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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto processuale penale, Diritto urbanistico - edilizia Numero: 48348 | Data di udienza: 29 Settembre 2017

DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Manufatto in zona agricola – Edificazione, destinazione e posizione soggettiva di chi lo realizza – art. 44, lett. b) d.PR. 380/01 – Reati edilizi – Cessazione dell’attività ed ultimazione dei lavori – Differenza – Nozione di edificio concretamente funzionale – Valutazione complessiva delle opere – Natura di reato permanente – Giurisprudenza – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Mancata annotazione formale nella sentenza di secondo grado del capo di imputazione – Scopo della contestazione – Completezza dell’imputazione – Effetti.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 20 Ottobre 2017
Numero: 48348
Data di udienza: 29 Settembre 2017
Presidente: FIALE
Estensore: RAMACCI


Premassima

DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Manufatto in zona agricola – Edificazione, destinazione e posizione soggettiva di chi lo realizza – art. 44, lett. b) d.PR. 380/01 – Reati edilizi – Cessazione dell’attività ed ultimazione dei lavori – Differenza – Nozione di edificio concretamente funzionale – Valutazione complessiva delle opere – Natura di reato permanente – Giurisprudenza – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Mancata annotazione formale nella sentenza di secondo grado del capo di imputazione – Scopo della contestazione – Completezza dell’imputazione – Effetti.



Massima

 

 

 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 20/10/2017 (ud. 29/09/2017), Sentenza n.48348

 
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Manufatto in zona agricola – Edificazione, destinazione e posizione soggettiva di chi lo realizza – art. 44, lett. b) d.PR. 380/01.
 
Per l’edificazione in zona agricola, la destinazione del manufatto e la posizione soggettiva di chi lo realizza sono elementi che assumono entrambi rilievo ai fini della rispondenza dell’opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico (Sez. 3, n. 7681 del 13/01 /2017, Innamorati e altri).
 
 
DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Reati edilizi – Cessazione dell’attività ed ultimazione dei lavori – Differenza – Nozione di edificio concretamente funzionale – Valutazione complessiva delle opere – Natura di reato permanente – Giurisprudenza.
 
La cessazione dell’attività si ha con l’ultimazione dei lavori per completamento dell’opera, con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l’accertamento del reato e sino alla data del giudizio (Cass. Sez. 3, n. 29974 del 6/5/2014, P.M. in proc. Sullo). Inoltre, l’ultimazione dei lavori coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 32969 del 817 /2005, Amadori; Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano). In altre parole, deve trattarsi, di un edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come si ricava dal disposto del primo comma dell’articolo 25 del TU, che fissa "entro quindici giorni dall’ultimazione dei lavori di finitura dell’intervento" il termine per la presentazione allo sportello unico della domanda di rilascio del certificato di agibilità. Le opere devono essere, inoltre, valutate nel loro complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di costruzione, considerare separatamente i singoli componenti (Sez. 3, n. 4048 del 6/11/2002 (dep. 2003), Tucci; Sez. 3 n. 34876 del 23/6/2009, Anselmo; Sez. 3, n. 5618 del 17/11 /2011 ( dep. 2012), Forte). Tali caratteristiche riguardano, inoltre, anche le parti che costituiscono annessi dell’abitazione (Sez. 3, n. 8172 del 27/1/2010, Vitali). In conclusione, il reato urbanistico ha natura di reato permanente, la cui consumazione ha inizio con l’avvio dei lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione dell’attività edificatoria abusiva (Cass. Sez. U. n.17178 del 27/2/2002, Cavallaro).
 
 
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Mancata annotazione formale nella sentenza di secondo grado del capo di imputazione – Scopo della contestazione – Completezza dell’imputazione – Effetti.
 
