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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Appalti Numero: 199 | Data di udienza: 17 Luglio 2012

* APPALTI – Servizi pubblici locali di rilevanza economica – Affidamento diretto – Limitazioni ex art. 4 d.l. n. 138/2011 – Reintroduzione della disciplina recata dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, abrogata a seguito di referendum – Illegittimità costituzionale.


Provvedimento: Sentenza
Sezione:
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 20 Luglio 2012
Numero: 199
Data di udienza: 17 Luglio 2012
Presidente: Quaranta
Estensore: Tesauro


Premassima

* APPALTI – Servizi pubblici locali di rilevanza economica – Affidamento diretto – Limitazioni ex art. 4 d.l. n. 138/2011 – Reintroduzione della disciplina recata dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, abrogata a seguito di referendum – Illegittimità costituzionale.



Massima

 

CORTE COSTITUZIONALE – 20 luglio 2012, n. 199


APPALTI – Servizi pubblici locali di rilevanza economica – Affidamento diretto – Limitazioni ex art. 4 d.l. n. 138/2011 – Reintroduzione della disciplina recata dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, abrogata a seguito di referendum – Illegittimità costituzionale.

 L’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni dalla legge n. 148/2011, prevedendo limiti stringenti all’affidamento diretto dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, costituisce ripristino della normativa abrogata a seguito di referendum popolare (d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113) , considerato che essa introduce una nuova disciplina della materia, «senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina normativa preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti» (sentenza n. 68 del 1978), in palese contrasto, quindi, con l’intento perseguito mediante il referendum abrogativo. Né può ritenersi che sussistano le condizioni tali da giustificare il superamento del divieto di ripristino, tenuto conto del brevissimo lasso di tempo intercorso fra la pubblicazione dell’esito della consultazione referendaria e l’adozione della nuova normativa (23 giorni),  nel quale peraltro non si è verificato nessun mutamento idoneo a legittimare la reintroduzione della disciplina abrogata. Deve, pertanto, esserne dichiarata l’illegittimità costituzionale.


Pres. Quaranta,  Est. Tesauro – Regioni Puglia, Lazio, Marche, Emilia-Romagna, Umbria e della Regione autonoma della Sardegna c. Presidente del Consiglio dei Ministri.


Allegato


Titolo Completo

CORTE COSTITUZIONALE – 20 luglio 2012, n. 199

SENTENZA

 

CORTE COSTITUZIONALE – 20 luglio 2012, n. 199

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

–           Alfonso                       QUARANTA                             Presidente
–           Franco                         GALLO                                       Giudice
–           Luigi                            MAZZELLA                                      “
–           Gaetano                       SILVESTRI                                       “
–           Sabino                        CASSESE                                           “
–           Giuseppe                     TESAURO                                         “
–           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                  “
–           Giuseppe                     FRIGO                                                “
–           Alessandro                  CRISCUOLO                                     “
–           Paolo                          GROSSI                                              “
–           Giorgio                       LATTANZI                                         “
–           Aldo                           CAROSI                                              “
–           Marta                          CARTABIA                                        “
–           Sergio                         MATTARELLA                                  “
–           Mario Rosario             MORELLI                                           “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 4 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, promossi con ricorsi delle Regioni Puglia, Lazio, Marche, Emilia-Romagna, Umbria e della Regione autonoma della Sardegna, notificati il 12 ottobre, il 14-16, il 14-18 ed il 15 novembre 2011, depositati il 21 ottobre, il 18, il 22, il 23 ed il 24 novembre 2011, rispettivamente iscritti ai nn. 124, 134, 138, 144, 147 e 160 del registro ricorsi 2011.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 19 giugno 2012 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi gli avvocati Giandomenico Falcon e Franco Mastragostino per le Regioni Emilia-Romagna ed Umbria, Massimo Luciani per la Regione autonoma della Sardegna, Renato Marini per la Regione Lazio, Ugo Mattei e Alberto Lucarelli per la Regione Puglia, Stefano Grassi per la Regione Marche e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.— Con ricorso (reg. ric. n. 124 del 2011), notificato il 12 ottobre 2011 e depositato il successivo 21 ottobre, la Regione Puglia ha impugnato, fra l’altro, l’articolo 4 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, nella parte in cui la predetta norma, intitolata «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall’Unione europea», detta la nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, per violazione degli articoli 117, primo e quarto comma, 118, nonché degli articoli  5, 75, 77 e 114 della Costituzione.

