+39-0941.327734 abbonati@ambientediritto.it
Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto urbanistico - edilizia Numero: 1828 | Data di udienza:

DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Lottizzazione abusiva e confisca – Restituzione del terreno – Lottizzazione – Beni confiscati – Disposizioni urbanistiche – Tutela delle zone di particolare interesse ambientale – Edificabilità dei suoli – Sanzioni amministrative e penali, recupero e sanatoria delle opere edilizie – Reato di lottizzazione abusiva.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: Sez. Grande
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 28 Giugno 2018
Numero: 1828
Data di udienza:
Presidente: López Guerra
Estensore:


Premassima

DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Lottizzazione abusiva e confisca – Restituzione del terreno – Lottizzazione – Beni confiscati – Disposizioni urbanistiche – Tutela delle zone di particolare interesse ambientale – Edificabilità dei suoli – Sanzioni amministrative e penali, recupero e sanatoria delle opere edilizie – Reato di lottizzazione abusiva.



Massima


Allegato


Titolo Completo

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, 28/06/2018, Sentenza sui ricorsi n.1828/06

SENTENZA

  

 

Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 28 giugno 2018 – Ricorsi nn. 1828/06 e altri 2 – Causa G.I.E.M. s.r.l. e altri contro Italia

© Ministero della Giustizia, Dipartimento per gli affari di giustizia, traduzione eseguita da Rita Carnevali, Tiziana Taliani, Ombretta Palumbo, Rita Pucci, Daniela Riga e Martina Scantamburlo. Revisione a cura di Rita Carnevali e Martina Scantamburlo.

Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court’s database HUDOC
 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

GRANDE CAMERA

CAUSA G.I.E.M. S.R.L. E ALTRI c. ITALIA
(Ricorsi nn. 1828/06 e altri 2 – si veda l’elenco allegato)

SENTENZA
(Merito)

STRASBURGO
28 giugno 2018

Questa sentenza è definitiva. Può subire modifiche di forma.

Nella causa G.I.E.M. S.R.L. e altri c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, riunita in una Grande Camera composta da:

  • Luis López Guerra, presidente,
  • Guido Raimondi,
  • Robert Spano,
  • Işıl Karakaş,
  • Kristina Pardalos,
  • Paulo Pinto de Albuquerque,
  • Erik Møse,
  • Helen Keller,
  • Paul Lemmens,
  • Faris Vehabović,
  • Egidijus Kūris,
  • Iulia Motoc,
  • Jon Fridrik Kjølbro,
  • Branko Lubarda,
  • Yonko Grozev,
  • Khanlar Hajiyev,
  • András Sajó, giudici,
  • e da Johan Callewaert, cancelliere aggiunto della Grande Camera,

Dopo avere deliberato in camera di consiglio il 7 settembre 2015, 23 novembre 2016, 5 luglio 2017 e 1° febbraio 2018,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale ultima data:

PROCEDURA

1. All’origine della causa vi sono tre ricorsi (nn. 1828/06, 34163/07 e 19029/11) proposti contro la Repubblica italiana con cui quattro società e un cittadino di questo Stato, G.I.E.M. S.r.l., Hotel Promotion Bureau S.r.l. (società in liquidazione), R.I.T.A. Sarda S.r.l. (società in liquidazione), Falgest S.r.l. e il sig. Filippo Gironda, («i ricorrenti») hanno adito la Corte, rispettivamente, il 21 dicembre 2005, il 2 agosto 2007 e il 23 dicembre 2011, ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2. I ricorrenti sono stati rappresentati, rispettivamente, dagli avvocati G. Mariani e F. Rotunno del foro di Bari; G. Lavitola del foro di Roma, e V. Manes del foro di Bologna; A. G. Lana e A. Saccucci, del foro di Roma.
Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, E. Spatafora, e dal suo co-agente, P. Accardo.
3. I ricorrenti formulano i seguenti motivi di ricorso:

  • la G.I.E.M. S.r.l deduce una violazione degli articoli 6 § 1, 7 e 13 della Convenzione nonché dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 in ragione della confisca del suo bene;
  • le società Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l. deducono una violazione degli articoli 7 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 1 in ragione della confisca del loro bene. Il sig. Gironda sostiene inoltre che è stato violato l’articolo 6 § 2 della Convenzione (presunzione di innocenza).

4. I motivi di ricorso relativi agli articoli sopra menzionati sono stati comunicati al Governo rispettivamente il 30 marzo 2009 per il ricorso n. 1828/06, il 5 giugno 2012 per il ricorso n. 34163/07 e il 30 aprile 2013 per il ricorso n. 19029/11. I ricorsi nn. 34163/07 e 19029/11 sono stati dichiarati irricevibili per il resto.
5. Il 17 febbraio 2015, una camera della seconda sezione, composta da Işıl Karakaş, presidente, Guido Raimondi, András Sajó, Helen Keller, Paul Lemmens, Robert Spano e Jon Fridrik Kjølbro, si è dichiarata incompetente a favore della Grande Camera e nessuna delle parti vi si è opposta (articoli 30 della Convenzione e 72 del regolamento).
6. Il 2 settembre 2015 si è svolta una pubblica udienza nel Palazzo dei diritti dell’uomo a Strasburgo (articolo 59 § 3 del regolamento).

Sono comparsi:

  • per il Governo
    Sig.ra P. ACCARDO, co-agente;
  • per i ricorrenti
  • G.I.E.M. S.r.l.
    Avv.ti G. MARIANI,
    F. ROTUNNO, legali,
    Sig.ra C. MILLASEAU, consigliere;
  • Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l.
    Avv.ti G. LAVITOLA,
    V. MANES, legali,
    Sig.ri F. MAZZACUVA,
    N. RECCHIA
    Sig.ra A. SANTANGELO consiglieri;
  • Falgest S.r.l. e Filippo Gironda
    Avv.ti  A.G. LANA,
    A. SACCUCCI, legali,
    Sig. A. SANGIORGI
    Sig.ra G. BORGNA, consiglieri.

La Corte ha sentito le dichiarazioni della sig.ra Accardo, degli avvocati Mariani, Rotunno, Lavitola, Manes, Lana e Saccucci, nonché le risposte che la sig.ra Accardo, e gli avvocati Rotunno, Manes, Lana e Saccucci hanno dato alle domande poste dai giudici.

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

7. Le società ricorrenti hanno la loro sede sociale rispettivamente a Bari per la G.I.E.M. S.r.l., a Roma per la Hotel Promotion Bureau S.r.l. e la R.I.T.A. Sarda S.r.l., e a Pellaro (Reggio Calabria) per la Falgest S.r.l.
Il sig. Gironda è nato nel dicembre 1959 e risiede a Pellaro.

A. G.I.E.M. S.r.l.

1) I lavori di costruzione sul terreno della società ricorrente

8. La società ricorrente era proprietaria di un terreno, con sede a Bari sulla costa di Punta Perotti, della superficie complessiva di 10.365 metri quadrati, contiguo ad un terreno che all’epoca apparteneva a una società a responsabilità limitata, la Sud Fondi S.r.l. Il suo terreno era classificato edificabile dal piano regolatore generale relativamente a due particelle; il terreno restante era invece destinato da disposizioni tecniche del piano regolatore generale a zona artigianale.
9. Con deliberazione n. 1042 dell’11 maggio 1992, il consiglio comunale di Bari adottò il piano di lottizzazione presentato dalla società Sud Fondi S.r.l., il quale prevedeva la costruzione di un complesso multifunzionale comprendente abitazioni, uffici e negozi. La società ricorrente afferma che il suo terreno è stato integrato d’ufficio dal consiglio comunale nella convenzione di lottizzazione.
10. Il 27 ottobre 1992, l’amministrazione comunale di Bari chiese alla società ricorrente se desiderava sottoscrivere una convenzione di lottizzazione per costruire sul terreno. In caso di risposta negativa, l’amministrazione avrebbe proceduto all’espropriazione del terreno ai sensi della legge n. 6 del 1979 della regione Puglia.
11. Il 28 ottobre 1992 la società ricorrente avvisò l’amministrazione comunale di Bari che desiderava aderire a una convenzione di lottizzazione. L’amministrazione non rispose.
12. Il 19 ottobre 1995, l’amministrazione comunale di Bari rilasciò il permesso di costruire alla società Sud Fondi S.r.l.
13. Il 14 febbraio 1996, la società Sud Fondi S.r.l. iniziò i lavori di costruzione che furono terminati per la maggior parte prima del 17 marzo 1997.

2)  Il procedimento penale contro gli amministratori della società Sud Fondi S.r.l.

14. Il 27 aprile 1996, a seguito della pubblicazione di un articolo di stampa relativo ai lavori di costruzione effettuati vicino al mare a Punta Perotti, il procuratore della Repubblica di Bari avviò un’indagine penale.
15. Il 17 marzo 1997, lo stesso procuratore ordinò il sequestro conservativo di tutti gli edifici. Peraltro, iscrisse nel registro degli indagati i nomi, tra gli altri, del procuratore della società Sud Fondi S.r.l. e dei direttori e responsabili dei lavori edilizi. Nella sua ordinanza, riteneva che la località chiamata Punta Perotti fosse un sito naturale protetto e che, di conseguenza, la costruzione del complesso fosse illegale.
16. I rappresentanti della società Sud Fondi S.r.l. impugnarono il provvedimento di sequestro conservativo dinanzi alla Corte di cassazione. Con decisione del 17 novembre 1997, la suprema Corte annullò questa misura e ordinò la restituzione di tutti gli edifici ai proprietari, in quanto il sito non era soggetto ad alcun divieto di costruzione per effetto del piano regolatore.
17. Con sentenza del 10 febbraio 1999, il tribunale di Bari riconobbe che gli edifici costruiti a Punta Perotti erano abusivi in quanto non conformi alla legge n. 431 dell’8 agosto 1985 («la legge 431/1985»), che vietava il rilascio dei permessi di costruire per i siti di interesse naturalistico, comprese le zone costiere. Tuttavia, considerando che in questo caso l’amministrazione locale aveva rilasciato le licenze edilizie e che era difficile conciliare la legge n. 431/1985 con la legislazione regionale, che presentava delle lacune, ritenne che agli imputati non potesse essere attribuita alcuna colpa né intento delittuoso. Di conseguenza, prosciolse tutti gli imputati perché il fatto non costituiva reato.
18. In questa stessa sentenza, ritenendo che i progetti di lottizzazione fossero materialmente contrari alla legge n. 47/1985 e di natura illegale, il tribunale di Bari ordinò, ai sensi dell’articolo 19 di questa legge, la confisca di tutti i terreni lottizzati a Punta Perotti, compreso quello della società ricorrente, nonché degli edifici realizzati sul sito, e l’acquisizione gratuita al patrimonio del Comune di Bari.
19. Con decreto del 30 giugno 1999, il Ministro dei beni culturali dichiarò l’inedificabilità dell’area costiera del comune di Bari, area che comprendeva il sito di Punta Perotti, in quanto zona di grande interesse naturalistico. Questa misura fu annullata dal tribunale amministrativo regionale l’anno successivo.
20. Il procuratore della Repubblica interpose appello avverso la sentenza del tribunale di Bari, chiedendo la condanna degli imputati.
21. Con sentenza del 5 giugno 2000 la corte d’appello di Bari riformò la sentenza di primo grado ritenendo che il rilascio delle licenze edilizie fosse legittimo, in considerazione dell’assenza di un divieto di costruire a Punta Perotti e dell’apparente mancanza di illegittimità del procedimento per l’adozione e l’approvazione delle convenzioni di lottizzazione.
22. Di conseguenza, la corte d’appello prosciolse gli imputati perché il fatto non sussisteva e revocò la confisca di tutti gli edifici e i terreni. Il 27 ottobre 2000 il procuratore della Repubblica presentò ricorso per cassazione.
23. Con sentenza del 29 gennaio 2001, la Corte di cassazione annullò senza rinvio la decisione della corte d’appello riconoscendo l’illegittimità materiale dei progetti di lottizzazione in quanto i terreni in questione erano sottoposti a inedificabilità assoluta e ad un vincolo paesaggistico imposti dalla legge. A questo riguardo rilevò che, al momento dell’adozione dei progetti di lottizzazione (il 20 marzo 1990), la legge regionale n. 30/1990 sulla tutela paesaggistica non era ancora in vigore e ne dedusse che le disposizioni applicabili nel caso di specie erano quelle della legge regionale n. 56 del 1980 (sulla pianificazione urbanistica) e della legge nazionale n. 431/1985 (sulla tutela del paesaggio).
24. La Corte di cassazione rilevò tuttavia che la legge n. 56/1980 imponeva un divieto di costruire ai sensi dell’articolo 51 F), al quale le circostanze del caso di specie non consentivano di derogare in quanto i progetti di lottizzazione riguardavano dei terreni non situati nell’agglomerato urbano. La Corte di cassazione aggiunse che, al momento dell’adozione delle convenzioni di lottizzazione, i terreni in questione erano inclusi in un piano di attuazione del piano regolatore generale che era successivo all’entrata in vigore della legge regionale n. 56/1980.
25. La Corte di cassazione rilevò che nel marzo 1990 (paragrafo 23 supra), al momento dell’approvazione dei progetti di lottizzazione, non era in vigore alcun programma di attuazione. A tale riguardo, fece riferimento alla sua giurisprudenza secondo la quale un piano di attuazione doveva essere in vigore alla data di approvazione dei progetti di lottizzazione (Corte di cassazione, Sezione 3, 21.1.97, Volpe; 9.6.97, Varvara; 24.3.98, Lucifero), poiché – sempre secondo la giurisprudenza – alla scadenza di un piano di attuazione il divieto di costruire su cui il programma aveva posto fine dispiegava nuovamente i suoi effetti. Di conseguenza, era necessario mantenere l’esistenza del divieto di costruire sui terreni in causa al momento dell’approvazione dei progetti di lottizzazione.
26. La Corte di cassazione considerò anche l’esistenza di un vincolo paesaggistico ai sensi dell’articolo 1 della legge nazionale n. 431/1985. Nel caso di specie, mancava il parere di conformità alla tutela paesaggistica da parte delle autorità competenti, ossia mancava il nulla osta rilasciato dalle autorità nazionali attestante la conformità ai requisiti di tutela del paesaggio – ai sensi dell’articolo 28 della legge n. 150/1942 – nonché il parere preliminare delle autorità regionali previsto dagli articoli 21 e 27 della legge n. 150/1942 e il parere del comitato urbanistico regionale previsto dagli articoli 21 e 27 della legge regionale n. 56/1980.
27. Infine, la Corte di cassazione rilevò che i progetti di lottizzazione rappresentavano soltanto 41.885 metri quadrati, mentre, secondo le disposizioni tecniche del piano regolatore generale del comune di Bari, la superficie minima era fissata in 50.000 metri quadrati.
28. Alla luce di queste considerazioni, la Corte di cassazione riconobbe quindi l’illegittimità dei progetti di lottizzazione e dei permessi edilizi rilasciati, e assolse gli imputati sostenendo che non potevano essere accusati di alcuna colpa o intenzione di commettere gli atti delittuosi e che avevano commesso un «errore invincibile e scusabile» nell’interpretazione di disposizioni regionali «oscure e mal formulate», che interferivano con la legge nazionale. La Corte di cassazione tenne anche conto del comportamento delle autorità amministrative, e in particolare dei seguenti fatti: al momento del rilascio dei permessi edilizi, gli imputati erano stati rassicurati dal dirigente dell’ufficio comunale competente; i divieti riguardanti la tutela dei siti con i quali il progetto di costruzione era in conflitto non erano inclusi nel piano regolatore; e l’amministrazione nazionale competente non era intervenuta. Infine, la Corte di cassazione dichiarò che, in assenza di un’indagine sulle ragioni dei comportamenti tenuti dagli enti pubblici, non era lecito formulare ipotesi al riguardo.
29. Nella stessa sentenza, la Corte di cassazione ordinò la confisca di tutti gli edifici e i terreni in quanto, conformemente alla sua giurisprudenza, era obbligatorio applicare l’articolo 19 della legge n. 47/1985 in caso di lottizzazione abusiva, anche in assenza di condanna penale dei costruttori.
30. La sentenza fu depositata in cancelleria il 26 marzo 2001.
31. Nel frattempo, il 1° febbraio 2001, la società ricorrente aveva nuovamente chiesto all’amministrazione di Bari di poter concludere una convenzione di lottizzazione.
32. Il 15 febbraio 2001 l’amministrazione di Bari informò la società ricorrente che, in seguito alla sentenza della Corte di cassazione del 29 gennaio 2001, la proprietà dei terreni situati a Punta Perotti, compresi quelli appartenenti alla società ricorrente, era stata trasferita al comune.
33. Il procedimento penale sopra descritto è stato oggetto di un altro ricorso presentato dinanzi alla Corte (Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia, n. 75909/01, 20 gennaio 2009).

3) Le azioni intraprese dalla società ricorrente per ottenere la restituzione del terreno

34. Il 3 maggio 2001 la società ricorrente si rivolse alla corte d’appello di Bari e sollecitò la restituzione del suo terreno. Essa sostenne che, secondo una giurisprudenza della Corte di cassazione, la confisca di beni appartenenti ad un terzo non parte nel procedimento penale poteva essere disposta solo se quest’ultimo aveva partecipato, materialmente o moralmente, alla commissione del reato.
35. Con ordinanza del 27 luglio 2001, la corte d’appello accolse la domanda della società ricorrente.
36. Il procuratore della Repubblica presentò ricorso per cassazione.
37. Con sentenza del 9 aprile 2002, la Corte di cassazione annullò l’ordinanza della corte d’appello di Bari e dispose il trasferimento della causa al tribunale di Bari.
38. La società ricorrente sollevò un incidente di esecuzione, sollecitando la restituzione del suo terreno.
39. Con ordinanza depositata in cancelleria il 18 marzo 2004, il giudice per le indagini preliminari («il GIP») di Bari respinse la richiesta della società ricorrente. Innanzitutto osservò che le doglianze dell’interessata non riguardavano né l’esistenza né la regolarità formale della misura controversa e affermò che quest’ultima costituiva una sanzione amministrativa obbligatoria che il giudice penale poteva applicare anche nei confronti dei beni di terzi che non avevano partecipano alla commissione del reato di lottizzazione abusiva. Il giudice per le indagini preliminari ritenne che l’esigenza pubblica di salvaguardia del territorio dovesse prevalere sugli interessi particolari.
40. La società ricorrente presentò ricorso per cassazione facendo presente che sul suo terreno non erano state realizzate opere che non fossero state oggetto di un permesso di costruire. Ora, per sua stessa natura, secondo l’interessata la confisca doveva riguardare solo i terreni in cui erano state realizzate delle costruzioni abusive.
41. Con sentenza del 22 giugno 2005, depositata in cancelleria il 18 gennaio 2006, la Corte di cassazione, ritenendo che il GIP di Bari avesse motivato in modo logico e corretto tutti i punti controversi, respinse il ricorso della società ricorrente. La suprema Corte rilevò che la confisca del terreno era conforme alla sua costante giurisprudenza secondo la quale la misura di cui all’articolo 19 della legge n. 47 del 1985 era una sanzione amministrativa obbligatoria, applicata dal giudice penale in ragione del contrasto tra lo status di un bene e la legge sulle lottizzazioni abusive, e questo anche in caso di proscioglimento degli imputati. La Corte di cassazione precisò che il proprietario del terreno che non era parte nel procedimento penale e che sosteneva la sua buona fede poteva far valere i suoi diritti dinanzi ai giudici civili.

4) Gli ultimi sviluppi

42. Secondo le informazioni fornite dalle parti, nell’ottobre 2012 il Comune di Bari, tenuto conto dei principi enunciati e delle violazioni constatate dalla Corte nelle sentenze Sud Fondi S.r.l. e altri (merito e equa soddisfazione, n. 75909/01 del 10 maggio 2012), chiese al tribunale di Bari di ordinare la restituzione del terreno confiscato alla società ricorrente. Il 12 marzo 2013, il GIP del tribunale di Bari revocò la confisca e ordinò la restituzione del terreno in quanto, da un lato, la Corte aveva concluso che vi era stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione nella causa Sud Fondi S.r.l. e altri e che, dall’altro, la società era da considerarsi come un terzo in buona fede in quanto nessuno dei suoi amministratori era responsabile di lottizzazione abusiva. La decisione del GIP fu inscritta nei registri immobiliari il 14 giugno 2013 e la società ricorrente poté recuperare il suo bene il 2 dicembre 2013.
43. Il 7 aprile 2005 la società ricorrente si era rivolta al tribunale di Bari al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa del comportamento del Comune di Bari e delle sue conseguenze sul suo patrimonio. Essa lamentava che il comune aveva 1) omesso di adottare un’alternativa al piano regolatore, 2) omesso di specificare l’esistenza di vincoli relativi alla destinazione urbanistica delle aree interessate dalla lottizzazione contestata, e 3) approvato procedure relative alla lottizzazione che erano apparentemente legittime, ma avevano portato alla confisca del terreno e le avevano causato un significativo danno economico.
Secondo le informazioni fornite dalle parti, il procedimento è pendente in attesa della perizia per la valutazione dei danni – che secondo la società ricorrente ammontano a 52 milioni di euro.

B. Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l.

1) Il progetto di lottizzazione

44. La società ricorrente R.I.T.A. Sarda S.r.l. era proprietaria di un terreno edificabile di una superficie di circa 33 ettari a Golfo Aranci.
45. Secondo il programma comunale di fabbricazione di Golfo Aranci approvato il 21 dicembre 1981, il terreno in questione apparteneva alla zona F – classificata come zona turistica – ed era edificabile per un determinato volume. Era possibile realizzare volumi maggiori nel caso di strutture alberghiere o para-alberghiere.
46. Desiderosa di realizzare una residenza produttiva alberghiera, la società R.I.T.A. Sarda S.r.l. presentò un piano di lottizzazione alle autorità competenti.
47. Il 27 marzo 1991, ai sensi dell’articolo 13 della legge regionale n. 45 del 1989, la Regione Sardegna diede il nulla osta per la costruzione di edifici ad una distanza minima di 150 metri dal mare, a condizione che, una volta costruiti, gli edifici fossero effettivamente utilizzati a fini turistici e alberghieri. Questo obbligo doveva figurare nel registro immobiliare.
48. Il 29 novembre 1991, la Regione Sardegna accordò alla società R.I.T.A. Sarda S.r.l. l’autorizzazione paesaggistica ai sensi della legge n. 431/1985 e dell’articolo 7 della legge n. 1497/1939 (paragrafi 93-96 infra).
49. Il comune di Golfo Aranci approvò definitivamente il progetto di lottizzazione il 17 dicembre 1991.
50. Il 22 aprile 1992 il comune di Golfo Aranci, previa autorizzazione della regione, autorizzò il sindaco a concedere una licenza edilizia in deroga che consentisse di realizzare un volume di opere edilizie superiore a quello previsto dal piano regolatore, al fine di realizzare delle opere alberghiere ricettive. Dal fascicolo risulta che il progetto di lottizzazione riguardava 330.026 metri quadrati.
51. Il 17 luglio 1992, la Regione Sardegna diede la sua autorizzazione definitiva al progetto.
52. Nel frattempo, il 22 giugno 1992 entrò in vigore la legge regionale n. 11/1992 che eliminava la possibilità di derogare al divieto di costruire vicino al mare e fissava la distanza minima di due chilometri per le abitazioni e di 500 metri per gli hotel. Per quanto riguardava le opere alberghiere ricettive, come i complessi residenziali turistico-alberghieri in questione, esse erano ormai assimilate alle abitazioni. Sempre secondo la stessa legge, la distanza minima di due chilometri doveva quindi essere rispettata, salvo nei casi in cui, prima del 17 novembre 1989, la convenzione di lottizzazione era già conclusa e i lavori di urbanizzazione erano già iniziati.
53. Il 17 luglio 1992 la Regione Sardegna autorizzò il sindaco a concedere alla società R.I.T.A. Sarda S.r.l. un permesso di costruire in deroga al piano regolatore comunale.
54. Il 13 agosto 1992 il sindaco di Golfo Aranci e la società R.I.T.A. Sarda S.r.l. stipularono una convenzione di lottizzazione. Ai sensi dell’articolo 10 di quest’ultima, gli edifici costruiti dovevano rimanere adibiti ad un uso turistico-alberghiero e non potevano essere venduti singolarmente per venti anni. La convenzione stabiliva che il piano di lottizzazione era conforme all’articolo 13 della legge regionale n. 45/1989 e alle altre norme urbanistiche e attestava che la società ricorrente aveva versato una garanzia pari al costo totale dei lavori di urbanizzazione. Quest’ultimi sarebbero stati a carico della società ricorrente, che avrebbe anche dovuto trasferire al comune, a titolo gratuito, il 30 % della superficie del terreno per la costruzione delle opere di urbanizzazione primaria.
55. Il 31 agosto 1992 il comune di Golfo Aranci rilasciò il permesso di costruire per le opere di urbanizzazione primaria. Il 23 novembre 1992 il comune rilasciò il permesso di costruire per gli edifici.
56. Il 19 febbraio 1993, a seguito dell’entrata in vigore, il 22 giugno 1992 (paragrafo 52 supra), della legge regionale n. 11/1992, recante modifica della legge regionale n. 45/1989, la regione ha revocato alcune autorizzazioni concesse sulla base della legislazione precedente. La società ricorrente non era interessata.
57. I lavori iniziarono nel 1993. Nel 1997 erano stati edificati ottantotto alloggi, ossia meno di un terzo di quelli da costruire. Alcuni di essi erano stati venduti a privati, con una clausola che precisava che il bene doveva rimanere per anni destinato ad un uso turistico-alberghiero.
58. Il 28 gennaio 1995 la società R.I.T.A. Sarda S.r.l., alla ricerca di nuovi partner per ottimizzare il progetto e ripartire i rischi, chiede al comune se la vendita dei fabbricati a terzi fosse compatibile con la convenzione di lottizzazione. Il 14 febbraio 1995 il comune ritenne che la convenzione fosse redatta in modo sufficientemente chiaro e che, pertanto, non fosse necessario fornire precisazioni. Il comune espresse parere favorevole sulla possibilità di vendere gli immobili, ad eccezione della vendita singola e a condizione che la destinazione degli immobili rimanesse invariata.
59. L’11 marzo 1996 il comune, sollecitato nuovamente dalla società ricorrente, confermò il parere espresso il 14 febbraio 1995.
60. In una data non precisata la società R.I.T.A. Sarda S.r.l. stipulò un contratto preliminare di compravendita con la società Hotel Promotion Bureau S.r.l. avente ad oggetto parte dei terreni inclusi nella convenzione di lottizzazione e alcuni fabbricati edificati nel frattempo. Inoltre, il 15 gennaio 1996, la Hotel Promotion Bureau. S.r.l. concluse un contratto di appalto con la R.I.T.A. Sarda S.r.l. in base al quale quest’ultima si impegnava ad eseguire dei lavori di costruzione sui terreni oggetto del contratto preliminare di compravendita.
61. Il 26 febbraio 1997, prevedendo di divenire proprietaria dei terreni e degli immobili, la Hotel Promotion Bureau S.r.l. concluse anche degli accordi con un’agenzia di viaggi per affittare settimanalmente gli alloggi.
62. Il 22 ottobre 1997 la società R.I.T.A. Sarda S.r.l. vendette alla Hotel Promotion Bureau S.r.l. 36.859 metri quadrati di terreno e i fabbricati classificati «C2», ossia sedici alloggi destinati a un uso turistico-residenziale. Oltre agli immobili, la R.I.T.A. Sarda S.r.l. trasferì alla Hotel Promotion Bureau S.r.l. i diritti di costruire. Il prezzo di questa operazione fu fissato in 7.200.000.000 ITL, pari a 3.718.489,67 EUR.
63. Nel novembre 1997 la società R.I.T.A. Sarda S.r.l. era proprietaria di sedici alloggi e dei terreni interessati dal progetto di lottizzazione, al netto della particella n. 644 e di quelli che erano stati venduti alla Hotel Promotion Bureau S.r.l. Quest’ultima era proprietaria dei terreni acquistati e di sedici alloggi.
64. Il 26 marzo 1998 il Comune approvò la voltura del permesso di costruire riguardante i terreni e gli immobili acquistati dalla Hotel Promotion Bureau S.r.l.
65. Il 3 aprile 2006, a seguito della richiesta di un certificato urbanistico presentata dalla società R.I.T.A. Sarda S.r.l. relativo ai beni contestati per il periodo 1990-1997, il Comune precisò che la convenzione di lottizzazione stipulata con la R.I.T.A. Sarda S.r.l. e le autorizzazioni concesse erano compatibili con le norme urbanistiche in vigore all’epoca e, in particolare, con la legge regionale n. 45/1989; di conseguenza, il Comune ritenne che il reato di lottizzazione abusiva non si configurasse nel caso di specie.

2) Il procedimento penale

66. Nel 1997 il procuratore della Repubblica di Olbia avviò un’indagine penale nei confronti di M.C. e L.C., rappresentanti legali delle società ricorrenti. Costoro erano sospettati di vari reati, in particolare di lottizzazione abusiva ai sensi dell’articolo 20 della legge n. 47/1985, per aver costruito troppo vicino al mare e senza permesso di costruire, e di truffa dal momento che avevano cambiato la destinazione degli immobili in violazione della convenzione di lottizzazione.
67. Il 20 novembre 1997 i terreni e gli edifici costruiti furono sottoposti a sequestro conservativo.
68. Con ordinanza del 17 gennaio 2000, il tribunale di Sassari restituì i terreni e i fabbricati agli aventi diritto.
69. Con sentenza del 31 marzo 2003, il tribunale di Olbia assolse nel merito M.C. e L.C. da tutti i reati di cui erano stati accusati, salvo quello di lottizzazione abusiva, che fu dichiarato prescritto.
70. In considerazione dell’entrata in vigore della legge regionale n. 11/1992 (paragrafo 52 supra) e della nuova distanza minima dal mare introdotta da questo testo, il tribunale ritenne che il comune di Golfo Aranci non avrebbe mai dovuto rilasciare le licenze edilizie e che le autorizzazioni rilasciate in precedenza non potevano legittimare una situazione di questo tipo. A suo parere, le licenze edilizie erano contrarie alla legge o, quanto meno, inefficaci. Il tribunale precisò che le costruzioni contestate, pur essendo state realizzate in conformità alle autorizzazioni rilasciate dal Comune, contrastavano con i divieti previsti dalla legge e costituivano una lottizzazione abusiva. Aggiunse che la vendita degli alloggi ai privati sollevava dubbi circa l’uso turistico-alberghiero e che tale cambio di destinazione confermava il carattere abusivo dei lavori effettuati. In conclusione, dispose la confisca dei beni precedentemente sequestrati e il trasferimento della proprietà al comune di Golfo Aranci ai sensi dell’articolo 19 della legge n. 47/1985.
71. Per quanto riguarda in particolare l’accusa di truffa, il tribunale ritenne che il reato non fosse costituito: per lui, il Comune non aveva subito alcun pregiudizio economico in quanto i costi delle opere di urbanizzazione erano rimasti invariati anche riguardo al cambio di destinazione. Inoltre, ritenne che l’esistenza dell’elemento soggettivo, ossia l’intenzione di truffare il comune, non fosse stata dimostrata, dato che la vendita mirava ad alleggerire le difficoltà economiche della società R.I.T.A. Sarda S.r.l. Peraltro, il tribunale rammentò che il comune aveva dato alla società un parere favorevole sulla vendita degli immobili.
72. Con sentenza dell’11 ottobre 2004, la corte d’appello di Cagliari confermò la decisione di non doversi procedere fondata dal tribunale di Olbia sulla prescrizione, e ribadì che il Comune di Golfo Aranci non avrebbe dovuto rilasciare le licenze edilizie, che erano illegittime e comunque prive di efficacia. La corte d’appello dichiarò che le opere realizzate erano de facto incompatibili con la legge regionale che le vietava. Osservò, inoltre, che tra il mese di marzo 1995 e quello di novembre 1997 la maggior parte degli alloggi costruiti erano stati venduti, fatto che aveva cambiato la destinazione d’uso. Per quanto riguarda l’accusa di truffa, confermò il proscioglimento dei rappresentanti legali delle società ricorrenti riprendendo gli stessi motivi adottati dal tribunale su questo punto, e confermò l’ordinanza di confisca.
73. M. C. e L. C. proposero ricorso per cassazione. Con sentenza del 15 febbraio 2007, la Corte di cassazione respinse il loro ricorso.

3) Gli ultimi sviluppi

74. Secondo le informazioni fornite dal Governo, alla data del 29 luglio 2015 i singoli acquirenti degli immobili confiscati ne avevano ancora la piena disponibilità. In precedenza, il 21 maggio 2015, con delibera del consiglio comunale di Golfo Aranci era stato riconosciuto l’interesse reale della collettività a mantenere il complesso edilizio confiscato, facendo riferimento, tra l’altro, alla possibilità di utilizzare gli alloggi per situazioni di emergenza nel caso in cui le autorità locali decidessero di concedere direttamente o indirettamente l’uso dei beni a titolo oneroso a persone a basso reddito.

