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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Danno ambientale, Diritto processuale penale, Inquinamento acustico, Risarcimento del danno Numero: 29552 | Data di udienza: 9 Febbraio 2017

* INQUINAMENTO ACUSTICO – Attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone – Metodi di accertamento – Tipico giudizio di fatto – Incensurabilità in sede di legittimità – Superamento dei limiti di normale tollerabilità – Bar con karaoke e concerti – Art. 659 cod. pen. – Schiamazzi e rumori prodotti dagli avventori all’esterno del locale – Responsabilità del gestore del locale – Sussiste – Reati commissivi mediante omissione – Configurabilità – Giurisprudenza – Emissioni rumorose – Doppia ipotesi di reato – Disturbo della pubblica quiete e professione o mestiere rumoroso – Consumazione del reato ex art.659 c.p. – Unica condotta rumorosa o schiamazzo – Pluralità di reati unificati dal vincolo della continuazione – Reato eventualmente permanente connesse all’esercizio di attività economiche e legate al ciclo produttivo – Rideterminazione del complessivo trattamento sanzionatorio – DANNO AMBIENTALE – Tutela dell’ambiente esterno e dell’ambiente abitativo dall’inquinamento acustico – Sovrapponibilità tra le due fattispecie ex art. 659, c.2 e dell’art. 10 L. n. 447/1995 – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Correlazione tra l’imputazione contestata e sentenza – Scopo di assicurare il contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa – Criteri di valutazione – Risarcimento del danno – Condanna del Tribunale o del Giudice di pace – Diritto all’appello – Differenze.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 14 Giugno 2017
Numero: 29552
Data di udienza: 9 Febbraio 2017
Presidente: SAVANI
Estensore: RENOLDI


Premassima

* INQUINAMENTO ACUSTICO – Attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone – Metodi di accertamento – Tipico giudizio di fatto – Incensurabilità in sede di legittimità – Superamento dei limiti di normale tollerabilità – Bar con karaoke e concerti – Art. 659 cod. pen. – Schiamazzi e rumori prodotti dagli avventori all’esterno del locale – Responsabilità del gestore del locale – Sussiste – Reati commissivi mediante omissione – Configurabilità – Giurisprudenza – Emissioni rumorose – Doppia ipotesi di reato – Disturbo della pubblica quiete e professione o mestiere rumoroso – Consumazione del reato ex art.659 c.p. – Unica condotta rumorosa o schiamazzo – Pluralità di reati unificati dal vincolo della continuazione – Reato eventualmente permanente connesse all’esercizio di attività economiche e legate al ciclo produttivo – Rideterminazione del complessivo trattamento sanzionatorio – DANNO AMBIENTALE – Tutela dell’ambiente esterno e dell’ambiente abitativo dall’inquinamento acustico – Sovrapponibilità tra le due fattispecie ex art. 659, c.2 e dell’art. 10 L. n. 447/1995 – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Correlazione tra l’imputazione contestata e sentenza – Scopo di assicurare il contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa – Criteri di valutazione – Risarcimento del danno – Condanna del Tribunale o del Giudice di pace – Diritto all’appello – Differenze.



Massima

 

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 14/06/2017 (ud. 09/02/2017), Sentenza n.29552
 
 
 
INQUINAMENTO ACUSTICO – Attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone – Metodi di accertamento – Tipico giudizio di fatto – Incensurabilità in sede di legittimità – Superamento dei limiti di normale tollerabilità – Bar con karaoke e concerti – Art. 659 cod. pen..
 
L’attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, potendo il giudice fondare il suo convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che per le sue modalità di uso la fonte sonora emetta suoni fastidiosi di intensità tale da superare i limiti di normale tollerabilità (Cass. Sez. 3, n. 11031 del 5/02/2015, dep. 16/03/2015, Montali e altro; Sez. 1, n. 20954 del 18/01/2011, dep. 25/05/2011, Torna, relativa proprio all’accertamento della natura molesta della musica riprodotta ad alto volume e di notte in un disco pub, nonché degli schiamazzi degli avventori dello stesso, mediante la testimonianza resa dagli inquilini dello stabile in cui era sito il locale; Sez. 1, n. 3261 del 23/03/1994, dep. 18/03/1994, Floris; Sez. 1, n. 5215 del 7/04/1995, dep. 9/05/1995, Silvestro; Sez. 1, n. 7042 del 27/05/1996, dep. 11/07/1996, Fontana). Inoltre, l’accertamento dell’esistenza di un rumore idoneo a incidere sul disturbo e l’occupazione delle persone configura un tipico giudizio di fatto, rimesso all’apprezzamento del giudice di merito, che se adeguatamente motivato si sottrae a qualunque censura in sede di legittimità.
 
 
INQUINAMENTO ACUSTICO –  Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone – Schiamazzi e rumori prodotti dagli avventori all’esterno del locale – Responsabilità del gestore del locale – Sussiste – Reati commissivi mediante omissione – Configurabilità – Giurisprudenza.
 
In tema di emissioni rumorose, si configura la contravvenzione anche nella forma omissiva, riconoscendo, in capo al titolare di un esercizio pubblico, l’esistenza di una posizione di garanzia, cui è correlato l’obbligo giuridico di impedire gli schiamazzi o comunque i rumori prodotti, in maniera eccessiva, dalla propria clientela; in questo modo configurando gli elementi strutturali propri delle fattispecie omissive improprie (cd. reati commissivi mediante omissione), caratterizzate dall’integrazione tra la struttura tipica del reato commissivo, cui sono riconducibili alcune tra le condotte previste dal comma 1 dell’art. 659, e la norma generale posta dall’art. 40, comma 2, cod. pen., secondo cui risponde di un evento dannoso o pericoloso colui il quale abbia l’obbligo giuridico di impedirlo. Inoltre, si è ritenuto che un siffatto obbligo sussista anche per gli schiamazzi e i rumori prodotti dagli avventori all’esterno del locale, potendo il titolare ricorrere ai più vari accorgimenti, dagli avvisi alla clientela all’impiego di personale dedicato, dalla somministrazione delle bevande soltanto in recipienti non da asporto, in modo che esse vengano consumate all’interno del locale, fino al ricorso all’autorità di polizia o all’esercizio dello ius excludendi, quando essi siano comunque direttamente riferibili all’esercizio dell’attività, come nel caso in cui gli avventori permangano rumorosamente in sosta davanti al locale (v. Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015, dep. 6/08/2015, Gallo; Sez. 1, n. 48122 del 3/12/2008, dep. 24/12/2008, Baruffaldi; Sez. 6, n. 7980 del 24/05/1993, dep. 24/08/1993, Papez).
 
 
INQUINAMENTO ACUSTICO – Emissioni rumorose – Doppia ipotesi di reato – Disturbo della pubblica quiete e professione o mestiere rumoroso.
 