1.1.— In particolare, la ricorrente sostiene che il citato art. 4, limitando le ipotesi di affidamento in house dei servizi pubblici locali senza gara al di sotto di 900.000 euro alle società a capitale interamente pubblico, ed in generale comprimendo in capo agli enti territoriali e locali il potere di qualificare la natura dei predetti servizi e di scegliere i relativi modelli di gestione, al di là di ogni obiettivo di tutela degli aspetti concorrenziali inerenti alla gara, contrasterebbe con i principi di autodeterminazione degli enti locali (artt. 5, 114, 117 e 118 Cost.). La norma impugnata contrasterebbe poi anche con l’articolo 345 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), espressione del principio di neutralità rispetto agli assetti proprietari delle imprese e alle relative forme giuridiche, e con il principio della cosiddetta preemption, in virtù del quale l’esistenza di una regolamentazione europea precluderebbe l’adozione di discipline divergenti, ponendo peraltro nel nulla intere disposizioni dei Trattati (gli artt. 14 e 106, comma 2, TFUE, ma anche l’art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea).

Il predetto art. 4, inoltre, reintrodurrebbe la disciplina contenuta nell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, che era stato abrogato dal referendum del 12-13 giugno 2011, riproducendone i medesimi principi ispiratori e le medesime modalità di applicazione, in violazione della volontà popolare espressa ex art 75 Cost., e ricorrendo ad un’interpretazione “estrema” delle regole della concorrenza e del mercato, lesiva delle competenze regionali in tema di servizi pubblici locali e di organizzazione degli enti locali.

La Regione Puglia evoca, infine, la violazione dell’art. 77 Cost., considerato che, essendo direttamente applicabili nel nostro ordinamento le norme dell’Unione europea a seguito dell’abrogazione dell’art. 23-bis, non sussisterebbero, nella specie, le prescritte ragioni di «straordinaria necessità ed urgenza» per l’adeguamento della legislazione alla normativa sovranazionale, ben potendosi effettuare un simile intervento in coerenza con gli assetti decentrati introdotti dalla Costituzione e con il pieno rispetto della volontà del suo popolo, espressa attraverso il referendum.

2.— Anche la Regione Lazio, con ricorso (reg. ric. n. 134 del 2011) spedito per la notifica il 14 novembre 2011 e depositato il successivo 18 novembre, ha promosso questione di legittimità costituzionale, in via principale, dell’intero art. 4 del citato d.l. n. 138 del 2011 innanzitutto, per violazione dell’art. 117, quarto comma, Cost. in quanto la norma impugnata, rimettendo all’ente locale la possibilità di sottrarre i servizi pubblici locali alla liberalizzazione, dopo aver verificato l’esistenza di benefici per la comunità derivanti dal mantenere il regime di esclusiva dei servizi stessi, senza alcun fine di tutela della concorrenza, conseguirebbe l’effetto illegittimo di “espropriare” l’ente regionale della regolazione della materia dei servizi pubblici su cui ha una competenza legislativa residuale.

L’impugnata disciplina sarebbe, inoltre, costituzionalmente illegittima proprio in quanto riproduttiva di quella oggetto dell’abrogazione referendaria. Infatti, pur ritenendo che lo Stato goda, attraverso la tutela della concorrenza, di una competenza trasversale ed abbia la capacità di incidere sulle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali, a seguito dell’abrogazione referendaria di analoga disciplina legislativa statale, un simile intervento del legislatore statale «dovrebbe essere in concreto ritenuto radicalmente escluso», in conseguenza dell’effetto vincolante che su di esso deriva dalla suddetta abrogazione, incidendo in modo illegittimo, attraverso la concorrenza, su una materia di legislazione esclusiva della Regione.

3.— Con ricorso spedito per la notifica il 14 novembre 2011, depositato il successivo 22 novembre, (reg. ric. n. 138 del 2011), la Regione Marche ha promosso questione di legittimità costituzionale, in via principale, dell’art. 4, commi 1, 8, 9 10, 11, 12, 13, 18 e 21, del medesimo d.l. n. 138 del 2011, in riferimento agli artt. 75 e 117, quarto comma, Cost.

