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Sottoprodotto e “normale pratica industriale”: necessità di una interpretazione che tenga conto della finalità della norma 

 


LUCA PRATI
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Il sottoprodotto pare essere diventato il nuovo terreno di scontro tra due schieramenti da sempre contrapposti nell’affrontare il tema della gestione dei residui produttivi nel contesto del sistema economico e normativo.

Da un lato infatti permane (comprensibilmente) un atteggiamento di sostanziale (e talora pregiudiziale) sfiducia verso qualsiasi norma che consenta ad un materiale di uscire dalla filiera del rifiuto e dai relativi controlli, mentre dal fronte opposto si reclama sempre più a gran voce l’esigenza (particolarmente sentita in un Paese strangolato dalla burocrazia) di adottare prospettive più pragmatiche e meno formaliste nel decidere quali residui meritino di essere a tutti gli effetti equiparati a prodotti non assimilabili ai rifiuti. Sarebbe inutile nascondersi che entrambe le tesi, nei loro aspetti più estremi, non sono scevre da influenze ideologiche che vanno ben al di là dei tecnicismi legali.

L’ambiguità della norma contenuta nell’art. 184 bis1  del D. Lgs. 152/2006, che consente  prima dell’utilizzo del sottoprodotto in un ciclo produttivo o di consumo solo “trattamenti preliminari” conformi alla “normale pratica industriale”ben si presta ad alimentare tale conflittualità .

Sul significato da attribuire all’inciso “normale pratica industriale” si è quindi interrogata a lungo la dottrina2, dato che è proprio questo inciso a costituire la linea di confine che divide le diverse interpretazioni.  

Secondo alcuni, la normale pratica industriale è quella ordinariamente in uso nello stabilimento nel quale il sottoprodotto verrà utilizzato; le operazioni consentite su di esso non possono che identificarsi in quelle stesse che l’impresa normalmente attua sulla materia prima sostituita3.

Esistono però posizioni dottrinarie più restrittive4, che sostengono che il possibile ulteriore trattamento consentito del residuo non debba mai comportare una trasformazione della sostanza o dell’oggetto (con mutamento della struttura e costituzione fisico-chimica), ma possa consistere, al massimo, “in minimi interventi, che non mutino in alcun modo la struttura, la sostanza e la qualità del sottoprodotto stesso” e, comunque, siano normali rispetto al processo di produzione industriale ove avviene il riutilizzo, soprattutto nel senso che non devono consistere in un trattamento tipico di un rifiuto, tanto meno se effettuato al fine di consentirne il recupero.  

La Cassazione5  si è a sua volta espressa sulla nuova definizione di sottoprodotto, in modo cauto ma non del tutto esplicito, lasciando di nuovo ampi margini interpretativi agli operatori giuridici su quale sia il “trattamento” consentito del sottoprodotto per renderlo compatibile con il ciclo produttivo di destinazione. 

Il concetto di “trattamento”, del resto, difficilmente può essere ricavato dalla lettura sistematica della normativa ambientale, come ha ritenuto parte di dottrina e giurisprudenza. Tanto infatti la definizione di “trattamento” contenuta nell’art. 183, comma 1, lett. S,  (“operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento) che quella ricavabile dal D.lgs. n. 36 del 2003, art. 2, comma 1, lett. H  ("processi fisici, termici, chimici o biologici”, inclusivi delle operazioni di cernita “che modificano le caratteristiche dei rifiuti, allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa, di facilitarne il trasporto, di agevolare il recupero o di favorirne lo smaltimento in condizioni di sicurezza”) non pertengono al “sottoprodotto” ma ad una modalità di smaltimento del rifiuto e, pertanto, non sembrano essere  neppure analogicamente estensibili ad esso6. Si tratta in ogni caso di definizione estremamente ampie, che possono solo indicare linee guida di massima.