In tema di emissioni, l’art. 659, inserito nel codice penale tra le contravvenzioni concernenti l’ordine e la tranquillità pubblica, preveda due distinte ipotesi di reato: quella di cui al primo comma, che punisce il comportamento di colui il quale “mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici”; nonché quella di cui al secondo comma, che invece punisce il fatto di “chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’Autorità”. Dunque, mentre la prima fattispecie, contemplata dal comma 1, punisce il disturbo della pubblica quiete da chiunque cagionato, peraltro con modalità espressamente e tassativamente determinate, la seconda, disciplinata dal comma 2, punisce le attività rumorose, industriali o professionali, esercitate in difformità dalle prescrizioni di legge o dalle disposizioni dell’autorità (Sez. 3, n. 23529 del 13/05/2014, Ioniez).
 
 
INQUINAMENTO ACUSTICO – Consumazione del reato ex art.659 c.p. – Unica condotta rumorosa o schiamazzo – Pluralità di reati unificati dal vincolo della continuazione – Reato eventualmente permanente connesse all’esercizio di attività economiche e legate al ciclo produttivo – Rideterminazione del complessivo trattamento sanzionatorio.
 
La contravvenzione prevista dall’art. 659, comma 1, cod. pen., in quanto reato eventualmente permanente, si può consumare anche con un’unica condotta rumorosa o di schiamazzo recante, in determinate circostanze, un effettivo disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone, per altro verso merita di essere, altresì, ribadita l’opinione secondo cui debba ravvisarsi la permanenza quando, come nel caso di specie, le illegittime emissioni siano connesse all’esercizio di attività economiche e legate al ciclo produttivo. 
 
 
INQUINAMENTO ACUSTICO – DANNO AMBIENTALE – Tutela dell’ambiente esterno e dell’ambiente abitativo dall’inquinamento acustico – Sovrapponibilità tra le due fattispecie ex art. 659, c.2 e dell’art. 10 L. n. 447/1995.
 
Piena sovrapponibilità tra le due fattispecie dell’art. 659, comma 2 e dell’art. 10 legge n. 447/1995, deve aversi soltanto nel caso in cui l’attività rumorosa si sia concretata nel mero superamento dei valori limite di emissione specificamente stabiliti in base ai criteri delineati dalla legge quadro, causato mediante l’esercizio o l’impiego delle sorgenti individuate dalla legge medesima. Ed in tali casi, sulla base dei principi enunciati dalle Sezioni Unite n. 1963/2011 del 28/10/2010, Di Lorenzo, il concorso tra disposizione penale incriminatrice e disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto, deve essere risolto a favore della disposizione speciale, costituita dalla fattispecie amministrativa. Viceversa, restano esclusi dall’ambito comune delle due ipotesi di illecito sia il superamento di soglie di rumore diversamente individuate o generate da altre fonti, sia l’insieme delle condotte che si estrinsecano nell’esercizio di attività rumorose svolte in violazione di altre disposizioni di legge o delle prescrizioni dell’autorità, trovando pacifica applicazione, in tali casi, l’art. 659, comma 2, cod. pen.. Quando, poi, le attività di cui sopra vengano svolte eccedendo dalle normali modalità di esercizio, rivelandosi idonee a turbare la pubblica quiete, sarà invece configurabile la violazione sanzionata dall’art. 659, comma 1, cod. pen..
 
 
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Correlazione tra l’imputazione contestata e sentenza – Scopo di assicurare il contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa – Criteri di valutazione.
 
Le norme che disciplinano la correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, vanno interpretate con riferimento alle finalità alle quali sono dirette. Pertanto, esse non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. In altri termini, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. Su tali basi, la violazione del principio in questione sussiste solo quando, nella ricostruzione del fatto posta a fondamento della decisione, la struttura dell’imputazione sia modificata quanto alla condotta, al nesso causale ed all’elemento soggettivo del reato, al punto che, per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall’imputato non abbia potuto utilmente sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati. E dunque, ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione.
 
 
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Risarcimento del danno – Condanna del Tribunale o del Giudice di pace – Diritto all’appello – Differenze.
 
Il diritto all’appello – e, dunque, l’obbligo di un secondo grado di merito – non è stato direttamente costituzionalizzato, sicché esso non può ritenersi indirettamente imposto dall’art. 24 Cost., né dall’art. 3 Cost. sotto il profilo del principio di ragionevolezza, poiché, senza violare tale norma, il legislatore può ragionevolmente escludere l’appello in relazione alle ipotesi che, secondo l’apprezzamento svolto in concreto dal giudice, si rivelino di minore gravità. E con specifico riferimento al profilo dedotto, si è osservato che il censurato assetto normativo non determina disparità di trattamento tra coloro che siano stati condannati dal giudice di pace, genericamente, al risarcimento del danno (soggetti ai quali è consentito appellare) e coloro che siano stati condannati dal Tribunale al risarcimento del danno, in quanto si tratta di diverse procedure, come reso evidente dall’art. 38 del d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274, che estende, agli effetti penali, l’impugnazione, nella ipotesi in cui la legge prevede il ricorso immediato al giudice, a situazioni diverse da quelle contemplate dall’art. 577 cod. proc. pen., il quale consente l’impugnazione, anche agli effetti penali, di chi sia costituito parte civile in relazione ai reati di ingiuria e diffamazione. Pertanto, la circostanza che il procedimento penale davanti al giudice di pace corrisponda ad un modello di giustizia non comparabile con quello previsto davanti al tribunale, è pacificamente riconosciuta in seno alla giurisprudenza costituzionale, la quale si è ripetutamente espressa a favore della legittimità di un regime differenziato, giustificato dai caratteri peculiari propri della giurisdizione del giudice di pace (v. Corte cost., ordinanze n. 28 del 2007, n. 415 e n. 228 del 2005). Pertanto, deve ritenersi che alla diversità delle caratteristiche dei due procedimenti, possa corrispondere un differente esercizio della discrezionalità legislativa nel modulare diversamente il regime delle impugnazioni, peraltro in una materia, quella dell’appello, non coperta costituzionalmente (Corte cost., sent. n. 426 del 2008, che ha dichiarato l’infondatezza della questione e ord. n. 30 del 2010 che ne ha, invece, dichiarato la manifesta infondatezza).
 
 
(riforma sentenza in data 9/02/2015 TRIBUNALE DI UDINE) Pres. SAVANI, Rel. RENOLDI, Ric. Lanera 

Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 14/06/2017 (ud. 09/02/2017), Sentenza n.29552

SENTENZA

 

 

 
 
 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 14/06/2017 (ud. 09/02/2017), Sentenza n.29552
 
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
 
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis
 
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA 
 
sul ricorso proposto da:
 
Lanera xxx, nato a xxx il xxx; 
Lanera xxx, nata a xxx il xxx;
 
avverso la sentenza in data 9/02/2015 del Tribunale di Udine;
 
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
 
udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi;
 
udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore generale dott.ssa Marilia Di Nardo, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso; udito, per le parti civili, l’avv. Marina Pitton, che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito, per gli imputati, l’avv. Sebastiano Mascherin, in sostituzione dell’avv. Maurizio Conti, che ha insistito per l’accoglimento dell’impugnazione.
 