La mancata annotazione formale nella sentenza di secondo grado del capo di imputazione non costituisce causa di nullità della sentenza, stante la tassatività della previsione di cui all’art. 546, comma terzo, cod. proc. pen.. (Sez. 4, n. 4098 del 5/11 /2008 – (dep.2009), Bodelmonte Cosuccia). Lo scopo della contestazione è quello di consentire all’imputato una difesa adeguata, con la conseguenza che l’imputazione deve ritenersi completa nei suoi elementi essenziali quando il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa (cfr. Sez. 4, n. 38991 del 10/6/2010, Quaglierini e altri). Pertanto, ai fini della completezza dell’imputazione, è sufficiente che il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa, con la conseguenza che è legittimo anche il ricorso al rinvio agli atti del fascicolo processuale, purché si tratti di atti intellegibili, non equivoci e conoscibili dall’imputato (Sez. 5, n. 10033 del 19/1 /2017, logha’ e altro)
 
 
(dichiara inammissibili il ricorso avverso sentenza del 20/12/2013 della CORTE APPELLO di FIRENZE) Pres. FIALE, Rel. RAMACCI, Ric. PG in proc. Cappello ed altro

 


Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 20/10/2017 (ud. 29/09/2017), Sentenza n.48348

SENTENZA

 

 

 
 
 
 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 20/10/2017 (ud. 29/09/2017), Sentenza n.48348

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
 
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis
 
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA 
 
sul ricorso proposto da PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D’APPELLO DI FIRENZE
 
nel procedimento a carico di CAPPELLO EMANUELA nato il 14/10/1962 a TREVISO
 
nel procedimento a carico di quest’ultimo RACIOPPI LORENZO nato il 12/12/1952 a GROSSETO
 
avverso la sentenza del 20/12/2013 della CORTE APPELLO di FIRENZE
 
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
 
udita la relazione svolta dal Consigliere LUCA RAMACCI
 
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore GIUSEPPE CORASANITI che ha concluso per l’inammissibilita’ dei ricorsi;
 
Uditi i difensori presenti avv.ti Nicosia Giuseppe Ignazio e Capaccioli Lucia sostituto processuale che chiedono L’INAMMISSIBILITA’ DEL RICORSO DEL P.G. E INSISTONO NELL’ACCOGLIMENTO DEI MOTIVI ESPOSTI. 
 
RITENUTO IN FATTO
 
1. La Corte di appello di Firenze, con sentenza del 20/12/2013 ha parzialmente riformato la decisione in data 23/11 /2012 del Tribunale di Grosseto, tra l’altro confermando l’affermazione di responsabilità nei confronti dell’appellante Emanuela CAPPELLO, imputata del reato di cui all’art. 44, lett. b) d.PR. 380/01 per la realizzazione, quale proprietaria committente, in zona agricola ed in assenza di valido titolo abilitativo, per essere illegittimi quelli rilasciati, di un manufatto ad uso residenziale in luogo di un annesso rurale, con aumento della volumetria originariamente prevista. La Corte di appello confermava anche l’assoluzione di Lorenzo RACCIOPPI, dirigente dell’ufficio tecnico comunale, per non aver commesso il fatto.
 
 
2. Avverso tale pronuncia propongono ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello relativamente alla pronuncia assolutoria nei confronti del RACCIOPPI ed Emanuela CAPPELLO tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
 
 
3. Ricorso del P.G.
 
3.1 Con un unico motivo si lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione, osservando, richiamate le argomentazioni sviluppate nell’appello del Pubblico Ministero presso il Tribunale, che la Corte territoriale non avrebbe offerto idonea motivazione in relazione al corredo probatorio acquisito e, pur dando atto della sussistenza di elementi di "incuria ed imperizia" nel comportamento dell’imputato, avrebbe erroneamente escluso la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato nonostante gli evidenti elementi di colpa.
 
 
4. Ricorso di Emanuela CAPPELLO
 
4.1 Censura, con un primo motivo di ricorso, la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla mancata declaratoria di prescrizione del reato, che i giudici del gravame avrebbero dovuto rilevare in considerazione dello stato di avanzamento dei lavori come accertato nel corso del giudizio.
 