C. Falgest S.r.l. e sig. Gironda

1)  Il progetto di lottizzazione

75. La Società Falgest S.r.l. e il sig. Filippo Gironda erano comproprietari in parti uguali di un appezzamento di terreno di 11.870 metri quadrati situato a Testa di Cane e a Fiumarella di Pellaro (Reggio Calabria). Il piano di occupazione del suolo prevedeva per questo terreno la possibilità di costruire unicamente complessi residenziali ad uso turistico e alberghiero.
76. Il 12 ottobre 1994 i ricorrenti chiesero un permesso per costruire un complesso residenziale turistico composto da quarantadue case, dotato di impianti sportivi.
77. Il 15 settembre 1997 il comune di Reggio Calabria rilasciò il permesso di costruire.
78. A seguito di un accertamento, il comune constatò una difformità rispetto al progetto. Il 26 gennaio 1998 ordinò la sospensione dei lavori.
79. Il 29 gennaio 1998, i ricorrenti presentarono una variante in corso d’opera – che prevedeva un numero inferiore di case (quaranta invece di quarantadue) e restringeva la zona di costruzione. Questa variante doveva consentire di regolarizzare il progetto adeguandolo alle disposizioni della legge n. 47/1985.
80. Il 10 febbraio 1998 il Sindaco di Reggio Calabria annullò l’ordine di sospensione dei lavori in quanto le difformità riscontrate rispetto al progetto di costruzione potevano essere regolarizzate con la variante presentata in fase di costruzione ai sensi dell’articolo 15 della legge n. 47/1985.
81. Il 1° ottobre 1998 un perito nominato dal comune di Reggio Calabria constatò la conformità dei lavori alla variante presentata. I lavori proseguirono.

2) Il procedimento penale

82. Nel 2002 il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria avviò un’indagine nei confronti del sig. Gironda, in qualità di comproprietario del bene, e di altre cinque persone, ossia un amministratore della società, due firmatari del progetto immobiliare e due direttori dei lavori, tutti sospettati di vari reati, in particolare di lottizzazione abusiva ai sensi dell’articolo 20 della legge n. 47/1985.
83. Con sentenza del 22 gennaio 2007, il tribunale di Reggio Calabria assolse gli imputati da tutti i reati perché il fatto non sussisteva, ad eccezione del reato di lottizzazione abusiva, per il quale pronunciò un non luogo a procedere per prescrizione. Osservò che il progetto riguardava la costruzione di case per uso turistico-alberghiero. Ora, a suo parere, le caratteristiche strutturali ed alcuni elementi di prova lasciavano pensare che la vera finalità del progetto fosse la vendita di case ai privati, fatto che metteva in dubbio l’uso turistico-alberghiero del complesso. Il tribunale ritenne che il cambio di destinazione rendesse abusiva la lottizzazione. In conclusione, ordinò la confisca dei terreni e delle opere realizzate e il trasferimento della proprietà di tali beni al comune di Reggio Calabria ai sensi dell’articolo 19 della legge n. 47/1985.
84. Con sentenza del 28 aprile 2009 la corte d’appello di Reggio Calabria assolse i ricorrenti da tutti i reati perché il fatto non sussisteva, compreso quello di lottizzazione abusiva. Annullò il provvedimento di confisca e ordinò la restituzione dei beni ai proprietari.
85. In particolare, la corte d’appello ritenne che il progetto approvato fosse compatibile con il piano d’occupazione e con le disposizioni urbanistiche. In assenza di contratto o di compromesso di compravendita, giudicò che non vi era alcuna prova del cambio di destinazione delle opere realizzate e ne dedusse che la lottizzazione non era abusiva.
86. Con sentenza del 22 aprile 2010, depositata in cancelleria il 27 settembre 2010, la Corte di cassazione annullò senza rinvio la sentenza della corte d’appello, ritenendo che il cambio di destinazione degli immobili costruiti fosse provato da dichiarazioni rese da terzi e da alcuni documenti inseriti nel fascicolo. Per la suprema Corte si trattava quindi di una lottizzazione abusiva realizzata dagli imputati (reato che era prescritto, il che comportava un non luogo a procedere). Conseguentemente, i beni in contestazione furono nuovamente interessati dalla decisione di confisca emessa in primo grado dal tribunale di Reggio Calabria. Il proscioglimento degli imputati fu confermato.

3) Lo stato attuale dei beni confiscati

87. Secondo una perizia del 5 maggio 2015, redatta da un perito nominato dai ricorrenti, il complesso sequestrato agli interessati si trova in uno stato avanzato di abbandono e di incuria in quanto il Comune, proprietario dei luoghi, non ha effettuato, secondo i ricorrenti, alcuna attività di manutenzione degli spazi.

II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

A. Principi generali di diritto penale

88. L’articolo 27, comma 1, della Costituzione italiana prevede che «la responsabilità penale è personale». La Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che non vi può essere responsabilità oggettiva in materia penale (si veda, fra altre, la sentenza n. 1 emessa dalla Corte costituzionale il 10 gennaio 1997). L’articolo 27, comma 3, della Costituzione prevede che «le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato».
89. L’articolo 25 della Costituzione, commi secondo e terzo, dispone che «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso» e che «nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge».
90. Ai sensi dell’articolo 1 del codice penale, «nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite». L’articolo 199 del codice penale, che riguarda le misure di sicurezza, stabilisce che nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti.
91. Secondo l’articolo 42, comma 1, del codice penale, «nessuno può essere punito per una azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà». La stessa norma è prevista dall’articolo 3 della legge n. 689 del 25 novembre 1989 per quanto riguarda gli illeciti amministrativi.
92. L’articolo 5 del codice penale prevede che «nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale». La Corte costituzionale (nella sentenza n. 364/1988) ha stabilito che questo principio non si applicava quando si trattava di un errore invincibile, per cui ora l’articolo deve essere letto come segue: « nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale se non in caso di errore invincibile». Ha indicato come possibili cause del carattere oggettivamente invincibile dell’errore sulla legge penale la «assoluta oscurità del testo legislativo», le «assicurazioni erronee» di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare, o un «gravemente caotico» atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari.

B. Le disposizioni urbanistiche

93. La tutela dei luoghi che possono essere considerati bellezze naturali è disciplinata dalla legge n. 1497 del 29 giugno 1939, che consente allo Stato di imporre un vincolo paesaggistico ai siti da proteggere.
94. Con decreto del Presidente della Repubblica del 24 luglio 1977 n. 616, lo Stato ha delegato alle regioni le funzioni amministrative di tutela dei siti naturali di pregio.

1. La legge n. 431 dell’8 agosto 1985 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale)

95. L’articolo 1 di questa legge sottopone a vincoli paesaggistici e ambientali ai sensi della legge n. 1497/1939, tra l’altro, i territori costieri situati a meno di 300 metri dalla battigia, anche per i terreni elevati sul mare. Ne deriva l’obbligo di richiedere alle autorità competenti un parere di conformità alla tutela del paesaggio per ogni progetto che modifichi lo stato di questi luoghi. I suddetti vincoli non si applicano ai terreni che rientrano nelle «zone urbane A e B», ossia i centri urbani e le zone limitrofe. Per i terreni inclusi in altre zone, i suddetti vincoli non si applicano ai terreni compresi in un piano di attuazione.
96. Con questa legge, il legislatore ha assoggettato tutto il territorio italiano a una protezione generalizzata. Colui che non rispetta i vincoli previsti dall’articolo 1 si espone, in particolare, alle sanzioni in materia urbanistica previste dall’articolo 20 della legge n. 47/1985 (paragrafo 104 infra).

2. La legge n. 10 del 27 gennaio 1977 (Norme in materia di edificabilità dei suoli)

97. L’articolo 13 di questa legge prevede che l’attuazione degli strumenti urbanistici generali avviene sulla base di programmi di attuazione che delimitano le zone nelle quali debbono realizzarsi le previsioni di detti strumenti e le relative urbanizzazioni.
98. Spetta alle regioni decidere il contenuto ed il procedimento di formazione dei programmi pluriennali di attuazione, e di individuare i comuni esonerati dall’obbligo di adottare questi piani.
99. Nei comuni obbligati ad adottare questo tipo di piani, le concessioni edilizie possono essere rilasciate dal sindaco se riguardano beni situati all’interno di una zona compresa nel programma di attuazione (salvo eccezioni previste dalla legge) e se il progetto è conforme al piano regolatore generale.
100. Ai sensi dell’articolo 9, i comuni esonerati dall’obbligo di adottare un piano di attuazione possono rilasciare le concessioni edilizie.

3. La legge n. 56 della Regione Puglia del 31 maggio 1980

101. L’articolo 51, comma f), di questa legge è così formulato:
« (…)Fino all’entrata in vigore dei piani territoriali (…)
f) È vietata qualsiasi opera di edificazione entro la fascia di 300 metri dal confine del demanio marittimo, o dal ciglio più elevato sul mare.
Per gli strumenti urbanistici vigenti o adottati alla data di entrata in vigore della presente legge, è consentita la edificazione solo nelle zone omogenee A, B, e C dei centri abitati e negli insediamenti turistici; è altresì consentita la realizzazione di opere pubbliche ed il completamento degli insediamenti industriali ed artigianali in atto alla data di entrata in vigore della presente legge, secondo le previsioni degli strumenti urbanistici stessi.»

4. La legge n. 47 del 28 febbraio 1985 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia. Sanzioni amministrative e penali, recupero e sanatoria delle opere edilizie)

102. Ai sensi dell’articolo 18 di questa legge, nella versione vigente all’epoca dei fatti:
«Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica (…) dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione (…); nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, (…)denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio. (…)».
103. L’articolo 19 di questa legge prevede la confisca delle opere abusive o dei terreni abusivamente lottizzati, quando i giudici penali hanno accertato con sentenza definitiva che vi è stata lottizzazione abusiva. La sentenza penale è immediatamente trascritta nei registri immobiliari.
104. Ai sensi dell’articolo 20, in caso di lottizzazione abusiva come definita dall’articolo 18 della stessa legge, le sanzioni penali sono l’arresto fino a due anni e l’ammenda fino a 100 milioni di lire italiane (circa 51.646 EUR). Non viene menzionata la confisca.

5. Testo unico in materia edilizia (Decreto del presidente della Repubblica n. 380 del 6 giugno 2001)

105. Il decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 6 giugno 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) ha codificato le norme esistenti, soprattutto in materia di licenze edilizie.
106. L’articolo 30, comma 1, del testo unico, che riprende senza modificarlo l’articolo 18, comma 1, della legge n. 47/1985 recita
«Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica (…) dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione (…); nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, (…) denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.»
107. Secondo l’articolo 30, commi 7 e 8, del testo unico, che riprende senza modificarlo l’articolo 18, commi 7 e 8, della legge n. 47/1985, in caso di lottizzazione di terreni senza autorizzazione del comune, quest’ultimo sospende, con ordinanza, le attività di lottizzazione riguardanti i terreni in questione. L’autorità vieta, inoltre, che i terreni e le opere costruite possano essere oggetto di transazione. L’ordinanza di sospensione deve essere registrata nei registri immobiliari. Se non viene revocata entro i 90 giorni successivi, i terreni lottizzati sono acquisiti a titolo gratuito al patrimonio del comune nel cui territorio è stata realizzata la lottizzazione. In seguito, il comune deve prevedere la demolizione delle costruzioni. In caso di inerzia del comune, la regione può adottare le misure che ritiene necessarie e, al tempo stesso, deve informarne il procuratore in vista di un’eventuale esercizio dell’azione penale.
108. Al momento della codifica, gli articoli 19 e 20 della legge n. 47/1985 sono stati riuniti senza modifica in un’unica disposizione, ossia l’articolo 44 del testo unico, così intitolato: «Art. 44 (L) – Sanzioni penali (…).» L’articolo 44, comma 2, del testo unico riprende l’articolo 19 della legge n. 47/1985, come modificato dall’articolo 3 del decreto-legge n. 146 del 23 aprile 1985, convertito nella legge n. 298 del 21 giugno 1985. L’articolo 44 dispone che:
«2. La sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite. Per effetto della confisca i terreni sono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del comune nel cui territorio è avvenuta la lottizzazione. La sentenza definitiva è titolo per la immediata trascrizione nei registri immobiliari.»

C. Il reato di lottizzazione abusiva

1. Le forme del reato

109. Secondo la definizione contenuta nell’articolo 18, comma 1, della legge n. 47/1985 nonché nell’articolo 30, comma 1, del testo unico, la lottizzazione abusiva può presentarsi sotto quattro forme:

  • Lottizzazione abusiva «materiale»;
  • Lottizzazione abusiva «negoziale»;
  • Lottizzazione abusiva «cosiddetta mista»;
  • Lottizzazione abusiva mediante mutamento della destinazione d’uso di edifici.

a. Lottizzazione abusiva «materiale»

110. Questo illecito rinvia a un progetto di sviluppo urbano che comprende la costruzione di edifici o di infrastrutture, o che può conferire a un determinato territorio un assetto diverso rispetto a quello previsto dalle norme urbanistiche. Secondo la tipologia delle norme violate, si distinguono due forme diverse di lottizzazione abusiva in questa categoria:

  1. la lottizzazione abusiva «materiale» formale, quando la trasformazione urbanistica è sprovvista di autorizzazione o in contrasto con l’autorizzazione accordata.
  2. La lottizzazione abusiva «materiale» sostanziale, quando la trasformazione urbanistica è stata autorizzata dall’amministrazione (il comune e, eventualmente, la regione), ma questa autorizzazione non è legittima in quanto non conforme ai documenti urbanistici, alla legislazione regionale o alle leggi nazionali.

111. Fino alla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 5115 del 2002 (causa Salvini e altri) la nozione di lottizzazione abusiva materiale sostanziale era contestata. Secondo una giurisprudenza della Corte di cassazione, il reato di lottizzazione abusiva non si configurava nel caso di autorizzazione rilasciata dalle autorità competenti (Cass., 1988, causa Brunotti, e Cass., sentenza n. 6094, 1991, causa Ligresti e altri). L’assetto del territorio era inquadrato da una serie di atti amministrativi che, a partire dal piano regolatore più generale, portavano all’adozione dell’atto che poteva regolare il caso in esame. Il giudice penale non si poteva rifiutare di applicare l’atto amministrativo di autorizzazione, salvo che questo atto non fosse considerato inesistente o invalido (Cass., causa Ligresti e altri, sopra citata). Non appena la lottizzazione abusiva violava la competenza dell’amministrazione in materia di pianificazione del territorio, la contravvenzione si configurava quando era creata una nuova zona urbanizzata, al di fuori di ogni controllo preventivo del comune (Cass., 1980, causa Peta, e Cass., causa Brunotti, sopra citata). In conclusione, secondo questa giurisprudenza, la lottizzazione era abusiva solo quando non era autorizzata, ma non nell’ipotesi in cui, pur essendo autorizzata, l’attività non era considerata conforme ad altre norme urbanistiche.
112. Nella sentenza n. 5115 del 2002, le Sezioni Unite hanno preso in esame una nuova giurisprudenza, ormai consolidata, secondo la quale la contravvenzione si configura non solo nel caso in cui le opere sono in corso di realizzazione senza essere state oggetto di una autorizzazione o in violazione delle modalità fissate nell’autorizzazione, ma anche nel caso di autorizzazione non conforme ad altre norme urbanistiche, in particolare regionali o nazionali (reato di lottizzazione materiale «sostanziale»). Secondo questa giurisprudenza, la lottizzazione abusiva «materiale formale» deve essere considerata come un’ipotesi residuale rispetto alla lottizzazione abusiva «giuridica».

b. Lottizzazione abusiva «giuridica»

113. La contravvenzione si configura anche quando la trasformazione urbanistica è realizzata attraverso il frazionamento e la vendita (o con atti equivalenti) del terreno in lotti che, per loro natura, dimostrano incontestabilmente la destinazione reale, diversa da quella prevista dal regolamento urbanistico. In questa ipotesi, la trasformazione urbanistica non è causata da un’attività materiale (la costruzione delle opere), ma è esclusivamente giuridica (Cass., 2009, causa Quarta). Se agli atti giuridici si aggiunge un’attività di costruzione, non si è più nell’ipotesi di lottizzazione «giuridica» ma nell’ipotesi di lottizzazione abusiva mista (Cass., sentenza n. 618, 2012). La lottizzazione giuridica è una contravvenzione che implica una pluralità di autori, quanto meno il venditore e l’acquirente dei lotti.

c. Lottizzazione abusiva mista

114. Questa forma di lottizzazione abusiva si riferisce ad un’attività giuridica di frazionamento di un terreno in lotti e all’attività edilizia che ne consegue (Cass., sentenza n. 6080, 2008, causa Casile, Cass., sentenza n. 45732, 2012, causa Farabegoli, e Cass., sentenza n. 3454, 2013, causa Martino).

d. Lottizzazione abusiva mediante mutamento della destinazione d’uso di edifici

115. Infine, la giurisprudenza ha inserito nel concetto di lottizzazione abusiva l’ipotesi del cambio di destinazione delle opere realizzate in un’area il cui piano di lottizzazione era stato precedentemente approvato. Il mutamento può essere realizzato, ad esempio, con il frazionamento di un complesso immobiliare a vocazione turistico-alberghiera sotto forma di vendita separata di immobili a privati per uso residenziale. Questo cambio di destinazione deve essere tale da modificare l’assetto del territorio. Tale forma di lottizzazione può rientrare nella categoria delle lottizzazioni materiali o giuridiche a seconda che si ponga l’accento sull’esistenza di costruzioni (elemento materiale) o sul modo in cui viene effettuata la trasformazione urbanistica, cioè con un atto giuridico (si veda, in tal senso, Cass., sentenza n. 20569, 2015). Benché questa forma di lottizzazione non implichi un’attività edilizia non autorizzata, la giurisprudenza ritiene che essa rientri nelle ipotesi previste dall’articolo 30 del testo unico, in quanto la vendita separata degli immobili comporta necessariamente il frazionamento dei terreni (Cass., causa Farabegoli, sopra citata).

2. Gli interessi giuridici lesi dal reato di lottizzazione abusiva

116. Secondo la Corte di cassazione, con la previsione del reato contravvenzionale di lottizzazione abusiva, il legislatore intendeva tutelare due interessi distinti: da un lato, voleva assicurare che la trasformazione del territorio avvenisse sotto il controllo dell’amministrazione responsabile della pianificazione dell’assetto territoriale (in particolare considerando come illecito penale la lottizzazione abusiva materiale formale e la lottizzazione abusiva giuridica) (Cass., causa Salvini e altri, sopra citata, Cass., sentenza n. 4424, 2005, e Consiglio di Stato, sentenza n. 5843, 2003), evitando così il rischio di lavori di urbanizzazione imprevisti o diversi da quelli originariamente previsti (Cass., sentenza n. 27289, 2012, causa Dotta); d’altra parte, il suo scopo era quello di garantire la conformità alle norme urbanistiche della trasformazione del territorio (è il caso delle lottizzazioni autorizzate ma contrarie ad altre leggi, cioè i casi di lottizzazione materiale sostanziale – Cass., causa Salvini e altri, sopra citata, Cass., sentenza n. 4424 sopra citata, e Consiglio di Stato n. 5843, sopra citata).
117. La Corte di cassazione ha espressamente stabilito che la contravvenzione di lottizzazione abusiva costituiva un reato di pericolo. In particolare, in una causa in cui ha stabilito un parallelo con il reato di costruzione abusiva di un immobile, ha parlato di pericolo astratto, cioè di presunzione inconfutabile di pericolo, in base alla quale l’autore del reato è punito indipendentemente dall’esistenza di un pericolo concreto (Cass., sentenza n. 20243, 2009, causa De Filippis).

D. La confisca come sanzione della lottizzazione abusiva

1. La natura della confisca

118. La Corte di cassazione ha sempre riconosciuto la confisca come «sanzione». Inizialmente, l’aveva classificata nella categoria delle sanzioni penali. Di conseguenza, la confisca poteva essere applicata solo ai beni dell’imputato riconosciuto colpevole del reato di lottizzazione abusiva, ai sensi dell’articolo 240 del codice penale (Cass., causa Brunotti sopra citata, Cass., S.U., 1990, causa Cancilleri, e Cass., causa Ligresti sopra citata).
119. Con sentenza del 12 novembre 1990, la Corte di cassazione (causa Licastro) ha stabilito che la confisca è una sanzione amministrativa obbligatoria, indipendente dalla condanna penale. Secondo la suprema Corte, questa sanzione poteva quindi essere pronunciata nei confronti di terzi dal momento che all’origine della confisca vi era una situazione (ad esempio, una costruzione o una lottizzazione) che era materialmente abusiva, indipendentemente dall’esistenza dell’elemento soggettivo. Di conseguenza, la confisca può essere disposta quando l’autore è assolto perché il fatto non costituisce reato, ma non può essere disposta se l’autore è assolto perché il fatto non sussiste.
120. Questa giurisprudenza è stata ampiamente seguita (Cass., 1995, causa Besana, Cass., sentenza n. 331, 15 maggio 1997, causa Sucato, Cass., sentenza n. 3900, 23 dicembre 1997, causa Farano, Cass., sentenza n. 777, 6 maggio 1999, causa Iacoangeli, e Cass., 25 giugno 1999, causa Negro). Con la ordinanza n. 187 emessa nel 1998, la Corte costituzionale ha riconosciuto la natura amministrativa della confisca.
121. Nonostante l’approccio adottato dalla Corte nella decisione Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia del 2007 (Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia (dec), n. 75909/01, 30 agosto 2007), confermata dalle sentenze Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia (merito, sopra citata) nel 2009 e Varvara c. Italia (n. 17475/09, 29 ottobre 2013), la Corte di cassazione e la Corte costituzionale hanno ribadito la tesi secondo la quale la confisca contestata è una sanzione di natura amministrativa (Cass.., Sentenza n. 42741, 2008, Cass. S.U., sentenza n. 4880, 2015, e Corte costituzionale, sentenza n. 49, 2015). Tuttavia, entrambe hanno riconosciuto che il giudice penale doveva adottare tale misura nel rispetto delle norme di tutela previste dagli articoli 6 e 7 della Convenzione (si veda, ad esempio, Cass., Ord., sentenza n. 24877, 2014). La Corte di cassazione ha esplicitamente confermato il carattere afflittivo della confisca (Cass., sentenza n. 39078 del 2009, e Cass., sentenza n. 5857 del 2011). Nella sentenza n. 21125 del 2007, ha affermato che la funzione principale della confisca era quella di deterrente.
122. Pertanto, l’applicazione della sanzione è autorizzata anche quando il procedimento penale di lottizzazione abusiva non dia luogo alla condanna «formale» dell’imputato (Cass., sentenza n. 39078 del 2009, e Corte costituzionale, sentenza n. 49 del 2015), a meno che l’imputato sia estraneo alla commissione dei fatti e sia stata accertata la sua buona fede (Cass., sentenza n. 36844 del 2009).

2. Il ruolo del giudice penale nell’applicazione della sanzione

123. La confisca per lottizzazione abusiva può essere disposta da un’autorità amministrativa (il comune o, in mancanza, la regione) o da un giudice penale.
124. La competenza delle autorità giudiziarie penali in materia di confisca è strettamente legata al loro potere di pronunciarsi sulla responsabilità penale delle persone nei casi di lottizzazione abusiva. Di conseguenza, se il reato di lottizzazione abusiva è prescritto prima dell’avvio del procedimento penale, l’autorità giudiziaria che pone fine successivamente al procedimento non può ordinare una misura di confisca: può farlo solo se il termine di prescrizione scade dopo l’avvio del procedimento penale.
125. Nel caso di una lottizzazione abusiva materiale formale o di lottizzazione abusiva giuridica realizzata in assenza o in violazione di un’autorizzazione, dalla giurisprudenza interna emergono due dottrine. Secondo la prima, il giudice penale svolge un ruolo di supplenza (Cass., sentenza n. 42741 del 2008, Cass., sentenza n. 5857 del 2011, e Cass., ordinanza n. 24877 del 2014).
126. Secondo l’altra dottrina, la confisca prevista dall’articolo 44 del testo unico in materia edilizia costituisce l’espressione di un potere sanzionatorio attribuito dalla legge al giudice penale, che non ha carattere sussidiario o sostitutivo, ma che è autonomo rispetto a quello dell’autorità amministrativa. Secondo la Corte di cassazione, occorre considerare definitivamente superata in materia urbanistica la dottrina secondo cui il giudice penale sostituisce l’autorità amministrativa, in quanto la finalità di considerare la lottizzazione abusiva come un illecito penale è quella di assicurare la tutela del territorio (Cass., sentenza n. 37274, 2008, causa Varvara, e Cass., sentenza n. 34881, 2010, causa Franzese)
127. Inoltre, nel caso di lottizzazione abusiva materiale sostanziale, il ruolo del giudice penale consiste non solo nel verificare che non sia realizzata alcuna lottizzazione in mancanza o in violazione di un’autorizzazione, ma anche nello stabilire se la lottizzazione, autorizzata o meno, sia compatibile con altre norme di rango superiore all’atto autorizzativo. Per ordinare la confisca, il giudice penale deve stabilire l’esistenza dell’elemento oggettivo del reato di lottizzazione abusiva, ciò significa che deve accertarsi dell’esistenza di tutti gli elementi costitutivi della condotta criminosa. Ai sensi dell’articolo 18 della legge n. 47 del 1985, la nozione di comportamento illecito non si limita ai comportamenti che si verificano in mancanza di autorizzazione, ma comprende anche quelli che violano le norme urbanistiche e le norme regionali e nazionali (Cass., Salvini e altri, sopra citata). In questo contesto, la Corte di cassazione ha chiarito il rapporto tra l’atto dell’autorità amministrativa che autorizza la lottizzazione e il potere del giudice penale di stabilire se vi sia stata lottizzazione abusiva e ordinare la confisca. Ha precisato che, qualora l’autorizzazione non sia conforme ad altre norme urbanistiche, il giudice penale può condannare l’autore della lottizzazione e pronunciare la confisca senza tuttavia procedere ad alcuna valutazione, da un punto di vista amministrativo, dell’autorizzazione rilasciata. Poiché il giudice penale non ha il diritto di annullare l’autorizzazione, quest’ultima rimane valida (Cass., causa Salvini e altri sopra citata, Cass., causa Varvara sopra citata, e Cass. sentenza n. 36366, 2015, causa Faiola.

3. Gli effetti sulla confisca della regolarizzazione a posteriori della lottizzazione (sanatoria)

128. In caso di lottizzazione abusiva in mancanza o in violazione di un permesso di costruire, l’autorità amministrativa può evitare la pronuncia della confisca da parte del giudice penale solo se sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) la lottizzazione è stata sanata a posteriori dal comune; b) l’atto di sanatoria è legittimo; c) l’autorizzazione ex post facto (o la modifica del piano di assetto territoriale) è rilasciata prima che la condanna penale diventi definitiva. Pertanto, una volta passata in giudicato la condanna, la confisca non può più essere revocata neppure in caso di regolarizzazione a posteriori della lottizzazione da parte dell’autorità amministrativa (Cass., sentenza n. 21125 del 2007, causa Licciardello, Cass., sentenza n. 37274, 2008, causa Varvara, e Cass., causa Franzese, sopra citate).
129. Al contrario, in tutti i casi di lottizzazione abusiva che è stata autorizzata ma viola norme di rango superiore, il che rappresenta, secondo la Corte di cassazione, il caso più frequente (lottizzazione abusiva materiale sostanziale), l’autorità amministrativa non ha alcun potere di sanare. In tali casi il giudice penale agisce in piena autonomia e indipendenza dall’autorità amministrativa (Cass., sentenze nn. 21125 del 2007, 39078 del 2009, 34881 del 2010 e 25883 del 2013).

E. Giurisprudenza costituzionale

130. Nelle sentenze nn. 348 e 349 del 22 ottobre 2007 la Corte costituzionale si è pronunciata sul rango della Convenzione nella gerarchia delle fonti del diritto interno. L’articolo 117 della Costituzione, modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, impone al legislatore di rispettare gli obblighi internazionali. Pertanto, la Corte costituzionale ha ritenuto che la Convenzione fosse una norma di rango intermedio tra il diritto comune e la Costituzione che doveva essere applicata secondo l’interpretazione della Corte.
131. Di conseguenza, secondo la Corte costituzionale, spetta al giudice di merito interpretare la norma interna in modo conforme alla Convenzione e alla giurisprudenza della Corte, ma, quando tale interpretazione si rivela impossibile o il giudice nutre dubbi sulla compatibilità della norma interna con la Convenzione, quest’ultimo è tenuto a sollevare una questione di legittimità costituzionale.
132. Nel gennaio e nel maggio 2014 la Corte costituzionale è stata adita rispettivamente dal tribunale di Teramo e dalla Corte di cassazione per due questioni di legittimità costituzionale relative all’articolo 44, comma 2, del decreto legislativo n. 380/2001, a seguito della sentenza Varvara c. Italia ((merito), n. 17475/09, 29 ottobre 2013).
133. Nella sentenza n. 49 del 26 marzo 2015, la Corte costituzionale ha dichiarato quanto segue:
«6.– Un’ulteriore causa di inammissibilità della questione sollevata dalla Corte di cassazione, e anche di quella sollevata dal Tribunale ordinario di Teramo, deriva dal fatto che entrambe sono basate su un duplice, erroneo presupposto interpretativo.
I giudici rimettenti, pur divergendo in ordine agli effetti che la sentenza Varvara dovrebbe produrre nell’ordinamento giuridico nazionale, sono convinti che con tale pronuncia la Corte EDU abbia enunciato un principio di diritto tanto innovativo, quanto vincolante per il giudice chiamato ad applicarlo, raggiungendo un nuovo approdo ermeneutico nella lettura dell’art. 7 della CEDU.
Il primo fraintendimento imputabile ai giudici a quibus verte sul significato che essi hanno tratto dalla sentenza della Corte di Strasburgo.
Nonostante le questioni siano state sollevate, in conformità ai casi oggetto dei giudizi principali, con specifico riferimento al divieto di adottare una misura riconducibile all’art. 7 CEDU unitamente ad una sentenza che abbia accertato la prescrizione del reato, è chiaro che il principio di diritto selezionato dai rimettenti mostra un respiro ben più ampio. La Corte europea, in definitiva, avrebbe affermato che, una volta qualificata una sanzione ai sensi dell’art. 7 della CEDU, e dunque dopo averla reputata entro questo ambito una “pena”, essa non potrebbe venire inflitta che dal giudice penale, attraverso la sentenza di condanna per un reato. Per effetto di ciò, la confisca urbanistica, che fino ad oggi continuava ad operare sul piano interno a titolo di sanzione amministrativa, irrogabile anzitutto dalla pubblica amministrazione, pur con l’arricchimento delle garanzie offerte dall’art. 7 della CEDU, sarebbe stata integralmente riassorbita nell’area del diritto penale, o, per dirlo in altri termini, alle tutele sostanziali assicurate dall’art. 7 si sarebbe aggiunto un ulteriore presidio formale, costituito dalla riserva di competenza del giudice penale in ordine all’applicazione della misura a titolo di “pena”, e perciò solo unitamente alla pronuncia di condanna.
Ne seguirebbe un corollario: l’illecito amministrativo, che il legislatore distingue con ampia discrezionalità dal reato (ordinanza n. 159 del 1994; in seguito, sentenze n. 273 del 2010, n. 364 del 2004 e n. 317 del 1996; ordinanze n. 212 del 2004 e n. 177 del 2003), appena fosse tale da corrispondere, in forza della CEDU, agli autonomi criteri di qualificazione della “pena”, subirebbe l’attrazione del diritto penale dello Stato aderente. Si sarebbe così operata una saldatura tra il concetto di sanzione penale a livello nazionale e quello a livello europeo. Per effetto di ciò, l’area del diritto penale sarebbe destinata ad allargarsi oltre gli apprezzamenti discrezionali dei legislatori, persino a fronte di sanzioni lievi, ma per altri versi pur sempre costituenti una “pena” ai sensi dell’art. 7 della CEDU (Grande Camera, sentenza 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia).
I rimettenti, nell’enunciazione di una simile premessa, non colgono che essa si mostra di dubbia compatibilità sia con la Costituzione, sia con la stessa CEDU, per come quest’ultima vive attraverso le pronunce della Corte di Strasburgo.
6.1.– (…) Come è noto, la Corte EDU, fin dalle sentenze 8 giugno 1976, Engel contro Paesi Bassi, e 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania, ha elaborato peculiari indici per qualificare una sanzione come una «pena» ai sensi dell’art. 7 della CEDU, proprio per scongiurare che i vasti processi di decriminalizzazione, avviati dagli Stati aderenti fin dagli anni 60 del secolo scorso, potessero avere l’effetto di sottrarre gli illeciti, così depenalizzati, alle garanzie sostanziali assicurate dagli artt. 6 e 7 della CEDU (si veda la sentenza Öztürk sopra citata).
Non è stata perciò posta in discussione la discrezionalità dei legislatori nazionali di arginare l’ipertrofia del diritto penale attraverso il ricorso a strumenti sanzionatori reputati più adeguati, e per la natura della sanzione comminata, e per i profili procedimentali semplificati connessi alla prima sede amministrativa di inflizione della sanzione. Piuttosto, si è inteso evitare che per tale via andasse disperso il fascio delle tutele che aveva storicamente accompagnato lo sviluppo del diritto penale, e alla cui difesa la CEDU è preposta.
In questo doppio binario, ove da un lato scorrono senza opposizione le scelte di politica criminale dello Stato, ma dall’altro ne sono frenati gli effetti di detrimento delle garanzie individuali, si manifesta in modo vivido la natura della CEDU, quale strumento preposto, pur nel rispetto della discrezionalità legislativa degli Stati, a superare i profili di inquadramento formale di una fattispecie, per valorizzare piuttosto la sostanza dei diritti umani che vi sono coinvolti, e salvaguardarne l’effettività.
È infatti principio consolidato che la «pena» può essere applicata anche da un’autorità amministrativa, sia pure a condizione che vi sia facoltà di impugnare la decisione innanzi ad un tribunale che offra le garanzie dell’art. 6 della CEDU, ma che non esercita necessariamente la giurisdizione penale (da ultimo, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia, con riferimento ad una sanzione reputata grave). Si è aggiunto che la “pena” può conseguire alla definizione di un procedimento amministrativo, pur in assenza di una dichiarazione formale di colpevolezza da parte della giurisdizione penale (sentenza 11 gennaio 2007, Mamidakis c. Grecia).
6.2.– (…) Simili espressioni, linguisticamente aperte ad un’interpretazione che non costringa l’accertamento di responsabilità nelle sole forme della condanna penale, ben si accordano sul piano logico con la funzione, propria della Corte EDU, di percepire la lesione del diritto umano nella sua dimensione concreta, quale che sia stata la formula astratta con cui il legislatore nazionale ha qualificato i fatti.
Questa Corte deve concludere che i giudici a quibus non solo non erano tenuti ad estrapolare dalla sentenza Varvara il principio di diritto dal quale muovono gli odierni incidenti di legittimità costituzionale, ma avrebbero dovuto attestarsi su una lettura ad esso contraria. Quest’ultima è infatti compatibile con il testo della decisione e gli estremi della vicenda decisa, più armonica rispetto alla tradizionale logica della giurisprudenza europea, e comunque rispettosa del principio costituzionale di sussidiarietà in materia penale, nonché della discrezionalità legislativa nella politica sanzionatoria degli illeciti, con eventuale opzione per la (interna) natura amministrativa della sanzione.
Le garanzie che l’art. 7 della CEDU offre rispetto alla confisca urbanistica sono certamente imposte, nell’ottica della Corte di Strasburgo, dall’eccedenza che tale misura può produrre rispetto al ripristino della legalità violata (sentenza 20 gennaio 2009, Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia), a propria volta frutto delle modalità con cui l’istituto è configurato nel nostro ordinamento.
Esse però non pongono in ombra che la potestà sanzionatoria amministrativa, alla quale tale misura è affidata prima dell’eventuale intervento del giudice penale, ben si lega con l’interesse pubblico alla «programmazione edificatoria del territorio» (sentenza n. 148 del 1994), alla cui cura è preposta la pubblica amministrazione. Un interesse, vale la pena di aggiungere, che non è affatto estraneo agli orizzonti della CEDU (sentenza 8 novembre 2005, Saliba c. Malta).
Allo stato, e salvo ulteriori sviluppi della giurisprudenza europea (in seguito al deferimento alla Grande Camera di controversie attinenti a confische urbanistiche nazionali, nei ricorsi n. 19029/11, n. 34163/07 e n. 1828/06), deve perciò ritenersi erroneo il convincimento, formulato dai rimettenti come punto di partenza dei dubbi di costituzionalità, che la sentenza Varvara sia univocamente interpretabile nel senso che la confisca urbanistica possa essere disposta solo unitamente ad una sentenza di condanna da parte del giudice per il reato di lottizzazione abusiva.
7.– (…) Non sempre è di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni della CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento, specie a fronte di pronunce destinate a risolvere casi del tutto peculiari, e comunque formatesi con riguardo all’impatto prodotto dalla CEDU su ordinamenti giuridici differenti da quello italiano. Nonostante ciò, vi sono senza dubbio indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.
Quando tutti, o alcuni di questi indizi si manifestano, secondo un giudizio che non può prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU per decidere una peculiare controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto.»

