnalata, con il decorso del termine lascia il posto ad un diverso potere di intervento, il cui esercizio è condizionato dalla presenza di un possibile pregiudizio al patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale o comunque assoggettato ai limiti propri del potere di autotutela.
A complicare il quadro normativo, già di per sé poco chiaro, vi è il secondo comma dell’art. 21 della stessa legge n. 241 del 1990, a mente del quale le sanzioni attualmente previste in caso di svolgimento dell’attività in carenza dell’atto di assenso dell’amministrazione o in difformità di esso si applicano anche nei riguardi di coloro i quali diano inizio all’attività ai sensi degli articoli 19 e 20 in mancanza dei requisiti richiesti o, comunque, in contrasto con la normativa vigente.
Tuttavia, quest’ultima disposizione, che probabilmente necessitava di un coordinamento con la novella che ha interessato l’art. 19, sembra richiamare il potere di natura sanzionatoria previsto dalla legislazione di settore, che non necessariamente prevede sanzioni di carattere inibitorio/ripristinatorio (si pensi, ad esempio, all’art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001 per gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla d.i.a. ed oggi applicabile alla s.c.i.a., come si desume anche dal comma 6 bis dello stesso art. 19).
Si deve, quindi, concludere che l’azione avverso il silenzio-rifiuto maturato dopo il decorso del termine fissato dai commi 3 e 6 bis dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990 abbia ad oggetto l’esercizio di un potere diverso da quello inibitorio previsto in via generale dalla legge, il cui esercizio risulta condizionato dalla presenza di particolari interessi pubblici ovvero è assoggettato ai limiti propri del potere di autotutela ovvero ancora non assicura l’adozione di misure ripristinatorie, il che implica una evidente ed incisiva limitazione dell’effettività della tutela giurisdizionale, intesa come idoneità del processo ad assicurare il soddisfacimento dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio, affermata dagli articoli 24, 103 e 113 della Carta Costituzionale e richiamata nell’art. 1 del codice del processo amministrativo1 .
* Avvocato in Como
1 Per un approfondimento dell’istituto della d.i.a. e della s.c.i.a. si rinvia, da ultimo, a M. A. Sandulli, Dalla d.i.a. alla s.c.i.a.: una liberalizzazione «a rischio», in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 6, 2010, 465, anche per ulteriori richiami bibliografici.