In particolare, essa ha impugnato, in primo luogo, i commi 1, 8, 9, 10, 11, 12 e 13 dell’art. 4, sia in relazione all’art. 75 che all’art. 117, quarto comma, Cost. in quanto, riproducendo pressocché integralmente l’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, eluderebbero l’esito conseguito dal referendum popolare del giugno 2011 sul medesimo art. 23-bis, determinando una lesione indiretta delle proprie attribuzioni costituzionali ed in specie della propria potestà legislativa in materia di servizi pubblici locali. Dette disposizioni sarebbero costituzionalmente illegittime, in quanto affidando, al comma 1, direttamente agli enti locali il compito di decidere circa il regime giuridico dei servizi pubblici locali, sottrarrebbero alla Regione la scelta in questione, in violazione della competenza legislativa residuale in materia di servizi pubblici locali.

La Regione Marche ha, inoltre, impugnato: il comma 18 del medesimo art. 4, nella parte in cui prevede che, in caso di affidamento in house, la verifica del rispetto del contratto di servizio avvenga secondo modalità definite dallo statuto dell’ente locale, in quanto, in tal modo, sottrarrebbe la disciplina di tale aspetto alla competenza legislativa regionale residuale in materia di servizi pubblici locali; il comma 21, in quanto, nella parte in cui dispone che «non possono essere nominati amministratori di società partecipate da enti locali coloro che nei tre anni precedenti alla nomina hanno ricoperto la carica di amministratore, di cui all’art. 77 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, negli enti locali che detengono quote di partecipazione al capitale della stessa società», invaderebbe la competenza legislativa regionale residuale in materia di ordinamento degli enti locali.

4.— La Regione Emilia-Romagna e la Regione Umbria, con ricorsi, notificati il 15 novembre 2011, depositati il successivo 23 novembre (rispettivamente, reg. ric. n. 144 e n. 147 del 2011), hanno promosso questione di legittimità costituzionale, in via principale, dei commi 8, 12, 13, 14, 32 e 33, del citato art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, in riferimento agli artt. 75 e 117, quarto comma, Cost.

Esse impugnano, in primo luogo, i commi 8, 12, 13, 32 e 33, nella parte in cui, ripristinando norme già contenute nell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, abrogato mediante referendum, e nel relativo regolamento di attuazione, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), rispettivamente: a) escludono l’affidamento diretto in house dalle forme ordinarie di conferimento della gestione dei servizi pubblici, ove il valore economico del servizio sia superiore alla somma complessiva di 900 mila euro annui (commi 8 e 13); b) prevedono l’affidamento del servizio a società a partecipazione mista pubblica, a condizione che essa sia costituita con procedura avente ad oggetto, allo stesso tempo, la selezione del socio privato, cui devono essere attribuiti specifici compiti operativi e una partecipazione non inferiore al 40 %, e l’affidamento del servizio, con conseguente esclusione di altre fattispecie di partenariato pubblico-privato presenti a livello comunitario (comma 12); c) disciplinano il regime transitorio degli affidamenti, riproponendo in termini analoghi limitazioni e scadenze al regime degli affidamenti in atto già fissate dall’abrogato art. 23-bis e volte a penalizzare le forme di autoproduzione dei servizi (comma 32); d) infine, confermano il divieto, per le società titolari di affidamenti diretti, di acquisire servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, nonché di svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né direttamente, né tramite società ad esse riferite, né partecipando a gare (comma 33).

Così disponendo, i richiamati commi violerebbero gli artt. 75 e 117, quarto comma, Cost. in quanto, rendendo estremamente limitate le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, di gestione in house di quasi tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica ed indicando come alternative ed equivalenti le sole modalità di esternalizzazione, determinerebbero una limitazione della capacità di scelta degli enti territoriali, suscettibile di incidere sull’autonomia loro riconosciuta in materia, arbitraria perché realizzata senza alcuna concertazione con i predetti, ed ancora maggiore di quella delineata dall’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 che il referendum ha eliminato “in toto”, in violazione quindi anche del divieto di riproposizione della disciplina formale e sostanziale oggetto di abrogazione referendaria, di cui all’art. 75 Cost.

Una censura particolare è, poi, proposta nei confronti del comma 14 del predetto art. 4, nella parte in cui prevede l’assoggettamento delle società in house al patto di stabilità interno «secondo le modalità definite, con il concerto del Ministro per le riforme per il federalismo, in sede di attuazione dell’art. 18, comma 2-bis, del d.l. n. 112 del 2008». Tale norma sarebbe costituzionalmente illegittima per le stesse ragioni per le quali questa Corte, con la sentenza n. 325 del 2010, ha ritenuto costituzionalmente illegittimo il riferimento al patto di stabilità previsto dal comma 10, lettera a) dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, sul presupposto che «l’ambito di applicazione del patto di stabilità interno attiene alla materia del coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 284 e n. 237 del 2009; n. 267 del 2006), di competenza legislativa concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva statale, per le quali soltanto l’art. 117, sesto comma, Cost. attribuisce allo Stato la potestà regolamentare».