F. La confisca senza condanna nel diritto italiano

134. La confisca è normalmente considerata una misura penale ai sensi dell’articolo 240 del codice penale. In linea di principio, l’applicazione di tale misura, soprattutto per quanto riguarda la confisca prevista dal primo comma di questo articolo, dipende dalla condanna dell’imputato. Nel diritto italiano esistono altre forme di confisca senza condanna, ad esempio la confisca diretta dei proventi di un reato (Cass., sentenza n. 31617, 2015, causa Lucci); la confisca preventiva ai sensi dell’articolo 2, comma 3, della legge 31 maggio 1965, n. 575 e dell’articolo 24 del codice antimafia; la confisca relativa ai reati di contrabbando ai sensi dell’articolo 301 del D.P.R. n. 43/1973, come modificato dall’articolo 11 della legge 413/1991 (Cass., sentenza n. 8330, 2014, causa Antonicelli e altri); la confisca di animali (articolo 4 della legge n. 150 del 1992, Cass., sentenza n. 24815, 2013); o la confisca di opere d’arte e beni culturali (articolo 174, comma 3, del decreto legislativo n. 42 del 2004, Cass., sentenza n. 42458, 2015, Amalgià).

G. Altre disposizioni

135. L’articolo 676 del codice di procedura penale consente, in particolare alle persone non coinvolte in procedimenti penali che abbiano ripercussioni sui loro beni, di chiedere la revoca della confisca secondo le modalità previste dagli articoli 665 e seguenti dello stesso codice.
136. Ai sensi dell’articolo 31, comma 9, del testo unico in materia edilizia, in caso di condanna per il reato di costruzione illecita, il giudice penale ordina la demolizione della sola opera contestata.
137. La legge n. 102 del 3 agosto 2009 di conversione del decreto-legge n. 78 del 2009, introduce nello stesso decreto l’articolo 4, comma 4 ter, che prevede, oltre alla revoca della confisca disposta dal giudice penale, i criteri per il risarcimento del danno subito dalle parti interessate a seguito di una confisca ritenuta contraria alla Convenzione dalla Corte europea dei diritti dell’uomo
138. L’articolo 579, comma 3, del codice di procedura penale prevede che la confisca, che in base al diritto nazionale costituisce una misura di sicurezza, può essere proposta con gli stessi mezzi previsti per i capi penali.

III. IL DIRITTO INTERNAZIONALE PERTINENTE

139. Per combattere più efficacemente la criminalità internazionale, la criminalità organizzata e le altre forme gravi di criminalità sono stati istituiti vari tipi di procedure di confisca. Le disposizioni di diritto internazionale più importanti in materia di confisca sono l’articolo 37 della Convenzione unica sugli stupefacenti del 1961, come modificata dal Protocollo del 1972 a questa convenzione, l’articolo 5 della Convenzione delle Nazioni Unite del 1988 contro il traffico illecito di stupefacenti e di sostanze psicotrope, gli articoli 77 § 2 b), 93 § 1 k) e 109 § 1 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, istituito nel 1998, l’articolo 8 della Convenzione internazionale del 1999 per la repressione del finanziamento del terrorismo, l’articolo 12 della Convenzione delle Nazioni Unite del 2000 contro la criminalità transnazionale, l’articolo 31 della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione e l’articolo 16 della Convenzione dell’Unione africana del 2003 sulla prevenzione e la lotta contro la corruzione.
140. Uno studio di questi strumenti internazionali rivela una generale accettazione del principio della confisca dell’oggetto fisico del reato (objectum sceleris), degli strumenti del reato (instrumentum sceleris) e dei proventi di reato (productum sceleris), nonché di altri beni di valore equivalente («confisca per il valore in causa»), dei proventi che sono stati trasformati o mischiati con altri beni, e dei redditi o di altri vantaggi indiretti derivanti dal provento del reato. Tutte queste misure di confisca sono soggette a condanna penale preventiva. Non possono essere imposte misure di confisca a persone fisiche o giuridiche che non siano parti nel procedimento, salvo a terzi che agiscano in mala fede.
141. La confisca senza condanna rimane relativamente eccezionale nel diritto internazionale. Tra gli strumenti summenzionati, solo l’articolo 54, § 1 c) della Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione raccomanda alle parti, ai fini dell’assistenza reciproca, di prendere in considerazione l’adozione delle misure necessarie per consentire la confisca di beni in mancanza di una condanna penale qualora l’autore del reato non possa essere perseguito «per morte, fuga o assenza o in altri casi appropriati».
142. La Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, aperta alla firma l’8 novembre 1990 a Strasburgo ed entrata in vigore il 1° settembre 1993 («la Convenzione di Strasburgo»), definisce la confisca come «una sanzione o una misura ordinata da un’autorità giudiziaria a seguito di un procedimento per uno o più reati, pena o misura che comporta la privazione definitiva di un bene».
143. Le parti alla Convenzione di Strasburgo si impegnano in particolare a considerare reato il riciclaggio dei proventi del crimine e a confiscare gli strumenti e i proventi o i beni il cui valore corrisponda a tali proventi. La Convenzione di Strasburgo propone motivi specifici per rifiutare di riconoscere le decisioni degli altri paesi firmatari che riguardano la confisca in rem o la confisca senza condanna, ad esempio: «la misura richiesta sarebbe contraria ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico della Parte richiesta», «il reato cui si riferisce la richiesta non sarebbe un reato per il diritto della Parte richiesta», o «la richiesta non si riferisce a una precedente condanna, né a una decisione giudiziaria o a una dichiarazione contenuta in una decisione di questo tipo, dichiarazione secondo la quale sono stati commessi uno o più reati, e che è all’origine della decisione o della richiesta di confisca».
144. Questi obblighi sono stati mantenuti nella Convenzione del Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato e sul finanziamento del terrorismo, aperta alla firma il 16 maggio 2005 a Varsavia ed entrata in vigore il 1° maggio 2008 («la Convenzione di Varsavia»), che doveva sostituire la Convenzione di Strasburgo. La Convenzione di Varsavia è stata ratificata da ventotto paesi, tra cui quindici membri dell’Unione europea (UE).
145. Per quanto riguarda la confisca senza condanna, l’articolo 23 § 5 della Convenzione di Varsavia invita gli Stati a «cooperare quanto più possibile» nell’esecuzione di misure equivalenti alla confisca che non costituiscono sanzioni penali, a condizione che tali misure siano state ordinate da un’autorità giudiziaria sulla base di un reato.
146. Data l’eterogeneità delle legislazioni nazionali, alcune organizzazioni internazionali, quali il Gruppo di azione finanziaria internazionale (GAFI) dell’OCSE, la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo e la Banca mondiale hanno elaborato guide di buone pratiche e raccomandazioni a questo riguardo. La raccomandazione n. 4 del GAFI, intitolata «Norme internazionali contro il riciclaggio di denaro, il finanziamento del terrorismo e della proliferazione», aggiornata nell’ottobre 2016, raccomanda agli Stati di adottare misure che consentano la confisca senza condanna «nella misura in cui tale obbligo sia conforme ai principi del loro diritto interno». La raccomandazione n. 38 invita gli Stati ad assicurarsi di avere il potere di rispondere alle richieste basate su procedure di confisca senza previa condanna e sulle relative misure provvisorie, a meno che ciò non contrasti con i principi fondamentali del loro diritto interno.

IV. DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

147. Nel quadro dell’Unione europea, la decisione quadro 2001/500/GAI del Consiglio del 26 giugno 2001, concernente il riciclaggio di denaro, l’individuazione, il rintracciamento, il congelamento o sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato imponeva in primo luogo agli Stati di non limitare l’applicazione della Convenzione di Strasburgo ai reati punibili con una pena privativa della libertà personale superiore a un anno e di consentire la confisca di beni per un valore corrispondente agli strumenti e ai proventi di reato.
148. La successiva decisione quadro 2005/212/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005 relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato prevedeva la confisca ordinaria, compresa la confisca di beni di valore equivalente, per tutti i reati punibili con una pena privativa della libertà fino ad un anno, nonché la confisca di tutti o parte dei beni detenuti da una persona riconosciuta colpevole di alcuni reati gravi, quando questi ultimi erano stati «commessi nel quadro di un’organizzazione criminale», senza stabilire alcun legame tra i beni che si presume siano di origine criminale e un reato specifico. Quest’ultimo processo è stato denominato «poteri estesi di confisca».
La decisione quadro prevedeva tre diverse serie di requisiti minimi tra i quali gli Stati membri potevano scegliere per esercitare i loro poteri estesi di confisca. Di conseguenza, nel processo di recepimento della decisione quadro, gli Stati membri hanno scelto opzioni diverse all’interno dei loro sistemi che hanno portato a concetti di confisca estesa con contenuti divergenti.
149. La direttiva 2014/42 del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 riguarda il congelamento e la confisca dei beni strumentali e dei proventi di reato nell’Unione europea e, ai sensi del suo articolo 3, si applica ai reati previsti:

  1. dalla convenzione sulla base dell’articolo K.3, paragrafo 2, lettera c), del trattato sull’Unione europea relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea (12) («Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari»);
  2. dalla decisione quadro 2000/383/GAI del Consiglio, del 29 maggio 2000, relativa al rafforzamento della tutela per mezzo di sanzioni penali e altre sanzioni contro la falsificazione di monete in relazione all’introduzione dell’euro (13);
  3. dalla decisione quadro 2001/413/GAI del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativa alla lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti (14);
  4. dalla decisione quadro 2001/500/GAI del Consiglio, del 26 giugno 2001, concernente il riciclaggio di denaro, l’individuazione, il rintracciamento, il congelamento o sequestro e la confisca degli strumenti e dei proventi di reato (15);
  5. dalla decisione quadro 2002/475/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, sulla lotta contro il terrorismo (16);
  6. dalla decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato (17);
  7. dalla decisione quadro 2004/757/GAI del Consiglio, del 25 ottobre 2004, riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti (18);
  8. dalla decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio, del 24 ottobre 2008, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata (19);
  9. dalla direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI (20);
  10. dalla direttiva 2011/93/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, e che sostituisce la decisione quadro 2004/68/GAI del Consiglio (21);
  11. dalla direttiva 2013/40/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 agosto 2013, relativa agli attacchi contro i sistemi di informazione e che sostituisce la decisione quadro 2005/222/GAI del Consiglio (22); nonché da altri strumenti giuridici se questi ultimi prevedono specificamente che la presente direttiva si applichi ai reati in essi armonizzati.

150. L’articolo 4 § 1 della stessa direttiva prevede la confisca totale o parziale degli strumenti e dei proventi o dei beni il cui valore corrisponda a quello di questi strumenti o proventi, in base a una condanna definitiva per un reato di cui all’articolo 3, che può anche essere stata pronunciata nell’ambito di un procedimento in contumacia. L’articolo 4 § 2 contiene una disposizione relativa alla confisca senza condanna:
«Qualora la confisca sulla base del paragrafo 1 non sia possibile, almeno nei casi in cui tale impossibilità risulti da malattia o da fuga dell’indagato o imputato, gli Stati membri adottano le misure necessarie per consentire la confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato laddove sia stato avviato un procedimento penale per un reato che può produrre, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico e detto procedimento avrebbe potuto concludersi con una condanna penale se l’indagato o imputato avesse potuto essere processato.»
151. La direttiva n. 2014/42 ha armonizzato le disposizioni sui poteri estesi di confisca istituendo una norma minima unica. L’articolo 5 di questa direttiva recita:
«Gli Stati membri adottano le misure necessarie per poter procedere alla confisca, totale o parziale, dei beni che appartengono a una persona condannata per un reato suscettibile di produrre, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico, laddove l’autorità giudiziaria, in base alle circostanze del caso, compresi i fatti specifici e gli elementi di prova disponibili, come il fatto che il valore dei beni è sproporzionato rispetto al reddito legittimo della persona condannata, sia convinta che i beni in questione derivino da condotte criminose.»
152. L’articolo 6 della direttiva n. 2014/42 prevede la confisca dei beni di terzi:
«Gli Stati membri adottano le misure necessarie per poter procedere alla confisca di proventi da reato o di altri beni di valore corrispondente a detti proventi che sono stati trasferiti, direttamente o indirettamente, da un indagato o un imputato a terzi, o che sono stati da terzi acquisiti da un indagato o imputato, almeno se tali terzi sapevano o avrebbero dovuto sapere che il trasferimento o l’acquisizione dei beni aveva lo scopo di evitarne la confisca, sulla base di fatti e circostanze concreti, ivi compreso il fatto che il trasferimento o l’acquisto sia stato effettuato a titolo gratuito o contro il pagamento di un importo significativamente inferiore al valore di mercato.»
153. L’articolo 8 di questa direttiva prevede le seguenti garanzie:

  1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie a garantire che, al fine di salvaguardare i propri diritti, le persone colpite dai provvedimenti previsti nella presente direttiva godano del diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale.
  2. Gli Stati membri adottano le misure necessarie a garantire che, dopo la sua esecuzione, il provvedimento di congelamento dei beni sia comunicato quanto prima all’interessato. La comunicazione indica, almeno sommariamente, il motivo o i motivi del provvedimento. Se necessario per evitare di pregiudicare un’indagine penale, le autorità competenti possono ritardare la comunicazione del provvedimento di congelamento dei beni all’interessato.
  3. Il provvedimento di congelamento dei beni resta in vigore solo per il tempo necessario a conservare i beni in vista di un’eventuale successiva confisca.
  4. Gli Stati membri dispongono che vi sia l’effettiva possibilità di contestare il provvedimento di congelamento in sede giurisdizionale da parte delle persone i cui beni ne sono l’oggetto, in conformità delle procedure del diritto nazionale. Tali procedure possono prevedere che il provvedimento iniziale di congelamento emesso da un’autorità competente diversa da un’autorità giudiziaria sia sottoposto alla convalida o al riesame da parte di un’autorità giudiziaria prima di poter essere impugnato dinanzi a un organo giudiziario.
  5. I beni sottoposti a congelamento che non sono successivamente confiscati sono restituiti immediatamente. Le condizioni o le norme procedurali in base alle quali tali beni sono restituiti sono stabilite dal diritto nazionale.
  6. Gli Stati membri adottano le misure necessarie a garantire che ciascun provvedimento di confisca sia motivato e comunicato all’interessato. Gli Stati membri dispongono che vi sia l’effettiva possibilità per il soggetto nei confronti del quale è stata disposta la confisca di impugnare il provvedimento dinanzi a un organo giudiziario.
  7. Fatte salve la direttiva 2012/13/UE e la direttiva 2013/48/UE, le persone i cui beni sono oggetto del provvedimento di confisca hanno diritto a un avvocato durante l’intero procedimento di confisca, al fine di esercitare i propri diritti relativamente all’identificazione dei beni strumentali e dei proventi. Le persone interessate sono informate di tale diritto.
  8. Nei procedimenti di cui all’articolo 5, l’interessato ha l’effettiva possibilità di impugnare le circostanze del caso, compresi i fatti specifici e gli elementi di prova disponibili in base ai quali i beni in questione sono considerati come derivanti da condotte criminose.
  9. I terzi possono far valere un diritto di proprietà o altri diritti patrimoniali, anche nei casi di cui all’articolo 6.
  10. Ove, a seguito di un reato, sussistano diritti di risarcimento delle vittime nei confronti della persona oggetto di un provvedimento di confisca previsto dalla presente direttiva, gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che il provvedimento di confisca non impedisca a tali vittime di far valere i loro diritti.»

IN DIRITTO

I. SULLA RIUNIONE DEI RICORSI

154. La Corte, nell’interesse di una buona amministrazione della giustizia e in applicazione dell’articolo 42 § 1 del suo regolamento, ritiene innanzitutto opportuno riunire i ricorsi, in quanto i fatti all’origine degli stessi e il quadro legislativo sono identici.

II. OSSERVAZIONE PRELIMINARE

155. La Corte precisa, in primo luogo, che i ricorsi in esame riguardano unicamente la questione della compatibilità con la Convenzione della confisca senza condanna, ai sensi dell’articolo 18, comma 1, della legge n. 47/1985, così come integrata nell’articolo 30, comma 1, del Testo unico in materia edilizia (paragrafi 102 e 106 supra).

III. SULLE ECCEZIONI PRELIMINARI DEL GOVERNO

A. Tesi del Governo

156. Il Governo solleva delle eccezioni preliminari relative ai tre ricorsi.

1. G.I.E.M. S.r.l.

157. Riguardo alla prima ricorrente, il Governo sottolinea il fatto di aver informato la Corte, durante il procedimento dinanzi alla camera, che prima di presentare ricorso a Strasburgo, la G.I.E.M. S.r.l. aveva intentato un’azione dinanzi al tribunale di Bari al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa del comportamento del comune di Bari, della confisca e delle conseguenze economiche negative sul patrimonio della società.
Secondo il Governo, l’oggetto di detto procedimento coinciderebbe con le doglianze sollevate nel ricorso. Poiché la società ricorrente ha omesso di informare la Corte di questa circostanza essenziale, il ricorso sarebbe abusivo e quindi irricevibile in applicazione dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione.
158. Inoltre, dato che il procedimento in questione era pendente in attesa del deposito della perizia avente ad oggetto la valutazione dei danni presumibilmente subiti dall’interessata, il ricorso sarebbe, ad ogni modo, prematuro (articolo 35 § 1).
159. Il Governo rammenta, peraltro, che il terreno è già stato restituito alla società ricorrente nel dicembre 2013. Infine, lo stesso precisa, al riguardo, che l’articolo 4ter della legge n. 102 del 3 agosto 2009 (paragrafo 137 supra) stabilisce, oltre alla revoca della confisca disposta dal giudice penale, anche i criteri di indennizzo dei danni subiti dalle parti interessate a seguito di una confisca «non giustificata ai sensi della Convenzione». Ma la società ricorrente non avrebbe intentato un’azione risarcitoria e non si sarebbe, quindi, avvalsa di tale ricorso effettivo.

2. Falgest S.r.l. e sig. Gironda

160. Per quanto riguarda la società Falgest S.r.l., il Governo eccepisce il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in quanto, come dimostrato dal successo che ha coronato l’azione della G.I.E.M. S.r.l., la società ricorrente avrebbe potuto e dovuto sollevare, in applicazione dell’articolo 676 del codice di procedura penale (paragrafo 135 supra), un incidente di esecuzione (articolo 665 del codice di procedura penale) e chiedere al giudice dell’esecuzione il ripristino del suo diritto di proprietà sui beni confiscati.
L’articolo 676 suddetto permetterebbe alle persone non coinvolte in procedimenti penali aventi delle ripercussioni sui loro beni, di chiedere la revoca della confisca. L’efficacia di tale ricorso sarebbe provata, tra l’altro, dal fatto che, tra il materiale messo a disposizione dei candidati a un concorso per avvocati indetto nel 2012 da una scuola di formazione per avvocati di Roma, vi sarebbe un modulo per redigere un ricorso in opposizione alla confisca per lottizzazione abusiva basata sui principi stabiliti nella sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri (merito, sopra citata). Secondo il Governo, in detto modulo è spiegato che il ricorso può essere utilizzato anche dai terzi che hanno subito gli effetti negativi della misura.
161. Sempre riguardo alla Falgest S.r.l., il Governo osserva, peraltro, che la società ricorrente non ha chiesto la restituzione del terreno confiscato, ma solo un indennizzo. A suo parere, la stessa avrebbe dovuto avviare dinanzi ai giudici italiani «un’azione contro lo Stato per il risarcimento della perdita economica subita a causa della confisca che riteneva illegittima».
162. Il Governo aggiunge, inoltre, che la società ricorrente avrebbe altresì potuto utilizzare la via di ricorso prevista dall’articolo 579, comma 3, del codice di proceduta penale (paragrafi 138 supra) che prevede che l’imputato che è stato prosciolto può impugnare la sentenza solo sulla confisca al fine di ottenere una nuova valutazione sul merito.
163. Il Governo insiste, infine, sull’eccezione relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne che ha già sollevato nei confronti della G.I.E.M. S.r.l., facendo presente che la società ricorrente non si è avvalsa del ricorso previsto dall’articolo 4ter della legge n. 102 del 3 agosto 2009 (si vedano i paragrafi 137 e 159 supra).
164. In conclusione, lo stesso ritiene che il ricorso sia irricevibile per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, in applicazione dell’articolo 35 § 1 della Convenzione.

3. Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l.

165. Infine, per quanto riguarda le società Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l., il Governo reitera le argomentazioni relative alla necessità di sollevare un incidente di esecuzione (paragrafo 160 supra).

B. Tesi delle società ricorrenti

1. G.I.E.M. S.r.l.

166. Pur ammettendo che la loro cliente aveva intentato una causa civile prima di adire la Corte, i difensori della società G.I.E.M. S.r.l. sostengono che il ricorso non è né abusivo né prematuro.
167. Gli stessi sostengono che i fatti riportati nel ricorso non sono errati e che non vi è alcun tentativo di indurre la Corte in errore. Il procedimento nazionale riguarderebbe il riconoscimento della responsabilità extracontrattuale del comune di Bari per i danni derivanti dai provvedimenti adottati dal predetto, mentre le doglianze sollevate dinanzi alla Corte riguarderebbero, invece, l’illegittimità della privazione di proprietà a causa dell’applicazione di una sanzione di natura penale non prevedibile. Inoltre, il procedimento pendente dinanzi al tribunale di Bari non avrebbe ancora portato a una decisione definitiva che consenta di giungere a una soluzione della controversia.
168. Riguardo alla possibilità di avvalersi dell’articolo 4ter della legge n. 102 del 3 agosto 2009, i difensori della società G.I.E.M. S.r.l denunciano l’inefficacia della via di ricorso, la quale stabilirebbe i criteri di valutazione degli immobili da restituire a seguito di una sentenza della Corte che accerti che la confisca è stata adottata in violazione della Convenzione. Gli stessi precisano che, nel caso della loro cliente, il terreno confiscato è già stato restituito nel 2013 e che, tenuto conto dell’assenza di opere costruite sul bene, non vi sarebbe alcuna possibilità di ottenere un qualsiasi risarcimento.
169. Secondo loro, il Governo avrebbe dovuto, a seguito delle due sentenze Sud Fondi S.r.l. e altri (sopra citate), proporre alla loro cliente una somma a titolo di risarcimento per tutti i danni subiti, invece di continuare a contestare la fondatezza del ricorso.

2. Falgest S.r.l.

170. I difensori della società Falgest S.r.l., ritengono che l’incidente di esecuzione permetta di sollevare unicamente delle questioni connesse con l’esistenza, l’esecuzione, la portata e la legittimità sostanziale e formale del titolo esecutivo, il che esclude che il giudice dell’esecuzione sia competente a procedere a una nuova valutazione dei fatti. I predetti concludono che, anche se la società ricorrente avesse utilizzato tale ricorso, non avrebbe ottenuto la restituzione dei beni confiscati, e rammentano che i giudici di merito avevano già constatato l’esistenza degli elementi soggettivi e oggettivi del reato di lottizzazione abusiva e la sanzione inflitta alla società è stata disposta secondo una costante giurisprudenza di legittimità, Non potendo fornire un risarcimento adeguato, l’incidente di esecuzione non costituirebbe, pertanto, una via di ricorso effettiva ai sensi dell’articolo 35 § 1 della Convenzione.

3. Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l.

171. Quanto alle società Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l., le stesse contestano in sostanza l’effettività dell’incidente di esecuzione.

C. Valutazione della Corte

1. G.I.E.M. S.r.l.

a) Sul carattere abusivo del ricorso

172. La Corte rammenta che, in virtù dell’articolo 35 § 3 a), un ricorso può essere dichiarato abusivo in particolare se si basa deliberatamente su fatti insussistenti (Gross c. Svizzera [GC], n. 67810/10, § 28, CEDU 2014).
173. La Corte constata che la società ricorrente ha ammesso di avere adito gli organi giudiziari civili e di non averla informata quando ha presentato il ricorso a Strasburgo. Considerata la spiegazione fornita dalla G.I.E.M. S.r.l., ossia che il procedimento civile interno pendente e quello dinanzi alla Corte hanno finalità diverse, la Corte si trova nell’impossibilità di accettare la tesi del Governo.
174. L’omissione in questione non può essere considerata come un tentativo di nascondere alla Corte informazioni essenziali o comunque pertinenti ai fini della decisione. Infatti, il tribunale di Bari è chiamato a riparare i danni eventuali risultanti dal comportamento del comune di Bari, che avrebbe indotto la società ricorrente in errore per quanto riguarda l’edificabilità dei terreni mentre le leggi urbanistiche vietavano qualsiasi attività edificatoria (paragrafo 42 supra). Invece, il ricorso presentato a Strasburgo tende ad ottenere una constatazione di violazione degli articoli 7 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 1 in ragione di una confisca che la società ricorrente considera priva di base legale.
175. In conclusione, non avendo rilevato alcuna intenzione fraudolenta da parte della società ricorrente, la Corte respinge l’eccezione relativa al carattere abusivo del ricorso.
b) Sull’esaurimento delle vie di ricorso interne
176. La Corte rammenta che la norma relativa all’esaurimento delle vie di ricorso interne mira a fornire agli Stati contraenti la possibilità di prevenire o di porre rimedio alle violazioni denunciate nei loro confronti prima che tali denunce siano sottoposte alla sua attenzione (si veda, tra molte altre, Paksas c. Lituania [GC], n. 34932/04, § 75, CEDU 2011 (estratti)). All’epoca dei fatti, la G.I.E.M. S.r.l. ha fornito agli organi giudiziari nazionali la possibilità di esaminare tali doglianze e di porre rimedio alle violazioni dedotte. La Corte osserva, tuttavia, che la causa civile intentata dalla società ricorrente il 7 aprile 2005 (paragrafo 43 supra) perseguiva una finalità diversa da quella prevista con il ricorso proposto davanti ad essa.
177. Per quanto riguarda la via di ricorso prevista dalla legge n. 102/2009, l’eccezione del Governo non può essere accolta poiché la restituzione del terreno alla società ricorrente è avvenuta non a seguito di una sentenza della Corte che ha constatato la violazione dei diritti dell’interessata (paragrafo 137 supra), bensì al termine di un procedimento proposto dal comune di Bari nell’ottobre 2012 (paragrafo 42 supra). Pertanto, la Corte respinge l’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne da parte della società G.I.E.M. S.r.l.

2. Falgest S.r.l.

178. Quanto alla società Falgest S.r.l., la Corte, per quel che riguarda la legge n. 102/2009, rinvia ai motivi e alle conclusioni contenute nel paragrafo 177 supra.
179. Quanto alla via di ricorso offerta, secondo il Governo, dall’articolo 579, comma 3, del codice di procedura penale (paragrafi 138 e 162 supra), la Corte si limita ad osservare che tale ricorso è esperibile dal convenuto che abbia beneficiato di un non luogo a procedere, e dà la possibilità allo stesso di contestare la sentenza specificamente in caso di confisca disposta come misura di sicurezza. Di conseguenza, non si può contestare alla società ricorrente di non aver esperito tale ricorso, in quanto la confisca in questione non costituisce una misura di sicurezza.
180. Per quanto riguarda il ricorso previsto dall’articolo 676 del codice di procedura penale (paragrafi 135 e 160 supra), detto ricorso era privo di effettività prima della sentenza nella causa Sud Fondi S.r.l. e altri (merito, sopra citata). Infatti, il 31 maggio 2001, molto prima della sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri, la G.I.E.M. S.r.l. si era avvalsa di tale ricorso e la Corte di cassazione lo aveva respinto nel giugno 2005, in quanto la confisca poteva essere applicata anche ai beni appartenenti a terzi in buona fede (paragrafi 34-41 supra). Il Governo non ha dimostrato, sulla base della giurisprudenza, che tale ricorso è stato applicato dopo la sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri ad una situazione in cui, come nel caso di specie, il reato è prescritto.
181. Certamente, nel secondo procedimento di esecuzione relativo alla causa G.I.EM. S.r.l., in data 12 marzo 2013, il giudice dell’esecuzione adito dal comune di Bari nell’ottobre 2012, ha revocato la confisca in ragione del fatto, da una parte, che la Corte aveva concluso per la violazione dell’articolo 7 della Convenzione nella causa Sud Fondi S.r.l. e altri (merito, sopra citata) e, dall’altra, che la società era stata considerata come terzo in buona fede poiché nessuno dei suoi amministratori era stato riconosciuto responsabile di lottizzazione abusiva (paragrafo 42 supra).
Questo non è il caso della società Falgest S.r.l. La decisione del giudice dell’esecuzione del 12 marzo 2013 sopra menzionata riguardava la necessità di provare l’esistenza dell’elemento soggettivo del reato di lottizzazione abusiva, mentre, nella causa Falgest S.r.l., le autorità giudiziarie hanno constatato che il reato era configurato (paragrafo 82-86 supra). Se gli amministratori della società ricorrente non sono stati condannati, è in ragione della prescrizione dei reati. Il ricorso menzionato dal Governo non permetteva quindi di porre rimedio alle violazioni dedotte dalla società ricorrente.
182. Quanto all’argomentazione del Governo secondo la quale i ricorrenti avrebbero dovuto intentare una causa civile contro lo Stato al fine di ottenere una riparazione per la confisca (paragrafo 161 supra), la Corte rammenta che, in considerazione dell’articolo 35 § 1 della Convenzione, nulla obbliga ad avvalersi di ricorsi che non siano né adeguati né effettivi. Per essere ritenuto effettivo, un ricorso deve poter porre rimedio direttamente alla situazione denunciata e presentare ragionevoli prospettive di successo (Vučković e altri c. Serbia (eccezione preliminare) [GC], nn. 17153/11 e 29 altri, §§ 73-74, 25 marzo 2014). Nel caso di specie, considerato il fatto che al momento della presentazione del ricorso la confisca era ritenuta lecita, la Corte ha difficoltà a comprendere in che modo il ricorso menzionato dal Governo avrebbe potuto rivelarsi effettivo.
183. In conclusione, la Corte respinge le eccezioni sollevate dal Governo nei confronti della società Falgest S.r.l.