RITENUTO IN FATTO
 
1. Con sentenza in data 9/02/2015, il Tribunale di Udine aveva condannato xxx e xxx Lanera, rispettivamente, alla pena di 900 euro e di 500 euro di ammenda in relazione al reato di cui agli artt. 81 cpv e 659 comma 1 cod. pen. oltre al risarcimento del danno cagionato alle parti civili costituite, per avere, nella qualità di soci amministratori della società xxx s.n.c. di Lanera xxx e xxx, mediante rumori, anche in orario notturno, disturbato il riposo delle persone ed in particolare dei residenti delle abitazioni limitrofe, in specie nei giorni in cui si tenevano il karaoke e i concerti; fatti accertati in Udine dal 2010 al 26/02/2012 (data dell’ultimo rilevamento da parte dell’Arpa FVG).
 
2. Avverso la predetta sentenza avevano proposto appello, a mezzo del difensore fiduciario, gli stessi imputati.
 
La relativa impugnazione è stata, tuttavia, trasmessa a questa Corte con ordinanza in data 12/10/2016 della Corte di appello di Trieste, la quale ha ritenuto che la pronuncia di primo grado, con la quale gli imputati erano stati condannati alla sola pena dell’ammenda, non fosse appellabile.
 
3. L’impugnazione, che deve essere convertita in ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., si articola in sette distinti motivi di censura.
 
3.1. Con il primo di essi, gli impugnanti denunciano l’incostituzionalità dell’art. 593, comma 3, cod. proc. pen., che impedisce di proporre appello in caso di condanna a pena dell’ammenda, per contrasto con l’art. 3 Cost..
 
Ciò sul presupposto che mentre il codice di rito non prevede eccezioni all’inappellabilità delle sentenze di condanna alla sola ammenda, l’art. 37, comma 1, seconda ipotesi del D.Lgs. 274/2000, relativo al processo penale avanti al Giudice di Pace, introduce una deroga alla regola generale dell’inappellabilità delle sentenze di condanna a pena pecuniaria consentendo l’impugnazione di merito “contro le sentenze che applicano la pena pecuniaria se impugna il capo relativo alla condanna, anche generica, al risarcimento del danno”. In relazione alle sentenze pronunciate dal Tribunale, dunque, l’imputato godrebbe di minori garanzie pur a fronte di presupposti in fatto esattamente identici.
 
3.2. Con il secondo motivo, gli impugnanti deducono l’incostituzionalità del D.Lgs. 8/2016 nella parte in cui non avrebbe dato attuazione alla Legge n. 67/2014 in relazione all’art. 659 cod. pen. per violazione degli artt. 76 e 25 comma 2 Cost., l’incostituzionalità dell’art. 9 del D.Lgs. 8/2016 per violazione dell’art. 76 Cost., l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 11 delle Preleggi e dell’art. 1 della L. 689/81. L’art. 2 comma 2, lett. b) n. 2 della legge n. 67 aveva delegato il Governo a trasformare in illeciti amministrativi una serie di reati, fra cui l’art. 659 cod. pen.; e tuttavia, nel dare adempimento alla delega con il D.Lgs. 8/2016, il Governo ha escluso dalla depenalizzazione alcune fattispecie, fra cui l’art. 659 cod. pen., con una scelta che sarebbe stata inibita all’Esecutivo a cagione della gerarchia delle fonti e della riserva di legge in materia penale. In ogni caso non dovrebbe farsi luogo alla trasmissione degli atti all’autorità amministrativa ex art. 9 del D.Lgs. 8/2016, essendo incostituzionale la previsione dell’applicabilità retroattiva delle sanzioni amministrative che hanno sostituito le fattispecie penali previste dall’art. 8, comma 1 del medesimo testo normativo, dal momento che nella legge delega non vi sarebbe stata alcuna disposizione in tal senso. 
 
3.3. Con il terzo motivo di impugnazione, la difesa dell’imputato deduce, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) e e) cod. proc. pen., la nullità della sentenza per mancata correlazione con l’imputazione ex art. 522 cod. proc. pen. nonché l’erronea applicazione dell’art. 659 cod. pen. con riguardo agli schiamazzi degli avventori. Sotto un primo profilo, la condanna per il rumore prodotto dal chiacchiericcio degli avventori che stazionavano sul marciapiede antistante il locale non avrebbe tenuto conto del fatto che il gestore di un esercizio commerciale è responsabile dei rumori provocati dalla sua clientela all’esterno del locale soltanto quando egli non abbia esercitato il potere di controllo e sempre che a tale omissione sia riconducibile il verificarsi dell’evento tipico. E nel caso di specie il primo giudice avrebbe omesso di considerare le misure adottate dagli imputati per cercare di limitare i problemi derivanti dallo stazionamento degli avventori davanti al locale (dalle cerniere apposte ai banchetti siti all’esterno, in modo da permetterne la chiusura in orario serale, all’avviso affisso sulla porta di ingresso, recante l’invito a non stazionare fuori dal locale dopo le 22; dalla decisione di non raccogliere le consumazioni all’esterno dopo le 22, all’opera di sensibilizzazione della clientela al fine di non disturbare il vicinato, anche con l’ausilio di un addetto alla sicurezza).
 
Sotto altro aspetto, i rumori prodotti dagli avventori non sarebbero stati contestati nell’imputazione, sicché l’affermazione di responsabilità dei due odierni ricorrenti riposerebbe, in parte, su una condotta diversa da quella contestata, con conseguente nullità della sentenza ex art. 522 cod. proc. pen..
 
3.4. Con il quarto motivo, l’impugnante censura, ai sensi dell’art. 606 comma 1, n. 2 cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 659 cod. pen. con riguardo alle attività tipiche dell’esercizio pubblico, costituite dalla musica prodotta nel corso delle serate di giovedì e sabato, quando si svolgevano il karaoke o i concerti dal vivo, per le quali il locale era dotato di regolari autorizzazioni; ciò che, pertanto, imporrebbe di qualificare l’attività esercitata come “mestiere rumoroso”, trattandosi di esercizio autorizzato all’intrattenimento musicale. Per tale motivo, essendo stato accertato, ad opera dell’Arpa FVG, il superamento dei valori limite di emissione dei rumori, il primo giudice, pur in assenza di contestazione del superamento dei limiti di legge, avrebbe dovuto ritenere integrata la fattispecie amministrativa di cui all’art. 10 comma 2, della L. 26 ottobre 1995 n. 447.
 
3.5. Con il quinto motivo, l’imputato denuncia, ai sensi dell’art. 606 comma 1, n. 2 cod. proc. pen., la violazione ed erronea applicazione dell’art. 659 cod. pen. sotto il profilo dell’assenza di effettivo disturbo e della inattendibilità degli accertamenti strumentali. A seguito degli accorgimenti adottati dagli imputati, consistenti nella installazione di doppi serramenti antirumore e di un impianto di climatizzazione, sì da rendere agevole la permanenza dei clienti all’interno del locale anche d’estate e in caso di affollamento, il rumore sarebbe stato assai limitato, come riconosciuto da alcuni dei testi di accusa (Marco Gandini, Guido Maria Giaccaja); e considerato che tutti i 63 controlli compiuti da parte di tutte le Forze dell’Ordine avrebbero dato esito negativo (circostanza illogicamente sminuita dalla sentenza sul presupposto, indimostrato, che gli avventori fossero stati “ben istruiti” a entrare nel locale all’apparire delle Forze dell’ordine) e che un gruppo di vicini aveva sottoscritto una petizione a sostegno del bar, riferendo di non esserne in alcun modo disturbato.
 
