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ALTA VELOCITÀ E EFFETTO NIMBY.


STEFANO NESPOR*

 

 


In queste settimane sulla questione della TAV della Val di Susa si è sentito di tutto.


Da una parte, ci sono coloro che sostengono che un’opera pubblica, allorché è decisa in uno Stato rappresentativo secondo le regole costituzionalmente previste, va eseguita e qualsiasi opposizione diviene una questione di ordine pubblico: non si deve lasciare alcuno spazio alle reazioni provenienti dalle comunità locali.


Dall’altra parte, ci sono coloro che sostengono che se una comunità locale non vuole che sul suo territorio si realizzi un’opera pubblica che ritiene non corrispondente ai suoi interessi, l’opera non va fatta. È stato anche tirato in ballo a sproposito il principio dell’autodeterminazione dei popoli.

 


Queste due posizioni, collocate agli estremi opposti di un continuum di possibilità di relazioni tra centro e periferia, tra interesse generale e interesse locale, sono errate e, quel che è peggio, ignorano quaranta anni di storia sulla realizzazione di opere pubbliche di interesse nazionale o regionale negli Stati democratici e sui problemi che sempre si pongono in questi casi, noti come l’effetto NIMBY (Not In My Back Yard).


L’effetto NIMBY sorge tutte le volte che è necessario localizzare opere pubbliche – prigioni, aeroporti, inceneritori e depositi di rifiuti pericolosi, centrali elettriche (specie se alimentate con energia nucleare), linee ferroviarie o autostradali – che producono costi e rischi sulle comunità locali e sono nel contempo fonte di benefici e di utilità a livello nazionale o regionale.


Molte opere pubbliche producono costi superiori ai benefici per chi risiede nell’area circostante, mentre producono benefici senza alcun costo per la generalità degli abitanti.


Non sempre è così, però. Perché non tutte le opere sono uguali o hanno impatti necessariamente negativi a livello locale.


Alcune opere possono infatti produrre benefici a livello locale e sviluppare un indotto di occupazione e di infrastrutture che agevolano lo sviluppo dell’area. Per esempio, l’aeroporto di Malpensa ha avuto opposizioni limitate, allorché è stato realizzato, perché, nonostante la contrarietà dei residenti nelle aree immediatamente interessate dalla realizzazione dell’aeroporto, tutte le comunità locali interessate si erano rese conto, anche sulla base di vari studi realizzati all’epoca da parte della Regione Lombardia, che, accanto ai benefici generali, ve ne sarebbero stati anche sul territorio circostante all’intervento.


Anche la realizzazione di una linea ferroviaria – è il caso della TAV di Val di Susa – può portare importanti benefici all’ambiente locale, se si pone come alternativa al traffico merci o passeggeri su gomma, riducendo così l’impatto pesantemente inquinante di questo tipo di trasporto e contribuendo, tra l’altro, ad un contenimento del cambiamento climatico a seguito dell’abbattimento dell’uso di combustibili.


In realtà molte sono le variabili di cui tenere conto per calcolare il rapporto tra costi e benefici, sia a livello locale che sul più ampio territorio che l’opera si propone di servire. A ciò deve aggiungersi che i benefici a livello locale possono distribuirsi in modo ineguale e favorire maggiormente alcuni gruppi a scapito di altri; parimenti, i costi possono gravare maggiormente su talune categorie di residenti.


Proprio la difficoltà di offrire dati e risultati chiari costituisce una delle prime cause dei conflitti provocati dall’effetto NIMBY.


Gli scontri sulla realizzazione di queste opere sono particolarmente intensi dove le autonomie locali hanno una forte tutela a livello costituzionale, come negli Stati Uniti e in Canada, tanto che si è sviluppata negli anni Novanta una specifica disciplina, a cavallo tra il diritto pubblico e il diritto ambientale, denominata “teoria della collocazione delle opere pubbliche”.


Per la dislocazione di rifiuti pericolosi o di scorie nucleari, è stato suggerito fin dai primi anni Ottanta (c’è un noto volume di DiMento e Grayser sul tema) che il termine adeguato sia non NIMBY, ma BANANA (Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything). Anche la collocazione delle scorie nucleari nel deserto del Nevada, in un’area ben lontana da qualsiasi insediamento umano, ha trovato l’opposizione di gruppi ambientalisti che si sono opposti alla trasformazione del deserto in una “pattumiera nucleare”.


L’effetto NIMBY tuttavia, non bisogna dimenticarlo, è caratteristico di uno Stato democratico: esiste in uno Stato ove è garantito alle comunità locali il diritto di manifestare le proprie opinioni e nel caso di esprimere la propria opposizione ai progetti approvati a livello nazionale. Non c’è, o c’è con intensità assai minore, nei Paesi dove non è prevista né tollerata la possibilità di contestare le decisioni concernenti la realizzazione di opere pubbliche, comunque assunte.