3. Hotel Promotion Bureau S.r.l e R.I.TA. Sarda S.r.l.

184. Riguardo a questo ricorso, la Corte si limita a rinviare alla conclusione a cui è giunta nei paragrafi 180-181 supra, relativamente alla stessa eccezione sollevata dal Governo per il ricorso presentato dalla società Falgest S.r.l. e dal sig. Gironda.
185. Alla luce di quanto sopra esposto, la Corte conclude che è opportuno respingere l’eccezione preliminare del Governo.

IV. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 7 DELLA CONVENZIONE

186. Tutti i ricorrenti sostengono che, dal momento che non sono stati condannati, la confisca dei loro beni ha violato l’articolo 7 della Convenzione, che recita:
«1. Nessuno può essere condannato per una azione od omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo la legge nazionale o internazionale. Parimenti non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato.
2. Il presente articolo non vieterà il giudizio o la punizione di una persona colpevole di una azione od omissione che, al momento in cui è stata commessa, era ritenuta crimine secondo i principi generali del diritto riconosciuto dalle nazioni civili.»

A. Sulla ricevibilità

1. Tesi del Governo

187. Il Governo si oppone a tale tesi e sostiene che i tre ricorsi sono incompatibili ratione materiae con le disposizioni della Convenzione. Lo stesso ritiene che il reato di lottizzazione abusiva sia configurato quando vi è modificazione di terreni mediante l’edificazione abusiva di opere o il frazionamento abusivo di terreni realizzato in violazione della normativa vigente, degli strumenti urbanistici, o in assenza dell’autorizzazione amministrativa richiesta.
188. Sottolineando la necessità di tutelare il paesaggio e l’ambiente e predisporre spazi urbani vivibili e ben organizzati, il Governo precisa che al fine di contrastare il fenomeno delle lottizzazioni abusive che spesso ostacola il buon assetto del territorio, lo Stato italiano dispone di «numerosi strumenti legali».
189. Lo stesso rammenta che, ai sensi dell’articolo 30 del testo unico in materia di edilizia (DPR n. 380 del 6 giugno 2001), l’acquisizione di un terreno lottizzato abusivamente è nulla (comma 9), la lottizzazione abusiva di un terreno può essere sospesa dal comune con una misura conservativa (comma 7), e la proprietà della zona lottizzata abusivamente è trasferita al comune competente, al quale spetta di provvedere alla demolizione delle costruzioni edificate abusivamente (comma 8). Lo stesso precisa che, in caso di inerzia da parte del comune, provvede alla demolizione la regione competente.
190. Il Governo aggiunge che ai sensi dell’articolo 44, comma 2, di detto testo unico, quando è stata avviata l’azione penale nei confronti della persona ritenuta responsabile della lottizzazione abusiva, il tribunale, una volta accertata la sussistenza di tale reato, dispone la confisca dell’area in questione. Anche in questo caso la proprietà del terreno confiscato sarebbe trasferita al comune.
191. Il Governo afferma che la pubblica amministrazione dispone quindi la confisca se o fintantoché non siano stati avviati procedimenti penali nei confronti dei responsabili della lottizzazione abusiva. Lo stesso specifica che, una volta iniziato il procedimento, è il tribunale adito che dispone la confisca, sostituendo la sua decisione al provvedimento amministrativo di confisca – che l’autorità amministrativa competente avrebbe dovuto adottare in applicazione dell’articolo 30, comma 8. Il Governo precisa che la confisca produce i suoi effetti indipendentemente dall’autorità che l’ha disposta.
192. Come regola generale, la confisca è disposta dalla pubblica amministrazione. Secondo il Governo, i giudici penali dispongono la confisca solo nei seguenti casi: quando pronunciano una condanna; quando la responsabilità degli imputati è provata, ma è stata emessa una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato; in caso di decesso dell’imputato; a seguito di amnistia.
193. Per il Governo, la legge n. 47/1985 distingueva nettamente tra le pene (arresto fino a due anni e ammenda) che sanzionano la lottizzazione abusiva (articolo 20) e la confisca disposta da un giudice penale (articolo 19). Ora, dopo che il decreto n. 380/2001 ebbe codificato le norme esistenti, in particolare in materia di permessi di costruire, e ripreso senza alcuna modifica gli articoli 19 e 20 della legge n. 47/1985, queste due diverse disposizioni, in ragione di una scelta inopportuna da parte degli estensori di tale strumento, sarebbero state riunite in un’unica disposizione, ossia l’articolo 44 del testo unico in materia di edilizia (paragrafo 108 supra).
194. Il Governo esclude che la confisca dei terreni disposta da un organo giudiziario penale in applicazione dell’articolo 44, comma 2, del testo unico in materia di edilizia sia una «pena» nel diritto italiano o una «pena accessoria», ai sensi dell’articolo 240 del codice penale, osservando che:

  1. la confisca disposta dall’organo giudiziario penale priva il proprietario dei suoi diritti di proprietà, così come la misura amministrativa di cui all’articolo 30 del testo unico in materia di edilizia;
  2. la confisca mira a ripristinare il corretto utilizzo dei terreni;
  3. l’area confiscata è trasferita al comune in cui è situato il terreno (ossia l’ente territoriale incaricato di vigilare sul corretto utilizzo dei terreni), e non allo Stato, come nel caso della confisca disposta in applicazione dell’articolo 240 del codice penale.

195. Il Governo ritiene che per meglio comprendere gli strumenti di tutela paesaggistica esistenti nel sistema giuridico italiano, la Corte debba considerare la differenza tra le disposizioni relative alla costruzione di un’opera in assenza o in violazione di un permesso e le disposizioni relative alla lottizzazione abusiva di un terreno.
196. Il Governo espone che, in applicazione delle prime disposizioni, in caso di sentenza di condanna (articolo 31, comma 9, del testo unico in materia di edilizia, paragrafo 136 supra), il giudice penale ordina la demolizione dell’opera stessa per sanzionare, a titolo accessorio, il reato di costruzione abusiva. Secondo lo stesso, in caso di lottizzazione abusiva, il giudice pronuncia la confisca del terreno a condizione che sia stata accertata la lottizzazione abusiva (articolo 44, comma 2, del testo unico), indipendentemente dalla condanna dell’imputato. L’interesse pubblico per la tutela paesaggistica sarebbe maggiore nel secondo caso, poiché non si trattava di un singolo edificio, bensì di una completa trasformazione del terreno in relazione al suo uso naturale, consistente, per esempio, nella costruzione di un villaggio composto da diverse decine di villette.
197. Secondo il Governo, l’interpretazione data dalla Corte all’articolo 19 della legge n. 47/1985 nella causa Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia (dec.), n. 75909/01, 30 agosto 2007), confermata nella sentenza Varvara sopra citata, non concorda con la normativa relativa alla confisca di terreni nel sistema giuridico italiano.
Il Governo rammenta che la Corte ha deciso che la confisca controversa costituiva una sanzione penale ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione poiché:

  1. era connessa a un illecito penale;
  2. il testo unico in materia di edilizia considerava la confisca controversa come una pena;
  3. la sanzione non era finalizzata alla riparazione pecuniaria di un danno, ma aveva essenzialmente un carattere punitivo al fine di prevenire la reiterazione di violazioni delle condizioni stabilite dalla legge;
  4. la sanzione era particolarmente grave in quanto si estendeva a tutti i terreni compresi nel progetto di lottizzazione;
  5. il carattere sostanzialmente abusivo delle lottizzazioni era stato constatato dagli organi giudiziari penali.

198. Ora, il Governo ritiene errata detta conclusione della Corte. A suo parere non è esatto, in primo luogo, che la confisca sia sempre connessa a un reato poiché, ai sensi dell’articolo 30, comma 8 del testo unico in materia di edilizia, essa può essere disposta dalla pubblica amministrazione prima del passaggio in giudicato di una sentenza di condanna e può, inoltre, essere diretta contro una società alla quale, in virtù del principio societas delinquere non potest, non può essere ascritto alcun reato.
199. Anche il secondo argomento della Corte non sarebbe rilevante in quanto sarebbe illogico concludere che vi sia una differenza di natura – amministrativa o penale – della confisca in funzione dell’autorità amministrativa o giudiziaria che la impone.
200. In terzo luogo, la confisca non avrebbe lo scopo di sanzionare i responsabili della condotta illecita, ma tenderebbe ad eliminare gli effetti della lottizzazione abusiva e tutelare il paesaggio da un uso contrario ai piani regolatori generali. La misura avrebbe quindi come obiettivo la prevenzione.
201. Il Governo aggiunge che il carattere penale della confisca non può dipendere dalla gravità delle conseguenze economiche sul patrimonio del proprietario del terreno confiscato, o dalla superficie del predetto, o dalle dimensioni della costruzione o dalla percentuale di terreno non edificato confiscato. Lo stesso sostiene che la natura della misura debba essere valutata in relazione al regime giuridico stabilito dalla legge, interpretato e applicato dalla giurisprudenza nazionale.
202. Infine, la circostanza che la confisca sia disciplinata dall’articolo 44 del testo unico in materia di edilizia intitolato «Sanzioni penali» non costituisce una prova della sua classificazione tra le pene, ma il frutto di un errore degli estensori del testo legislativo.
203. Secondo il Governo, dopo la decisione sulla ricevibilità della Corte nella causa Sud Fondi S.r.l. e altri (sopra citata), i giudici italiani hanno interpretato il regime giudico della confisca dei terreni alla luce dei principi della Convenzione, così come interpretati dalla Corte, dando un’interpretazione dell’articolo 44, comma 2, del testo unico in materia di edilizia conforme all’articolo 7 della Convenzione.
Tale adeguamento non avrebbe portato a un cambiamento della qualificazione giuridica della misura, ma all’introduzione nel sistema giuridico italiano delle garanzie previste dall’articolo 7 della Convenzione. Di conseguenza, un organo giudiziario penale può disporre la confisca solo una volta accertata la sussistenza dell’elemento oggettivo e quella dell’elemento soggettivo della condotta illecita.
Il Governo conclude, da quanto sopra esposto, che la confisca di terreni disposta ai sensi dell’articolo 44 del testo unico in materia di edilizia non è una «pena» ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione.

2. Tesi dei ricorrenti

a. G.I.E.M. S.r.l.

204. La società ricorrente fa riferimento ai fatti e ai motivi esposti dalla Corte nella sua decisione sulla ricevibilità Sud Fondi S.r.l. e altri (sopra citata), e conclude che la confisca del suo terreno, subita in assenza di qualsiasi attività illegale da parte sua o del suo rappresentante legale, deve essere considerata una pena ai sensi della giurisprudenza di Strasburgo.

b. Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l.

205. Pur ammettendo che, secondo il diritto nazionale e la giurisprudenza consolidata, la confisca per lottizzazione abusiva è considerata una sanzione di natura amministrativa, le società ricorrenti rammentano che, in ogni caso, la Corte ha chiaramente indicato nella sua decisione sulla ricevibilità nella causa Sud Fondi S.r.l. e altri (sopra citata) che la confisca prevista dall’articolo 44, comma 2, del testo unico in materia di edilizia deve essere classificata come una sanzione penale effettiva e deve quindi rispettare i principi fondamentali che disciplinano l’esercizio della competenza penale, ad iniziare dal principio di legalità sancito dall’articolo 7 della Convenzione.
206. Le società ricorrenti ritengono che, nonostante le dichiarazioni degli organi giudiziari italiani nella presente causa, la confisca di terreni «lottizzati abusivamente» non possa essere qualificata come una semplice sanzione amministrativa sottoposta al principio di responsabilità penale personale; essa deve, al contrario, rispettare le norme sostanziali e procedurali che disciplinano l’accertamento di tale responsabilità.
207. Per gli interessati, il carattere «penale» di questo tipo di confisca e, di conseguenza, l’applicabilità dell’articolo 7, confermati dalla Corte nella sua sentenza Varvara (sopra citata), sono evidenti.

c. Falgest S.r.l. e sig. Gironda

208. I ricorrenti sostengono anch’essi che la confisca controversa non possa essere qualificata come una semplice sanzione di natura amministrativa, estranea quindi al principio della responsabilità penale individuale.
209. Gli stessi sottolineano che, nonostante la posizione della Corte al riguardo e nonostante l’obbligo che grava sul giudice nazionale di conformarsi alla giurisprudenza di Strasburgo, la Corte di cassazione italiana ha persistito nel suo orientamento interpretativo, arrivando a dichiarare che la confisca deve essere applicata anche in assenza di condanna per prescrizione quando il giudice ha constatato l’esistenza degli elementi soggettivo e oggettivo del reato di lottizzazione abusiva.

3. Valutazione della Corte

a. Principi generali

210. La Corte rammenta che il concetto di «pena» contenuto nell’articolo 7 ha portata autonoma. Per rendere efficace la tutela garantita da questa norma, la Corte deve rimanere libera di andare al di là delle apparenze e di valutare essa stessa se una particolare misura costituisca in sostanza una «pena» nel senso di tale articolo (Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, § 27, serie A n. 307-A, e Jamil c. Francia, 8 giugno 1995, § 30, serie A n. 317 B).
211. Il testo dell’articolo 7 § 1, seconda frase, indica che il punto di partenza di qualsiasi valutazione relativamente all’esistenza di una «pena» consiste nel determinare se la misura in questione sia stata imposta a seguito di una condanna per un reato. Tuttavia, anche altri elementi possono essere considerati pertinenti in proposito, ossia, la natura e lo scopo della misura in questione, la sua qualificazione nel diritto interno, le procedure connesse alla sua adozione e alla sua esecuzione nonché la sua gravità (Welch, sopra citata, § 28, Jamil, sopra citata, § 31, Kafkaris, sopra citata, § 142, M. c. Germania, n. 19359/04, § 120, CEDU 2009, Del Río Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, § 82, CEDU 2013, e Société Oxygène Plus c. Francia (dec.), n. 76959/11, § 47, 17 maggio 2016).

b. Applicazione dei principi generali al caso di specie

212. Nella causa Sud Fondi S.r.l. e altri (sopra citata, sentenza del 30 agosto 2007 sulla ricevibilità), la Corte ha ritenuto che la confisca per lottizzazione abusiva subita dai ricorrenti dovesse essere vista come una pena ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, nonostante il fatto che nessuna precedente condanna fosse stata emessa nei confronti delle società ricorrenti o dei loro rappresentanti. In quest’interpretazione, la Corte si è basata sul fatto che la confisca controversa era collegata a un «reato» basato su norme giuridiche generiche, che l’illiceità materiale delle lottizzazioni era stata accertata dai giudici penali, che la pena prevista dall’articolo 19 della legge n. 47 del 1985 mirava essenzialmente a punire per impedire il ripetersi dell’inosservanza delle condizioni stabilite dalla legge, che il testo unico del 2001 classificava la confisca per lottizzazione abusiva tra le pene e, infine, che la pena presentava una certa gravità. Nella sua sentenza Varvara (sopra citata, § 51), la Corte ha confermato le sue conclusioni.
213. Il Governo contesta l’applicabilità dell’articolo 7 alla presente causa.
214. Spetta perciò alla Corte cercare di capire se le confische controverse debbano essere viste come delle «pene» ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione. A tal fine, la Corte applicherà i criteri che derivano dai principi generali sopra richiamati.

i) Le confische sono state imposte in seguito a condanne per reati?

215. Per quanto riguarda il fatto di sapere se le confische siano state imposte a seguito di condanne per reati, la Corte rammenta che essa ha generalmente ritenuto che tale elemento costituisse solo uno dei criteri da prendere in considerazione (Saliba c. Malta (dec.), n. 4251/02, 23 novembre 2004, Sud Fondi S.r.l. e altri (decisione sopra citata), M. c. Germania (sopra citata), Berland c. Francia, n. 42875/10, § 42, 3 settembre 2015), senza essere determinante quando si tratta di stabilire il tipo di misura (Valico S.r.l. c. Italia (dec.), n. 70074/01, CEDU 2006-III, e Società Oxygène Plus (decisione sopra citata, § 47). Solo raramente la Corte ha ritenuto questo elemento decisivo per dichiarare l’inapplicabilità dell’articolo 7 (Yildirim c. Italia (dec.), n. 38602/02, CEDU 2003-IV; Bowler International Unit c. Francia, n. 1946/06, § 67, e 23 luglio 2009).
216. Secondo la Corte, subordinare il carattere penale di una misura, nell’ambito della Convenzione, al fatto che l’individuo abbia commesso un atto qualificato come reato dal diritto interno e sia stato condannato per questo reato da un giudice penale si scontrerebbe con l’autonomia del concetto di «pena» (si veda, in tal senso, Valico S.r.l, decisione sopra citata). Infatti, senza un’interpretazione autonoma del concetto di pena, gli Stati sarebbero liberi di infliggere pene senza definirle tali, togliendo in tal modo alle persone le tutele dell’articolo 7 § 1, norma che si vedrebbe così privata di efficacia. Ora, è fondamentale che la Convenzione sia interpretata e applicata in modo da rendere le tutele concrete ed efficaci, e non teoriche ed illusorie, il che riguarda altresì l’articolo 7 (Del Rio Prada, sopra citata, § 88).
217. Di conseguenza, se la condanna inflitta dalle giurisdizioni penali interne può rappresentare un criterio tra gli altri, per decidere se una misura costituisca o meno una «pena» ai sensi dell’articolo 7, la mancanza della condanna non basta di per sé ad escludere l’applicabilità di questa norma.
218. Nella fattispecie, il Governo contesta, contrariamente a quanto da esso sostenuto nella causa Sud Fondi S.r.l. e altri (decisione sopra citata), che le confische siano sempre collegate a un «reato», sostenendo quindi il contrario della Camera nella causa sopra citata, che aveva ritenuto che nonostante «non sia [fosse] stata pronunciata alcuna condanna dai giudici italiani nei confronti delle società ricorrenti e dei loro rappresentanti», la confisca controversa si riallaccia comunque a un reato basato su norme giuridiche generiche.
219. Considerate le circostanze delle fattispecie in questione nella presente causa, e dopo aver valutato le argomentazioni del Governo, la Grande Camera non vede alcun motivo per discostarsi dalla conclusione della Camera nella sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri (sopra citata). In ogni caso, anche ammettendo che sia necessaria una diversa conclusione, per i motivi sopra riportati la Corte ritiene che questo solo criterio non possa escludere il carattere penale della misura. La Corte ha il dovere quindi di esaminare gli altri criteri sopra citati.

ii) La qualifica della confisca nel diritto interno

220. Per quanto riguarda la qualifica della confisca nel diritto interno, la Corte osserva anzitutto che l’articolo 44 del testo unico in materia edilizia, che disciplina la confisca di cui alle cause in questione, si intitola «Sanzioni penali» (paragrafo 108 supra). La Corte inoltre prende atto della tesi del Governo secondo cui questo titolo sarebbe semplicemente il risultato di un errore dei redattori del testo legislativo al momento della codifica delle norme pertinenti in materia. Tuttavia, l’iter legislativo della norma non sorregge tale argomentazione. Inoltre, poiché la legge è stata approvata nel 2001, il legislatore ha avuto la possibilità di correggerla, se lo avesse voluto, per sedici anni.
221. Questo elemento indica che la confisca è proprio una «pena» nel senso dell’articolo 7 (Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia, decisione sopra citata).

iii) La natura e lo scopo della confisca

222. Per quanto riguarda la natura e lo scopo della confisca, la Grande Camera conferma le conclusioni della Camera nelle sentenze sopra citate Sud Fondi S.r.l. e altri (merito) e Varvara, stando alle quali la confisca per lottizzazione abusiva subita dai ricorrenti aveva un carattere e uno scopo punitivi, e quindi può essere considerata una «pena» nel senso dell’articolo 7 della Convenzione. È possibile illustrare tre motivi a fondamento di questa conclusione.
223. In primo luogo, il carattere afflittivo e dissuasivo della misura controversa è stato sottolineato dalla Corte di cassazione italiana (paragrafo 121 supra). Come sottolineato dal Governo (paragrafo 203 supra), le giurisdizioni interne hanno accettato il principio secondo cui in caso di confisca si applicano le tutele dell’articolo 7.
224. In secondo luogo, il Governo ha riconosciuto nelle sue osservazioni che la confisca è compatibile con l’articolo 1 del Protocollo n. 1, soprattutto perché persegue lo scopo di «punire» i responsabili delle trasformazioni illecite dei terreni (si vedano le osservazioni del Governo del 5 giugno 2015, § 119). In altre parole, lo stesso Governo sottolinea la natura punitiva della confisca.
225. In terzo luogo, la Corte rileva che la confisca è una sanzione obbligatoria (paragrafi 41 e 119 supra). La sua imposizione non è soggetta alla prova di un danno effettivo o di un rischio concreto per l’ambiente. La confisca può quindi essere applicata anche in assenza di qualsiasi attività concreta volta a trasformare il territorio, come nelle cause riguardanti la società G.I.E.M. S.r.l. e il sig. Gironda.
226. Per tutti questi motivi, la Corte ritiene che lo scopo della confisca dei beni dei ricorrenti per lottizzazione abusiva fosse punitivo.

iv) La gravità degli effetti della confisca

227. Quanto alla gravità della misura in questione, la Corte rileva che la confisca per lottizzazione abusiva costituisce una sanzione particolarmente onerosa e intrusiva. Entro i limiti del sito interessato, essa si applica non soltanto ai terreni edificati e a quelli per i quali è stato dimostrato che i proprietari avevano l’intenzione di costruire o che vi era stato un cambio nella destinazione d’uso degli immobili, ma anche a tutti gli altri terreni appartenenti al sito. Inoltre, tale misura non dà luogo ad alcun indennizzo (Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia, sentenza sopra citata).

v) Le procedure di adozione e di esecuzione della confisca

228. Per quanto riguarda le procedure di adozione e di esecuzione della confisca, la Corte rileva che tale misura è disposta dal giudice penale. È stato così nel caso dei ricorrenti.
229. Inoltre, la Corte considera poco convincente l’argomentazione secondo cui i giudici penali agirebbero in luogo della pubblica amministrazione.
230. Anzitutto, questa tesi è controversa nel diritto nazionale, almeno nel caso di una lottizzazione abusiva (materiale formale o giuridica) realizzata in assenza o in violazione dell’autorizzazione, in quanto la giurisprudenza interna ha adottato due approcci opposti (paragrafi 123-127 supra). In ogni caso, una volta che la condanna penale sia divenuta definitiva, la confisca non può più essere revocata, nemmeno in caso di successiva sanatoria della lottizzazione da parte dell’autorità amministrativa (paragrafi 128 129 supra).
231. Inoltre, il fatto che il giudice penale non si sostituisca all’autorità amministrativa è ancora più evidente nel caso di lottizzazione abusiva materiale sostanziale. Infatti, quando l’amministrazione ha autorizzato una lottizzazione contraria alle norme urbanistiche, il che costituisce una lottizzazione abusiva, il potere del giudice di confiscare il terreno e le opere non costituisce un atto con il quale il giudice si sostituisce all’amministrazione. Al contrario, esso rivela un conflitto tra la giurisdizione penale e l’autorità amministrativa nell’interpretare le leggi regionali e nazionali in materia urbanistica. Il ruolo del giudice penale non è semplicemente quello di verificare che nessuna lottizzazione sia effettuata in assenza o in violazione di un’autorizzazione, ma anche di verificare se la lottizzazione, autorizzata o meno, sia compatibile con tutte le altre norme applicabili.
232. Questo è stato il caso, in particolare, della causa Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l., in cui il comune, mentre il processo penale per lottizzazione abusiva era ancora in corso, ha dichiarato che la convenzione di lottizzazione conclusa con la società R.I.T.A. Sarda S.r.l. e le autorizzazioni concesse rispettavano le norme urbanistiche in vigore all’epoca, soprattutto la legge regionale n. 45/1989 e che, di conseguenza, il reato di lottizzazione abusiva non era costituito in tale causa (paragrafo 65 supra). D’altra parte, il giudice penale ha smentito la posizione dell’amministrazione e ha ritenuto le società ricorrenti responsabili. In altri termini, il giudice penale ha agito in modo autonomo rispetto all’autorità amministrativa.

c. Conclusione

233. Alla luce di quanto precede, la Corte conclude che le misure di confisca costituiscono delle «pene» ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione: tale conclusione, che è il risultato dell’interpretazione autonoma della nozione di «pena» ai sensi dell’articolo 7, comporta l’applicabilità di questa disposizione, anche in assenza di un procedimento penale ai sensi dell’articolo 6. Tuttavia, come sottolineato dalla Corte costituzionale italiana nella sua sentenza n. 49 del 2015 (paragrafo 133 supra), non esclude la possibilità per le autorità nazionali di imporre «pene» mediante procedure diverse dai procedimenti penali nel senso del diritto nazionale.
234. La Corte rileva inoltre che tale doglianza non è manifestamente infondata ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e che non incorre in altri motivi di irricevibilità. Di conseguenza, la dichiara ricevibile.

B. Sul merito

235. Al fine di valutare se l’articolo 7 sia stato rispettato nella fattispecie, la Corte deve ora esaminare se le controverse misure di confisca fossero subordinate all’esistenza di un elemento soggettivo come indicato nella sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri (merito, sopra citata), se tali misure potessero essere applicate senza essere precedute da condanne formali e senza che le società si siano costituite come parti in causa nei procedimenti in questione.

1. Sulla questione di stabilire se le misure di confisca impugnate implicassero l’esistenza di un elemento soggettivo

a. Tesi delle parti

236. Le parti sostanzialmente riprendono le argomentazioni sviluppate dal punto di vista dell’applicabilità dell’articolo 7.
237. In particolare, i ricorrenti concordano sul fatto che, come rilevato dalla Corte nelle sopra citate sentenze Sud Fondi S.r.l. e altri (merito) e Varvara, l’articolo 18 della legge n. 47/1985 non soddisfa il requisito di prevedibilità nella misura in cui esso prevede che vi sia lottizzazione abusiva non solo per quanto riguarda le trasformazioni dei terreni in violazione delle norme urbanistiche, ma anche qualora tali modifiche siano incompatibili con le leggi regionali e nazionali. La stessa Corte di cassazione italiana avrebbe riconosciuto che la legislazione in vigore era oscura e mal formulata. I ricorrenti inoltre osservano che la sanzione della confisca è stata inflitta in assenza di comportamenti penalmente rilevanti o senza che fosse chiamata in causa la responsabilità delle società ricorrenti. Per quanto riguarda il sig. Gironda, la misura privativa sarebbe stata imposta a seguito di un non luogo a procedere per intervenuta prescrizione dalla Corte di cassazione la quale, cassando la sentenza d’appello, ha chiaramente stigmatizzato il comportamento del ricorrente, senza tuttavia che la sua responsabilità «sostanziale» fosse stata accertata nel dispositivo della sentenza.
238. Il Governo sottolinea che nella causa Sud Fondi S.r.l. e altri (merito, sopra citata), la Corte ha concluso che vi era stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione per il fatto che la confisca non era una conseguenza prevedibile del comportamento delle ricorrenti (che erano state assolte in quanto i tribunali non le avevano ritenute colpevoli del reato di cui erano accusate) e che, pertanto, la confisca controversa non era prevista dalla legge ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione.
239. Secondo il Governo, la legislazione attualmente in vigore e la giurisprudenza italiana sono pienamente conformi all’articolo 7, così come interpretato dalla Corte, per i seguenti motivi:

  1. gli articoli 30 e 44 del testo unico disciplinano la confisca di terreni a seguito della loro lottizzazione abusiva. I responsabili (definiti all’articolo 30) sono consapevoli che in tal caso, se effettuano una trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni procedendo a una lottizzazione abusiva materiale oppure a una lottizzazione abusiva negoziale, saranno privati della proprietà dei terreni in questione dal competente giudice penale che disporrà la loro confisca ai sensi dell’articolo 44, comma 2, del testo unico;
  2. dalla sentenza della Corte costituzionale n. 239 del 2009 – in cui la suprema Corte ha invitato i giudici italiani ad interpretare l’articolo 44, comma 2, del testo unico conformemente alla Convenzione in linea con quella della Corte –, una ben consolidata giurisprudenza afferma che la confisca può essere disposta a condizione che sia dimostrato, almeno nella sostanza, che l’imputato è responsabile della lottizzazione abusiva del terreno in questione: il giudice penale può ordinare la confisca solo se sono accertati sia l’elemento oggettivo sia l’elemento soggettivo (paragrafo 203 supra).