L’argomento dottrinale secondo cui la normale pratica industriale è quella ordinariamente in uso nello stabilimento nel quale il sottoprodotto verrà utilizzato contiene degli elementi esegetici molto apprezzabili. La “normale pratica” sembra infatti ricondurre il trattamento a ciò che “generalmente” viene effettuato anche su materiali che non siano necessariamente rifiuti e che già siano presenti nei cicli dell’impresa che impiega i sottoprodotti. Tuttavia occorre anche considerare come tale lettura non dovrebbe essere preclusiva di quei trattamenti preliminari o preventivi non sempre regolarmente effettuati da una determinata impresa sui materiali diversi dai residui e che non necessitano di tale intervento per essere utilizzati, quando detti trattamenti siano comunque conformi a normali pratiche del settore industriale di riferimento e innocui sotto il profilo ambientale. 

Escludere qualsiasi trattamento preliminare o preventivo del sottoprodotto finirebbe infatti per vanificare le modifiche apportate all’art. 184 bis, con un surrettizio ritorno alla definizione previgente che vietava tout court qualsiasi intervento sul residuo per renderne compatibile l’utilizzo produttivo.

Ma se si debbono ritenere consentite le operazioni di trattamento preliminare o preventivo che non consistono ancora nell’utilizzo diretto nel ciclo produttivo caratteristico dell’impresa, come il classico pesce rosso che nuota nella boccia ci si ritrova sempre al medesimo punto di partenza, costituito dalla ineludibile ambiguità semantica del concetto di “normale pratica industriale” in cui il trattamento deve rientrare per non divenire “recupero” di un rifiuto.

Tale concetto fino ad ora pare essere stato ricostruito (molto parzialmente) più che altro in senso negativo. La Cassazione ha così recentemente affermato che “deve escludersi che il concetto di normale pratica industriale possa ricomprendere attività comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura”. 

L’affermazione è, tutto sommato, tendenzialmente compatibile con il fatto che una “radicale trasformazione” del residuo, seppure possa astrattamente rientrare nella “normale pratica industriale”, più difficilmente, nella prassi, potrebbe essere considerata un trattamento funzionale e preventivo all’utilizzo vero e proprio della sostanza, venendo invece  ad avvicinarsi maggiormente  ad  un “recupero” del rifiuto per trasformarlo in un prodotto.

La Cassazione ha però precisato come “anche operazioni di minor impatto sul residuo, individuabili in operazioni quali la cernita, la vagliatura, la frantumazione o la macinazione, determinano una modificazione dell’originaria consistenza del residuo e, pertanto, rientrano nel concetto di trattamento, rispetto al quale occorre verificare quando possa ritenersi rientrante nella normale pratica industriale

La Corte non ha quindi affatto escluso che una operazione che determini una “modificazione dell’originaria consistenza del residuo” possa comunque essere considerata “trattamento” di un sottoprodotto generalmente consentito. Essa si è, correttamente, limitata a precisare come in tali casi si debba verificare di volta in volta se l’operazione rientri nella “normale pratica industriale”, ossia in una operazione “ordinariamente” effettuata su di un certo tipo di materiale.

La Cassazione ha invece escluso che rientrino nel concetto di normale pratica industriale “tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato”; di per sé l’affermazione è corretta, ma essa non dovrebbe essere di ostacolo alla possibilità che una determinata impresa aggiunga al proprio ciclo produttivo una fase preliminare diretta alla preparazione del sottoprodotto che ne modifichi “l’ordinaria consistenza” senza “trasformarla radicalmente”. Nulla nella lettera della norma esclude infatti tale possibilità, ed anzi appare proprio ciò che il legislatore europeo intendeva esplicitamente consentire, in un’ottica di chiaro favore per il sottoprodotto. 