5.— Con ricorso, notificato il 15 novembre 2011, depositato il successivo 24 novembre (reg. ric. n. 160 del 2011), anche la Regione autonoma della Sardegna ha promosso questione di legittimità costituzionale, in via principale, dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, per violazione degli artt. 3, (specialmente comma 1, lettere a, b e g) e 4 (specialmente comma 1, lettere f e g) della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna).

La norma impugnata violerebbe gli artt. 3 e 4 dello statuto speciale, in quanto, attribuendo direttamente agli enti locali la competenza a determinare le modalità di erogazione dei servizi pubblici (in specie al comma 1), lederebbe le competenze primarie della Regione Sardegna nelle materie «ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi della Regione e stato giuridico ed economico del personale», «ordinamento degli enti locali», «trasporti su linee automobilistiche e tranviarie», nonché la competenza concorrente nelle materie «assunzione di pubblici servizi» e «linee marittime ed aeree di cabotaggio fra i porti e gli scali della Regione», dettando norme in materie connesse, ma distinte da quella della tutela della concorrenza, quali lo svolgimento del servizio pubblico, il rispetto del patto di stabilità da parte delle aziende appaltanti, l’assunzione del personale e l’acquisizione di beni e servizi da parte delle imprese aggiudicatarie del servizio, l’organizzazione del controllo da parte dell’ente appaltante sul servizio pubblico erogato.

6.— In tutti i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che i ricorsi vengano dichiarati infondati.

In particolare, il resistente osserva che le argomentazioni relative alla dedotta violazione del riparto costituzionale di competenze coincidono sostanzialmente con quelle già proposte nei ricorsi relativi all’art. 23-bis, del d.l. n. 112 del 2008 e ritenute prive di fondamento dalla sentenza n. 325 del 2010.

Neppure avrebbe maggior fondamento la censura proposta in riferimento all’art. 75 Cost. poiché, diversamente da quanto opinato dalla ricorrente, la giurisprudenza costituzionale, pur avendo rilevato in alcune decisioni la non riproponibilità della medesima disciplina abrogata, non avrebbe mai avuto occasione di specificare la portata di tale preclusione.

Inoltre, non corrisponderebbe al vero che la nuova disciplina condividerebbe la ratio dell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008: infatti, mentre quest’ultima disposizione mirava alla realizzazione di una sistema di concorrenza per il mercato, il nuovo articolo 4 del d.l. n. 138 del 2011 sarebbe diretto alla realizzazione di un sistema di concorrenza nel mercato. Infine, sarebbero numerosi gli elementi di diversità fra le discipline in gioco, fra cui, di particolare significato, l’esclusione del settore idrico e l’innalzamento a 900.000 euro della soglia al di sotto della quale l’affidamento in house è rimesso alla scelta discrezionale dell’ente.

In generale, il resistente osserva che la normativa in esame, a fronte della necessità, condivisa a livello comunitario, di garantire uno sviluppo economico maggiore mediante la promozione della concorrenza e la liberalizzazione delle attività e dei servizi aventi rilevanza economica, ha dovuto rimediare al vuoto normativo venutosi a creare con il referendum abrogativo del 12 e 13 giugno 2011 (art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008), avendo comunque cura di tutelare settori particolarmente sensibili nel rispetto della volontà popolare.

7.— All’udienza pubblica le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni svolte nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1.— Con sei distinti ricorsi, le Regioni Puglia (reg. ric. n. 124 del 2011), Lazio (reg. ric. n. 134 del 2011), Marche (reg. ric. n. 138 del 2011), Emilia-Romagna (reg. ric. n. 144 del 2011), Umbria (reg. ric. n. 147 del 2011) e la Regione autonoma della Sardegna (reg. ric. n. 160 del 2011) hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di svariate disposizioni del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, ed in particolare dell’articolo 4.