240. Di conseguenza, il Governo chiede alla Corte di constatare che, a tale riguardo, non vi è stata violazione dell’articolo 7 nel caso di specie.

b) Valutazione della Corte

241. La Corte rileva che nella sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri (merito, sopra citata) essa ha rammentato la portata del principio di legalità dei reati e delle pene e la conseguente esigenza di prevedibilità degli effetti della legislazione penale (§§ 105-110). Applicando questa nozione al caso di specie, la Corte ha aderito alle conclusioni della Corte di cassazione italiana in questa causa, secondo cui in mancanza di prevedibilità delle norme violate, le parti in causa avevano commesso un errore scusabile e inevitabile, il che escludeva la presenza dell’elemento soggettivo indispensabile ai fini dell’accertamento dell’infrazione e giustificava la loro assoluzione (ibidem, §§ 111-114). La Corte ha poi continuato come segue:
«115. Un ordine di idee complementare merita di essere sviluppato. A livello interno la definizione di «amministrativa» (…) data alla confisca controversa permette di sottrarre la sanzione in questione ai principi costituzionali che regolano la materia penale. L’articolo 27/1 della Costituzione prevede che la «responsabilità penale è personale» e l’interpretazione giurisprudenziale che ne viene data precisa che un elemento soggettivo è sempre necessario. Inoltre l’articolo 27/3 della Costituzione («Le pene …. devono tendere alla rieducazione del condannato») si applicherebbe difficilmente a una persona condannata senza che possa essere chiamata in causa la sua responsabilità.
116. Per quanto riguarda la Convenzione, l’articolo 7 non menziona espressamente il legame morale esistente tra l’elemento oggettivo del reato e la persona che ne è considerata l’autore. Tuttavia, la logica della pena e della punizione, così come la nozione di «guilty» (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di «personne coupable» (nella versione francese) vanno nel senso di una interpretazione dell’articolo 7 che esige, per punire, un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato. In caso contrario, la pena non sarebbe giustificata. Sarebbe del resto incoerente, da una parte, esigere una base legale accessibile e prevedibile e, dall’altra, permettere che si consideri una persona come «colpevole» e «punirla» mentre essa non era in condizione di conoscere la legge penale, a causa di un errore insormontabile che non poteva assolutamente essere imputato a colui o colei che ne era vittima.
117. Sotto il profilo dell’articolo 7, per i motivi sopra trattati, un quadro legislativo che non permette ad un imputato di conoscere il senso e la portata della legge penale è lacunoso non solo rispetto alle condizioni generali di «qualità» della «legge» ma anche rispetto alle esigenze specifiche della legalità penale»
242. La Grande Camera aderisce alla tesi secondo cui la logica della pena e della punizione nonché la nozione di «guilty» (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di «personne coupable» (nella versione francese) vanno nel senso di un’interpretazione dell’articolo 7 che esige, per punire, un legame di natura intellettuale. Infatti, così come è spiegato nella sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri (merito, sopra citata), discende dal principio di legalità dei reati e delle pene il fatto che la legge penale deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono, affinché la stessa sia accessibile e i suoi effetti siano prevedibili. Una persona sottoposta a giudizio deve poter sapere, a partire dal testo della norma pertinente e se necessario per mezzo dell’interpretazione datane dai tribunali, quali atti e quali omissioni comportano la sua responsabilità penale. Ciò significa anche che una pena nel senso dell’articolo 7 si può concepire in linea di principio soltanto a condizione che a carico dell’autore del reato sia stato accertato un elemento di responsabilità personale. C’è infatti, come ha osservato la Corte di cassazione italiana nella causa Sud Fondi S.r.l. e altri (si veda il paragrafo 112 della sentenza della Corte in questa causa), un’evidente correlazione tra il grado di prevedibilità di una norma penale e il grado di responsabilità personale dell’autore del reato. La Grande Camera quindi concorda sulle conclusioni della Camera nella causa Sud Fondi S.r.l. e altri secondo cui l’articolo 7 richiede, per punire, un legame di natura intellettuale che permetta di individuare precisamente un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato (ibidem § 116).
243. Ovviamente, come ha anche indicato dalla Corte nella sua sentenza Varvara (sopra citata, § 70), quest’esigenza non costituisce un ostacolo ad alcune forme di responsabilità oggettiva a livello delle presunzioni di responsabilità, a condizione che esse rispettino la Convenzione. In proposito, la Corte richiama la sua giurisprudenza relativa all’articolo 6 § 2 della Convenzione, secondo cui gli Stati contraenti restano liberi, in linea di principio, di punire penalmente un atto commesso fuori dal normale esercizio di uno dei diritti tutelati dalla Convenzione (sentenza Engel e altri c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976, § 81, serie A n. 22, p. 34, par. 81) e, quindi, di definire gli elementi costitutivi di tale reato. In particolare possono, ad alcune condizioni, rendere punibile un fatto materiale od oggettivo considerato di per sé, che provenga o meno da un intento criminoso o da una negligenza; le loro legislazioni rispettive ne offrono diversi esempi. Qualsiasi sistema giuridico prevede delle presunzioni di fatto o di diritto; la Convenzione non vi pone ostacoli in linea di principio, ma in materia penale obbliga gli Stati contraenti a non superare in proposito un certo limite. Ora, risulta dalla giurisprudenza che questo limite è superato quando una presunzione ha l’effetto di privare una persona di qualsiasi possibilità di discolparsi rispetto ai fatti di cui è accusata, privandola così del beneficio dell’articolo 6 § 2 della Convenzione (si veda, tra altre, Salabiaku c. Francia, 7 ottobre 1988, §§ 27-28, serie A n. 141 A, Janosevic c. Svezia, n. 34619/97, § 68, CEDU 2002 VII, e Klouvi c. Francia, n. 30754/03, § 48, 30 giugno 2011).
244. La Corte rammenta che la Convenzione deve essere letta nel suo insieme ed interpretata in modo da promuovere la coerenza interna e l’armonia tra le sue varie disposizioni (si veda, tra altre, mutatis mutandis, Hammerton c. Regno Unito, n. 6287/10, § 84, 17 marzo 2016). Tenuto conto del fatto che gli articoli 7 e 6 § 2 hanno in comune, nei loro rispettivi ambiti, la tutela del diritto di una persona di non essere sottoposta ad una pena senza che la sua responsabilità personale, compreso un nesso di natura intellettuale con il reato, sia stata debitamente accertata, la Corte ritiene che la giurisprudenza di cui sopra si applichi mutatis mutandis sul terreno dell’articolo 7.
245. Inoltre, la Corte osserva che, a seguito della sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri (merito, sopra citata), i tribunali interni hanno accettato tale argomentazione e modificato la propria giurisprudenza di conseguenza per quanto riguarda due aspetti importanti. Primariamente, anche in caso di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione, la confisca può essere attuata solo se è dimostrato che il reato è costituito per quanto riguarda sia il suo elemento oggettivo che il suo elemento soggettivo. In secondo luogo, a partire dalla sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri (ibidem), i tribunali interni si sono astenuti dall’imporre tale provvedimento di confisca a terzi in buona fede.
246. Alla luce di quanto sopra, la Corte ritiene che, nelle fattispecie, l’articolo 7 esigeva che le controverse confische fossero prevedibili per i ricorrenti e che non fossero loro imposte in mancanza di un nesso intellettuale che denotasse un elemento di responsabilità nella loro condotta.
247. Si tratta quindi, a questo punto, di sapere se tale requisito sia stato soddisfatto, sapendo che (a) nessuno dei ricorrenti è stato formalmente condannato a questo titolo, e che (b) le società ricorrenti non sono mai state parti in causa nei procedimenti in questione. La Corte esaminerà di seguito ciascuna di tali circostanze.

2. Sul punto di stabilire se i controversi provvedimenti di confisca potessero essere applicati in mancanza di condanne formali

248. La Corte osserva che, nel caso di specie, tutti i ricorrenti hanno subito la confisca dei loro beni nonostante nessuno di essi fosse stato oggetto di una condanna formale: nel caso di G.I.E.M. S.r.l., né la società stessa, né i suoi rappresentanti sono mai stati sottoposti a procedimento (paragrafi 23-29 supra); le altre società ricorrenti, a differenza dei loro rappresentanti, non sono mai state parti in causa nei procedimenti in questione (paragrafi 66-73, 82-86 supra); infine, l’azione penale nei confronti del sig. Gironda è caduta in prescrizione.
249. Le parti hanno opinioni chiaramente divergenti sulla necessità di una condanna formale, che è già stata esaminata nella sentenza Varvara (sopra citata). I ricorrenti sostengono che, secondo tale sentenza, i controversi provvedimenti di confisca non potevano essere applicati in assenza di condanne formali, e chiedono alla Corte di confermare la giurisprudenza Varvara su questo punto.
Il Governo sostiene la tesi opposta e invita pertanto la Corte a invalidare la sentenza Varvara su questo punto e a confermare la posizione dei giudici interni, in particolare quella della Corte costituzionale (paragrafo 133 supra).
250. La Grande Camera richiama la giurisprudenza Varvara (sopra citata), secondo cui:
«71. La logica della «pena» e della «punizione», e la nozione di «guilty» (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di «personne coupable» (nella versione francese), depongono a favore di un’interpretazione dell’articolo 7 che esige, per punire, una dichiarazione di responsabilità da parte dei giudici nazionali, che possa permettere di addebitare il reato e di comminare la pena al suo autore. In mancanza di ciò, la punizione non avrebbe senso (Sud Fondi e altri, sopra citata, § 116). Sarebbe infatti incoerente esigere, da una parte, una base legale accessibile e prevedibile e permettere, dall’altra, una punizione quando, come nel caso di specie, la persona interessata non è stata condannata.
72. Nella presente causa, la sanzione penale inflitta al ricorrente, quando il reato era estinto e la sua responsabilità non era stata accertata con una sentenza di condanna, contrasta con i principi di legalità penale appena esposti dalla Corte e che sono parte integrante del principio di legalità che l’articolo 7 della Convenzione impone di rispettare. La sanzione controversa non è quindi prevista dalla legge ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione ed è arbitraria.»
251. Ne consegue che l’articolo 7 osta a che una sanzione penale sia inflitta su base individuale senza che sia stata accertata e dichiarata preventivamente la sua responsabilità penale personale. In caso contrario, la presunzione di innocenza garantita dall’articolo 6 § 2 della Convenzione sarebbe anch’essa inapplicata.
252. Tuttavia, se da un lato è chiaro che, come indicato nella sentenza Varvara (ibidem), la dichiarazione di responsabilità penale richiesta è spesso contenuta in una sentenza penale che condanna formalmente l’imputato, in ogni caso ciò non costituisce una norma imperativa. In effetti, la sentenza Varvara non permette di concludere che le confische per lottizzazione abusiva devono necessariamente essere accompagnate da condanne penali ai sensi del diritto nazionale. Da parte sua, la Corte deve assicurarsi che la dichiarazione di responsabilità penale rispetti le tutele di cui all’articolo 7 e derivi da un procedimento che soddisfi le esigenze dell’articolo 6. In proposito, la Corte sottolinea che le sue sentenze hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e le loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate.
253. Ne consegue altresì che, come già dichiarato dalla Corte per quanto riguarda il carattere autonomo della sua interpretazione dell’articolo 7 (paragrafo 233 supra), la conformità con l’articolo 7 come interpretato nella causa Varvara non comporta che qualsiasi controversia importante debba essere necessariamente trattata nell’ambito di un procedimento penale in senso stretto. In questo senso, l’applicabilità di questa norma non ha l’effetto di imporre la «criminalizzazione», da parte degli Stati, di procedure che questi ultimi, nell’esercizio del loro potere discrezionale, non fanno rientrare nel diritto penale in senso stretto.
254. In proposito, la Corte rammenta che, basandosi sul principio stabilito nella sentenza Öztürk (sopra citata, §§ 49 e 56) ha più volte considerato che «il rispetto dell’articolo 6 della Convenzione non esclude che, in un procedimento di natura amministrativa, una «pena» sia imposta in primo luogo da un’autorità amministrativa» (Grande Stevens e altri c. Italia, n. 18640/10 e altri 4, §§ 138-139, 4 marzo 2014, si vedano anche Kadubec c. Slovacchia, 2 settembre 1998, § 57, Recueil 1998-VI, Čanády c. Slovacchia, n. 53371/99, § 31, 16 novembre 2004, e A. Menarini Diagnostics S.r.l. c. Italia, n. 43509/08, §§ 58-59, 27 settembre 2011). Tale principio è stato confermato altresì dal punto di vista del diritto alla presunzione di innocenza, previsto dall’articolo 6 § 2 della Convenzione. Così, nella causa Mamidakis c. Grecia, (n. 35533/04, § 33, 11 gennaio 2007) la Corte ha ritenuto:
«Per quanto riguarda la doglianza secondo la quale i giudici amministrativi non hanno tenuto conto del fatto che il ricorrente non era stato sottoposto a procedimento penale per il medesimo reato, la Corte ritiene che tale situazione non possa essere vista come una violazione della presunzione di innocenza. Infatti, questa affermazione significherebbe che non si potrebbe condurre alcun procedimento amministrativo in mancanza di un procedimento penale e che non potrebbe essere accertato alcun illecito da parte di un tribunale amministrativo in assenza di una dichiarazione formale di colpevolezza da parte del giudice penale. Inoltre, il ricorrente non adduce altri argomenti atti a indurre la Corte a concludere che i tribunali amministrativi lo hanno ritenuto colpevole prima di emettere una pronuncia definitiva sulla sua causa.».
255. Avendo così escluso la necessità di un procedimento penale, la Corte deve comunque esaminare se l’imposizione delle controverse confische richiedesse almeno una dichiarazione formale di responsabilità penale a carico dei ricorrenti.
256. Mentre i ricorrenti sottolineano l’illegittimità della confisca in assenza di una condanna formale, il Governo ritiene che, fatta eccezione per la G.I.E.M. S.r.l., le società ricorrenti e i loro rappresentanti, tra cui il sig. Gironda, siano stati chiaramente riconosciuti colpevoli di violazione delle norme urbanistiche.
257. La Corte osserva che, poiché le società ricorrenti non sono state perseguite come tali e non erano neppure parti in causa nel procedimento (paragrafi 248 supra e 269 infra), le stesse non possono essere state oggetto di una precedente dichiarazione di responsabilità. Di conseguenza, la questione di stabilire se la dichiarazione di responsabilità penale di cui all’articolo 7 debba soddisfare i requisiti formali si pone unicamente per quanto riguarda il sig. Gironda.
258. Nel caso di specie, la Corte deve quindi esaminare se, nonostante il reato di cui è imputato il sig. Gironda sia prescritto, essa possa tenere conto degli elementi di detto reato riscontrati dai giudici nazionali per giungere alla conclusione che esiste, in sostanza, una dichiarazione di responsabilità che possa costituire il prerequisito necessario per imporre una sanzione compatibile con l’articolo 7 della Convenzione.
259. La Corte rammenta che, dalla sua giurisprudenza, risulta che può essere necessario impegnarsi, al di là delle apparenze e del vocabolario utilizzato, ad individuare la realtà di una situazione (Ezeh e Connors c. Regno Unito [GC], n. 39665/98 e n. 40086/98, § 123, CEDU 2003-X). Essa può pertanto andare oltre al dispositivo di una decisione interna e tener conto della sua sostanza, in quanto la motivazione costituisce parte integrante della decisione (si veda, mutatis mutandis, Allen c. Regno Unito [GC], n. 25424/09, § 127, 12 luglio 2013).
260. Secondo la Corte, si deve tener conto, da una parte, dell’importanza che ha, in una società democratica, il fatto di garantire lo Stato di diritto e la fiducia nella giustizia delle persone sottoposte a giudizio, e, dall’altra, dell’oggetto e dello scopo del regime applicato dai tribunali italiani. A questo proposito, sembra che l’obiettivo di questo regime sia la lotta contro l’impunità che deriva dal fatto che, per l’effetto combinato di reati complessi e di termini di prescrizione relativamente brevi, gli autori di questi reati sfuggirebbero sistematicamente all’azione penale e, soprattutto, alle conseguenze dei loro misfatti (si veda, mutatis mutandis, El-Masri c. l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia [GC], n. 39630/09, § 192, CEDU 2012).
261. La Corte non può ignorare tali considerazioni nell’applicazione dell’articolo 7 nel caso di specie, a condizione che i tribunali in questione abbiano agito nel pieno rispetto dei diritti della difesa sanciti dall’articolo 6 della Convenzione. Per questo motivo, la Corte ritiene che, qualora i tribunali investiti constatino che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva pur pervenendo a un non luogo a procedere, soltanto a causa della prescrizione, tali constatazioni, in sostanza, costituiscono una condanna nel senso dell’articolo 7, che in questo caso non è violato.
262. Di conseguenza, l’articolo 7 non è stato violato per quanto riguarda il sig. Gironda.

3. Sulla questione di stabilire se le misure di confisca contestate potessero essere applicate alle società ricorrenti che non erano parti nei procedimenti in questione

a. Tesi delle parti

263. Le società ricorrenti osservano che non sono state parti nei procedimenti penali per lottizzazione abusiva e che, del resto, non avrebbero potuto essere esserlo in virtù della legge. Per quanto riguarda, in particolare, la G.I.E.M. S.r.l., i suoi rappresentanti non sono stati neanche perseguiti, in quanto la confisca del suo bene è soltanto il risultato della sua integrazione d’ufficio nella lottizzazione di Punta Perotti.
264. Il Governo osserva che la possibilità di costituire una persona giuridica ha il vantaggio incontestabile di limitare il rischio d’impresa alla persona giuridica creata espressamente per svolgere tale attività. A suo parere, l’azionista di una persona giuridica si assume perciò i rischi unicamente per quanto ha apportato alla società, e quest’ultima deve necessariamente subire le conseguenze negative della confisca. A differenza della G.I.E.M. S.r.l., le società Hotel Promotion Bureau S.r.l., R.I.T.A. S.r.l. e Falgest S.r.l. evidentemente non possono affermare di essere in buona fede, in quanto sarebbero degli «strumenti giuridici nelle mani dei loro azionisti».

b) Valutazione della Corte

265. La Corte rileva che la legge italiana conferisce alle società a responsabilità limitata, tra le quali figurano le società ricorrenti, una personalità giuridica distinta da quella dei loro amministratori o azionisti. In linea di principio, si pone quindi il problema di stabilire se le persone fisiche che sono state coinvolte nei procedimenti dinanzi ai tribunali interni abbiano agito e siano state giudicate in quanto tali o come rappresentanti legali delle società.
266. Tuttavia, la Corte osserva che nel diritto italiano, come in vigore all’epoca dei fatti, ai sensi del principio societas delinquere non potest («le persone giuridiche non possono commettere reati»), le società a responsabilità limitata non possono, in quanto tali, essere parti in un procedimento penale, nonostante la loro personalità giuridica distinta. Di conseguenza, non potevano essere legalmente rappresentate nei procedimenti penali in questione, mentre invece le azioni (e la responsabilità che ne derivava) dei loro rispettivi rappresentanti legali sono state loro direttamente attribuite. Le società erano pertanto terze parti in questi procedimenti, come confermato dalle sentenze dei giudici nazionali.
267. A questo proposito, la Corte sottolinea di aver sempre riconosciuto la personalità giuridica distinta delle società a responsabilità limitata, ritenendo per esempio nella causa Agrtexim e altri c. Grecia, 24 ottobre 1995, § 66, serie A n. 330 A, che:
«[…] la Corte ritiene opportuno eliminare il “velo sociale” o prescindere dalla personalità giuridica di una società solo in circostanze eccezionali, in particolare quando sia chiaramente accertato che la società non è in grado di adire, tramite i suoi organi statutari oppure – in caso di liquidazione – i suoi curatori, gli organi della Convenzione».
268. La Corte ha applicato tale giurisprudenza nella sua decisione di ricevibilità nella causa Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l., al fine di respingere le doglianze sollevate a proprio nome dal direttore e/o dagli azionisti delle società ricorrenti relativamente all’articolo 7 della Convenzione e all’articolo 1 del Protocollo n. 1 in ragione della confisca. Nella stessa ottica, le doglianze presentate dalle società ricorrenti in merito alla violazione dell’articolo 6 sono state dichiarate irricevibili nelle decisioni sulla ricevibilità, in cui la Corte ha dichiarato che dal momento che i procedimenti contestati non avevano riguardato né la Falgest S.r.l., né la Hotel Promotion Bureau S.r.l., né la R.I.T.A. Sarda S.r.l., queste società ricorrenti non potevano essere considerate vittime della dedotta violazione.
269. Nel caso di specie, si tratta quindi di decidere in merito all’applicazione di una sanzione penale inflitta a persone giuridiche che, per la loro personalità giuridica distinta, non sono state parti in alcun procedimento (penale, amministrativo, civile, ecc.).
270. Nella legge italiana, la confisca di beni è una sanzione imposta dal giudice penale quale conseguenza obbligatoria dell’accertamento della violazione di lottizzazione abusiva. Non è prevista alcuna distinzione per il caso in cui il proprietario dei beni sia una società che, ai sensi della legge italiana, non può legittimamente aver commesso un reato (paragrafo 266 supra).
271. La Corte ha già statuito, nella sentenza Varvara (sopra citata, § 65) che «una conseguenza di fondamentale importanza deriva dal principio di legalità nel diritto penale: il divieto di punire una persona se il reato è stato commesso da un’altra». A sostegno di tale tesi, la Corte ha formulato le seguenti considerazioni:
«64. La Corte ha finora avuto l’opportunità di affrontare questa questione dal punto di vista dell’articolo 6 § 2 della Convenzione.
65. Nella causa A.P., M.P. e T.P. c. Svizzera, 29 agosto 1997, Recueil des arrêts et décisions 1997 V), alcuni eredi erano stati puniti per reati commessi dal defunto. La Corte ha ritenuto che la sanzione penale inflitta agli eredi per una frode fiscale attribuita al defunto contrastasse con una regola fondamentale del diritto penale, secondo cui la responsabilità penale non sopravvive all’autore del reato (ibidem, § 48). È quanto riconosciuto esplicitamente dal diritto svizzero, e la Corte ha affermato che questa norma è altresì richiesta per la presunzione di innocenza sancita dall’articolo 6 § 2 della Convenzione. Ereditare la colpevolezza del defunto non è compatibile con le norme della giustizia penale in una società in cui vige il principio della preminenza del diritto. Il principio è stato ribadito nella causa Lagardère (Lagardère c. Francia, n. 18851/07, 12 aprile 2012, § 77), in cui la Corte ha ricordato che, per la presunzione di innocenza sancita dall’articolo 6 § 2 della Convenzione, è richiesta anche la norma secondo la quale la responsabilità penale non sopravvive all’autore del reato, ma anche che ereditare la colpevolezza del defunto non è compatibile con le norme della giustizia penale in una società regolata dalla preminenza del diritto.
66. Visto l’accostamento degli articoli 6 § 2 e 7 § 1 della Convenzione (Guzzardi c. Italia, 6 novembre 1980, § 100, serie A n. 39), la Corte ritiene che la norma da lei appena richiamata sia valida anche dal punto di vista dell’articolo 7 della Convenzione, che impone di vietare che nel diritto penale si possa rispondere per un fatto commesso da altri. Infatti, se è vero che ogni persona deve poter stabilire in ogni momento cosa è permesso e cosa è vietato per mezzo di leggi precise e chiare, non si può concepire un sistema che punisca coloro che non sono responsabili, perché il responsabile è stato un terzo.»
272. La Grande Camera ritiene che questo ragionamento debba essere confermato. Nel caso di specie, le società G.I.E.M. S.r.l., Hotel Promotion Bureau S.r.l., R.I.T.A. Sarda S.r.l. e Falgest S.r.l., non sono state parti in alcun procedimento. Solo il legale rappresentante della Hotel Promotion Bureau S.r.l. e della Falgest S.r.l., nonché due membri della R.I.T.A. Sarda S.r.l., sono stati accusati personalmente. Le autorità hanno pertanto applicato una pena alle società ricorrenti per azioni di terzi, nel caso di specie, tranne che nel caso della G.I.E.M. S.r.l., in quanto i loro rappresentanti legali o associati agivano a titolo personale.
273. Infine, in risposta all’affermazione del Governo secondo cui le società Hotel Promotion Bureau S.r.l., R.I.T.A. Sarda S.r.l. e Falgest erano in malafede (paragrafo 264 supra), la Corte rileva che nulla negli elementi acquisiti alla causa fa pensare che la proprietà dei beni sia stata trasferita alle società ricorrenti dai loro rappresentanti legali (si veda, in tal senso, l’articolo 6 della direttiva 2014/42, paragrafo 152, supra).
274. In conclusione, considerato il principio secondo cui una persona non può essere sanzionata per un atto che coinvolge la responsabilità penale altrui, una misura di confisca applicata, come nel presente caso, a persone fisiche o giuridiche che non sono parti in causa è incompatibile con l’articolo 7.

4. Conclusioni

275. Alla luce delle precedenti considerazioni, la Corte è giunta alle seguenti conclusioni:

  • Vi è stata violazione dell’articolo 7 per quanto riguarda le società ricorrenti in quanto esse non erano parti nel procedimento penale (paragrafo 274 supra);
  • Non vi è stata violazione dell’articolo 7 per quanto riguarda il sig. Gironda, in quanto le constatazioni dei giudici nazionali nel procedimento avviato nei suoi confronti costituiscono, in sostanza, una dichiarazione di responsabilità, che soddisfa le esigenze previste da questa disposizione (paragrafo 262 supra).

V. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 1 DEL PROTOCOLLO N. 1

276. I ricorrenti denunciano una violazione del loro diritto di proprietà. Invocano l’articolo 1 del Protocollo n. 1, così formulato:
«Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale.
Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.»

A. Sulla ricevibilità

277. La Corte constata che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non incorre in altri motivi di irricevibilità. Pertanto lo dichiara ricevibile.

B. Sul merito

1. Tesi delle parti

a. I ricorrenti

278. La società G.I.E.M. S.r.l. ritiene che la confisca del suo bene costituisca una privazione di proprietà e sostiene che, consentendo, con una formulazione generica, che la confisca si estenda ben oltre i terreni direttamente interessati dalle trasformazioni urbanistiche abusive, l’articolo 19 della legge 47/1985 viola l’articolo 1 del Protocollo n. 1. A suo parere, questa norma implica una ingerenza legittima solo sulla base di una legge accessibile, precisa e prevedibile. La società ricorrente ritiene che l’articolo 19 avrebbe dovuto indicare più dettagliatamente i limiti entro i quali era possibile ordinare la confisca in relazione ai fatti accertati, precisando, conformemente a un principio di ragione e di proporzionalità, l’estensione dei terreni confiscabili in relazione ai lavori eseguiti e le condotte illecite accertate oggettivamente e soggettivamente. Essa specifica che la mancanza di chiarezza e di precisione della normativa nazionale, nonché di quella regionale, considerata dalla Corte «oscura e mal formulata» nella sua sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri (merito, sopra citata), ha consentito la confisca di una superficie tre volte più estesa di quella interessata dai permessi edilizi rilasciati dal Comune di Bari. Cosa ancor più grave, ciò avrebbe anche colpito i suoi beni, pur non essendo essa affatto coinvolta nei fatti all’origine del procedimento penale.
Quanto alla proporzionalità della misura controversa, la società ricorrente sottolinea che l’esecuzione dei lavori di trasformazione connessi alla costruzione da parte dei proprietari dei terreni limitrofi al suo avrebbe potuto, al massimo, obbligare a sacrificare solo i terreni trasformati.
279. Le società Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l. rammentano che la Corte, nella sua giurisprudenza, attribuisce particolare importanza al rispetto dell’esigenza di legalità. Nella sentenza Varvara (sopra citata), ma anche nella sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri (merito, sopra citata), la Corte avrebbe accertato che il reato per il quale era stata irrogata la pena era privo di fondamento giuridico e violava la Convenzione e che la pena irrogata al ricorrente era arbitraria. Questa conclusione avrebbe quindi indotto la Corte a dichiarare che l’ingerenza nel diritto al rispetto della proprietà era altrettanto arbitraria e che vi era stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1. Peraltro, le società ricorrenti ritengono che l’ingerenza di uno Stato nel diritto di proprietà debba garantire un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e gli imperativi di tutela dei diritti fondamentali dell’individuo. Esse spiegano che, nel caso in esame, occorre tener conto dell’ampiezza della confisca che interessa i beni: gli ottantotto lotti costruiti occupavano in totale 15.920 m², mentre la superficie supplementare confiscata era 14,5 volte superiore.
280. La società Falgest S.r.l. e il sig. Gironda ritengono che la confisca da loro subita costituisca una privazione di proprietà ai sensi del primo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.
281. Secondo i ricorrenti, la misura contestata, ordinata dalla Corte di cassazione, si rivela manifestamente illegittima e arbitraria e, in ogni caso, è priva di una base giuridica sufficientemente chiara, accessibile e prevedibile. I ricorrenti fanno riferimento alla conclusione contenuta nella sentenza Varvara (sopra citata), secondo la quale la mancanza di legittimità penale della sanzione per lottizzazione abusiva constatata dal punto di vista dell’articolo 7 della Convenzione si riflette nella mancanza di «legittimità patrimoniale» della confisca in base all’articolo 1 del Protocollo n. 1.
282. Nel caso in cui la Corte ritenesse che la confisca controversa avesse una base giuridica, i ricorrenti sostengono che essa era sproporzionata rispetto allo scopo perseguito e non rispettava il giusto equilibrio tra gli interessi in gioco. Di fronte a semplici atti di riserva in vista del futuro acquisto di immobili che coprono meno dell’11% della superficie del terreno, la confisca di tutti i beni non costituirebbe una misura proporzionata. Per i ricorrenti, l’interesse generale avrebbe potuto essere tutelato altrettanto bene con misure meno invasive.

b. Il Governo

283. Il Governo sostiene che le misure di confisca dei beni dei ricorrenti sono state adottate conformemente al secondo comma dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 e che le ingerenze controverse che ne derivano non costituiscono violazioni di questa disposizione. Le misure contestate avrebbero fondamento giuridico, perseguirebbero uno scopo legittimo e sarebbero proporzionate. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, il Governo assicura che non erano possibili misure meno vincolanti. A suo parere, sarebbe stato tecnicamente molto difficile, se non impossibile, limitare la confisca ai soli terreni edificati e separare quelli edificati da quelli non edificati. Secondo il Governo, una confisca solo parziale dei terreni avrebbe pregiudicato le legittime finalità perseguite dallo Stato, ossia l’adeguamento dei lotti alle disposizioni urbanistiche, la tutela dell’ambiente e la punizione dei responsabili di trasformazioni urbanistiche abusive. In ogni caso, il Governo ritiene che lo Stato debba disporre di un ampio potere di apprezzamento nella scelta degli strumenti da utilizzare per trovare le soluzioni migliori per garantire la tutela dell’ambiente.
284. Per quanto riguarda la prima ricorrente, il Governo osserva che il terreno confiscato è stato restituito.
285. Per quanto riguarda i beni delle società Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l., il Governo ritiene che l’ingerenza in esame sia proporzionata, in quanto sono stati confiscati solo sedici degli ottantotto appartamenti costruiti.
286. Infine, con riferimento alla società Falgest S.r.l., il Governo contesta la percentuale di terreni non edificati confiscati e sostiene che si tratterebbe non dell’89% per cento, ma di meno del 50% dell’intera proprietà.