Se quindi una operazione di vagliatura, frantumazione, essiccazione (e se ne potrebbero aggiungere molte altre) rientra “normalmente” (ossia in via ordinaria) nella lavorazione di quel materiale all’interno del settore industriale di riferimento, non vi è ragione perché essa  debba consistere sempre necessariamente in un “intervento minimo” che non muti in alcun modo sostanza e qualità del prodotto, pena la ricaduta in una operazione di “recupero” di un rifiuto. In questo senso le tesi che si spingono a “minimizzare” ad ogni costo l’intervento preliminare o preventivo sul residuo non paiono condivisibili.  La lettura “minimalista” si traduce in una abrogazione per via interpretativa della possibilità ora concessa di effettuare un trattamento preliminare o preventivo sul residuo prima del suo utilizzo, mantenendone tuttavia la natura di sottoprodotto. Quale utilità pratica potrebbe infatti avere un “intervento minimo” che non incida neppure sulla “qualità e sostanza” del prodotto” ? Anche la semplice cernita incide su tali elementi, per non parlare di una operazione di vagliatura, filtraggio, raffinazione, etc…. 

E’ stato osservato che talune letture riduttive della norma “si connotano, piuttosto, come un tentativo forzato di tenere in vita i precedenti criteri normativi – di qualificazione del sottoprodotto – con sottovalutazione e/o disconoscimento delle significative novità introdotte, nel 2008, in sede comunitaria, e nel 2010, in ambito nazionale. Dando le spalle “al nuovo” e minimizzando i gravi problemi posti dalla disciplina vigente, cui si vorrebbero applicare gli orientamenti giurisprudenziali passati, con la facile ed elusiva giustificazione che “… I principi sopra richiamati debbono ritenersi validi pure alla luce della disciplina contenuta nell’art. 184-bis7.

Se quindi una “trasformazione radicale” del prodotto più difficilmente potrà essere ricondotta ad una operazione di “trattamento” in qualche misura preliminare o preventiva all’utilizzo, ben diverso è per ciò che attiene alle “trasformazioni” che radicali non sono ma che si presentano comunque necessarie al fine di far passare il prodotto stesso da uno stadio di inutilizzabilità nel ciclo produttivo (ad esempio, per la presenza di impurità o frazioni estranee) ad una di diretta utilizzabilità, incrementandone la qualità e l’utilità  per il ciclo produttivo.

Ebbene, non vi è da illudersi che il ricorso ai predetti criteri si riveli sempre dirimente. Non è difficile immaginare che, nella pratica, resteranno numerose aree “grigie” in cui non sarà agevole definire se una determinata operazione sia tale da comportare non solo la “modificazione dell’originaria consistenza del residuo” (certamente consentita) ma anche una “radicale trasformazione” che ne stravolga l’originaria natura. 

Nella genericità della definizione è quindi indubbio che il rischio di letture fortemente influenzate dalle contrapposte “visioni ideologiche” all’approccio della questione finiscano per farla da padrone, continuando a perpetuare il conflitto tra la “fazione” del rifiuto e quella del non-rifiuto, con la conseguenza di lasciare per l’ennesima volta gli operatori in una situazione di completo stallo.  

Preso quindi atto che il significato della norma, nonostante tutti gli sforzi dell’interprete, non può essere colmato con il solo ricorso al dato letterale e sistematico, occorre fare un passo ulteriore e utilizzare il criterio teleologico.

Poiché  è indubbio che la sottoposizione al regime dei rifiuti sia voluto dal legislatore ogni qualvolta vi sia un rischio che un determinato  oggetto o sostanza richieda di essere sottoposto ad operazioni anche solo potenzialmente pericolose per l’ambiente al fine di essere smaltito o riutilizzato, la “normalità” della pratica industriale consentita non può non considerare anche tale aspetto.

Di ciò si è certamente resa conto la Cassazione, che nella sentenza più volte citata ha affermato come la lettura della norma che considera conforme alla normale pratica industriale quelle operazioni che l’impresa normalmente effettua sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire sia da preferirsi in quanto “maggiormente rispondente ai criteri generali di tutela dell’ambiente cui si ispira la disciplina in tema di rifiuti”.