Del resto, gli accertamenti strumentali svolti dall’Arpa FVG sarebbero stati inattendibili, considerato che, nella stima del rumore ambientale, non si sarebbe provveduto a separare quello prodotto dagli avventori da quello della musica e che il rumore ambientale e il rumore residuo erano stati rilevati in momenti e giorni diversi, in cui il traffico veicolare sarebbe stato molto diverso, con conseguente alterazione degli esiti della rilevazione.
 
3.6. Con il sesto motivo, gli imputati deducono, ai sensi dell’art. 606, comma 1, n. 2 cod. proc. pen., la violazione degli artt. 81, comma 2 e 659 cod. pen., attesa la natura permanente del reato contestato, commesso nell’esercizio di un’attività economica, con conseguente insussistenza di una pluralità di violazioni in continuazione; ovvero la parziale prescrizione degli episodi anteriori al 9/12/2010, per i quali alla data della sentenza di primo grado doveva ritenersi già maturato il termine quinquennale.
 
3.7. Con il settimo motivo viene censurata, ai sensi dell’art. 606, comma 1 n. 2 cod. proc. pen., la violazione ed erronea applicazione degli artt. 185 cod. pen., 2043 e 2059 cod. civ. e conseguentemente l’eccessività del danno liquidato alle Parti civili rispetto agli ordinari criteri in uso nei Tribunali. Il giudice avrebbe trascurato di considerare che il preteso disagio era limitato a un paio di sere alla settimana e ai soli mesi invernali, che esso avrebbe al più determinato la necessità di parlare con un tono di voce appena più alto del normale e non avrebbe considerato che i gestori si siano prodigati nel tentativo di minimizzare i disagi, investendo somme non irrilevanti per il cambio dei serramenti e la posa di un impianto di condizionamento per favorire la permanenza degli avventori all’interno del locale, adeguandosi a quanto risultava dalla valutazione di impatto acustico redatta da un tecnico terzo e cercando di sensibilizzare i clienti al rispetto delle “regole di buon vicinato”.
 
4. L’avv. Marina Pitton, difensore di fiducia delle costituite parti civili Guido Maria Giaccaja, Cecilia Cavallin, Giulio Hong Giaccaja e Luciana Mattiussi, nelle sue conclusioni orali ha fatto integrale richiamo alla memoria difensiva e al contestuale appello incidentale presentati nel giudizio instaurato davanti alla Corte di appello a seguito dell’originaria impugnazione dei due imputati, convertita in ricorso per cassazione. In tale atto, oltre a censurare i criteri seguiti dalla sentenza di primo grado in punto di liquidazione delle spese in favore delle costituite Parti civili e a formulare istanza di provvisionale, sono censurate le considerazioni poste a fondamento delle dedotte questioni di legittimità costituzionale dell’art. 593, comma 3 cod. proc. pen. per contrasto con l’art. 3 Cost. nonché del d.lgs. n. 8/2016 nella parte in cui non ha dato attuazione alla legge n. 67/2014 per contrasto con l’art. 76 Cost., si sottolinea l’insussistenza della asserita violazione dell’art. 522 cod. proc. pen., atteso che il capo di imputazione fa riferimento al disturbo della quiete delle persone “mediante rumori anche in orario notturno …. In particolar modo, nelle serate del giovedì (in cui si tiene il karaoke) e del sabato (in cui si tengono concerti)”, dunque indipendentemente dal fatto che il rumore molesto fosse stato generato dalla musica o dagli schiamazzi degli avventori. Né, sarebbe fondata la censura secondo cui i fatti per cui è processo avrebbero dovuto essere qualificati ai sensi dell’art. 10, comma 2 della legge 26/10/1995, n. 447, atteso che l’attività rumorosa non potrebbe essere considerata come “estranea” alle normali attività di esercizio (di conduzione del bar), sicché correttamente essa sarebbe stata ricondotta alla contravvenzione di cui all’art. 659, comma 1 cod. pen..
 
Quanto alla solidità del compendio probatorio si osserva la validità degli accertamenti fonometrici eseguiti dall’ARPA, da cui era emerso un notevole superamento della soglia minima consentita, nonché l’irrilevanza degli esiti, talvolta negativi, dei controlli eseguiti dalle Forze dell’Ordine, in genere effettuati in periodo estivo, quando il locale restava chiuso o, se aperto, non organizzava eventi musicali e comunque spesso eseguiti a grande distanza di tempo rispetto al momento della richiesta di intervento.
 
Quanto, infine, alla censura circa la pretesa eccessività del danno liquidato alle Parti civili, si rileva l’estrema genericità della doglianza.
 
5. Con memoria depositata il 25/01/2017, la difesa dei due imputati ha censurato l’ordinanza della Corte territoriale che ha trasmesso gli atti a questa Corte di legittimità, sottolineando come i giudici di appello avrebbero dovuto pronunciarsi preliminarmente sulla questione di costituzionalità. L’appello incidentale proposto dalle Parti civili sarebbe inammissibile, sia in quanto concernerebbe profili di merito, sia perché relativo a questioni, come quelle sulle spese di lite, non attinte dall’impugnazione principale. Parimenti inammissibile sarebbe la richiesta di concessione di una provvisionale, siccome superflua in caso di rigetto del ricorso principale e laddove, in caso di accoglimento, la stessa dovrebbe essere formulata davanti al giudice di appello. In ogni caso, avendo la parte civile proposto un appello incidentale, la richiesta sarebbe, comunque, inammissibile, essendo essa già stata rigettata in primo grado e determinandosi, in caso di suo accoglimento, una reformatio in pejus delle statuizioni della pronuncia di prime cure. Infine, le pronunce della Corte costituzionale in materia di mancata attuazione della delega richiamate dalla Parte civile sarebbero inconferenti, in quanto rese in materia non penale e, dunque, non presidiata dalla riserva di legge.
 
CONSIDERATO IN DIRITTO
 
1. Il ricorso è parzialmente fondato e, pertanto, deve essere accolto per quanto di ragione.
 
2. Il primi due motivi, con i quali vengono dedotte altrettante questioni di legittimità costituzionale, sono manifestamente infondati.
 
2.1. Quanto al primo motivo, è sufficiente osservare che questa Corte di legittimità ha già affrontato la questione dedotta, ribadendo che la norma censurata non viola in alcun modo gli artt. 3 e 24 Cost., diversamente da quanto denunciato dal ricorrente.
 