2. Valutazione della Corte

287. La Corte rammenta che nelle sentenze Sud Fondi S.r.l. e altri (merito, sopra citata, §§ 125-129) e Varvara (sopra citata, § 83), ha ritenuto che la confisca dei terreni e dei manufatti in contestazione, di cui i ricorrenti erano proprietari, aveva costituito una ingerenza nel godimento del loro diritto al rispetto dei beni tutelato dall’articolo 1 del Protocollo n. 1.
288. La Grande Camera giunge alla stessa conclusione nel caso di specie. È pertanto necessario determinare quali delle norme enunciate in questa disposizione siano applicabili.

a. La norma applicabile

i) Principi generali

289. L’articolo 1 del Protocollo n. 1 contiene tre norme distinte: la prima, espressa nella prima frase del primo comma e di carattere generale, enuncia il principio del rispetto della proprietà; la seconda, contenuta nella seconda frase dello stesso comma, riguarda la privazione di proprietà e la subordina a determinate condizioni; quanto alla terza, inserita nel secondo comma, essa riconosce agli Stati il potere, tra altri, di regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale e di assicurare il pagamento delle ammende. Tuttavia, non si tratta di norme non correlate. La seconda e la terza riguardano particolari esempi di violazioni del diritto di proprietà e devono pertanto essere interpretate alla luce del principio sancito dalla prima (si vedano, tra altre, James e altri c. Regno Unito, 21 febbraio 1986, § 37, serie A n. 98, e Iatridis c. Grecia [GC], n. 31107/96, § 55, CEDU 1999-II).

ii) Applicazione al caso di specie

290. Nella sentenza sul merito Sud Fondi S.r.l. e altri (sopra citata, §§ 128 129), la Corte ha affermato:
«128. La Corte osserva che la presente causa differisce dalla causa Agosi c. Regno Unito (sentenza del 24 ottobre 1986, serie A n.108), in cui la confisca è stata disposta nei confronti di beni che costituivano l’oggetto del reato (objectum sceleris), a seguito della condanna degli imputati, in quanto nella fattispecie la confisca è stata disposta a seguito di assoluzione. Per lo stesso motivo, la presente causa si differenzia da C.M. c. Francia ([dec.], n. 28078/95, CEDU 2001-VII) o da Air Canada c. Regno Unito (sentenza del 5 maggio 1995, serie A n. 316-A), in cui la confisca, disposta dopo la condanna degli imputati, aveva interessato dei beni che costituivano l’instrumentum sceleris e che erano in possesso di terzi. Per quanto riguarda i proventi di un’attività criminosa (productum sceleris), la Corte rammenta di aver già esaminato una causa in cui la confisca aveva fatto seguito alla condanna del ricorrente (si veda Phillips c Regno Unito, n. 41087/98, §§ 9-18, CEDU 2001-VII) nonché cause in cui la confisca era stata disposta indipendentemente dall’esistenza di un procedimento penale, poiché i beni dei ricorrenti si presumevano di origine illecita (si veda Riela e altri c. Italia (dec.), n. 52439/99,4 settembre 2001; Arcuri e altri c. Italia (dec.), n. 52024/99, 5 luglio 2001; Raimondo c. Italia, 22 febbraio 1994, § 29, Serie A n. 281-A,) o utilizzati per attività illecite (Butler c. Regno Unito (dec.), n. 41661/98, 27 giugno 2002). Nella prima causa sopra citata, la Corte ha dichiarato che la confisca costituiva una pena ai sensi del secondo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (Phillips, sopra citata, § 51, e, mutatis mutandis, Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, § 35, serie A n. 307-A,), mentre nelle altre cause ha affermato che si trattava della regolamentazione dell’uso dei beni.
129. Nel caso di specie, la Corte ritiene che non sia necessario stabilire se la confisca rientri nella prima o nella seconda categoria, poiché in ogni caso si applica il secondo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (Frizen c. Russia, n. 58254/00, § 31, 24 marzo 2005).»
291. La Grande Camera non vede alcun motivo per giungere ad una diversa conclusione nel caso di specie.

b. Osservanza dell’articolo 1 del Protocollo n. 1

i) Principi generali

292. La Corte rammenta che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 richiede che una ingerenza dell’autorità pubblica nel godimento del diritto al rispetto dei beni abbia un fondamento giuridico: la seconda frase del primo comma di questo articolo autorizza una privazione di proprietà soltanto «nelle condizioni previste dalla legge»; il secondo comma riconosce agli Stati il diritto di regolamentare l’uso dei beni mediante l’entrata in vigore delle «leggi». Inoltre, la preminenza del diritto, uno dei principi fondamentali di una società democratica, è insito in tutti gli articoli della Convenzione (Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 50, Recueil 1996-III, e Iatridis, sopra citata, § 58).
293. Peraltro, poiché il secondo paragrafo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 deve essere interpretato alla luce del principio generale enunciato nella prima frase di questo articolo, deve sussistere un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito; in altri termini, spetta alla Corte valutare se sia stato mantenuto un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale a tale riguardo e l’interesse della società parte in causa. In tal modo, essa lascia allo Stato un ampio margine di apprezzamento sia per scegliere i mezzi da utilizzare che per giudicare se le loro conseguenze siano legittimate, nell’interesse generale, dalla preoccupazione di conseguire lo scopo perseguito (Bosphorus Hava Yolları Turizm ve Ticaret Anonim Şirketi c. Irlanda [GC], n. 45036/98, § 149, CEDU 2005 VI).

ii) Applicazione al caso di specie

294. Nel caso di specie, non è necessario decidere se la violazione dell’articolo 7 sopra constatata (paragrafo 275 supra) abbia automaticamente determinato l’assenza di base giuridica delle confische contestate e pertanto abbia violato l’articolo 1 del Protocollo n. 1, tenuto conto delle conclusioni di seguito esposte per stabilire se queste confische perseguissero uno scopo legittimo e fossero proporzionate.
295. Nessuno può contestare la legittimità delle politiche statali a favore della tutela ambientale, perché in tal modo si garantiscono e si difendono anche il benessere e la salute delle persone (Depalle c. Francia [GC], n. 34044/02, § 84, CEDU 2010, e Brosset-Triboulet e altri c. Francia [GC], n. 34078/02, § 87, 29 marzo 2010). Tuttavia, va constatato che l’esame della situazione attuale, che si basa sulle informazioni fornite dalle parti, lascia qualche dubbio circa la realizzazione dello scopo che ha giustificato le misure contestate dai ricorrenti.
296. In primo luogo, il terreno confiscato alla società G.I.E.M. S.r.l. è stato restituito alla società ricorrente nel 2013 a seguito di istanza presentata al tribunale di Bari dal sindaco di questa città. Tale restituzione è stata effettuata in virtù dei principi stabiliti dalla Corte nella sua sentenza Sud Fondi S.r.l. e altri (merito, sopra citata) in base agli articoli 7 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 1 (paragrafi 42-43 supra).
297. Successivamente, per quanto riguarda le società Hotel Promotion S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l., alla data del 29 luglio 2015, gli immobili confiscati risultavano ancora occupati dai proprietari. Inoltre, nel maggio 2015, il consiglio comunale di Golfo Aranci ha riconosciuto l’interesse attuale della collettività a mantenere il complesso immobiliare confiscato, tenuto conto della possibilità di utilizzare gli alloggi per far fronte a situazioni di emergenza concedendo, direttamente o indirettamente, l’uso dei beni a titolo oneroso a persone a basso reddito (paragrafo 74 supra).
298. Infine, nel maggio 2015, il perito nominato dalla società Falgest S.r.l. e dal sig. Gironda ha sottolineato lo stato di abbandono nel quale si troverebbe il complesso sequestrato agli interessati, in assenza di manutenzione da parte del Comune proprietario dei luoghi (paragrafo 87 supra).
299. Ci si può quindi chiedere in che misura la confisca della proprietà dei beni in questione abbia effettivamente contribuito alla tutela dell’ambiente.
300. Per quanto riguarda la proporzionalità della misura, l’articolo 1 del Protocollo n. 1 richiede, per qualsiasi ingerenza, un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (Jahn e altri c. Germania [GC], nn. 46720/99, 72203/01 e 72552/01, §§ 83-95, CEDU 2005-VI). Questo giusto equilibrio è rotto se la persona interessata deve sostenere un onere eccessivo ed esagerato (Sporrong e Lönnroth sopra citata, §§ 69-74, e Maggio e altri c. Italia, nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08, § 57, 31 maggio 2011).
301. Al fine di valutare la proporzionalità della confisca, possono essere presi in considerazione i seguenti elementi: la possibilità di adottare misure meno restrittive, quali la demolizione di opere non conformi alle disposizioni pertinenti o l’annullamento del progetto di lottizzazione; la natura illimitata della sanzione derivante dal fatto che può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi; il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato in questione.
302. Inoltre, non va trascurata l’importanza degli obblighi procedurali di cui all’articolo 1 del Protocollo n. 1. Pertanto, la Corte ha ripetutamente osservato che, nonostante il silenzio dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 per quanto riguarda i requisiti procedurali, un procedimento giudiziario relativo al diritto al rispetto della proprietà deve anche offrire alla persona interessata un’adeguata possibilità di esporre la sua causa alle autorità competenti al fine di contestare efficacemente le misure che violano i diritti garantiti da questa disposizione (Sovtransavto Holding c. Ucraina, n. 48553/99, § 96, CEDU 2002 VII, Capital Bank AD c. Bulgaria, n. 49429/99, § 134, CEDU 2005 XII (estratti), Anheuser-Busch Inc. c. Portogallo [GC], n. 73049/01, § 83, CEDU 2007 I, J.A. Pye (Oxford) Ltd e J.A. Pye (Oxford) Land Ltd c. Regno Unito [GC], n. 44302/02, § 57, CEDU 2007 III, Zafranas c. Grecia, n. 4056/08, § 36, 4 ottobre 2011, e Giavi c. Grecia, n. 25816/09, § 44, 3 ottobre 2013; si veda anche, mutatis mutandis, Al Nashif c. Bulgaria, n. 50963/99, § 123, 20 giugno 2002, e Grande Stevens e altri, sopra citata, § 188). Una ingerenza nei diritti previsti dall’articolo 1 del Protocollo n. 1 non può quindi avere alcuna legittimità in assenza di un contraddittorio che rispetti il principio della parità delle armi e consenta di discutere aspetti importanti per l’esito della causa. Per garantire il rispetto di questa condizione, occorre considerare le procedure applicabili da un punto di vista generale. (si vedano, fra altre, AGOSI, sopra citata, § 55, Hentrich c. Francia, § 49, 22 settembre 1994, serie A n. 296 A, Jokela c. Finlandia, n. 28856/95, § 45, CEDU 2002 IV, Gáll c. Ungheria, n. 49570/11, § 63, 25 giugno 2013, e Sociedad Anónima del Ucieza c. Spagna, n. 38963/08, § 74, 4 novembre 2014).
303. L’applicazione automatica della confisca in caso di lottizzazione abusiva prevista – salvo che per i terzi in buona fede – dalla legge italiana è in contrasto con questi principi in quanto non consente al giudice di valutare quali siano gli strumenti più adatti alle circostanze specifiche del caso di specie e, più in generale, di bilanciare lo scopo legittimo soggiacente e i diritti degli interessati colpiti dalla sanzione. Inoltre, non essendo state parti nei procedimenti contestati, le società ricorrenti non hanno beneficiato di alcuna delle garanzie procedurali di cui al precedente paragrafo 302.
304. In conclusione, la Corte ritiene che vi sia stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 nei confronti di tutti i ricorrenti in ragione del carattere sproporzionato della misura di confisca.

VI. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 6 § 1 E 13 DELLA CONVENZIONE

305. La società G.I.E.M. S.r.l. lamenta di non aver avuto accesso a un tribunale e sostiene di non aver avuto alcuna possibilità di difendersi né di contestare la confisca dinanzi al giudice penale di merito o nell’ambito di un procedimento civile. A suo parere, la possibilità di sollevare un incidente di esecuzione non le ha permesso di rimediare a queste carenze. Invoca gli articoli 6 § 1 e 13 della Convenzione.
306. In riferimento all’articolo 13 della Convenzione, la società Falgest S.r.l., dal canto suo, denuncia l’insussistenza di una via di ricorso interna accessibile ed effettiva che permetta di dedurre la violazione degli articoli 7 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 1 in ragione della confisca disposta dalla Corte di cassazione.
Queste disposizioni sono così formulate:
Articolo 6 § 1
«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (…) da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti (…).»
Articolo 13
«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (…) Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»
307. Il Governo contesta queste tesi.
308. La Corte constata che questi motivi di ricorso non sono manifestamente infondati ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non incorrono in altri motivi di irricevibilità. Pertanto, li dichiara ricevibili.
309. La Corte ritiene tuttavia non necessario esaminarli, in quanto essi rientrano tra quelli già esaminati dal punto di vista degli articoli 7 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 1.

VII. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 § 2 DELLA CONVENZIONE

310. Il sig. Gironda denuncia inoltre una violazione della presunzione di innocenza a causa della sentenza della Corte di cassazione che impone la confisca del terreno nonostante il non luogo a procedere per prescrizione. Invoca l’articolo 6 § 2 della Convenzione, così formulato;
«Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.»

A. Sulla ricevibilità

311. La Corte rileva che questo motivo di ricorso è connesso a quello esaminato dal punto di vista dell’articolo 7 della Convenzione e, pertanto, deve essere dichiarato ricevibile.

B. Sul merito

1. Tesi delle parti

a. Il sig. Gironda

312. Il ricorrente fa rilevare che la Corte di cassazione non si è limitata a censurare l’errore di diritto commesso dal giudice d’appello. A suo parere, sostituendosi irritualmente a quest’ultimo, la suprema Corte ha constatato la presenza di tutti gli elementi necessari a configurare il reato di lottizzazione abusiva sia nel suo elemento oggettivo che in quello soggettivo. Il ricorrente spiega che, secondo la Corte di cassazione, il cambio di destinazione degli edifici costruiti era stato provato dalle dichiarazioni rese da terzi e dai documenti inseriti nel fascicolo. Egli ritiene che, per questa giurisdizione, la natura abusiva della lottizzazione non sollevasse alcun dubbio. Questa decisione violerebbe chiaramente il principio della presunzione di innocenza sancito dall’articolo 6 § 2, della Convenzione.

b. Il Governo

313. Il Governo contesta questa tesi e rinvia a questo proposito ai suoi argomenti sviluppati dal punto di vista dell’articolo 7.

2. Valutazione della Corte

a. Principi generali

314. L’articolo 6 § 2 tutela il diritto di ogni persona di essere «presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata». La presunzione di innocenza, considerata come una garanzia procedurale nel processo penale stesso, presenta anche un altro risvolto. Il suo scopo generale, nel quadro di questo secondo profilo, è quello di impedire che le persone che hanno beneficiato di un proscioglimento o di un’archiviazione siano trattate da pubblici ufficiali o da autorità pubbliche come se fossero effettivamente colpevoli del reato che era stato loro ascritto. In tali situazioni, la presunzione di innocenza ha già consentito − attraverso l’applicazione in sede processuale delle diverse esigenze inerenti alla garanzia processuale che essa offre − di evitare la pronuncia di una condanna penale ingiusta. Senza la protezione destinata a far rispettare in ogni procedimento successivo una decisione di assoluzione o di archiviazione, le garanzie di un processo equo enunciate nell’articolo 6 § 2 rischierebbero di divenire teoriche e illusorie. Una volta concluso il procedimento penale, è in gioco anche la reputazione della persona interessata e il modo in cui essa è percepita dal pubblico. In una certa misura, la protezione offerta dall’articolo 6 § 2 a tale riguardo può sovrapporsi a quella apportata dall’articolo 8 (si vedano, ad esempio, Zollmann c. Regno Unito (dec.), n. 62902/00, CEDU 2003−XII, e Taliadorou e Stylianou c. Cipro, nn. 39627/05 e 39631/05, §§ 27 e 56 – 59, 16 ottobre 2008, e Allen, sopra citata, §§ 93-94).
315. Inoltre, la colpevolezza non può essere stabilita legalmente in un procedimento chiuso da una autorità giudiziaria prima che siano state prodotte le prove o che si sia svolto un dibattimento che avrebbe permesso a quest’ultima di decidere sul merito della causa (Baars c. Paesi Bassi, n. 44320/98, §§ 25-32 del 28 ottobre 2003, e Paraponiaris sopra citata, §§ 30-33). Ad esempio, nella causa Didu c. Romania (n. 34814/02, §§ 40-42, 14 aprile 2009), la Corte ha concluso che vi era stata violazione dell’articolo 6 § 2 in ragione della decisione del giudice di ultimo grado di annullare le decisioni di proscioglimento emesse dai giudici di grado inferiore e di constatare la colpevolezza dell’interessato pur chiudendo il procedimento per prescrizione della responsabilità penale, dal momento che i diritti della difesa non erano stati rispettati nel procedimento dinanzi a tale giurisdizione, anche se quest’ultima aveva per prima dichiarato il ricorrente colpevole. Analogamente, nella causa Giosakis c. Grecia (n. 3), (n. 5689/08, § 41, 3 maggio 2011), la Corte ha ritenuto che la Corte di cassazione avesse violato l’articolo 6 § 2 della Convenzione avendo annullato la sentenza di proscioglimento emessa dalla corte d’appello, pur rilevando che il procedimento era estinto per prescrizione.
316. Da tale giurisprudenza risulta che si pone un problema dal punto di vista dell’articolo 6 § 2 della Convenzione quando il giudice che pone fine al procedimento per prescrizione annulla contestualmente le decisioni di proscioglimento dei giudici di grado inferiore e si pronuncia sulla colpevolezza della persona interessata.

b. Applicazione al caso di specie

317. Nel caso in esame, il ricorrente è stato assolto in appello e la confisca è stata annullata dopo che il progetto di lottizzazione era stato considerato compatibile con il piano d’occupazione e con le disposizioni urbanistiche (paragrafo 84 supra). Successivamente, questa decisione è stata annullata senza rinvio dalla Corte di cassazione, la quale ha ritenuto che la responsabilità del ricorrente fosse stata provata. Pertanto, il ricorrente è stato dichiarato sostanzialmente colpevole dalla Corte di cassazione, nonostante il fatto che l’azione penale per il reato in questione fosse prescritta. Questa circostanza ha violato la presunzione di innocenza.
318. Ne deriva che, nel caso di specie, nei confronti del sig. Gironda è stato violato l’articolo 6 § 2 della Convenzione.

VIII. SULLE ALTRE VIOLAZIONI DEDOTTE

319. Nelle loro osservazioni del 26 maggio 2015, le società Hotel Promotion S.r.l. e R.I.T.A. Sarda S.r.l. hanno reiterato la loro doglianza relativa alla violazione dell’articolo 6 della Convenzione. Analogamente, la Falgest S.r.l. e il sig. Gironda hanno nuovamente lamentato la violazione dell’articolo 6 § 2 della Convenzione nei confronti di altre cinque persone accusate, come il sig. Gironda, di lottizzazione abusiva. In origine, anche queste persone erano ricorrenti dinanzi alla Corte. Ora, queste doglianze sono state dichiarate irricevibili con decisioni parziali del 5 giugno 2012 e del 30 aprile 2013.
320. Le decisioni sulla ricevibilità sono definitive. Ne consegue che la Corte non ha competenza per esaminare queste doglianze (si veda, mutatis mutandis, Bulena c. Repubblica ceca, n. 57567/00, § 37, 20 aprile 2004).

IX. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

321. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»
322. Tutti i ricorrenti hanno depositato le loro domande di equa soddisfazione entro i termini impartiti dal presidente della Corte.
323. Nella sua memoria presentata dinanzi alla Grande Camera, il Governo non si è pronunciato sulla domanda di equa soddisfazione dei ricorrenti.
324. Tenuto conto delle circostanze della causa, la Corte ritiene che la questione dell’applicazione dell’articolo 41 della Convenzione non sia istruita. Di conseguenza deve interamente riservarla e fissare la successiva procedura, tenendo conto della possibilità di un accordo tra lo Stato convenuto e i ricorrenti (articolo 75 § 1 del regolamento). A tal fine, la Corte accorda alle parti un termine di tre mesi a decorrere dalla data della presente sentenza.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE,

  1. Decide, all’unanimità di riunire i ricorsi;
  2. Dichiara, all’unanimità, i ricorsi ricevibili per quanto riguarda le doglianze relative agli articoli 6 §§ 1 e 2, e 13 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione;
  3. Dichiara, a maggioranza, i ricorsi ricevibili per quanto riguarda le doglianze relative all’articolo 7 della Convenzione;
  4. Dichiara, con quindici voti contro due, che vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione nei confronti di tutte le società ricorrenti;
  5. Dichiara, con dieci voti contro sette, che non vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione nei confronti del sig. Gironda;
  6. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione nei confronti di tutti i ricorrenti;
  7. Dichiara, con quindici voti contro due, non doversi pronunciare sulla sussistenza di una violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione nei confronti della società G.I.E.M. S.r.l. e dell’articolo 13 nei confronti delle società G.I.EM. S.r.l. e Falgest S.r.l.;
  8. Dichiara, con sedici voti contro uno, che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 2 della Convenzione nei confronti del sig. Gironda;
  9. Dichiara, all’unanimità, che la questione dell’applicazione dell’articolo 41 della Convenzione non è istruita; di conseguenza:
    1. la riserva totalmente;
    2. invita il Governo e i ricorrenti a inviarle per iscritto, entro il termine di tre mesi a decorrere dalla data di notifica della presente sentenza, le loro osservazioni sulla questione e, in particolare, a informarla degli eventuali accordi raggiunti;
    3. riserva la successiva procedura e delega al presidente della Corte l’eventuale onere di fissarla.

Fatta in francese e in inglese, e pronunciata in pubblica udienza a Strasburgo, nel Palazzo dei Diritti dell’Uomo, il 28 giugno 2018.

Johan Callewaert   
Cancelliere aggiunto

Luis López Guerra
Presidente

Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione delle seguenti opinioni separate:

  • opinione concordante del giudice Motoc;
  • opinione parzialmente concordante, parzialmente dissenziente del giudice Pinto de Albuquerque;
  • opinione parzialmente dissenziente, parzialmente concordante, dei giudici Spano e Lemmens;
  • opinione parzialmente dissenziente comune ai giudici Sajò, Karakaş, Pinto de Albuquerque, Keller, Vehabović, Kūris e Grozev.

L.L.G.
J.C.
 
OPINIONE CONCORDANTE DEL GIUDICE MOTOC

‘Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scienza,
sanza lo ritenere, avere inteso.’

Dante, Divina commedia, Paradiso, Canto V

I. Introduzione

In questa causa, ho votato seguendo la maggioranza, ma per motivi attinenti alla coerenza del dialogo giudiziario tra la nostra Corte e le autorità italiane. Il dialogo giudiziario, da un lato con l’insieme delle autorità nazionali che hanno modificato la propria giurisprudenza per dare seguito alle decisioni della Corte e, dall’altro, con la Corte costituzionale italiana, rappresenta uno dei problemi principali sollevati dalla presente causa, che evidenzia le difficoltà relative a questo dialogo giudiziario, in particolare con i giudici interni e soprattutto in un ambito in cui, a mio parere, vi è stato un cambiamento giurisprudenziale in passato, e il diritto internazionale ed europeo si sono evoluti. La questione del dialogo giudiziario è tanto più pertinente in quanto il protocollo «del dialogo» – il Protocollo n. 16 – che è stato ratificato, entrerà in vigore il 1º agosto 2018 [1].
Se il Protocollo n. 16 fosse stato in vigore, la Corte costituzionale avrebbe potuto porre una questione elegante quanto quella posta alla Corte di giustizia dell’Unione europea nella causa Taricco e a. (I). In questo contesto si poteva immaginare che la nostra sentenza nella causa GIEM e altri potesse essere l’equivalente della sentenza M.A.S. e M.B. (Taricco II)[2] .
«Ex turpi causa non oritur actio» (nessuno può approfittare di un’infrazione) è un notissimo adagio latino. Il settore della confisca dei beni in assenza di condanna rientra nella massima attualità giuridica internazionale. La politica di giustizia penale tende sempre più a privare i trasgressori dei guadagni economici come mezzo per combattere il crimine e le sue conseguenze. Nel corso degli ultimi decenni è stata condotta una politica penale internazionale finalizzata al sequestro dei proventi economici del crimine e la lotta contro la criminalità acquisitiva. Mi sembra che la Corte, in questa causa, abbia solo parzialmente risolto la questione della compatibilità di questa evoluzione del diritto penale internazionale con la nostra giurisprudenza.
In qualità di giudici europei, possiamo guardare al dialogo tra i giudici dal nostro punto di vista, che è l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; tuttavia, al fine di non ridurre il dialogo a un monologo, è necessario comprendere le autorità nazionali e, a volte, come diceva Churchill, «Courage is what it takes to stand up and speak; courage is also what it takes to sit down and listen».

Osservazioni preliminari

La Corte è giunta alle sue conclusioni in questa causa partendo dal principio in base al quale nessuno può essere condannato per un reato commesso da un terzo. Le società ricorrenti non erano presenti nei procedimenti avviati nei loro confronti in Italia in quanto, ai sensi del diritto italiano, una società non può commettere un reato.
Nella sua valutazione, la Corte ha confermato la giurisprudenza risultante dalle passate sentenze in questo ambito, in particolare dalle sentenze Sud Fondi c. Italia [3] e Varvara c. Italia [4]. Essa ha ribadito che le misure di confisca imposte dalle autorità italiane rappresentavano una «pena» ai sensi dell’articolo 7. La Corte ha tenuto conto dei seguenti elementi: l’illegittimità dei fatti era stata accertata dalle giurisdizioni penali, la sanzione era legata a un reato, aveva un effetto deterrente, era qualificata come una sanzione penale ai sensi del diritto nazionale, e infine era particolarmente severa.
Contrariamente alle società ricorrenti, il sig. Gironda era parte nel procedimento penale avviato nei suoi confronti. Inoltre, la Corte di cassazione ha concluso che egli aveva consapevolmente commesso il reato di lottizzazione illecita. In tal senso, era colpevole in quanto era stato accertato l’elemento soggettivo. Tuttavia, il procedimento è stato archiviato a causa della prescrizione legale.
Confermando la sentenza Varvara c. Italia, la Corte rammenta che, affinché l’imposizione di una pena sia conforme all’articolo 7, occorre accertare la responsabilità penale della persona interessata. Tuttavia, la Corte chiarisce che la responsabilità penale individuale può essere accertata anche in assenza di una condanna formale, e quindi «le misure di confisca non devono essere necessariamente accompagnate da condanna».[5]
Nel caso di specie, in cui il reato di lottizzazione abusiva era stato accertato ma non poteva essere pronunciata alcuna condanna a causa della prescrizione, la Corte ritiene che l’imposizione di misure di confisca sia conforme all’articolo 7, e conclude perciò che non vi è stata violazione dell’articolo 7 nei confronti del sig. Gironda.
Essa è invece giunta alla conclusione opposta per quanto riguarda la doglianza del sig. Gironda relativa, dal punto di vista dell’articolo 6 § 2, a una dedotta violazione della presunzione di innocenza. La Corte basa le sue conclusioni in proposito sul fatto che, in sostanza, la Corte di cassazione aveva dichiarato il sig. Gironda colpevole, anche se il reato era caduto in prescrizione. La Corte conferma in questo modo la sua precedente giurisprudenza, in base alla quale, quando la decisione in ultimo grado conclude il procedimento e al tempo stesso decide in merito alla colpevolezza dell’imputato, vi è violazione dell’articolo 6 § 2.
La sentenza della Corte cita gli strumenti internazionali ma senza trarne alcuna conclusione né utilizzarli nella sua argomentazione giuridica. Si osserva nelle recenti convenzioni internazionali una tendenza a sottolineare sempre più l’importanza dei beni. [6]
Le sfide incontrate dallo Stato sono state correttamente descritte da Lord Neuberger, Lord Hughes e Lord Toulson nella causa R. c. Ahmad [7]:
«Ci sono anzitutto degli ostacoli pratici per individuare, localizzare e recuperare beni effettivamente ottenuti in maniera criminale e poi detenuti da criminali. Spesso infatti l’imputato è estremamente ingannevole, e le sofisticazioni e corruzioni occasionali nella comunità finanziaria internazionale sono tali da rendere molto difficile, spesso perfino impossibile, l’individuazione dei proventi del reato. Inoltre, sempre a causa della reticenza e della disonestà degli accusati, gli inquirenti si trovano spesso in una incertezza notevole, se non addirittura totale, rispetto i) al numero, all’identità e al ruolo dei complici nel reato, e ii) all’ammontare dei proventi totali del reato, ossia come, quando e nell’ambito di quale intesa o accordo i proventi sono stati o dovevano essere suddivisi tra i vari malviventi.» [8]

II. Il dialogo tra la CEDU e le autorità giudiziarie italiane in materia di confisca dei beni in assenza di una precedente condanna

La comunicazione che interviene all’interno di una cultura si fonda su ipotesi di base ritenute acquisite, che forniscono gli strumenti necessari per attribuire un significato implicito e, quindi, per la comunicazione, l’interpretazione e la comprensione. L’interpretazione è subordinata alla precomprensione o ai preconcetti relativi all’argomento in questione. Per esempio, Hans-Georg Gadamer caratterizza la precondizione per qualsiasi tipo di interpretazione utilizzando la nozione di pregiudizio [9] . In quest’analisi, l’interprete può attribuire un significato a un oggetto soltanto partendo da pregiudizi iniziali su quanto deve interpretare, il che significa che qualsiasi interpretazione cosciente richiede una comprensione iniziale di quello che è interpretato. Perciò, per dirla in maniera esatta, la comprensione e l’interpretazione non possono essere differenziate concettualmente.
Ronald Dworkin ritiene che, nell’interpretazione giuridica, i giudici assumano il ruolo di autori successivi di un romanzo di cui ciascuno di essi scrive un capitolo, che aggiunge alla storia che si sta scrivendo (quella del diritto). Tuttavia, quando scrive il proprio capitolo, ogni autore deve controllare la coerenza della storia nel suo insieme, ossia i capitoli devono integrarsi nell’insieme dell’opera, costituirne una parte coerente con le altre. In questo senso, i giudici agiscono in qualità di autori di un romanzo a puntate il cui titolo dovrebbe essere «il diritto».[10]
In questo modo, nel fare giustizia, ogni giudice partecipa a un’impresa collettiva che consiste nell’interpretare la storia del diritto – ovvero le leggi e i precedenti scritti da altri giudici – nell’ambito della causa su cui deve deliberare, e aggiunge il proprio capitolo alla storia. Il compito di ogni partecipante è costruire il proprio capitolo in modo che il risultato sia il miglior romanzo possibile (l’ordinamento giuridico), secondo la moralità politica della collettività. Ogni decisione giudiziaria, quindi, dovrebbe contribuire alla coerenza dell’ordinamento giuridico utilizzando la moralità politica della collettività. Si possono individuare più impulsi nel dialogo con le autorità italiane.

1. Momento[11] Sud Fondi

Prima della sentenza emessa dalla nostra Corte nella causa Sud Fondi, le autorità amministrative potevano ordinare la confisca dei beni che erano stati trasformati violando le norme applicabili all’utilizzo ordinato delle terre (urbanismo). Queste misure avevano lo scopo di ristabilire la legalità: una volta avviato il procedimento penale contro la persona accusata di trasformazione illecita del terreno, la giurisdizione penale era competente per ordinare la confisca del terreno illecitamente trasformato, a condizione di aver accertato che la trasformazione fosse effettivamente illecita. Il tribunale poteva quindi adottare una misura simile a quelle che potevano essere prese dalle autorità amministrative. Secondo le norme del diritto interno esistenti all’epoca e l’interpretazione che ne davano le giurisdizioni nazionali, la confisca ordinata dai giudici penali era una sanzione amministrativa, in quanto si trattava di una misura che aveva lo scopo di ristabilire la legalità, e non era considerata una misura punitiva, legata alla responsabilità personale dell’imputato: era giustificata dal mero fatto che la trasformazione era illecita. Ora, secondo la sentenza Sud Fondi, la misura della confisca è una «pena» ai sensi dell’articolo 7 § 1 della Convenzione. Quest’analisi implicava che la misura poteva essere imposta soltanto sulla base di una legge abbastanza precisa e a condizione che vi fosse un nesso intellettuale tra le azioni oggettivamente illecite e il loro autore: occorreva che fosse accertato un elemento di responsabilità nel comportamento dell’autore. I tribunali italiani hanno cercato di mettere in pratica la sentenza Sud Fondi, il che ha portato a un’interpretazione del diritto interno secondo cui l’ordinanza di confisca poteva essere pronunciata soltanto nei confronti di una persona «la cui responsabilità è[era] stata accertata in virtù di un nesso intellettuale» (coscienza e intenzione) con i fatti.
Dal punto di vista della nostra giurisprudenza, l’applicabilità dell’articolo 7 costituisce secondo me un capovolgimento. In precedenza, esisteva una giurisprudenza secondo cui la confisca di beni di proprietà di A nell’ambito di un procedimento penale avviato contro B non costituiva l’apertura di un procedimento penale nei confronti di A: di conseguenza, A non poteva avvalersi dell’elemento penale degli articoli 6 o 7 – e poteva invece avvalersi dell’elemento civile dell’articolo 6 nonché all’articolo 1 del Protocollo n. 1.
Si pone quindi il problema di sapere se, nella fattispecie, la confisca debba essere considerata come una sanzione inflitta alle società ricorrenti, o se debba essere paragonata alla linea giurisprudenziale sopra citata. Il fatto che sia avviato un procedimento penale contro terzi non può essere considerato equivalente a un’accusa o a un’imputazione della persona interessata, e quest’ultima non può perciò avvalersi dell’elemento penale degli articoli 6 o 7. La Corte ha già avuto occasione di esaminare l’imposizione di misure di confisca pronunciate in seguito a un’azione penale avviata contro terzi, in genere in seguito alla condanna di questi ultimi. In queste cause, la Corte ha spesso concluso affermando che la persona interessata dalla misura non era stata oggetto di alcuna condanna penale, e quindi l’elemento penale dell’articolo 6 non trovava applicazione [12]. Nonostante la Corte abbia riconosciuto che delle misure disposte in conseguenza di un atto per cui erano state perseguite terze persone avessero violato i diritti di proprietà del ricorrente, essa si è rifiutata di considerare che ciò equivaleva «a formulare un’accusa penale» nei confronti dello stesso ricorrente.[13] Per le stesse ragioni, la Corte ha ritenuto che l’articolo 7 non sia applicabile a un caso di confisca di beni utilizzati da una terza persona per commettere un reato (confisca di un veicolo che era stato utilizzato ai fini di immigrazione clandestina) [14].
Tuttavia, la Corte ha esaminato la compatibilità di questo tipo di misura di confisca con l’elemento penale dell’articolo 6[15] e con l’articolo 1 del Protocollo n. 1 [16]. Deliberando sull’applicazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, la Corte ha affermato che, nel ricercare il giusto equilibrio tra l’interesse generale della collettività e gli interessi particolari dell’individuo, bisogna tener conto dell’atteggiamento del proprietario del bene da confiscare, per esempio del grado di colpa o di inattenzione dimostrato da questi al momento dell’acquisto del bene in questione. La Corte deve indagare se la confisca fosse tale da permettere di tenere ragionevolmente conto del grado di colpa o di sollecitudine dell’interessato o, quanto meno, della relazione tra il comportamento di quest’ultimo e la violazione della legge indubbiamente commessa. La Corte deve altresì cercare di stabilire se i procedimenti in questione abbiano fornito al ricorrente una ragionevole possibilità di far valere la propria causa presso le autorità responsabili.[17]
In seguito alla causa Sud Fondi, le autorità giudiziarie italiane hanno ritenuto, come citato dalla Corte costituzionale nella sentenza 49/2015, che l’articolo 7 potesse trovare applicazione alle cause di questo tipo.