Aggiunge che la sentenza impugnata sarebbe contraddittoria nella parte in cui rileva la prescrizione del reato nei confronti di altri imputati e, segnatamente, degli assuntori dei lavori.
 
 
4.2 Con un secondo motivo di ricorso rileva la nullità della sentenza per contrasto tra capo di imputazione, motivazione e dispositivo, osservando che l’imputazione riportata nella sentenza riguarderebbe fatti e soggetti diversi, omettendo del tutto la sua persona e la sua attività.
 
 
4.3 Con un terzo motivo di ricorso lamenta la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine al capo di imputazione originario, che assume nullo per indeterminatezza, in quanto la Corte di appello avrebbe erroneamente escluso la dedotta nullità.
 
 
4.4 Con un quarto motivo di ricorso denuncia il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza e qualificazione degli abusi ed alla conseguente affermazione di responsabilità, analizzando nel dettaglio e confutando le argomentazioni sviluppate sul punto dalla Corte del merito.
 
 
5. Entrambi i ricorrenti insistono, pertanto, per l’accoglimento delle rispettive impugnazioni.
 
CONSIDERATO IN DIRITTO
 
1. Entrambi i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili per le ragioni di seguito specificate. 
 
 
2. Occorre preliminarmente rilevare, con riferimento al ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello, che lo stesso risulta articolato in fatto e, comunque, generico, perché sostanzialmente richiama le conclusioni del Pubblico Ministero nel giudizio di primo grado.
 
 
3. Per ciò che concerne, invece, il ricorso della CAPPELLO, lo stesso risulta inammissibile per la manifesta infondatezza dei motivi.
 
Va osservato, con riferimento al primo motivo di ricorso, che lo stesso si fonda su una errata individuazione del momento consumativo del reato urbanistico, che la giurisprudenza di questa Corte ha da tempo individuato, affermando principi dei quali la Corte del merito ha fatto buon uso.
 
Si è detto, a tale proposito, che il reato urbanistico ha natura di reato permanente, la cui consumazione ha inizio con l’avvio dei lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione dell’attività edificatoria abusiva (v. Sez. U, n. 17178 del 27/2/2002, Cavallaro, Rv. 221398).
 
Si è poi precisato (ex pi. Sez. 3, n. 38136 del 25/9/2001, Triassi, Rv. 220351) che la cessazione dell’attività si ha con l’ultimazione dei lavori per completamento dell’opera, con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l’accertamento del reato e sino alla data del giudizio (v. anche Sez. 3, n. 29974 del 6/5/2014, P.M. in proc. Sullo, Rv. 260498).
 
Si è inoltre chiarito che l’ultimazione dei lavori coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 32969 del 817 /2005, Ama dori, non massimata sul punto ed altre prec. conf. nella stessa richiamate. V. anche Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261153).
 
Deve trattarsi, in altre parole, di un edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come si ricava dal disposto del primo comma dell’articolo 25 del TU, che fissa "entro quindici giorni dall’ultimazione dei lavori di finitura dell’intervento" il termine per la presentazione allo sportello unico della domanda di rilascio del certificato di agibilità. Le opere devono essere, inoltre, valutate nel loro complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di costruzione, considerare separatamente i singoli componenti (Sez. 3, n. 4048 del 6/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv. 223365; Sez. 3 n. 34876 del 23/6/2009, Anselmo, non massimata; Sez. 3, n. 5618 del 17/11 /2011 ( dep. 2012), Forte, Rv. 252125). Tali caratteristiche riguardano, inoltre, anche le parti che costituiscono annessi dell’abitazione (Sez. 3, n. 8172 del 27 /1 /201 O, Vitali, Rv. 246221 ).
 