Sul punto deve premettersi che, come riconosciuto dagli stessi ricorrenti, a differenza di quanto è avvenuto per il diritto al ricorso per cassazione, il diritto all’appello – e, dunque, l’obbligo di un secondo grado di merito – non è stato direttamente costituzionalizzato, sicché esso non può ritenersi indirettamente imposto dall’art. 24 Cost., né dall’art. 3 Cost. sotto il profilo del principio di ragionevolezza, poiché, senza violare tale norma, il legislatore può ragionevolmente escludere l’appello in relazione alle ipotesi che, secondo l’apprezzamento svolto in concreto dal giudice, si rivelino di minore gravità (Sez.3, n. 3433 del 11/02/1993, dep. 8/04/1993, Mosca, Rv. 194115). E con specifico riferimento al profilo dedotto, si è osservato che il censurato assetto normativo non determina disparità di trattamento tra coloro che siano stati condannati dal giudice di pace, genericamente, al risarcimento del danno (soggetti ai quali è consentito appellare) e coloro che siano stati condannati dal Tribunale al risarcimento del danno, in quanto si tratta di diverse procedure, come reso evidente dall’art. 38 del d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274, che estende, agli effetti penali, l’impugnazione, nella ipotesi in cui la legge prevede il ricorso immediato al giudice, a situazioni diverse da quelle contemplate dall’art. 577 cod. proc. pen., il quale consente l’impugnazione, anche agli effetti penali, di chi sia costituito parte civile in relazione ai reati di ingiuria e diffamazione (Sez. 5, n.41136 del 15/10/2001, dep. 19/11/2001, Soglio, Rv. 220279; Sez. 3, n. 1552 del 14/11/2002, dep. 15/01/2003, Pestarino, Rv. 223269).
 
La circostanza che il procedimento penale davanti al giudice di pace corrisponda ad un modello di giustizia non comparabile con quello previsto davanti al tribunale, è pacificamente riconosciuta in seno alla giurisprudenza costituzionale, la quale si è ripetutamente espressa a favore della legittimità di un regime differenziato, giustificato dai caratteri peculiari propri della giurisdizione del giudice di pace (v. Corte cost., ordinanze n. 28 del 2007, n. 415 e n. 228 del 2005). 
 
In particolare, la Corte costituzionale ha in passato osservato che il d.lgs. n. 274 del 2000 “devolve alla competenza del giudice di pace reati espressivi di conflitti a carattere interpersonale, rispetto ai quali ( …. ), in correlazione con la fondamentale finalità conciliativa, è contemplata l’estinzione conseguente a condotte riparatorie ed è definito un autonomo apparato sanzionatorio, in cui la previsione edittale concerne invariabilmente la pena pecuniaria, in alternativa alla quale possono essere discrezionalmente irrogate, in taluni casi, pene «paradetentive» (Corte cost., sentenze n. 64 del 2009, n. 426 del 2008 e n. 298 del 2008).
 
A tali peculiarità, ha osservato ancora la Consulta, “corrisponde non irragionevolmente una asimmetria nel regime di impugnazione delle sentenze” (Corte cost., sentenze n. 426 del 2008), asimmetria che, peraltro, permarrebbe, stavolta a sfavore del rito davanti al giudice di pace, in caso di accoglimento della questione di costituzionalità, dato che l’intervento additivo invocato dal rimettente determinerebbe l’introduzione del secondo giudizio di merito per tutte le sentenze del Tribunale che applicano la pena pecuniaria, ma solo nel caso in cui alla condanna dell’ammenda si sia accompagnata quella al risarcimento del danno; laddove nel giudizio davanti al giudice di pace l’appellabilità delle sentenze di condanna a pena pecuniaria sarebbe sempre circoscritta ai casi in cui vi sia stata anche la condanna per le statuizioni civili.
 
Pertanto, e conclusivamente, deve ritenersi che alla diversità delle caratteristiche dei due procedimenti, possa corrispondere un differente esercizio della discrezionalità legislativa nel modulare diversamente il regime delle impugnazioni, peraltro in una materia, quella dell’appello, non coperta costituzionalmente (così, sostanzialmente, Corte cost., sent. n. 426 del 2008, che ha dichiarato l’infondatezza della questione e ord. n. 30 del 2010 che ne ha, invece, dichiarato la manifesta infondatezza).
 
2.2. Analogamente, per quanto concerne il secondo motivo, relativo al mancato esercizio da parte del legislatore delegato della delega in materia di depenalizzazione contenuta all’art. 2 comma 2, lett. b) n. 2 della legge n. 67, va rilevato che la Corte costituzionale ha più volte affermato il principio secondo il quale l’esercizio incompleto della delega (cd. eccesso di delega in minus) non comporta di per sé violazione degli articoli 76 e 77 della Costituzione, salvo che ciò non determini uno stravolgimento della legge di delegazione (Cost. sent. n.149 del 2005).
 
Come, infatti, affermato, in altra occasione, dalla Consulta, dalla parziale attuazione della delega potrebbe “semmai derivare una responsabilità politica del Governo verso il Parlamento, quando la delega abbia carattere imperativo, ma non anche la illegittimità costituzionale delle norme nel frattempo emanate, sempre che per il loro contenuto, non siano tali da porsi in contrasto con i principi e i fini della legge di delegazione”; ciò che (Corte cost., sent. n. 41 del 1975).
 
Alla luce di tali precedenti giurisprudenziali, deve, dunque, ritenersi che le censure mosse dai ricorrenti siano infondate. Né può, in proposito, accedersi all’osservazione, contenuta nella già menzionata memoria difensiva, secondo cui i principi richiamati non riguarderebbero la materia penale. Tale argomentazione, espressa in maniera del tutto apodittica, non tiene conto del fatto che la Corte costituzionale si è in passato pronunciata, negli stessi termini, anche in relazione al mancato esercizio della delega incidente sulla materia penale (v. Corte cost. n. 218 del 1987); sicché anche sotto tale profilo il motivo di ricorso in esame si rivela infondato.
 
3. Il terzo, il quarto e il quinto motivo di impugnazione presentano profili strettamente connessi, che possono essere così compendiati: il rumore prodotto dall’esercizio commerciale sarebbe stato assai limitato, non essendo stato dimostrato che il bar producesse le insopportabili emissioni sonore riferite dai denuncianti, anche in considerazione della inattendibilità degli accertamenti fonometrici svolti (quinto motivo}; nell’ambito di tali fonti la sentenza avrebbe illegittimamente considerato anche il rumore prodotto dagli avventori che stazionavano fuori dal locale, in questo modo violando il principio della corrispondenza tra imputazione e sentenza posto dall’art. 522 cod. proc. pen. e obliterando il considerevole sforzo profuso dagli imputati, consistente in cospicue misure organizzative, per impedire gli schiamazzi, con conseguente esclusione di qualunque profilo di responsabilità in capo ai gestori (terzo motivo); in ogni caso le emissioni sonore sarebbero riferibili ad un “mestiere rumoroso”, sicché in applicazione della giurisprudenza di questa Corte, i giudici avrebbero dovuto ritenere integrata la fattispecie amministrativa di cui all’art. 10 comma 2 della L. 26 ottobre 1995 n. 447 (quarto motivo).
 
3.1. Con riferimento al primo profilo di censura, rileva il Collegio che l’accertamento dell’esistenza di un rumore idoneo a incidere sul disturbo e l’occupazione delle persone configura un tipico giudizio di fatto, rimesso all’apprezzamento del giudice di merito, che se adeguatamente motivato si sottrae a qualunque censura in sede di legittimità.
 