2. Momento Varvara

Successivamente, la Corte ha confermato che l’articolo 7 era applicabile a tale caso,[18] senza motivare le sue conclusioni se non in riferimento alla sentenza Sud Fondi. Sul merito, la Corte ha ritenuto che tre conseguenze derivassero dal principio di legalità nel diritto penale: il divieto di un’interpretazione estensiva delle norme penali, il divieto di punire una persona quando il reato è stato commesso da un’altra persona e il divieto di comminare una pena senza che sia stata riconosciuta la responsabilità. Su quest’ultimo punto, la Corte usa un linguaggio ambiguo: essa parla a volte genericamente di «responsabilità», a volte più specificamente di «condanna», termine che è altresì usato nell’ambito strettamente penale dell’articolo 5 § 1 a). Il paragrafo di conclusione della sentenza Varvara illustra questa ambiguità, in quanto sottolinea il fatto che la responsabilità del ricorrente «non è stata riconosciuta in una sentenza di condanna».[19] La Corte, nell’applicare quest’ultimo principio ai fatti in questione, ritiene che «la pena (sic) inflitta al ricorrente, quando il reato era prescritto e [la] responsabilità [dell’interessato] non è stata riconosciuta in una sentenza di condanna, non si concilia con [il] principio di legalità che l’articolo 7 della Convenzione ordina di rispettare».[20]
La Corte di cassazione e il tribunale di Teramo hanno interpretato la sentenza Varvara nel senso che essa richiede una «condanna» che riconosca la persona colpevole di un reato, il che escludeva la possibilità di prendere una decisione di confisca nel caso in cui il reato fosse prescritto. In base a questa lettura, e ipotizzando che avrebbero dovuto applicare il diritto interno conseguentemente, hanno chiesto alla Corte costituzione se l’esigenza di una «condanna» fosse compatibile con la Costituzione italiana.[21]
La Corte costituzionale ha risposto principalmente che le questioni sottopostele si basavano su due errori di interpretazione.[22]
In primo luogo, la Corte costituzionale non era convinta che la Corte di cassazione e il tribunale di Teramo avessero interpretato correttamente la sentenza Varvara quando avevano affermato che la Corte europea esigeva che la persona interessata fosse stata «condannata» per un reato che doveva essere di natura «penale» nel diritto nazionale. A suo avviso [23], tale interpretazione era contraria non solo alla Costituzione italiana (in quanto avrebbe limitato la discrezionalità del legislatore nel decidere se una determinata condotta dovesse essere sanzionata dal diritto penale o amministrativo), ma anche alla giurisprudenza della Corte europea (che ammette che, ai sensi della Convenzione, possano essere imposte da un’autorità amministrativa delle «pene» in assenza di una dichiarazione formale di colpevolezza da parte di un giudice penale). Inoltre, e soprattutto, la Corte costituzionale era del parere che la sentenza Varvara potesse essere interpretata diversamente, considerando che esigeva soltanto che fosse accertata la «responsabilità» della persona, in qualsiasi forma (in quanto una «condanna» non è che una forma di accertamento tra tante altre). Di conseguenza, essa concludeva che «allo stato attuale delle cose», ossia fino a quando la Grande Camera non si fosse pronunciata sulla causa G.I.E.M. e altri, non si poteva interpretare senza equivoco la sentenza Varvara come se quest’ultima implicasse che la confisca sarebbe stata possibile solo in caso di «condanna» per lottizzazione abusiva del terreno. Pertanto, poiché è stato possibile interpretare diversamente la sentenza Varvara, la Corte costituzionale ha ritenuto che i tribunali nazionali dovessero adottare un’interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte europea e compatibile con la Costituzione italiana.[24]
Nella stessa sentenza n. 49/2015, la Corte costituzionale ha ritenuto che le sentenze della Corte di Strasburgo non avessero la stessa importanza a seconda che fossero o meno il prodotto della procedura pilota e che seguissero o meno la linea di una giurisprudenza consolidata. La Corte ha aggiunto che, sebbene le leggi debbano essere interpretate in armonia con la Convenzione, la Costituzione era «assiologicamente» predominante. [25] Sebbene le reazioni della dottrina italiana siano state più che critiche nei confronti di questa decisione [26] , la nostra Corte ha solo reagito in modo fermo ma moderato, sottolineando che «le sue sentenze hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e la loro autorità interpretativa non possono quindi dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate».[27]
Se la Corte era già stata oggetto di critiche simili in passato, la critica proviene questa volta da un’istituzione che ritiene che le norme della Convenzione abbiano «un rango intermedio tra il diritto ordinario e la Costituzione». Inoltre, come ha statuito la Corte costituzionale, [28] l’articolo 117 della Costituzione impone ai legislatori di rispettare gli obblighi internazionali.
Pertanto, la Corte costituzionale ha ritenuto che la Convenzione fosse una norma di rango intermedio tra il diritto comune e la Costituzione, da applicare secondo l’interpretazione della Corte.
Come riconosciuto dai giudici tedeschi, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo deve essere soggetta a un’interpretazione giuridica giustificabile dal punto di vista metodologico. Non è inutile fornire qui alcuni elementi di comprensione del rapporto tra la Corte costituzionale e la nostra Convenzione.
Prima della «Rivoluzione del 2007», la Corte costituzionale italiana riteneva che la Convenzione europea non avesse un valore superiore a quello della legislazione ordinaria.[29] La Costituzione italiana prevede infatti che l’ordinamento giuridico italiano debba rispettare le norme riconosciute dal diritto internazionale. L’articolo 2 della Costituzione prevede che la Repubblica «riconosce e garantisce i diritti inviolabili della persona».
Nelle sue sentenze n. 348/2007 e n. 349/2007, la Corte costituzionale italiana ha chiarito il funzionamento dei rapporti tra le autorità nazionali e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché il posto della Convenzione nella gerarchia delle norme nazionali.[30]
In queste sentenze, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali due leggi riguardanti l’indennizzo per esproprio a fini pubblici e l’esproprio illecito. La sua decisione si basa sull’articolo 117, comma 1, della Costituzione italiana, che prevede che «i poteri legislativi sono esercitati nello Stato e nelle regioni nel rispetto della Costituzione e dei vincoli del diritto dell’Unione Europea e degli obblighi internazionali». Essa ha inoltre ritenuto che tali leggi fossero contrarie all’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, in quanto il risarcimento previsto non era sufficiente.
In Italia, la Convenzione si trova, nella gerarchia normativa, in posizione sovralegislativa, cioè al di sopra delle leggi ordinarie.[31] Tuttavia, essa non ha rango costituzionale: deve quindi essere conforme alla Costituzione[32]. Tuttavia, in pratica, questa analisi della Corte costituzionale implica che i giudici nazionali possono sospendere qualsiasi procedimento afferente a una legislazione nazionale contraria alla Convenzione e sottoporre alla Corte costituzionale una questione di costituzionalità prima di pronunciarsi sulla causa. [33] La Corte costituzionale si pronuncia quindi sulla costituzionalità delle disposizioni pertinenti della Convenzione, secondo l’interpretazione della Corte di Strasburgo. In assenza di conflitti tra la Convenzione e la Costituzione, essa dichiara le disposizioni della Convenzione compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano. Se la legge è incompatibile con queste norme, la dichiara incostituzionale ai sensi dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione. L’articolo 117, comma 1, consente pertanto alla Corte costituzionale di ricorrere indirettamente alla Convenzione per valutare la costituzionalità della legislazione nazionale, a condizione che non siano violate le norme costituzionali. [34]
La Corte costituzionale ha inoltre riconosciuto che la Corte europea dei diritti dell’uomo è l’unico organo competente a fornire un’interpretazione autorevole delle disposizioni della Convenzione. [35]Una delle implicazioni di tale decisione riguarda la costituzionalità della legislazione nazionale. Vengono così precisati i limiti del potere dei tribunali ordinari: questi ultimi devono adire la Corte costituzionale, ma non possono essi stessi esaminare il rapporto tra la legge, la Convenzione e la Costituzione.
La Corte costituzionale ha modificato la propria prassi in risposta alle decisioni della nostra Corte in materia di sentenze in absentia (decisione n. 317/2009) e di diritto a un processo pubblico in materia penale (decisioni n. 93/2010 e n. 80/2011), e ha persino considerato la possibilità di riformare le norme processuali penali dopo che la Corte aveva accertato una violazione del diritto a un processo equo (decisione n. 113/2011).[36] Prima della causa n. 49/2015, la Corte ha anche adottato posizioni divergenti rispetto alla Corte europea nelle decisioni n. 264/2012 (sul trattamento privilegiato di una determinata categoria di pensionati) e n. 263/2011 (sulla portata del principio di retroattività della legge penale più favorevole). [37]

Conclusioni

Nella causa GIEM e altri, la Corte ha confermato la giurisprudenza Varvara cercando di chiarire alcuni aspetti della sentenza della camera. Questa causa mette in luce le difficoltà del dialogo giudiziario in un contesto in cui la necessità di sradicare la criminalità transnazionale è aumentata e ha portato a un’evoluzione della legislazione internazionale: tale evoluzione deve avvenire nel rispetto dei diritti umani.

OPINIONE PARZIALMENTE CONCORDANTE E PARZIALMENTE DISSENZIENTE DEL GIUDICE PINTO DE ALBUQUERQUE
(Traduzione)

Indice

  1. Introduzione (§§ 1-2)

    Parte I – Il messaggio di Roma a Strasburgo (§§ 3-56)

  2. Il rapporto tra la Convenzione e la Costituzione (§§ 3-20)
    1. Le prime «sentenze gemelle» innovatrici (§§ 3-7)
      1. La Convenzione vista come una norma di rango intermedio tra la Costituzione e la legge ordinaira (§§ 3-4)
      2. Il potere limitato dei giudici comuni per l’applicazione della Convenzione (§§ 5-7)
    2. L’approfondimento introdotto dalle seconde «sentenze gemelle» (§§ 8-14)
      1. La massimizzazione delle garanzie della Convenzione e della Costituzione (§§ 8 10)
      2. Il «margine di apprezzamento» delle sentenze della Corte (§§ 11-15)
    3. La revolutio della sentenza n. 49/2015 (§§ 16-20)
      1. L’eredità incontestata della causa Sud Fondi (§§ 16-17)
      2. La sentenza Varvara interpretata nel «flusso continuo» della giurisprudenza di Strasburgo (§§ 18-20)
  3. Le conseguenze della sentenza n. 49/2015 nell’ordinamento giuridico italiano (§§ 21-56)
    1. La lettura errata della sentenza Varvara (§§ 21-27)
      1. L’annullamento del «diritto all’oblio» (§§ 21-24)
      2. La strumentalizzazione della giustizia penale per fini di politica amministrativa (§§ 25-27)
    2. L’illusoria dichiarazione «sostanziale» di responsabilità (§§ 28 35)
      1. L’insuperabile mancanza di certezza del diritto (§§ 28-33)
      2. La violazione del principio di presunzione di innocenza (§§ 34-35)
    3. Il vago criterio del «diritto consolidato» (§§ 36-56)
      1. La distorsione di una giurisprudenza ben consolidata (§§ 36-42)
      2. L’inquietante criterio del «non consolidamento» del diritto (§§ 43-56)

Parte II – La risposta di Strasburgo a Roma (§§ 57-90)

  1. Il posto della Corte in Europa (§§ 57-71)
    1. Lo spirito del tempo (§§ 57-63)
      1. La Corte in preda a forti venti contrari (§§ 57-60)
      2. Un approccio del diritto penale che privilegia l’efficacia (§§ 61 63)
    2. L’acquis culturale della Corte (§§ 64-67)
      1. Lo straordinario retaggio della Corte (§§ 64-65)
      2. L’esempio rivelatore dell’Italia (§§ 66-67)
    3. Quale dialogo giudiziario? (§§ 68-71)
      1. La logica antagonista del «noi e loro» (§§ 68-69)
      2. La lotta per delega per la sopravvivenza del diritto internazionale (§§ 70-71)
  2. L’«ultima parola» alla Corte (§§ 72-90)
    1. L’«autorità interpretativa» della sentenza della Corte (§§ 72 80)
      1. Dall’efficacia res interpretata all’efficacia erga omnes della sentenza della Corte (§§ 72 77)
      2. Dal ripiegamento su se stessi costituzionale al costituzionalismo a vari livelli (§§ 78-80)
    2. Una dottrina costituzionale dei diritti umani che privilegia la Convenzione (§§ 81-86)
      1. L’integrazione della Convenzione nell’ordinamento costituzionale e giuridico (§§ 81 84)
      2. La protezione garantita dalla Convenzione: un «pavimento», non un «soffitto» (§§ 85-86)
    3. La sfida della retorica dell’«identità nazionale» (§§ 87-90)
      1. Una lezione da trarre dalla saga Taricco (§§ 87-88)
      2. La linea Maginot tra la Convenzione e la Carta dei diritti fondamentali (§§ 89-90)
  3. Conclusione (§§ 91-95)

I. Introduzione (§§ 1-2)

1. Benché io abbia aderito all’opinione dissenziente comune ai giudici Sajó, Karakaş, Keller, Vehabović, Kūris e Grozev («l’opinione dissenziente comune»), vi sono tre motivi che mi spingono a redigere anche un’opinione separata. Sono convinto, in primo luogo, che il nucleo della presente causa sia costituito dal modo in cui la Corte costituzionale italiana (la «Corte costituzionale» [1] ) ha interpretato la sentenza Varvara . A mio avviso, l’opinione dissenziente comune non esaurisce l’analisi dei motivi per cui la Corte costituzionale si è espressa erroneamente in merito alla sentenza Varvara. [2] Tornerò più dettagliatamente su tale punto. In secondo luogo, ritengo di dover dare una spiegazione ulteriore per aver votato a favore di una constatazione di violazione dell’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo («la Convenzione») nella fattispecie (nel caso del ricorrente sig. Gironda), mentre avevo votato in senso opposto nella causa Varvara.
2. In terzo luogo, nella sentenza n. 49 del 2015, la Corte costituzionale ha esaminato le modalità del rapporto tra la Convenzione, come interpretata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo («la Corte») e la Costituzione italiana. Le modalità innovatrici, ma problematiche, che delimitano questo rapporto meritano un esame più attento da parte della Corte di Strasburgo, nella misura in cui esse influiscono direttamente sull’applicazione della giurisprudenza della Corte in Italia e potrebbero esercitare un’influenza decisiva sull’applicazione della Convenzione da parte di altri organi costituzionali o supremi nei loro rispettivi paesi, considerata l’alta stima di cui gode la Corte costituzionale italiana. Non ritengo che ignorare le critiche rivolte da alcune corti supreme e costituzionali alla Corte di Strasburgo e alla sua giurisprudenza possa giovare a un dialogo giudiziario sincero. Né dei motivi di diplomazia giudiziaria né delle considerazioni di strategia politica possono giustificare il silenzio assordante che la Corte ha a volte mantenuto in passato su una questione così scottante. Questa volta le cose sono diverse.
Il messaggio trasmesso dalla presente sentenza non è né sibillino né esitante, ma al contrario è forte e chiaro: tutte le sentenze della Corte hanno lo stesso valore giuridico, la stessa natura vincolante e la stessa autorità interpretativa [3]. Data la sua importanza incontestabile, non soltanto per l’Italia ma anche per tutti gli Stati parte alla Convenzione, desidero esaminare l’impatto di tale principio sul sistema europeo di tutela dei diritti umani, poi ne trarrò le debite conclusioni per l’attuazione della Convenzione in Italia.

Parte I – Il messaggio di Roma a Strasburgo (§§ 3-56)

II. Il rapporto tra la Convenzione e la Costituzione (§§ 3-20)

A. Le prime «sentenze gemelle» innovatrici (§§ 3-7)

i. La Convenzione vista come una norma di rango intermedio tra la Costituzione e la legge ordinaria (§§ 3-4)

3. Prima del 2007 [4], la Consulta ha posto nel sistema giuridico italiano la Convenzione sullo stesso piano della legge ordinaria poiché la Convenzione era stata integrata nell’ordinamento giuridico italiano con una legge ordinaria, la legge n. 848 del 4 agosto 1955 [5]. Basandosi su un approccio dualista del diritto internazionale, la Corte costituzionale ha affermato che le disposizioni della Convenzione avevano lo stesso status della legge che le aveva incorporate nell’ordinamento giuridico interno [6]. Tuttavia, simultaneamente, la Corte costituzionale ha ammesso che «l’interpretazione conforme a Costituzione è avvalorata da significative indicazioni normative, anche di natura sovranazionale», facendo in questi termini riferimento alla Convenzione e al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici [7]. Inoltre, desiderosa di arricchire l’interpretazione del catalogo costituzionale dei diritti fondamentali, la Corte costituzionale invocava non soltanto le disposizioni della Convenzione, ma anche la giurisprudenza della Corte [8]. L’impatto della Convenzione nel paesaggio costituzionale restava tuttavia molto limitato [9]. Ciò non ha impedito ai giudici comuni [10]di applicare al momento il diritto convenzionale escludendo la disposizione di diritto interno concorrente [11].
4. Nelle sentenze pioniere n. 348 e n. 349 del 2007, dette anche le «sentenze gemelle», la Corte costituzionale ha reagito a questa pratica dei giudici comuni, tenendo conto del nuovo testo dell’articolo 117 della Costituzione, come emendato dalla legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, che imponeva al legislatore di uniformarsi agli obblighi internazionali [12]. Su questa base costituzionale, la Corte costituzionale ha ritenuto che la Convenzione fosse una norma di rango intermedio tra la legge ordinaria e la Costituzione e ha affermato il suo monopolio sul regolamento di ogni conflitto tra la Convenzione e il diritto interno. Il suo discorso relativo alla collocazione formale dei trattati internazionali nella gerarchia italiana delle fonti di diritto sottolineava, senza ambiguità, il rango sovralegislativo della Convenzione. In caso di conflitto tra la Convenzione, così come interpretata dalla Corte, e la legislazione interna successiva alla legge n. 848 del 4 agosto 1955, i giudici comuni non potevano dare la priorità alla prima e quindi lasciare da parte la disposizione interna concorrente, ma dovevano sottoporre la questione controversa alla Corte costituzionale, che aveva l’ultima parola al riguardo [13]. La Corte costituzionale doveva quindi valutare se la disposizione della Convenzione in questione, come interpretata dalla Corte, fosse compatibile con la Costituzione e in tal caso, doveva esaminare se la legge controversa fosse compatibile con la Convenzione. Nel caso in cui la disposizione della Convenzione in oggetto, così come interpretata dalla Corte, non fosse stata compatibile con la Convenzione, la legge n. 848 del 4 agosto 1955 avrebbe dovuto essere parzialmente abrogata per quanto riguardava la suddetta disposizione, in quanto la disposizione stessa non poteva essere ritenuta incostituzionale. Se la legge controversa non fosse stata compatibile con la Convenzione, essa avrebbe dovuto essere abrogata in quanto contraria al primo comma dell’articolo 117 della Costituzione. Pertanto, l’interpretazione della Convenzione da parte della Corte di Strasburgo aveva un valore normativo nella misura in cui fungeva da standard normativo per il controllo della costituzionalità delle leggi ordinarie.

ii Il potere limitato dei giudici comuni per l’applicazione della Convenzione (§§ 5-7)

5. Secondo il Giudice delle leggi, gli Stati parte alla Convenzione non avevano istituito un ordinamento giuridico internazionale e non avevano imposto l’obbligo di inserire la Convenzione nell’ordinamento giuridico interno. Non si poteva quindi affermare che esisteva un ordinamento giuridico esterno il quale, tramite i suoi organi decisionali, adottava omisso medio delle norme aventi forza vincolante per tutte le autorità interne. Quindi, non vi erano limiti alla sovranità nazionale. Di conseguenza, le persone non potevano beneficiare direttamente della tutela offerta dalla Convenzione [14]. Tuttavia, sempre secondo la Corte costituzionale, spettava ai giudici comuni interpretare la norma interna conformemente alla Convenzione e alla giurisprudenza della Corte. In caso di dubbio sulla compatibilità della norma interna con la Convenzione, il giudice comune era tenuto a sollevare una questione di legittimità costituzionale e adire la Corte costituzionale.
6. Questo ragionamento si basava, principalmente, sulla presunta distinzione tra l’ordinamento giuridico dell’Unione europea, a cui si riconosceva un’efficacia diretta, e la Convenzione, la quale, dal punto di vista della Corte costituzionale, non aveva un’efficacia diretta nell’ordinamento giuridico interno delle Parti contraenti in quanto non permetteva ai giudici comuni di escludere la legislazione concorrente [15]. Pur ammettendo che la Convenzione era diversa da altri trattati internazionali poiché la sua interpretazione non era affidata alle Parti contraenti ma a una Corte che aveva l’«ultima parola» [16]al riguardo, la Corte costituzionale sottolineava che la Convenzione doveva essere considerata come un accordo multilaterale che non limitava la sovranità delle parti contraenti [17]. In definitiva, i trattati relativi ai diritti dell’uomo come la Convenzione dovevano secondo la stessa essere considerati come un qualsiasi altro trattato internazionale, eccetto nel caso di un trattato internazionale comprendente dei principi di diritto internazionale consuetudinario [18].
7. Nella logica delle «sentenze gemelle», la Convenzione non poteva nemmeno offrire un grado di tutela superiore a quello garantito dalla Costituzione, ma soltanto una «una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana» [19] . La Convenzione rimaneva quindi una fonte esterna di diritto che non doveva compromettere l’unità della Costituzione. Se la Corte costituzionale doveva ricercare un equilibrio ragionevole tra gli obblighi imposti dal diritto internazionale, ivi compresi quelli derivanti dalla Convenzione, e la tutela degli interessi che beneficiavano di una garanzia costituzionale riconosciuta da altri articoli della Costituzione, la prevalenza del diritto convenzionale sulla legge ordinaria era assicurata soltanto dal primo comma dell’articolo 117 della Costituzione, e le disposizioni della Convenzione così come le sentenze della Corte che le interpretavano dovevano essere percepite come «fatti esterni» all’ordinamento giuridico italiano. Il dualismo anzilottiano vecchia maniera era ancora presente, poiché la Convenzione era, come ogni altra legge, chiaramente posta sotto il controllo attento della Corte costituzionale. [20]

B. L’approfondimento introdotto dalle seconde «sentenze gemelle» (§§ 8-14)

i. La massimizzazione delle garanzie della Convenzione e della Costituzione (§§ 8 10)

8. Due anni più tardi, la Corte costituzionale ha approfondito la logica delle «sentenze gemelle» adottando due nuove «sentenze gemelle», le sentenze n. 311 del 2009 e n. 317 del 2009 [21]. Pur evidenziando la singolarità di alcune disposizioni della Convenzione che includevano delle norme consuetudinarie direttamente applicabili dal giudice comune in virtù dell’articolo 10 della Costituzione [22]e il ruolo della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in qualità di interprete ufficiale della Convenzione, con la conseguenza logica che la Corte costituzionale non aveva il potere di sostituire la propria interpretazione di una disposizione della Convenzione a quella della Corte [23], i giudici del Palazzo della Consulta hanno tuttavia limitato l’autorità interpretativa della Corte alla «sostanza» della sua giurisprudenza «consolidatasi» [24].
9. Con lo scopo lodevole di fornire il grado di protezione più alto possibile ai diritti fondamentali comuni alla Convenzione e alla Costituzione, il Giudice costituzionale ha proceduto ad un esercizio di bilanciamento sulla base della «compenetrazione» tra i due cataloghi di diritto e delle «interrelazioni normative tra i vari livelli delle garanzie». Così, i giudici della Consulta hanno esplicitamente ammesso che la Convenzione, così come interpretata dalla Corte, era di pari rango rispetto alla Costituzione: «la norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’articolo 117 della Costituzione, da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento (…)» [25]. Di conseguenza, l’articolo 117 della Costituzione non escludeva una tutela superiore da parte della Convenzione, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo:
«È evidente che questa Corte non solo non può consentire che si determini, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., una tutela inferiore a quella già esistente in base al diritto interno, ma neppure può ammettere che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per la stessa via, rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale. La conseguenza di questo ragionamento è che il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti.» [26]
È opportuno osservare che la Corte costituzionale si è attribuita la facoltà di affermare che la tutela offerta dalla Convenzione, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo poteva essere superiore a quella derivante dalla Costituzione. Ma ciò significa altresì che essa può, al contrario, adottare la posizione opposta e affermare che la tutela offerta dalla Costituzione può essere superiore a quella derivante dalla Convenzione, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo.
10. In questa ricerca della «massimizzazione delle garanzie» offerte dalla Convenzione e dalla Costituzione, spetta alla Corte costituzionale procedere al necessario esercizio del bilanciamento con «altri interessi che beneficiano di una tutela costituzionale, ossia altre disposizioni costituzionali che garantiscono a loro volta dei diritti fondamentali che potrebbero risentire dell’espansione di una tutela individuale» [27]. In tal modo, la Corte costituzionale inserisce l’applicazione della Convenzione nell’ordinamento giuridico italiano in una prospettiva sistemica più vasta, mettendo in evidenza l’importanza dell’«ambiente costituzionale» nel quale si applica la Convenzione, nonché il ruolo della Consulta in qualità di arbitro ultimo della forza esecutiva delle sentenze della Corte nell’ordinamento giuridico italiano.
Nonostante il nuovo rango para-costituzionale riconosciuto al diritto convenzionale, il seme della discordia con Strasburgo era tuttavia gettato nella misura in cui l’ampiezza e i limiti del suo inserimento dipendono, sia a livello teorico che nella pratica, dalla decisione della Corte costituzionale sugli interessi coinvolti a livello interno. Nel diritto costituzionale, il controllo di costituzionalità imposto alle norme convenzionali, come interpretate dalla Corte, non è nemmeno limitato a qualsiasi serie di norme o interessi costituzionali fondamentali specifici. Contrariamente ai famosi «controlimiti»[28] che possono contrastare la diffusione del diritto dell’UE [29], o perfino delimitare alcune norme del diritto internazionale consuetudinario [30], ogni norma o interesse costituzionale può fungere da legittimo impedimento alla diffusione della Convenzione.

ii. Il «margine di apprezzamento» delle sentenze della Corte (§§ 11-15)

11. Se le seconde «sentenze gemelle» hanno confermato un incontestabile avanzamento del diritto convenzionale, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, nella misura in cui lo stesso non è più inteso come un corpus di diritto esterno nell’ordinamento giuridico italiano, ma come un corpus di diritto posto su un livello di parità con la Costituzione, che presenta un’affinità assiologica con essa, l’applicazione della Convenzione nel diritto interno resta comunque soggetta al controllo stretto della Corte costituzionale. Per preservare tale controllo, la Corte costituzionale ha fatto ricorso a uno strumento tecnico basato sulla giurisprudenza della Corte di Strasburgo stessa, il «margine di apprezzamento», applicandolo tuttavia alla modulazione dell’effetto giuridico delle sentenze della Corte nell’ordinamento giuridico italiano [31].
12. Al fine di consolidare questa linea di ragionamento, la Corte costituzionale insiste sulla distinzione tra il ruolo della Corte di Strasburgo, che consiste nel «decidere sul singolo caso e sul singolo diritto fondamentale», e il ruolo delle autorità nazionali, ivi compreso quello della Corte costituzionale, che consiste nel tutelare i diritti fondamentali in modo coordinato e sistematico, e quindi impedire che la tutela di alcuni diritti fondamentali «si sviluppi in modo squilibrato, con sacrificio di altri diritti ugualmente tutelati dalla Carta costituzionale e dalla stessa Convenzione europea» [32].
13. Tale argomentazione racchiude implicitamente due critiche riguardo alla natura della giurisprudenza della Corte, che sono state chiarite nella successiva giurisprudenza costituzionale. Da una parte, per la Consulta, le sentenze della Corte sono troppo specifiche al caso in esame e atomistiche [33], poiché dipendono strettamente dal contesto e dalle circostanze della causa. A suo parere, dato che la giurisprudenza della Corte si basa sui precedenti, permettendo così un consolidamento dei suoi principi nel tempo, non tutte le sentenze possono essere riconosciute come rappresentative della giurisprudenza della Corte. D’altra parte, secondo il parere della Consulta, le sentenze pronunciate a Strasburgo sono semplicistiche e troppo lineari, perché prendono in considerazione solo gli interessi soggettivi in questione e non tutti gli interessi oggettivi in gioco; pertanto, la giurisprudenza della Corte non tiene pienamente conto della specificità dell’ordinamento giuridico italiano [34]. Se necessario, la Corte costituzionale può ripetere il bilanciamento degli interessi effettuato dalla Corte di Strasburgo alla luce degli interessi oggettivi prevalenti nell’ordinamento costituzionale italiano [35]. È proprio per questo motivo che, secondo la stessa, dovrebbe essere concesso un certo margine di apprezzamento alle autorità interne nell’applicazione delle sentenze delle Corte [36].
14. Le seconde «sentenze gemelle» (sentenze nn. 311 e 317 del 2009) segnano un certo cambiamento da parte dei giudici della Consulta in relazione alle prime «sentenze gemelle» (sentenze nn. 348 e 349 del 2007). Se le prime «sentenze gemelle» erano focalizzate sulla instaurazione di un ordine formale, modello kelseniano, della prevalenza della Costituzione sulla Convenzione e della Convenzione sulla legge ordinaria, volta a delimitare i ruoli rispettivi del giudice comune e del giudice costituzionale quando si trattava di garantire la gerarchia delle fonti del diritto [37], le seconde «sentenze gemelle» tendevano verso un’articolazione sostanziale tra la Costituzione e la Convenzione basata sul principio della massimizzazione della tutela dei diritti fondamentali dei due cataloghi, imponendo tuttavia le modalità di una delimitazione unilaterale del potere tra Roma e Strasburgo [38] .
Infine, la Corte costituzionale ha trasmesso un messaggio privo di ambiguità, in cui ha spiegato che pur essendo aperta a un certo grado di integrazione del diritto convenzionale e costituzionale, essa intendeva conservare una buon parte del potere discrezionale nell’esecuzione delle sentenze della Corte nell’ordinamento giuridico interno, creando così un rischio manifesto di conflitto con Strasburgo e di incertezza giuridica nell’ordinamento giuridico italiano [39].
15. Come era prevedibile, il conflitto è scoppiato tre anni dopo, con «il caso delle pensioni di anzianità svizzere». Nella sentenza Maggio e altri c. Italia [40], la Corte di Strasburgo ha contraddetto la sentenza n. 172 del 2008 della Corte costituzionale considerando che nella legge n. 296/2006 lo Stato italiano non aveva riconosciuto i diritti dei ricorrenti garantiti dall’articolo 6 § 1 della Convenzione; la Corte di Strasburgo ha così respinto le argomentazioni avanzate dal Governo secondo le quali la legge era necessaria per ristabilire l’equilibrio nel sistema pensionistico eliminando tutti i vantaggi di cui beneficiavano le persone che avevano lavorato in Svizzera e che avevano versato contributi più bassi, ritenendo che tali argomentazioni non fossero abbastanza convincenti per superare i pericoli insiti nell’adozione di una legislazione retroattiva che aveva l’effetto di influire in modo decisivo sull’esito della controversia pendente in cui lo Stato era parte. Tale divergenza di opinioni tra Strasburgo e Roma ha portato la Corte costituzionale a rivedere, con la sentenza n. 264 del 2012, alla luce di «altri interessi costituzionali», l’esercizio del bilanciamento che era stato effettuato dalla Corte di Strasburgo e ha concluso che vi erano dei motivi imperativi di interesse generale che giustificavano una applicazione retroattiva della legge. Stranamente, la Consulta ha invocato «non solo il sistema nazionale di valori nella loro interazione, ma anche la sostanza della decisione della Corte EDU di cui si tratta», come se il rispetto per la «sostanza» della giurisprudenza di Strasburgo giustificasse un non rispetto della sentenza Maggio emessa dalla Corte. In seguito, nelle cause Cataldo e altri c. Italia[41] e Stefanetti e altri c. Italia [42], la Corte ha chiaramente affermato che manteneva la sua posizione. Nella sentenza n. 166 del 2017, la Corte costituzionale non ha rivisto la sua posizione, ribadendo che «il novum della sentenza Stefanetti» emessa a Strasburgo, non aggiungeva nulla al dibattimento sulla costituzionalità della norma interna controversa.[43]

C. La revolutio della sentenza n. 49/2015 (§§ 16-20)

i. L’eredità incontestata della causa Sud Fondi (§§ 16-17)

16. Dopo il «doppio monologo» nella causa delle pensioni di anzianità svizzere [44], il verificarsi di un altro serio conflitto tra la Consulta e la Corte di Strasburgo era prevedibile, considerate le modalità introdotte con le seconde «sentenze gemelle» per quanto riguarda il loro rapporto. Il conflitto è sorto nel maggio 2014, quando la Corte costituzionale è stata chiamata a decidere, dal tribunale di Teramo e dalla Corte di cassazione, su due questioni di legittimità costituzionale riguardanti l’articolo 44, comma 2, del decreto legislativo n. 380/2001 in seguito alla sentenza Varvara [45].
17. Nella sentenza n. 49/2015 [46], la Corte costituzionale ha rammentato il carattere amministrativo della misura di confisca enunciata nell’articolo 44, comma 2, ma ha ammesso che si trattava di una «pena» ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione [47] e che era applicabile la presunzione di innocenza garantita dall’articolo 6 § 2 della Convenzione [48]. L’eredità della causa Sud Fondi [49] era incontestabile ed è rimasta incontestata.
Tuttavia, la Corte costituzionale ha affermato che il rigetto della causa per superamento dei termini legali poteva accompagnarsi «alla più ampia motivazione sulla responsabilità, ai soli fini della confisca del bene lottizzato» [50]. In altri termini, nell’ordinamento giuridico italiano una decisione di prescrizione del reato non è né logicamente né giuridicamente incompatibile con un accertamento pieno e completo della responsabilità [51]. Inoltre, ad avviso della Corte costituzionale, dopo il recepimento della sentenza Sud Fondi [52] nell’ordinamento giuridico italiano, detto accertamento non costituisce una facoltà del giudice, ma un obbligo dal cui assolvimento dipende la legalità della confisca.

ii. La sentenza Varvara interpretata nel «flusso continuo» della giurisprudenza di Strasburgo (§§ 18-20)

18. La Consulta ha concluso che l’ipotesi formulata dai giudici del rinvio secondo la quale la sentenza Varvara aveva instaurato un principio giuridico innovativo e vincolante che era in contraddizione con una norma che esisteva da molto tempo nell’ordinamento giuridico italiano era errata per tre motivi. In primo luogo, i giudici del rinvio avevano secondo la stessa ignorato la natura di «diritto vivente» della giurisprudenza della Corte, pronunciata in un «flusso continuo» ed era collegata alla «situazione concreta» che ne era all’origine. Secondo l’opinione della Corte costituzionale, il rigetto della domanda di rinvio dinanzi alla Grande Camera ha solo confermato che non è stato introdotto alcun nuovo principio.
In secondo luogo, a parere della Consulta, i giudici del rinvio hanno presupposto a torto che la sentenza Varvara avesse assorbito la sanzione amministrativa della confisca nell’ambito del diritto penale. Ciò avrebbe contraddetto la giurisprudenza della Corte, la quale sottolineava la sussidiarietà della sanzione penale e il potere discrezionale lasciato dal legislatore ai fini della definizione della portata dei reati amministrativi con l’intento di contrastare «l’ipertrofia del diritto penale».
In terzo luogo, secondo la Consulta, i giudici del rinvio avevano frainteso la volontà della Corte di tutelare la «sostanza dei diritti umani», se necessario andando oltre l’inquadramento formale di una fattispecie. La sentenza Varvara andrebbe interpretata come un provvedimento che impone semplicemente una dichiarazione «sostanziale» di responsabilità, e quindi compatibile con la dichiarazione simultanea della prescrizione del reato conformemente alle norme del diritto interno. In altri termini, la logica che presiede alla sentenza Varvara richiederebbe che le norme di prescrizione fossero compatibili con una condanna «sostanziale».
19. Tra lo Scilla della soluzione del confronto diretto con la Corte di Strasburgo, come proposta dalla Corte di cassazione [53] e il Cariddi della subordinazione diretta alla Corte, come suggerita dal Tribunale di Teramo [54], la Corte costituzionale ha cercato una via di mezzo, che pone la sentenza Varvara nel contesto di un flusso progressivo e continuo di giurisprudenza [55] che non sempre rivela chiaramente il principio in base al quale è stata definita la causa [56]. A parere della Corte costituzionale, la sentenza Varvara non ha instaurato un principio nuovo e vincolante e non rientra in una giurisprudenza consolidata, ossia una giurisprudenza da cui possa derivare «una norma idonea a garantire la certezza del diritto e l’uniformità presso gli Stati aderenti di un livello minimo di tutela dei diritti umani» [57].
20. La Corte costituzionale ha rammentato il principio che impone al giudice comune di uniformarsi alla giurisprudenza della Corte. Essa ha tuttavia precisato che, in caso di dubbio riguardo alla conformità di detta giurisprudenza con la Costituzione, la giurisprudenza vincola il giudice comune solo nel caso in cui essa sia «ben consolidata» ai sensi dell’articolo 28 della Convenzione o contenuta in una «sentenza pilota» [58]. Di conseguenza, secondo questa alta giurisdizione, la sentenza Varvara, che aveva stabilito il principio secondo il quale l’articolo 7 della Convenzione imponeva che una sanzione penale fosse preceduta da una condanna formale, non aveva espresso un’analisi giurisprudenziale consolidata e non doveva quindi vincolare i giudici nazionali. A sostegno del suo ragionamento, la Corte costituzionale ha affermato che, in caso di conflitto tra Convenzione e norme costituzionali, queste ultime dovrebbero prevalere in ragione di un «predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU» [59].