Riservata a separate pronunce la decisione sull’impugnazione delle altre disposizioni contenute nel suddetto decreto-legge n. 138 del 2011, sono qui esaminate le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto l’articolo 4 del predetto decreto, in riferimento agli articoli 5, 75, 77, 114, 117 e 118 della Costituzione, nonché in relazione agli articoli 3 e 4 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna).

I ricorsi censurano, con argomentazioni in buona parte coincidenti, la stessa norma. I relativi giudizi, dunque, devono essere riuniti per essere definiti con unica sentenza.

2.— In linea preliminare, occorre prendere atto che, successivamente alla proposizione dei ricorsi, l’impugnato art. 4 del d.l. n. 138 del 2011 ha subìto numerose modifiche, in particolare per effetto dell’art. 9, comma 2, lettera n), della legge 12 novembre 2011, n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2012) e dell’art. 25 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27, nonché dell’art. 53, comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese).

Tali modifiche sopravvenute, che limitano ulteriormente le ipotesi di affidamento diretto dei servizi pubblici locali (come risulta, in specie, dall’introduzione della previsione della possibilità di affidamenti diretti solo per i servizi di valore inferiore a 200.000 euro: comma 13; previo parere obbligatorio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato che può pronunciarsi «in merito all’esistenza di ragioni idonee e sufficienti all’attribuzione di diritti di esclusiva»: comma 3; con espressa previsione della prevalenza della normativa in questione sulle normative di settore: comma 34; con la previsione dell’esercizio del potere sostitutivo del Governo nel caso di inottemperanza a quanto previsto dalla normativa in questione: comma 32-bis) confermano il contenuto prescrittivo delle disposizioni oggetto delle censure, sollevate con i ricorsi indicati in epigrafe, comprimendo, anzi, ancor di più, le sfere di competenza regionale. Pertanto, le predette questioni – in forza del principio di effettività della tutela costituzionale – devono essere estese alla nuova formulazione dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011 (sentenza n. 142 del 2012).

            3.— Le Regioni hanno impugnato il citato art. 4 nella parte in cui tale disposizione, rubricata come «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall’Unione europea», detta la nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica in luogo dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), abrogato a seguito del referendum del 12 e 13 giugno 2011. Le Regioni Puglia, Lazio e Sardegna hanno censurato l’intero art. 4, mentre le altre Regioni (Marche, Umbria ed Emilia-Romagna) hanno censurato taluni commi del medesimo articolo.

In particolare, secondo la Regione Puglia, il citato art. 4 violerebbe, innanzitutto, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con gli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e con l’art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dai quali si desumerebbe il riconoscimento di un principio di pluralismo di fonti, nonché con il principio comunitario di neutralità rispetto agli assetti proprietari delle imprese e alle relative forme giuridiche ex art. 345 del TFUE e con il principio di preemption in base al quale la regolamentazione dell’Unione europea avrebbe l’effetto di precludere a livello nazionale l’adozione di discipline divergenti.

Da tutte le Regioni, ad eccezione della Regione autonoma della Sardegna, viene dedotta la violazione dell’art. 75 Cost., in quanto la norma impugnata (ed in particolare i commi 1, 8, 9 10, 11, 12 e 13 secondo la Regione Marche ed anche i commi 32 e 33 secondo le Regioni Emilia-Romagna ed Umbria) avrebbe riprodotto la norma oggetto dell’abrogazione referendaria (art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008) e parti significative delle norme di attuazione della medesima, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), recando una disciplina che rende ancor più limitate le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, di gestione in house di quasi tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica, in violazione del divieto di riproposizione della disciplina formale e sostanziale oggetto di abrogazione referendaria, di cui all’art. 75 Cost., e con conseguente lesione indiretta delle proprie competenze costituzionali in materia di servizi pubblici locali.

La Regione Puglia ha censurato, inoltre, la predetta norma anche sotto il profilo della violazione dell’art. 77 Cost., in quanto, a seguito dell’abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 sarebbe comunque applicabile direttamente nel nostro ordinamento la normativa comunitaria conferente e non sussisterebbero le ragioni di «straordinaria necessità ed urgenza» per provvedere con decreto-legge, ben potendosi effettuare un simile intervento in coerenza con gli assetti decentrati introdotti dalla Costituzione e con il pieno rispetto della volontà del suo popolo, espressa attraverso il referendum.