Nell’ambito di tale giudizio, peraltro, si è affermato, da parte di questa Corte, che l’attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, potendo il giudice fondare il suo convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che per le sue modalità di uso la fonte sonora emetta suoni fastidiosi di intensità tale da superare i limiti di normale tollerabilità (così Sez. 3, n. 11031 del 5/02/2015, dep. 16/03/2015, Montali e altro, Rv. 263433; Sez. 1, n. 20954 del 18/01/2011, dep. 25/05/2011, Torna, Rv. 250417, relativa proprio all’accertamento della natura molesta della musica riprodotta ad alto volume e di notte in un disco pub, nonché degli schiamazzi degli avventori dello stesso, mediante la testimonianza resa dagli inquilini dello stabile in cui era sito il locale; Sez. 1, n. 3261 del 23/03/1994, dep. 18/03/1994, Floris, Rv. 199107; Sez. 1, n. 5215 del 7/04/1995, dep.
9/05/1995, Silvestro, Rv. 201195; Sez. 1, n. 7042 del 27/05/1996, dep. 11/07/1996, Fontana, Rv. 205324).
 
Nel caso che occupa, il giudice di prime cure ha dato ampio ragguaglio del ragionamento probatorio svolto, soffermandosi sulle dichiarazioni dei numerosi testimoni di accusa, solo in parte coincidenti con le parti civile costituite, e dando atto, in particolare, degli accertamenti compiuti dall’Arpa FVG, che avevano rilevato un superamento di circa il 300% dei limiti stabiliti per le emissioni sonore, nel frangente anche facendosi carico delle obiezioni mosse dal consulente tecnico della difesa e sottolineando, in maniera del tutto logica, come eventuali errori nella procedura di misurazione potessero avere inciso in termini di scostamenti minimali e, dunque, non potessero obliterare il dato di un superamento così marcato delle soglie di rumore ammesso. Del pari, il primo giudice ha anche spiegato, in maniera puntuale e logicamente congrua, come il mancato riscontro da parte delle Forze dell’ordine, ripetutamente investite dei controlli da parte dei cittadini che avevano presentato gli esposti, fosse spiegabile con l’episodicità delle manifestazioni organizzate dai gestori del bar, solo in alcuni giorni della settimana ed a ore determinate, oltre che con l’accortezza dimostrata dagli stessi imputati nel far callidamente diminuire le emissioni sonore all’arrivo delle pattuglie. Le controdeduzioni offerte, sul punto dalla difesa, per quanto argomentate, sollecitano valutazioni fattuali non scrutinabili in questa sede, ove deve aversi riguardo unicamente alla tenuta logica del discorso giustificativo offerto dal giudice, come detto insuscettibile di essere qualificato in termini di manifesta illogicità.
 
3.2. Si opina, quindi, da parte della difesa dei due imputati, che la condanna avrebbe riguardato anche gli schiamazzi prodotti dagli avventori del locale, non contestati in imputazione e in ogni caso non ascrivibili ai gestori dell’esercizio, in quanto avvenuti al di fuori dello stesso.
 
3.2.1. Quanto al primo profilo, va osservato che la contestazione è stata, in realtà, formulata in maniera assai generica, atteso che essa aveva fatto riferimento al disturbo arrecato, anche in orario notturno, al riposo delle persone; disturbo prodotto “mediante rumori” e, in particolare, ma non certo esclusivamente, nelle giornate in cui si tenevano il karaoke e i concerti. E’, dunque, evidente come la ampia formulazione dell’imputazione sia pienamente compatibile con la successiva affermazione di responsabilità dei due ricorrenti, senza alcuna violazione dell’art. 522 cod. proc. pen..
 
E del resto non va dimenticato che secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, le norme che disciplinano la correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, vanno interpretate con riferimento alle finalità alle quali sono dirette. Pertanto, esse non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. In altri termini, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione, da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051).
 
Su tali basi, la violazione del principio in questione sussiste solo quando, nella ricostruzione del fatto posta a fondamento della decisione, la struttura dell’imputazione sia modificata quanto alla condotta, al nesso causale ed all’elemento soggettivo del reato, al punto che, per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall’imputato non abbia potuto utilmente sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati (Sez. 6, n. 34879 del 10/01/2007, Sartori e altri, Rv. 237415; Sez. 6, n. 12175 del 21/01/2005, Tarricone e altri, Rv. 231483; Sez. 1, n. 4655 del 10/12/2005, Addis, Rv. 230771; Sez. 6, n. 40538 del 6/02/2004, Lombardo, Rv. 229950). E dunque, ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione (Sez. 6, n. 47527 del 13/11/2013, Di Guglielmi e altro, Rv. 257278; Sez. 6, n. 5890 del 22/01/2013, Lucera e altri, Rv. 254419; Sez. 3, n. 15655 del 27/02/2008, Fontanesi, Rv. 239866).
 
In questa prospettiva, rileva il Collegio come nessun dubbio possa ragionevolmente nutrirsi in ordine all’effettivo esercizio del diritto di difesa da parte degli odierni imputati, tanto è vero che il tema dei rumori prodotti dagli avventori del locale ha costituito oggetto di un’ampia attività istruttoria, che si è giovata, in larga parte, proprio degli apporti forniti da xxx e xxx Lanera. 
 
3.2.2. Quanto, poi, alla possibilità di ascrivere al gestore di un determinato esercizio gli schiamazzi e i rumori prodotti dagli avventori del medesimo, ove suscettibili di disturbare le occupazioni o il riposo delle persone, la giurisprudenza di questa Corte ammette la configurabilità della contravvenzione contestata nella forma omissiva, riconoscendo, in capo al titolare di un esercizio pubblico, l’esistenza di una posizione di garanzia, cui è correlato l’obbligo giuridico di impedire gli schiamazzi o comunque i rumori prodotti, in maniera eccessiva, dalla propria clientela; in questo modo configurando gli elementi strutturali propri delle fattispecie omissive improprie (cd. reati commissivi mediante omissione), caratterizzate dall’integrazione tra la struttura tipica del reato commissivo, cui sono riconducibili alcune tra le condotte previste dal comma 1 dell’art. 659, e la norma generale posta dall’art. 40, comma 2, cod. pen., secondo cui risponde di un evento dannoso o pericoloso colui il quale abbia l’obbligo giuridico di impedirlo.
 
Detto obbligo, il quale si sostanzia nel doveroso esercizio di un potere di controllo, è pacificamente configurabile a carico del titolare di una attività commerciale aperta al pubblico rispetto alle condotte poste in essere da parte dei suoi clienti che si trovino all’interno del locale, nei cui confronti egli è, dunque, tenuto ad adottare le misure più idonee ad impedire che determinati comportamenti da parte degli utenti possano sfociare in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica. E tuttavia, si è ritenuto che un siffatto obbligo sussista anche per gli schiamazzi e i rumori prodotti dagli avventori all’esterno del locale, potendo il titolare ricorrere ai più vari accorgimenti, dagli avvisi alla clientela all’impiego di personale dedicato, dalla somministrazione delle bevande soltanto in recipienti non da asporto, in modo che esse vengano consumate all’interno del locale, fino al ricorso all’autorità di polizia o all’esercizio dello ius excludendi, quando essi siano comunque direttamente riferibili all’esercizio dell’attività, come nel caso in cui gli avventori permangano rumorosamente in sosta davanti al locale (v. Sez. F, n. 34283 del 28/07/2015, dep. 6/08/2015, Gallo, Rv. 264501; Sez. 1, n. 48122 del 3/12/2008, dep. 24/12/2008, Baruffaldi, Rv. 242808; Sez. 6, n. 7980 del 24/05/1993, dep. 24/08/1993, Papez, Rv. 194904).
 
Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha dato conto, in maniera puntuale, del fatto che le molestie fossero prodotte, sia pure in parte, anche dai rumori prodotti dalla clientela dell’esercizio, che era solita stazionare in prossimità del locale, evidenziando, altresì, come le misure adottate dai titolari per impedire che gli schiamazzi prodotti dagli avventori potessero recare disturbo ai residenti nella zona, fossero state insufficienti, non essendo stato dimostrato, peraltro, il momento in cui le stesse erano state concretamente avviate, né se vi fosse stato un adeguato controllo sul rispetto delle regole che erano state adottate.
 
Da ciò consegue, pertanto, l’infondatezza anche del terzo motivo di impugnazione.
 
3.3. Quanto, infine, alla tesi secondo cui le condotte ascritte agli odierni imputati avrebbero dovuto essere ricondotte alla menzionata fattispecie di illecito amministrativo, va rammentato, preliminarmente, come l’art. 659, inserito nel codice penale tra le contravvenzioni concernenti l’ordine e la tranquillità pubblica, preveda due distinte ipotesi di reato: quella di cui al primo comma, che punisce il comportamento di colui il quale “mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici”; nonché quella di cui al secondo comma, che invece punisce il fatto di “chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’Autorità”. Dunque, mentre la prima fattispecie, contemplata dal comma 1, punisce il disturbo della pubblica quiete da chiunque cagionato, peraltro con modalità espressamente e tassativamente determinate, la seconda, disciplinata dal comma 2, punisce le attività rumorose, industriali o professionali, esercitate in difformità dalle prescrizioni di legge o dalle disposizioni dell’autorità (Sez. 3, n. 23529 del 13/05/2014, Ioniez, Rv. 259194).
 
Controverso è il rapporto tra le due ipotesi di reato, così come quello tra le stesse e la disciplina dettata dall’art. 10, comma 2, della legge 26 ottobre 1995, n. 447 (cd. legge quadro sull’inquinamento acustico), la quale prevede un’ipotesi di illecito amministrativo nel caso in cui “nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore” si superino “i valori limite di emissione o di immissione” fissati in conformità al disposto dell’art. 3, comma 1, lettera a) della stessa legge.
 
3.3.1. Secondo un primo indirizzo, “il mancato rispetto dei limiti di emissione del rumore stabiliti dal D.P.C.M. 1 marzo 1991 può integrare la fattispecie di reato prevista dall’art. 659, comma secondo, cod. pen., allorquando l’inquinamento acustico è concretamente idoneo a recare disturbo al riposo e alle occupazioni di una pluralità indeterminata di persone, non essendo in tal caso applicabile il principio di specialità di cui all’art. 9 della legge n. 689 del 1981 in relazione all’illecito amministrativo previsto dall’art. 10, comma secondo, della legge n. 447 del 1995” (Sez. 3, n. 15919 in data 8/04/2015, CO.NA.VAR. S.r.l., Rv. 266627; Sez. 3 n. 37184 del 3/07/2014, Torricella, non massimata; Sez. 1, n. 4466 del 5/12/2013, Giovanelli e altro, Rv. 259156; Sez. 1, n. 33413 del 7/06/2012, Girolimetti, Rv. 253483; Sez. 1, n. 1561 del 5/12/2006, Rey ed altro, Rv. 235883; Sez. 1, n. 25103 del 16/04/2004, Amato, Rv. 228244,  relativa ad un caso di superamento dei valori-limite di rumorosità prodotta nell’attività di esercizio di una discoteca). Ciò in quanto le due disposizioni sarebbero poste a protezione di beni giuridici diversi: mentre le fattispecie previste dall’art. 659 cod. pen. tutelerebbero la tranquillità pubblica, evitando che le occupazioni e il riposo delle persone possano venire disturbate con schiamazzi o rumori o con altre attività idonee ad interferire nel normale svolgimento della vita privata di un numero indeterminato di persone, con conseguente messa in pericolo del bene della pubblica tranquillità, viceversa, la fattispecie contemplata dall’art. 10, comma 2, della legge n. 447 del 1995, tutelerebbe genericamente la salubrità ambientale e la salute umana, limitandosi a stabilire i limiti di rumorosità delle sorgenti sonore, oltre i quali debba ritenersi sussistente l’inquinamento acustico, sanzionato in via amministrativa in considerazione dei danni che il rumore può produrre sia sul fisico che sulla psiche delle persone.
 
Secondo un opposto orientamento, il superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore derivanti dall’esercizio di mestieri rumorosi configurerebbe l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, legge n. 447 del 1995 (cfr. Sez. 1, n. 530 del 3/12/2004, P.M. in proc. Termini e altro, Rv. 230890; Sez. 3, n. 2875 del 21/12/2006, Roma, Rv. 236091; Sez. 1, n. 48309 del 13/01/2012, Carrozzo e altro, Rv. 254088; Sez. 3, n. 13015 del 31/01/2014, Vazzana, Rv. 258702), atteso che a seguito dell’entrata in vigore della cd. legge quadro sull’inquinamento acustico il comma 2 dell’art. 659 cod. pen. sarebbe stato sostanzialmente abrogato, in applicazione del principio di specialità contenuto nell’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, data la perfetta identità dell’ambito delineato dalla norma codicistica e di quello, di contenuto più ampio, sanzionato, solo in via amministrativa, in forza dell’altra disposizione.
 
Secondo un indirizzo intermedio, infine, è configurabile l’illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, della legge n. 447/1995 ove si verifichi soltanto il superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia; la contravvenzione di cui al comma 1 dell’art. 659, cod. pen., ove il fatto costituivo dell’illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di rumore, per effetto di un esercizio del mestiere che ecceda le sue normali modalità o ne costituisca un uso smodato; quella di cui al comma 2 dell’art. 659 cod. pen. qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o della Autorità, attinenti all’esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di immissioni acustiche (Sez. 3, n. 25424 del 5/06/2015, Pastore, non massimata; Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv. 261885; Sez. 3, n. 42026 del 18/09/2014, Claudino, Rv. 260658; Sez. 1, n. 25601 del 19/04/2013, Casella, non massimata; Sez. 1, n. 39852 del 12/06/2012, Minetti, Rv. 253475; Sez. 1, n. 48309 del 13/11/2012, Carrozzo, Rv. 254088; Sez. 1, n. 44167 del 27/10/2009, Fiumara, Rv. 245563; Sez. 1, n. 23866 del 9/06/2009, Valvassore, Rv. 243807).
 