In proposito appare interessante anche la recente sentenza del Consiglio di Stato8, relativa alla c.d. “pollina”, in cui il Giudice ha colto l’opportunità per una osservazione di carattere generale, ricordando come ai sensi dell’art. 179 del Codice dell’Ambiente “la gestione dei rifiuti avviene nel rispetto di una gerarchia di azioni che al suo apice trova la “prevenzione”, espressamente considerata la migliore opzione ambientale, proprio perché, intervenendo prima che una sostanza diventi rifiuto, evita in radice l’esigenza di disfarsi della stessa ed il conseguente sorgere della problematica ambientale” traendone la conseguenza che “il detentore della sostanza, grazie alle potenzialità energetiche ed alla sua combustione, non ha più l’esigenza di “disfarsi” della pollina a mezzo dell’incenerimento, ma può sfruttarla economicamente senza danni per l’ambiente …”.

E’ chiaro che per il Giudice Amministrativo la ratio delle norma di favore per il sottoprodotto sta tutta nel consentire al detentore di non disfarsi della sostanza quando sia possibile sfruttarla economicamente senza danni per l’ambiente.

In sostanza, a parere di scrive occorre quindi legare il requisito del trattamento conforme alla “normale pratica industriale” a quello successivo di cui all’art. 184 bis, per cui “la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.

Pertanto, nei casi dubbi dovrebbe ritenersi rientrare nella normale pratica industriale ogni operazione effettuata sulla sostanza o sull’oggetto preventivamente al suo utilizzo che, nel settore industriale di riferimento, viene condotta  anche su materie prime,  intermedi o prodotti, senza che derivi un maggior rischio in termini di impatto ambientale per il fatto che venga impiegato un sottoprodotto.

Al contrario, ogni volta in cui siano necessari “trattamenti” sul sottoprodotto tali da aggravarne significativamente l’impatto ambientale (e ciò avverrà con più probabilità quando ci si trovi di fronte ad operazioni che lo “trasformino radicalmente”), risulterà più probabile che detto trattamento  non possa rientrare nel novero di quelli consentiti sui sottoprodotti ma bensì costituisca una  operazione di recupero. 
 

* Avvocato in Milano

1  Secondo l’art. 184 bis “E’ un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.
2  Tra i più recenti contributi sulla nozione di rifiuto e sottoprodotto cfr.: G. AMENDOLA, Sottoprodotti: le prime sentenze e le prime elaborazioni della dottrina, in www. industrie ambiente.it; P. GIAMPIETRO, Quando un residuo produttivo va qualificato sottoprodotto (e non rifiuto) secondo l’art. 5 della direttiva 2008/98/CE (per una corretta attuazione della disciplina comunitaria), in le xambiente.it; V. PAONE, I sottoprodotti e la normale pratica industriale: una questione spinosa, in Ambiente e Sviluppo, 2011, n. 11; V. ROSOLEN, Normale pratica industriale: i chiarimenti della Cassazione, in Ambiente e sicurezza, 2012, 12, 94; S. MAGLIA, Normale pratica industriale: la contraddittoria e pericolosa interpretazione della Cassazione, in Ambiente & Sviluppo 7/2012; R. TUMBIOLO, La Corte di Cassazione si pronuncia sulla nozione di sottoprodotto, trattamento e normale pratica industriale, in ambietnediritto.it; G. GAVAGNIN, La "normale pratica industriale" nell’interpretazione della Cassazione: chiarezza non ancora fatta. In Ambientediritto.it;  L. PRATI, I sottoprodotti dopo il recepimento della direttiva 2008/98/CE, in Rivista Giuridica dell’Ambiente, 2011, 549.
3 V. PAONE, I sottoprodotti e la normale pratica industriale: una questione spinosa, in Ambiente e Sviluppo, 2011, n. 11.
4 G. AMENDOLA, Sottoprodotto e normale pratica industriale: finalmente interviene la Cassazione, in lexambiente.it.
5 Cassazione penale, sez. III, 17 aprile 2012, n. 17453.
6 Così P. Giampietro, I trattamenti del sottoprodotto e la “normale pratica industriale”, in AmbienteDiritto.it.
7 I trattamenti del sottoprodotto e la “normale pratica industriale”, di P. Giampietro, in  AmbienteDiritto.it.
8 Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n.1230, depositata il 28 febbraio 2013.  


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