 
4. Ciò posto, deve osservarsi come nella sentenza impugnata venga dato atto della circostanza, accertata in fatto sulla base della documentazione fotografica, che le opere, al momento del sopralluogo del 19/1/2009, erano" ultimate al grezzo" e "quasi interamente completate, anche nelle finiture", sicché del tutto correttamente i giudici del gravame hanno rilevato la consumazione ancora in atto del reato contestato ed escluso la prescrizione.
 
Tale affermazione, perfettamente aderente, come si è detto. ai richiamati principi giurisprudenziali, non si pone neppure in contraddizione con la differente conclusione cui la Corte territoriale è pervenuta con riferimento ad altri imputati, avendo in tali casi fatto riferimento alla cessazione della condotta posta in essere ed al concreto intervento eseguito sul manufatto in relazione alle opere commissionate, trattandosi, in un caso, dell’assuntore dei lavori e, nell’altro, del direttore dei lavori che aveva presentato formali dimissioni il 12/6/2008.
 
 
5. Anche il secondo motivo di ricorso è manifesta mente infondato.
 
La ricorrente pone l’accento sul fatto che la sentenza sarebbe nulla per l’evidente contrasto tra il capo di imputazione riportato nell’intestazione, la motivazione ed il dispositivo, circostanza, questa, che ne renderebbe anche incomprensibile il senso.
 
Si tratta, in realtà, di un mero errore, peraltro immediatamente percepibile in base alla semplice lettura dei motivi della decisione, i quali riportano compiutamente in premessa la posizione dei singoli imputati e le condotte contestate.
 
Il capo di imputazione corretto, peraltro, era ben noto agli imputati perché riprodotto nel decreto di citazione a giudizio innanzi al Tribunale e nella sentenza di primo grado.
 
In particolare, dall’esame degli atti, che la natura processuale della questione dedotta consente a questa Corte di consultare, emerge chiaramente che la sentenza oggetto di impugnazione innanzi alla Corte territoriale è quella n.1352/12 del 23/11 /2012 e chiaramente individuata nell’atto di appello, mentre il capo di imputazione riportato nella sentenza di appello è quello, evidentemente erroneamente riprodotto, di altra sentenza del Tribunale di Grosseto (n. 448/10 del 31/5/2010) pure presente in atti.
 
 
6. Va inoltre osservato che, proprio con riferimento ad un caso analogo, in cui la sentenza di secondo grado recava nell’intestazione, a causa di un refuso, un capo di imputazione relativo ad altro procedimento, mentre quello corretto e pertinente era riportato nella sentenza di primo grado, questa Corte ha avuto modo di affermare il principio, che va qui ribadito, secondo il quale tra gli elementi essenziali la cui mancanza o incompletezza determina la nullità della sentenza a norma dell’art. 546, terzo comma, cod. proc. pen., non è previsto il capo di imputazione, posto che l’enunciazione dei fatti e delle circostanze ascritte all’imputato ben possono desumersi dal complessivo contenuto della decisione, tenendo conto delle sentenze di primo e secondo grado, che si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile (Sez. 2, n. 5500 del 09/10/2013 – (dep. 2014), Cinel, Rv. 25819701. Conf. Sez. 3, n. 39894 del 28/5/2014, P.G. in proc. Bollini, Rv. 26038501). La mancata annotazione formale nella sentenza di secondo grado del capo di imputazione non costituisce causa di nullità della sentenza, stante la tassatività della previsione di cui all’art. 546, comma terzo, cod. proc. pen.. (Sez. 4, n. 4098 del 5/11 /2008 – (dep.2009), Bodelmonte Cosuccia, Rv. 24282801 ed altre prec.).
 
 
7. Che l’oggetto dell’imputazione originaria fosse diverso da quello riportato nella sentenza impugnata era peraltro ben noto alla ricorrente, la quale ha infatti censurato anche la indeterminatezza della prima contestazione nel terzo motivo di ricorso, la cui infondatezza è pure manifesta.
 
L’art. 552, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. richiede che il decreto di citazione a giudizio contenga l’enunciazione del fatto, in forma chiara e precisa, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge.
 