Tutte le Regioni, poi, hanno impugnato la norma per il mancato rispetto del riparto di competenze tra Stato e Regioni quanto all’affidamento e alla disciplina dei servizi pubblici locali. La norma denunciata – ed in particolare i commi 1, 8, 9, 10, 11, 12 e 13 – nella parte in cui attribuisce direttamente agli enti locali la competenza a decidere circa le modalità di erogazione dei servizi pubblici (in specie al comma 1) e delimita la stessa decisione degli enti locali, stabilendo vincoli stringenti alla possibilità degli affidamenti diretti, determinerebbe una lesione della competenza regionale residuale in materia di servizi pubblici locali, eccedendo dall’ambito della competenza statale in materia di tutela della concorrenza, che comprende il solo profilo dell’affidamento del servizio pubblico locale, e dettando altresì norme in materie connesse, ma distinte, in violazione degli artt. 5, 114, 117 e 118 della Costituzione, nonché degli artt. 3 e 4 dello statuto speciale per la Sardegna.

La Regione Marche ha, altresì, impugnato: il comma 18 del medesimo art. 4, in quanto, prevedendo che, in caso di affidamento in house, la verifica del rispetto del contratto di servizio avvenga secondo modalità definite dallo statuto dell’ente locale, violerebbe la potestà legislativa regionale residuale in materia di servizi pubblici locali; il comma 21, nella parte in cui, limitando i requisiti per la nomina degli amministratori di società partecipate da enti locali, invaderebbe la competenza regionale residuale in materia di ordinamento degli enti locali.

Un’ulteriore censura è, poi, proposta, dalle Regioni Umbria ed Emilia-Romagna, nei confronti del comma 14 del predetto art. 4, nella parte in cui prevede l’assoggettamento delle società in house al patto di stabilità interno, per le stesse ragioni per le quali questa Corte, con la sentenza n. 325 del 2010, ha ritenuto costituzionalmente illegittimo il riferimento al patto di stabilità previsto dal comma 10, lettera a), dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008.

4.— Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità della questione promossa dalla Regione Puglia in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con gli artt. 14, 106 e 345 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e con l’art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché con il principio della c.d. preemption.

4.1.— Posto che l’esigenza di una adeguata motivazione a sostegno della impugnativa si pone «in termini perfino più pregnanti nei giudizi diretti che non in quelli incidentali» (sentenza n. 450 del 2005), nella specie l’assoluta genericità ed indeterminatezza delle censure proposte con riguardo alla pretesa violazione di principi comunitari, anch’essi genericamente invocati, non consente di individuare in modo corretto i termini della questione di costituzionalità, con conseguente inammissibilità della stessa (sentenza n. 119 del 2010).

5.— È, invece, ammissibile la questione proposta da tutte le ricorrenti, ad eccezione della Regione autonoma della Sardegna, in riferimento all’art. 75 Cost.

5.1.— Questa Corte ha più volte affermato che le Regioni possono evocare parametri di legittimità diversi da quelli che sovrintendono al riparto di attribuzioni solo allorquando la violazione denunciata sia «potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle attribuzioni costituzionali delle Regioni» (sentenza n. 303 del 2003; di recente, nello stesso senso, sentenze n. 80 e n. 22 del 2012) e queste abbiano sufficientemente motivato in ordine ai profili di una “possibile ridondanza” della predetta violazione sul riparto di competenze, assolvendo all’onere di operare la necessaria indicazione della specifica competenza regionale che ne risulterebbe offesa e delle ragioni di tale lesione (sentenza n. 33 del 2011).

Nella specie, le richiamate condizioni di ammissibilità delle censure sono soddisfatte.

Le ricorrenti assumono che, con l’abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, che riduceva le possibilità di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali, con conseguente delimitazione degli ambiti di competenza legislativa residuale delle Regioni e regolamentare degli enti locali, le competenze regionali e degli enti locali nel settore dei servizi pubblici locali si sono riespanse. Infatti, a seguito della predetta abrogazione, la disciplina applicabile era quella comunitaria, più “favorevole” per le Regioni e per gli enti locali. Pertanto, la reintroduzione da parte del legislatore statale della medesima disciplina oggetto dell’abrogazione referendaria (anzi, di una regolamentazione ancor più restrittiva, frutto di un’interpretazione ancor più estesa dell’ambito di operatività della materia della tutela della concorrenza di competenza statale esclusiva), ledendo la volontà popolare espressa attraverso la consultazione referendaria, avrebbe determinato anche una potenziale lesione delle richiamate sfere di competenza sia delle Regioni che degli enti locali.