A favore di questo indirizzo si è rilevato, infatti, come l’affermazione secondo cui l’illecito amministrativo tuteli genericamente la salubrità ambientale sia smentito dal tenore letterale delle disposizioni contenute nella legge n. 447/1995, le quali, secondo l’art. 1, sono dettate per la “tutela dell’ambiente esterno e dell’ambiente abitativo dall’inquinamento acustico”. Tali disposizioni, all’art. 2, comma 1, lett. a), identificano l’inquinamento acustico nella “introduzione di rumore nell’ambiente abitativo o nell’ambiente esterno tale da provocare fastidio o disturbo al riposo ed alle attività umane, pericolo per la salute umana, deterioramento degli ecosistemi, dei beni materiali, dei monumenti, dell’ambiente abitativo o dell’ambiente esterno o tale da interferire con le legittime fruizioni degli ambienti stessi”; e ancora, alla lettera b) del medesimo comma, identificano l’ambiente abitativo con “ogni ambiente interno ad un edificio destinato alla permanenza di persone o di comunità ed utilizzato per le diverse attività umane, fatta eccezione per gli ambienti destinati ad attività produttive per i quali resta ferma la disciplina di cui al D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, salvo per quanto concerne l’immissione di rumore da sorgenti sonore esterne ai locali in cui si svolgono le attività produttive”.
 
In questa prospettiva, il bene giuridico tutelato dalla “legge-quadro [deve considerarsi] ben più ampio, in quanto il legislatore non si è limitato a prendere in esame esclusivamente la tutela dei singoli individui, perché la sua attenzione risulta focalizzata verso un ben più ampio contesto, valutando ogni possibile effetto negativo del rumore, inteso, appunto, come fenomeno “inquinante”, tale cioè, da avere effetti negativi sull’ambiente, alterandone l’equilibrio ed incidendo non soltanto sulle persone, sulla loro salute e sulle loro condizioni di vita, facendo la norma riferimento, come si è detto, anche agli ecosistemi, ai beni materiali ed ai monumenti”.
 
Pertanto, secondo questo orientamento, una piena sovrapponibilità tra le due fattispecie dell’art. 659, comma 2 e dell’art. 10 citato, deve aversi soltanto nel caso in cui l’attività rumorosa si sia concretata nel mero superamento dei valori limite di emissione specificamente stabiliti in base ai criteri delineati dalla legge quadro, causato mediante l’esercizio o l’impiego delle sorgenti individuate dalla legge medesima. Ed in tali casi, sulla base dei principi enunciati dalle Sezioni Unite n. 1963/2011 del 28/10/2010, Di Lorenzo, Rv. 248722, il concorso tra disposizione penale incriminatrice e disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto, deve essere risolto a favore della disposizione speciale, costituita dalla fattispecie amministrativa.
 
Viceversa, restano esclusi dall’ambito comune delle due ipotesi di illecito sia il superamento di soglie di rumore diversamente individuate o generate da altre fonti, sia l’insieme delle condotte che si estrinsecano nell’esercizio di attività rumorose svolte in violazione di altre disposizioni di legge o delle prescrizioni dell’autorità, trovando pacifica applicazione, in tali casi, l’art. 659, comma 2, cod. pen..
 
Quando, poi, le attività di cui sopra vengano svolte eccedendo dalle normali modalità di esercizio, rivelandosi idonee a turbare la pubblica quiete, sarà invece configurabile la violazione sanzionata dall’art. 659, comma 1, cod. pen. (per questo indirizzo si vedano: Sez. 3, n. 25424 del 5/06/2015, Pastore, non massimata; e, soprattutto, Sez. 3, n. 5735 del 21/01/2015, Giuffrè, Rv.261885).
 
3.3.2. Tanto premesso, rileva il Collegio che la condotta descritta in imputazione rientra nella previsione del comma 1 dell’art. 659 cod. pen. in base a tutti e tre gli indirizzi giurisprudenziali prima richiamati.
 
Le emissioni sonore riconducibili ai concerti e al karaoke, così come gli schiamazzi e rumori prodotti dagli avventori dell’esercizio pubblico, pacificamente suscettibili di disturbare le occupazioni o il riposo delle persone (v. supra), sono stati correttamente ricondotti a situazioni eccedenti le normali modalità di esercizio dell’attività intrinsecamente rumorosa, non alle emissioni sonore prodotte, ordinariamente, da un qualunque esercizio nel quale si somministrino cibi e bevande e nel quale vengano tenuti servizi di intrattenimento musicale. Pertanto, anche per il terzo degli indirizzi richiamati deve ritenersi configurabile, in una situazione come quella descritta, la fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 659.
 
E quanto alla configurabilità della fattispecie contestata nella forma omissiva, vanno ovviamente richiamate le considerazioni già svolte in precedenza (v. § 3.2.2).
 
4. Chiaramente inammissibile, in quanto del tutto generico, è, poi, il settimo motivo di impugnazione, con il quale i due imputati lamentano l’eccessività del danno liquidato alle parti civili rispetto agli ordinari criteri in uso nei Tribunali, senza peraltro indicarli e senza articolare compiute censure in relazione alla valutazione svolta, sul punto, dal primo giudice.
 
5. Fondato è, invece, il quarto motivo di doglianza.
 
Se per un verso, infatti, deve condividersi l’opinione giurisprudenziale secondo cui la contravvenzione prevista dall’art. 659, comma 1, cod. pen., in quanto reato eventualmente permanente, si può consumare anche con un’unica condotta rumorosa o di schiamazzo recante, in determinate circostanze, un effettivo disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone (Sez. 3, n. 8351 del 24/06/2014, dep. 25/02/2015, Calvarese, Rv. 262510), per altro verso merita di essere, altresì, ribadita l’opinione secondo cui debba ravvisarsi la permanenza quando, come nel caso di specie, le illegittime emissioni siano connesse all’esercizio di attività economiche e legate al ciclo produttivo (Sez. 1, n. 2598 del 13/11/1997, dep. 27/02/1998, P.M. in proc. Garbo, Rv. 209960).
 
Ne consegue, pertanto, che avendo il primo giudice ravvisato nella specie una pluralità di reati, unificati dal vincolo della continuazione, deve procedersi alla rideterminazione del complessivo trattamento sanzionatorio.
 
6. Alla luce delle precedenti considerazioni, il ricorso deve essere accolto limitatamente alla rimodulazione del trattamento sanzionatorio, con conseguente rinvio, a tal fine, al Tribunale di Udine, salva, ai sensi dell’art. 624 cod. proc. pen., l’affermazione della responsabilità dell’imputato in relazione al reato a lui ascritto. Inammissibile deve, invece, ritenersi la richiesta delle parti civili di concessione di una provvisionale, trattandosi di domande all’evidenza esulanti dall’ambito dei poteri del giudice di legittimità.
 
PER QUESTI MOTIVI
 
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Udine. Rigetta nel resto il ricorso. Dichiara inammissibile l’impugnazione incidentale delle parti civili.
 
Così deciso in Roma, il 9/02/2017
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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