Come è noto, lo scopo della contestazione è quello di consentire all’imputato una difesa adeguata, con la conseguenza che l’imputazione deve ritenersi completa nei suoi elementi essenziali quando il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa (cfr. Sez. 4, n. 38991 del 10/6/2010, Quaglierini e altri, Rv. 248847).
 
Si è anche precisato che ai fini della completezza dell’imputazione, è sufficiente che il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa, con la conseguenza che è legittimo anche il ricorso al rinvio agli atti del fascicolo processuale, purché si tratti di atti intellegibili, non equivoci e conoscibili dall’imputato (Sez. 5, n. 10033 del 19/1 /2017, logha’ e altro, Rv.26945501).
 
Tenuto conto dei summenzionati condivisibili principi, appare evidente, dalla semplice lettura dell’imputazione, la quale contiene tutti gli elementi richiesti, che correttamente la Corte territoriale ha respinto le deduzioni difensive.
 
 
8. Anche il quarto motivo di ricorso è inammissibile.
 
La ricorrente, nel tentativo di confutare il percorso argomentativo sviluppato dalla Corte territoriale, procede all’analisi dei contenuti attraverso l’estrapolazione di singoli brani della motivazione, ai quali contrappone le proprie osservazioni, chiaramente finalizzate alla prospettazione, non consentita in questa sede, di una lettura alternativa delle emergenze processuali le quali, diversamente da quanto argomentato in ricorso, evidenziano come la sentenza impugnata sia giuridicamente corretta e priva di cedimenti logici.
 
Si tratta, nella fattispecie, della realizzazione, in zona agricola, di un manufatto che viene valutato dai giudici del merito come ad inequivocabile destinazione residenziale, incompatibile, quindi, con la classificazione di zona.
 
A tali conclusioni la Corte del merito giunge sulla base di dati fattuali rilevati dalla documentazione fotografica in atti e, segnatamente, dalle caratteristiche costruttive del manufatto, dal livello elevato delle finiture, dalla struttura delle finestre ed aperture, dalla presenza, sull’unico varco di accesso di un locale definito come rimessa di mezzi agricoli, di un gradino che ne impedirebbe comunque l’ingresso.
 
Altro dato fattuale significativo che la Corte territoriale pone in evidenza è il contenuto del piano di miglioramento agricolo ed ambientale presentato per l’ottenimento dei titoli abilitativi, rispetto al quale i giudici del gravame rilevano l’assoluta assenza di qualsiasi coltivazione agraria sul fondo nonché l’inverosimiglianza delle dichiarazioni rese dall’imputata sulla destinazione del fondo alla coltivazione curata dall’anziano padre.
 
Va a tale proposito ricordato che questa Corte ha recentemente precisato come, per l’edificazione in zona agricola, la destinazione del manufatto e la posizione soggettiva di chi lo realizza sono elementi che assumono entrambi rilievo ai fini della rispondenza dell’opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico (Sez. 3, n. 7681 del 13/01 /2017, Innamorati e altri, Rv. 26915901).
 
Altri elementi rilevanti ai fini dell’individuazione dell’illecito urbanistico sono stati posti in evidenza dai giudici del gravame, sempre sulla base della documentazione acquisita, stigmatizzando il sostanziale raddoppio della volumetria originariamente assentita che comunque caratterizza le opere.
 
 
9. I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue per la sola CAPPELLO l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00.
 
L’inammissibilità del ricorso per cassazione della CAPPELLO per manifesta infondatezza dei motivi non consente, inoltre, il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui all’art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimità (cfr., da ultimo, Sez. 2, n. 28848 dell’8/5/2013, Ciaffoni, Rv. 256463). 
 
P.Q.M.
 
Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Firenze.
 
Dichiara inammissibile il ricorso di Emanuela CAPPELLO che condanna al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 (duemila) in favore della Cassa delle ammende.
 
Così deciso in data 29.9.2017
 
 

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