Così argomentando, le Regioni hanno fornito una sufficiente motivazione in ordine ai profili della “possibile ridondanza” sul riparto di competenze della denunciata violazione, evidenziando la potenziale lesione della potestà legislativa regionale residuale in materia di servizi pubblici locali (e della relativa competenza regolamentare degli enti locali) che deriverebbe dalla violazione dell’art. 75 Cost.

5.2.— Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011 è fondata.

5.2.1.— Il citato art. 4 è stato adottato con d.l. n. 138 del 13 agosto 2011, dopo che, con decreto del Presidente della Repubblica  18 luglio 2011, n. 113 (Abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell’articolo 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, e successive modificazioni, nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 325 del 2010, in materia di modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica), era stata dichiarata l’abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, recante la precedente disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.

Quest’ultima si caratterizzava per il fatto che dettava una normativa generale di settore, inerente a quasi tutti i predetti servizi, fatta eccezione per quelli espressamente esclusi, volta a restringere, rispetto al livello minimo stabilito dalle regole concorrenziali comunitarie, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, di gestione in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, consentite solo in casi eccezionali ed al ricorrere di specifiche condizioni, la cui puntuale regolamentazione veniva, peraltro, demandata ad un regolamento governativo, adottato con il decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010 n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008).

Con la richiamata consultazione referendaria detta normativa veniva abrogata e si realizzava, pertanto, l’intento referendario di «escludere l’applicazione delle norme contenute nell’art. 23-bis che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico)» (sentenza n. 24 del 2011) e di consentire, conseguentemente, l’applicazione diretta della normativa comunitaria conferente.

A distanza di meno di un mese dalla pubblicazione del decreto dichiarativo dell’avvenuta abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il Governo è intervenuto nuovamente sulla materia con l’impugnato art. 4, il quale, nonostante sia intitolato «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall’Unione europea», detta una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell’abrogato art. 23-bis e di molte disposizioni del regolamento attuativo del medesimo art. 23-bis contenuto nel d.P.R. n. 168 del 2010.

Essa, infatti, da un lato, rende ancor più remota l’ipotesi dell’affidamento diretto dei servizi, in quanto non solo limita, in via generale, «l’attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità» (comma 1), analogamente a quanto disposto dall’art. 23-bis (comma 3) del d.l. n. 112 del 2008, ma la àncora anche al rispetto di una soglia commisurata al valore dei servizi stessi, il superamento della quale (900.000 euro, nel testo originariamente adottato; ora 200.000 euro, nel testo vigente del comma 13) determina automaticamente l’esclusione della possibilità di affidamenti diretti. Tale effetto si verifica a prescindere da qualsivoglia valutazione dell’ente locale, oltre che della Regione, ed anche – in linea con l’abrogato art. 23-bis – in difformità rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria, che consente, anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010), la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE), alle sole condizioni del capitale totalmente pubblico della società affidataria, del cosiddetto controllo “analogo” (il controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario deve essere di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante sui propri uffici) ed infine dello svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante.

Dall’altro lato, la disciplina recata dall’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011 riproduce, ora nei principi, ora testualmente, sia talune disposizioni contenute nell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 (è il caso, ad esempio, del comma 3 dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 “recepito” in via di principio dai primi sette commi dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, in tema di scelta della forma di gestione del servizio; del comma 8 dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 che dettava una disciplina transitoria analoga a quella dettata dal comma 32 dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011; così come del comma 10, lettera a), dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza n. 325 del 2010, sostanzialmente riprodotto dal comma 14 dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011), sia la maggior parte delle  disposizioni recate dal regolamento di attuazione dell’art. 23-bis (il testo dei primi sette commi dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, ad esempio, coincide letteralmente con quello dell’art. 2 del regolamento attuativo dell’art. 23-bis di cui al d.P.R. n. 168 del 2010, i commi 8 e 9 dell’art. 4 coincidono con l’art. 3, comma 2, del medesimo regolamento, mentre i commi 11 e 12 del citato art. 4 coincidono testualmente con gli articoli 3 e 4 dello stesso regolamento).

Alla luce delle richiamate indicazioni – nonostante l’esclusione dall’ambito di applicazione della nuova disciplina del servizio idrico integrato – risulta evidente l’analogia, talora la coincidenza, della disciplina contenuta nell’art. 4 rispetto a quella dell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008  e l’identità della ratio ispiratrice.