Allora, cominciamo con il dire che non c’è nulla di eccezionale in quanto accade in Val di Susa.


Anche la giuntura tra le comunità locali che si oppongono al progetto e attivisti o militanti che giungono in soccorso per i più vari motivi, la difesa dell’ambiente, il sostegno alle autonomie locali, mettere in difficoltà il Governo o semplicemente avere la possibilità di menare le mani, è una costante della maggior parte dei confronti sull’effetto NIMBY.
L’unico aspetto eccezionale è che, rispetto a un effetto NIMBY ampiamente prevedibile, tutte le possibili strategie volte a limitarne le conseguenze non siano state poste in essere tempestivamente, e cioè prima di decidere l’esecuzione dell’opera.


Tutte le strategie muovono da un punto in comune: l’informazione preventiva accurata e la trasparenza sui costi anche ambientali e sui benefici dell’opera, a livello locale e a livello nazionale o regionale, prima – e non dopo – che la stessa venga definitivamente approvata.


Questa informazione per il progetto della TAV è mancata. Solo ora il Governo Monti ha annunciato di voler rendere pubblici i costi e i benefici. Purtroppo, gli interventi tardivi in questa materia sono spesso anche controproducenti.


In realtà, il comportamento tenuto dall’Italia è stato, sotto molti aspetti, incompatibile con la Convenzione di Aarhus, le cui disposizioni sono vigenti in tutta l’Unione europea. La Convenzione assicura l’accesso alle informazioni sull’ambiente detenute dalle autorità pubbliche, prevede la partecipazione e l’accesso alla giustizia dei cittadini alle attività decisionali aventi effetti sull’ambiente.


Va però anche detto che il principio della partecipazione di tutti coloro che possono avere interesse non può essere limitato, come pure è stato sostenuto, solo a coloro che a livello locale ne subiscono – o ritengono di subire – gli effetti negativi, ma va esteso anche a tutti coloro che dall’opera possono trarre un beneficio. E questi non sono collocati solo in Italia. Una eventuale decisione italiana di sospendere l’intervento avrebbe ripercussioni negative su tutti i Paesi in cui i lavori per la TAV sono già iniziati: anche ai cittadini di questi Stati dovrebbe essere garantito il diritto di interloquire.


Se quindi i Governi italiani che si sono occupati di questo intervento hanno sbagliato, non bisogna però dimenticare, come parziale attenuante, che l’esperienza ha insegnato che nessuna delle strategie possibili garantisce una pacifica esecuzione dell’opera.


Negli Stati Uniti, il Paese che ha l’esperienza più vasta e di lungo periodo su scontri determinati dall’effetto NIMBY molti esperti sono convinti che anche le strategie più lungimiranti siano inutili, soprattutto se l’esecuzione dell’opera costituisce non il motivo, ma l’occasione per creare uno scontro politico o istituzionale.


Tuttavia, l’adozione di una delle strategie possibili avrebbe quasi sicuramente permesso di evitare gli eccessi ai quali assistiamo in questi giorni o di affrontarli con molta maggiore determinazione.


Si può scegliere, superata la fase dell’informazione e del confronto, di adottare la strategia cosiddetta DAD, acronimo di Decide, Announce, Defend. Si assume la decisione, si annuncia pubblicamente e si difendono senza alcun compromesso le scelte effettuate. È una strategia che è stata adottata spesso negli Stati Uniti e in Canada, con risultati ben lontani dall’essere soddisfacenti. Tanto che ora è stata abbandonata quasi ovunque.


Oppure si può tentare di vanificare gli effetti NIMBY aggirando con apposite disposizioni legislative il principio della partecipazione delle comunità locali: molti Stati hanno riservato la decisione alle istituzioni rappresentative, nel caso di realizzazione di opere di interesse sovra locale.


Ma anche ricorrendo a questa soluzione non sono stati evitati conflitti, spesso aspri, nel caso in cui la comunità locale riesca ad organizzarsi e a ricevere aiuto da gruppi o organizzazioni esterne.


Si possono invece seguire strategie che offrono compensazioni per i costi che la comunità locale sopporta (nel Massachussetts c’è una legge che prevede la necessità di meccanismi di questo tipo per tutti i progetti di localizzazione di centrali per il trattamento di rifiuti).


In parte, questa strategia è stata seguita in Val di Susa. Ma essa richiede grandi capacità di mediazione e di negoziazione e la necessaria partecipazione degli organismi rappresentativi a livello locale, che debbono riuscire a gestire in modo trasparente le somme o le opere compensative in modo da soddisfare coloro che maggiormente risultano pregiudicati (o si ritengono tali) dall’intervento. Soprattutto, richiede che coloro che si impegnano riscuotano la fiducia di coloro che delle compensazioni dovrebbero essere i destinatari. E probabilmente è questo l’elemento che sinora è mancato e che dovrebbe, sia pure in extremis, essere recuperato dall’attuale Governo.

* Avvocato in Milano


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