Le poche novità introdotte dall’art. 4 accentuano, infatti, la drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti diretti dei servizi pubblici locali che la consultazione referendaria aveva inteso escludere. Tenuto, poi, conto del fatto che l’intento abrogativo espresso con il referendum riguardava «pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica» (sentenza n. 24 del 2011) ai quali era rivolto l’art. 23-bis, non può ritenersi che l’esclusione del servizio idrico integrato dal novero dei servizi pubblici locali ai quali una simile disciplina si applica sia satisfattiva della volontà espressa attraverso la consultazione popolare, con la conseguenza che la norma oggi all’esame costituisce, sostanzialmente, la reintroduzione della disciplina abrogata con il referendum del 12 e 13 giugno 2011.

5.2.2.— La disposizione impugnata viola, quindi, il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost., secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale.

Questa Corte, pronunciandosi su un conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato sollevato dai promotori di un referendum abrogativo, avverso Camera e Senato, in relazione all’approvazione di una legge riproduttiva della disciplina abrogata mediante consultazione popolare svoltasi pochi mesi prima, pur dichiarando l’inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione dei ricorrenti, ormai privati della titolarità della funzione costituzionalmente rilevante e garantita, corrispondente all’attivazione della procedura referendaria, e quindi della qualità di potere dello Stato, ha, tuttavia, affermato che «la normativa successivamente emanata dal legislatore è pur sempre soggetta all’ordinario sindacato di legittimità costituzionale, e quindi permane comunque la possibilità di un controllo di questa Corte in ordine all’osservanza – da parte del legislatore stesso – dei limiti relativi al dedotto divieto di formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare» (sentenza n. 9 del 1997).

Inoltre, ancor prima, questa Corte, escludendo, con riferimento alla disciplina della responsabilità civile dei giudici abrogata mediante referendum, la possibilità, in via interpretativa, dell’applicazione di una delle norme abrogate quale «norma transitoria», ha anche precisato che l’intervenuta abrogazione della stessa «non potrebbe consentire al legislatore la scelta politica di far rivivere la normativa ivi contenuta a titolo transitorio», in ragione della «peculiare natura del referendum, quale atto-fonte dell’ordinamento» (sentenza n. 468 del 1990).

Un simile vincolo derivante dall’abrogazione referendaria si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale, al solo fine di impedire che l’esito della consultazione popolare, che costituisce esercizio di quanto previsto dall’art. 75 Cost., venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l’effetto utile,  senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da giustificare un simile effetto.

Tale vincolo è, tuttavia, necessariamente delimitato, in ragione del suo carattere puramente negativo, posto che il legislatore ordinario, «pur dopo l’accoglimento della proposta referendaria, conserva il potere di intervenire nella materia oggetto di referendum senza limiti particolari che non siano quelli connessi al divieto di far rivivere la normativa abrogata» (sentenza n. 33 del 1993; vedi anche sentenza n. 32 del 1993).

In applicazione dei predetti principi, si è già rilevato che la normativa all’esame costituisce ripristino della normativa abrogata, considerato che essa introduce una nuova disciplina della materia, «senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina normativa preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti» (sentenza n. 68 del 1978), in palese contrasto, quindi, con l’intento perseguito mediante il referendum abrogativo. Né può ritenersi che sussistano le condizioni tali da giustificare il superamento del predetto divieto di ripristino, tenuto conto del brevissimo lasso di tempo intercorso fra la pubblicazione dell’esito della consultazione referendaria e l’adozione della nuova normativa (23 giorni), ora oggetto di giudizio, nel quale peraltro non si è verificato nessun mutamento idoneo a legittimare la reintroduzione della disciplina abrogata.

5.2.3.— Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, per violazione dell’art. 75 Cost.

6.— Dall’accoglimento di tale censura consegue l’assorbimento degli altri profili di violazione della Costituzione dedotti dalle Regioni ricorrenti nei confronti della medesima norma o di sue singole disposizioni (sentenza n. 123 del 2010).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

            riservata a separate pronunce la decisione sull’impugnazione delle altre disposizioni contenute nel decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148;

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, sia nel testo originario che in quello risultante dalle successive modificazioni;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4 del d.l. n. 138 del 2011, promossa dalla Regione Puglia, in riferimento all’articolo 117, primo comma, della Costituzione ed agli articoli 14, 106 e 345 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, all’articolo 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché al principio di preemption, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 luglio 2012.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 luglio 2012.

 

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