III. Le conseguenze della sentenza n. 49/2015 nell’ordinamento giuridico italiano (§§ 21-56)

A. La lettura errata della sentenza Varvara (§§ 21-27)

i. L’annullamento del «diritto all’oblio» (§§ 21-24)

21. Nella sua analisi della sentenza Varvara, la Corte costituzionale italiana ha assicurato che si trattava di un «principio consolidato» del diritto europeo che consentiva a un’autorità amministrativa di applicare una pena a condizione che quest’ultima fosse soggetta a controllo giurisdizionale [60]. A questo proposito, vi erano quindi dei dubbi sul fatto «che la sentenza Varvara avesse effettivamente seguito la via indicata da ciascuno dei due giudici del rinvio, introducendo un elemento di dissonanza nel contesto più ampio della Convenzione». Di conseguenza, continuava la Corte costituzionale, per quanto riguarda il significato di «condanna», ciò che la Corte «aveva in mente» nella sentenza Varvara non era la «forma della decisione emessa dal tribunale» (cioè un verdetto formale di colpevolezza), ma piuttosto «la sostanza che necessariamente accompagna tale decisione quando la stessa impone una sanzione penale ai sensi dell’articolo 7 della CEDU, cioè un accertamento di responsabilità».
22. Come dimostra l’opinione comune dissenziente, non si tratta qui di una possibile lettura né della sentenza Varvara né della giurisprudenza pertinente [61]. Per l’applicazione di una «pena», la sentenza Varvara richiede che il reato («penale», «amministrativo», «fiscale» o altro, a seconda della sua classificazione nel diritto interno) non sia prescritto e che sia stata emessa una «sentenza di condanna». Tale sentenza di condanna può ovviamente essere emessa nell’ambito di un procedimento penale stricto sensu o di qualsiasi procedimento ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, come un procedimento amministrativo, fiscale o di altro tipo, che applichi delle «pene» [62]. Il campo di applicazione dell’articolo 7 della Convenzione, che comprende anche i procedimenti che nel diritto nazionale non sono definiti «penali», non è decisivo per stabilire se «l’imposizione delle controverse confische richiedesse almeno una dichiarazione formale di responsabilità penale a carico dei ricorrenti» [63]. Una cosa è il campo di applicazione della norma, un’altra il suo contenuto.
23. Come proclama la sentenza Sud Fondi [64], e come hanno ammesso i Giudici delle leggi [65], il principio di legalità contiene il principio nulla poena sine culpa, che deve essere accertato (sia la culpa che la poena) entro i termini previsti dalle norme di prescrizione pertinenti. In uno Stato che si fonda sulla supremazia del diritto e sul principio di legalità, il potere dello Stato di perseguire e punire reati anche complessi è limitato nel tempo o, per usare l’elegante formulazione della Corte costituzionale, «trascorso del tempo dalla commissione del fatto, si attenuino le esigenze di punizione e maturi un diritto all’oblio in capo all’autore di esso» [66]. In caso contrario, i valori della certezza del diritto e della prevedibilità inerenti al principio di legalità, e quindi questo stesso principio, verrebbero sacrificati in nome dell’efficienza del sistema giudiziario.
24. In queste condizioni, quando un reato è prescritto, i motivi dell’azione penale non sussistono più e lo scopo della pena non prevale più. Dichiarare che è prescritto un reato significa proprio sacrificare la lotta contro l’impunità. Se l’obiettivo della lotta contro l’impunità dovesse sempre prevalere, non sarebbe mai prescritto alcun reato. Questo è l’elemento centrale della sentenza Varvara, «il diritto all’oblio» [67], che viene così annullato dalla Corte costituzionale. Il requisito di una «sentenza di condanna» imposto dalla sentenza Varvara [68]è semplicemente una conseguenza logica del requisito dei termini di prescrizione. Non vi può essere punizione senza una dichiarazione formale di condanna, perché una dichiarazione di questo tipo non può intervenire successivamente alla prescrizione del reato. In altre parole, l’elemento centrale del famoso paragrafo 72 della sentenza Varvara consiste nel riconoscere che la prescrizione non è una sostanziale condanna. Mentre la sentenza Sud Fondi [69]ha stabilito il principio nulla poena sine culpa, la sentenza Varvara ha riconosciuto la prescrizione come parte integrante del principio di legalità. Di conseguenza, l’articolo 7 esclude l’imposizione di una confisca (che è una «pena» secondo il diritto convenzionale come interpretato dalla Corte e secondo il diritto costituzionale italiano come interpretato dalla Corte costituzionale) nel caso di un reato prescritto, perché la prescrizione ha il significato di una garanzia materiale, e non un semplice significato procedurale, nella Convenzione come nel diritto nazionale.[70]

ii. La strumentalizzazione della giustizia penale a fini di politica amministrativa (§§ 25-27)

25. Alla luce di queste considerazioni, la scelta operata dalla Corte costituzionale italiana di invocare «la funzione [della Corte di Strasburgo che consiste nel] percepire la violazione del diritto fondamentale nella sua dimensione tangibile, a prescindere dalla formulazione astratta» utilizzata per qualificare il reato, può essere intesa come un tentativo di negare l’evidenza, ovvero che un accertamento «sostanziale» di colpevolezza ha poco senso se non significa una dichiarazione formale di colpevolezza da parte di un giudice. Tale argomentazione è particolarmente infelice in quanto distorce il significato della teoria della prevalenza della sostanza sull’inquadramento formale sostenuta dalla Corte, che è sempre stata utilizzata per garantire la tutela dell’imputato da forme dissimulate di sanzione. La Corte costituzionale utilizza l’argomento della tutela della «sostanza dei diritti umani» per indebolire i diritti umani della persona oggetto della confisca senza condanna. A mio parere, è inaccettabile che la Corte costituzionale utilizzi contra reum una teoria sviluppata dalla Corte proprio a vantaggio di questa persona.
26. Queste considerazioni valgono anche per l’argomentazione basata sulla necessità di combattere l’«ipertrofia» del diritto penale [71] Se è vero che la politica dello Stato in materia di diritto penale deve tendere al principio del minimo intervento, è inammissibile utilizzare questa argomentazione in malam partem, al fine di privare l’imputato della tutela offerta dall’art. 7 e di imporgli la confisca in assenza di una qualsivoglia condanna formale per intervenuta prescrizione. In tal modo si inverte il principio di sussidiarietà del diritto penale per poter infliggere la punizione dopo la prescrizione.
27. In realtà, nell’applicare la confisca urbanistica senza condanna, il giudice cerca di contrastare l’inerzia dell’amministrazione locale e la connivenza con i progetti di lottizzazione abusiva. In altre parole, il sistema di giustizia penale svolge funzioni amministrative. Dal punto di vista del diritto costituzionale, è evidente che la trasformazione del giudice penale in un organo di supplenza dell’amministrazione è incompatibile con il principio della separazione dei poteri. Questa fusione dei due ruoli distinti, quello della giustizia e quello dell’amministrazione, costituisce un’indebita strumentalizzazione del sistema giudiziario penale a fini di mera politica amministrativa, che riflette una politica di pan-penalizzazione condotta dallo Stato italiano. Pertanto, è l’attuale scelta politica dello Stato italiano, confermata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 49/2015, che va biasimata perché contraddice il principio di sussidiarietà del diritto penale, e non la sentenza Varvara.

B. L’illusoria dichiarazione «sostanziale» di responsabilità (§§ 28 35)

i. L’insuperabile mancanza di certezza del diritto (§§ 28-33)

28. Secondo la Corte costituzionale, una dichiarazione «sostanziale» di colpevolezza non susciterebbe preoccupazione nell’ambito della Convenzione. Rimangono quindi molte domande senza risposta, e che non sono state neppure poste. Il Giudice costituzionale non ha chiarito «i limiti che il sistema procedurale può (…) imporre al giudice penale quanto alle attività necessarie per giungere all’accertamento della responsabilità» [72], né ha indicato se la confisca urbanistica potesse applicarsi solo qualora gli elementi oggettivi e soggettivi della responsabilità fossero già stati accertati prima della prescrizione del reato o se il giudice potesse concludere le indagini dopo tale termine al fine di stabilire gli elementi oggettivi e soggettivi della responsabilità e, in caso affermativo, quali garanzie procedurali dovrebbero quindi essere applicate. La Corte costituzionale non ha neppure indicato con precisione quale criterio di prova il giudice doveva applicare per accertare «sostanzialmente» i fatti rilevanti ai fini dell’imposizione di una confisca [73]. Se le norme prescrittive limitano i poteri a disposizione dello Stato per indagare sulla vita delle persone, come si potrà raggiungere questo obiettivo se tutti i reati possono comunque dar luogo a delle indagini per giungere a una valutazione «sostanziale» della responsabilità? Oppure ci sono reati speciali che ammettono queste «sostanziali» dichiarazioni di colpevolezza e altri che non le ammettono?
29. Nella presente sentenza, la maggioranza della Grande Camera non ritiene che questo «buco nero» giuridico e l’insuperabile mancanza di certezza giuridica che esso induce siano problematici. In realtà, la dichiarazione «sostanziale» di responsabilità è un assegno in bianco che consente ai giudici nazionali di agire come desiderano. Nella tensione weberiana tra Wertrationalität (razionalità per valori, o assiologica) e Zweckrationalität (razionalità per scopi), i giudici, internazionali o nazionali, devono sempre tendere verso la prima e non verso la seconda, che rientra nella politica. Si ritiene che per certi versi questa sentenza sia più un esercizio di razionalità per finalità che un esercizio di razionalità per valori. Va da sé che i rappresentanti della legge in generale, e i tribunali in particolare, hanno una vita molto più facile con il regime della confisca senza condanna per reato prescritto. In tal modo, il presunto fine che lo Stato intende perseguire con questo «regime applicato dai giudici italiani», che «mira a combattere l’impunità», per riprendere le parole usate dalla maggioranza nel paragrafo 260 della presente sentenza, è molto più facile da raggiungere. Ma questo ragionamento è pura razionalità per scopo. Il giudice non dovrebbe impegnarsi in tali calcoli, comportandosi come un ausiliario soggetto agli interessi e alle scelte politiche del Governo, soprattutto non in un settore giuridico così sensibile come il diritto penale. Il punto fondamentale è che il giudice non deve far pesare sulle persone in questione le carenze di una politica penale irrazionale dello Stato, e in particolare di una politica che induce «l’effetto combinato di reati complessi e di termini di prescrizione relativamente brevi» [74].
30. Anche supponendo che i fatti di lottizzazione abusiva costituiscano un «reato complesso» [75], che il periodo di prescrizione fosse «relativamente breve» [76] e che il loro effetto combinato abbia creato una situazione in cui gli autori di tale reato sfuggivano «sistematicamente» [77]all’azione penale e alle sanzioni, la persona che ha subito la confisca non deve avere la responsabilità di queste scelte di politica penale. Ora, questo è proprio ciò di cui parla il paragrafo 260 della presente sentenza [78].
31. Più in generale, la nozione di dichiarazione «sostanziale» di responsabilità è di per sé contraria ai valori della certezza del diritto e della prevedibilità, poiché la persona o l’ente interessata/o non può realmente prevedere se i suoi beni saranno confiscati. A quanto pare, la maggioranza propone di limitare l’applicabilità del concetto di «condanna sostanziale»: essa dovrebbe essere applicata solo per prevenire l’impunità nel caso di «reati complessi». Tuttavia, poiché la «complessità» dei reati è un criterio molto vago, questa analisi rimette in discussione i valori della certezza del diritto e della prevedibilità.
32. Inoltre, la nozione di dichiarazione di responsabilità «sostanziale» si basa su un’analogia con una condanna [79]. A sostegno di questa analogia, la maggioranza equipara la decisione con cui «le giurisdizioni investite accertano l’esistenza di tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva, pur concludendo per un non luogo, in ragione della sola prescrizione», a «una condanna ai sensi dell’articolo 7» [80]. In tal modo essa permette di comprendere, sulla base delle motivazioni della presente decisione, che gli elementi dell’actus reus e del mens rea sono provati. Questa analogia tra motivazione e condanna è fondamentalmente errata, in quanto tale estensione della nozione di «condanna» a danno della persona in questione corrisponde ad un’analogia in malam partem inammissibile. La finzione giuridica di una «condanna sostanziale» contraddice l’essenza stessa del divieto di analogia a danno della persona in questione, che è al centro del principio di legalità (nulla poena sine lege certa, stricta).
33. La Corte ha sempre rifiutato questa analogia. Ad esempio, nella causa Marguš c. Croazia [81], la Corte ha dichiarato inequivocabilmente che «l’archiviazione di un procedimento penale da parte di un pubblico ministero non equivaleva né a una condanna né a un’assoluzione» e che la decisione di non luogo non rientrava pertanto nel campo di applicazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione. Questi due esiti (condanna o assoluzione) si possono ovviamente trovare solo nel dispositivo di una sentenza emessa da un tribunale nazionale, vale a dire laddove il tribunale competente espone l’esito della causa. La motivazione non è assolutamente rilevante ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem nei procedimenti penali. La maggioranza ignora questo principio fondamentale del diritto processuale penale al punto che si sforza di trarre conclusioni pregiudizievoli per la persona in questione («in sostanza, una condanna») dai motivi di una sentenza, quando tali conclusioni non compaiono nel dispositivo. Tale approccio, nella misura in cui mira a concludere con una «condanna sostanziale» senza tener conto del fatto che la persona in questione non è stata formalmente dichiarata colpevole, è contrario al principio stesso del ne bis in idem. [82]

ii. La violazione del principio della presunzione d’innocenza (§§ 34-35)

34. Infine, la dichiarazione «sostanziale» di responsabilità viola in modo scandaloso il principio della presunzione di innocenza. Poiché la Corte ha ripetutamente respinto qualsiasi dichiarazione di colpevolezza, sia nelle decisioni di assoluzione che di non luogo a procedere o di rigetto di una causa, dichiarazione da lei ritenuta una flagrante violazione dell’articolo 6 § 2 della Convenzione [83], il «pieno accertamento di responsabilità» [84] richiesto dalla Corte costituzionale come base per la confisca senza condanna viola chiaramente il diritto alla presunzione di innocenza. Infatti, questo punto è così ovvio che è difficile credere che in uno Stato di diritto come l’Italia si possa applicare una «pena» ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione a costo di una violazione così diretta dell’articolo 6 § 2 della stessa Convenzione.
35. La dichiarazione «sostanziale» di responsabilità mi ricorda il verdetto semi-assolto in uso nel Medioevo, in cui, sebbene gli imputati fossero stati assolti, si dimostrava una certa colpevolezza sulla base di alcuni elementi e le persone interessate venivano in qualche modo punite. A mio parere, la situazione di una persona che beneficia di una dichiarazione di prescrizione, ma che è comunque oggetto di un’ordinanza di confisca sulla base di una dichiarazione che indica che i fatti sono provati e che la colpevolezza è accertata, è molto simile a quella delle persone che una volta erano semi-assolte. Tuttavia, non dimentichiamo che c’è stata una Rivoluzione nel 1789, tra l’altro per porre fine a tale assurdità. Trarre insegnamento dalla storia permetterebbe a volte di non ripetere gli stessi errori più e più volte.

C. Il vago criterio del «diritto consolidato» (§§ 36-56)

i. La distorsione di una giurisprudenza ben consolidata (§§ 36-42)

36. In questo contesto, la Corte costituzionale definisce le nuove modalità del rapporto tra il diritto convenzionale, secondo l’interpretazione della Corte, e il diritto costituzionale. Dal suo punto di vista, l’effetto inter partes della sentenza della Corte è innegabile e vincolante per il giudice nazionale sin dalla sua pronuncia, ma deve essere distinto dal suo effetto erga omnes, che la Corte costituzionale non nega ma lascia alla discrezione dei giudici nazionali [85]. I giudici nazionali possono attribuire questo effetto a una sentenza corrispondente al «diritto consolidato» e negarlo a una sentenza non corrispondente al «diritto consolidato». Questa conclusione dovrebbe essere confermata dalla struttura della Corte (cinque sezioni con un meccanismo di deferimento alla Grande Camera) e dai suoi metodi di lavoro (opinioni dissenzienti). Sebbene la Consulta non indichi esplicitamente quali siano i criteri per individuare il «diritto consolidato», essa suggerisce alcuni indizi che tradiscono una giurisprudenza «non consolidata», come il carattere inedito del principio enunciato nella giurisprudenza rispetto alla giurisprudenza precedente, l’esistenza di opinioni dissenzienti, una sentenza della camera non confermata dalla Grande Camera e il dubbio che non si sia tenuto conto delle specificità dell’ordinamento giuridico interno [86].
37. Le procedure e i criteri con cui il sistema giudiziario italiano fa rispettare la Convenzione rientrano nella sfera del diritto interno, di cui la Corte non deve occuparsi. Tuttavia, come la Corte di Strasburgo e la Corte costituzionale italiana riconoscono facilmente, la Corte di Strasburgo è l’organo che ha l’«ultima parola» sull’interpretazione della Convenzione [87]. Spetta pertanto a questa Corte chiarire che il concetto di «diritto consolidato» non ha alcun fondamento nella giurisprudenza di Strasburgo, come ha fatto nella presente sentenza.
38. I giudici del Palazzo della Consulta affermano che il concetto di «giurisprudenza consolidata» è riconosciuto nell’articolo 28 della Convenzione e che ciò dimostra che, anche alla luce della Convenzione, si ammette che il potere di persuasione delle decisioni può variare fino a quando non si manifesti una «giurisprudenza consolidata». A sostegno di questa lettura, citano il rapporto esplicativo del Protocollo n. 14 alla Convenzione, che afferma, in relazione all’articolo 8, che la nozione di giurisprudenza consolidata si riferisce «per la maggior parte» alla «giurisprudenza costante di una camera» o che «in via eccezionale», una sola sentenza di principio della Corte costituisce una «giurisprudenza consolidata, in particolare se si tratta di una sentenza della Grande Camera» [88].
39. Tuttavia, il concetto di giurisprudenza consolidata differisce radicalmente da quello di «diritto consolidato» utilizzato dalla Corte costituzionale, nonostante un’apparente similitudine. In primo luogo, la funzione di una giurisprudenza consolidata non è in alcun modo quella di modulare la forza normativa o la «densità persuasiva» delle sentenze e delle decisioni della Corte in funzione del grado di «consolidamento». L’unica funzione di una giurisprudenza consolidata è quella di conferire a un comitato la «competenza» [89] di decidere su una causa invece di rinviarla a una sezione della Corte. Ciò non è dovuto al fatto che una giurisprudenza consolidata sarebbe in un certo modo superiore al resto della giurisprudenza, ma semplicemente al fatto che consente il ricorso ad una procedura «semplificata»[90] per le cause ripetitive [91]. Inoltre, i ricorrenti possono contestare la natura consolidata della giurisprudenza appellandosi all’articolo 28 § 3 della Convenzione. La giurisprudenza consolidata permette alla Corte di operare una distinzione nella sua giurisprudenza sulla base della semplicità d’interpretazione, ma non è in alcun modo indicativa del carattere vincolante delle sue sentenze.
40. La Convenzione significa ciò che la Corte ritiene che la Convenzione significhi, né più né meno. Le giurisdizioni degli Stati membri e il pubblico in generale devono potersi aspettare che la Corte rispetti le sue decisioni e sentenze precedenti in tutte le cause che comportano circostanze di fatto simili, per quanto numerosi possano essere i precedenti [92]. Ciò vale ovviamente anche per le procedure di sentenze «pilota» e «quasi pilota». Pur non essendo basate sulla Convenzione, ma sul regolamento della Corte [93], queste sentenze sono strumenti classici di controllo della costituzionalità che svolgono un ruolo decisivo nel risolvere i malfunzionamenti del diritto interno o la non correzione da parte del legislatore dei malfunzionamenti sistemici, ma non hanno un’autorità interpretativa speciale né un valore giuridico distinto. In realtà, esse confermano essenzialmente la giurisprudenza precedente che è stata pronunciata nei confronti della parte contraente convenuta o di altre parti contraenti [94]. Per questa Corte, ogni decisione o sentenza rappresenta una fonte di interpretazione autorevole per la Convenzione e costituisce, come riconosce la stessa Corte costituzionale Italiana, «l’ultima parola» [95] sul suo significato. La Corte afferma questo principio in termini semplici: «le sue sentenze hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e la loro autorità interpretativa non possono quindi dipendere dal collegio giudicante che le ha emesse» [96].
41. La Corte fa molta attenzione non solo a distinguere tre concetti, vale a dire il «valore giuridico», il «carattere vincolante» e «l’autorità interpretativa», ma anche ad includere nella frase la parola fondamentale «tutti», in modo da eliminare qualsiasi dubbio circa la sua intenzione. Per la Corte, qualunque sia la categoria alla quale appartiene il collegio giudicante competente, ciascuna delle sue decisioni definitive diventa res judicata tra le parti della controversia e res interpretata nei confronti di tutte le parti contraenti. Il principio dell’«autorità interpretativa» (res interpretata) di «tutte» le sentenze della Corte entra quindi nella giurisprudenza di Strasburgo attraverso l’ampia porta di questa sentenza della Grande Camera. [97].
42. Questo principio priva la sentenza n. 49/2015 del suo fondamento teorico. La Corte, infatti, respinge la nozione di diritto consolidato che è alla base di tale sentenza. Pertanto, la Grande Camera invita la Corte costituzionale a riesaminare le modalità dei suoi rapporti con la Corte e non le lascia alcun «margine di apprezzamento» che le consenta di astenersi dal farlo, poiché nella fattispecie la Corte non si avvale di tale margine di apprezzamento [98]; del resto non è neppure accettabile invocare il margine di apprezzamento in caso di disposizioni inderogabili quali l’articolo 7 della Convenzione [99], così come non è ammissibile utilizzare questa dottrina per rifiutare di eseguire una sentenza definitiva della Corte nell’ordinamento giuridico interno.[100]

ii. L’inquietante criterio del «non consolidamento» del diritto (§§ 43-56)

43. Un’analisi dettagliata dei criteri che la Corte costituzionale italiana applica per individuare il «diritto non consolidato» tradisce la sua inclinazione a creare una situazione di pericolosa incertezza giuridica. Inoltre, uno studio più attento dimostrerà che, di per sé, il concetto di «diritto consolidato» è controproducente. Il primo criterio invocato dalla Corte costituzionale italiana per confutare la natura consolidata della giurisprudenza europea è quello della «creatività del principio affermato rispetto all’approccio tradizionale della giurisprudenza europea». È difficile capire cosa significhi «creatività» in un contesto del genere. In particolare, qualsiasi soluzione ad una situazione di fatto che si presenti per la prima volta dinanzi alla Corte sarebbe, ipso facto, «creativa» in un senso pertinente. Il «diritto consolidato» non potrebbe quindi risultare da un’unica causa. Se ciò fosse vero, la Corte si troverebbe in una situazione assurda: quando essa dovesse esaminare un’altra causa che presenti le stesse circostanze di fatto, non avrebbe ancora un «diritto consolidato» a sostegno della sua analisi. Solo dopo un numero imprecisato di cause indipendenti la Corte potrebbe conformarsi al «diritto consolidato».
44. Inoltre, per evidenziare la «creatività», è necessario confrontare le caratteristiche pertinenti del contesto di fatto e della motivazione giuridica delle diverse cause al fine di decidere se la soluzione di una causa fosse «creativa» o «tradizionale». Questo lavoro comparativo è, tuttavia, un esercizio intellettuale che non ha nulla di ovvio né di innocente. Tutte le cause sono diverse per certi aspetti, si potrebbe dire che tutte le cause sono «creative» nel vero senso del termine. L’interprete dispone quindi di un’enorme discrezionalità per individuare tra le varie cause quelle che sono vincolanti e quelle che non lo sono. Questo punto è illustrato ancora più chiaramente dal secondo criterio citato dalla Corte costituzionale: «la possibilità di individuare dei punti di distinzione, se non addirittura di opposizione, rispetto ad altre sentenze e decisioni della Corte di Strasburgo». L’esercizio di distinguere o contrapporre le cause non è ovvio e può portare a risultati molto diversi a seconda della persona a cui è affidato il compito e del contesto in cui viene svolto.
45. Non meno problematico è il terzo criterio proposto dalla Corte costituzionale, quello «dell’esistenza di opinioni dissenzienti, soprattutto se basate su solide argomentazioni». Da un lato, la «solidità» delle argomentazioni sembra dipendere da una valutazione troppo soggettiva per poter essere considerata un serio indizio del carattere vincolante di una sentenza o di una decisione – o, come in questo caso, del carattere non vincolante del ragionamento contrario. D’altro canto, e soprattutto, le opinioni dissenzienti non sminuiscono in alcun modo la forza giuridica delle sentenze a cui sono allegate. Inoltre, ritenere che le opinioni dissenzienti riducano in qualche modo la forza giuridica delle sentenze equivarrebbe a conferire ai singoli giudici un potere che essi non possono logicamente detenere, o essere tenuti a detenere, in un organo collegiale come la Corte.
46. Il quarto criterio consiste nel «fatto che la decisione presa provenga da un collegio giudicante ordinario e non sia stata approvata dalla Grande Camera». Tale criterio non trova neppure fondamento nella Convenzione. Le sentenze definitive emesse dalle camere non devono essere ratificate dalla Grande Camera per avere pieno valore giuridico. La forza giuridica di una sentenza di Grande Camera è esattamente la stessa di quella di una sentenza della camera.
47. Forse il quinto e ultimo criterio sancito dalla Corte costituzionale è quello che più chiaramente rivela gli svantaggi pratici dell’analisi condotta da questa giurisdizione. Secondo la Corte costituzionale, «il fatto che, nella causa di cui è investita, la Corte europea non sia stata in grado di valutare le particolarità dell’ordinamento giuridico nazionale e che le abbia applicato criteri di valutazione elaborati con riferimento ad altri Stati membri e che, alla luce di tali particolarità, non sono invece molto adatti all’Italia», priverebbe una sentenza del suo carattere vincolante in cause analoghe. Una situazione del genere si verificherebbe ogni volta che un giudice nazionale ritenesse che la Corte di Strasburgo abbia applicato erroneamente a uno Stato un principio giuridico da essa ritenuto applicabile a un altro Stato. In termini qualitativi, ciò significa che i tribunali nazionali non dovrebbero seguire le sentenze e le decisioni della Corte di Strasburgo quando essa le ritiene «inadeguate all’Italia».
48. Indipendentemente dal punto di vista da cui viene analizzato, questo quinto criterio si basa su ipotesi errate. Nell’ammettere che la Corte non tiene conto delle particolarità dell’ordinamento giuridico nazionale, i giudici del Palazzo della Consulta presumono che la Corte non sia a conoscenza delle informazioni sul diritto nazionale fornite da entrambe le parti, dai terzi intervenienti e dalla propria divisione interna di ricerca, oppure che abbia ricevuto informazioni inesatte da parte di tutti i soggetti sopra menzionati. Inoltre, la Corte costituzionale trascura il fatto che, nel suo esercizio di bilanciamento, la Corte di Strasburgo tiene conto dei molteplici fattori relativi alla «tutela dei diritti e delle libertà altrui», nonché di altri interessi sociali oggettivi quali la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o la pubblica sicurezza, il benessere economico del paese, la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati, la tutela dell’ordine, della salute o della morale pubblici, e la tutela dell’autorità o dell’imparzialità del potere giudiziario (ad esempio, articoli 8-11 della Convenzione) e perfino le esigenze imposte dalle situazioni di emergenza (articolo 15 della Convenzione), e che svolge tale esercizio nel quadro dell’ordinamento giuridico del Consiglio d’Europa [101]. Peggio ancora, quando sottolinea la prevalenza delle particolarità dell’ordinamento giuridico nazionale nel suo esercizio di equilibrio tra i diritti garantiti dalla Convenzione e gli interessi costituzionali in gioco, la Corte costituzionale assume una posizione ostile alla causa dei diritti umani universali, o almeno ne dà l’impressione, e limita quindi rigorosamente la propria giurisprudenza sull’effetto erga omnes delle sentenze della Corte [102].
49. I problemi posti da quest’ultimo criterio diventano più chiari se considerati unitamente ai primi due criteri. Se la Corte di Strasburgo decide su una causa che ha origine nello Stato membro A con riferimento a una causa analoga decisa nello Stato membro B, il giudice nazionale potrebbe accusare la Corte di aver indebitamente «esteso» la causa che non tiene in debito conto le specificità del paese. D’altro canto, se la Corte decide sulla causa con un nuovo ragionamento, il giudice nazionale potrebbe accusarla di essere stata «creativa». In nessuno di questi due casi la decisione costituirebbe un «diritto consolidato».
50. Infine, fatto tanto preoccupante quanto gli stessi criteri di per sé, la Corte costituzionale ritiene che il diritto «consolidato» (e quindi vincolante) non sussista quando sussistono «in tutto o in parte» i criteri di cui sopra. Se ciascuno dei criteri esposti conferisse all’interprete un’enorme discrezionalità, la combinazione di tutti questi criteri metterebbe più direttamente in discussione il significato stesso della giurisprudenza europea.
51. È sconcertante constatare che i criteri per individuare il diritto non consolidato si basano su un’interpretazione errata della struttura della Corte, in quanto gli articoli 27, 28, 42 e 44 della Convenzione stabiliscono le condizioni alle quali le sentenze pronunciate e le decisioni adottate rispettivamente da collegi monocratici, comitati, camere e Grande Camera diventano esse stesse definitive e che né la loro lettera né il loro spirito confermano l’ipotesi implicita della Corte costituzionale di una differenza nel valore giuridico di tali sentenze e decisioni. Inoltre, questi criteri tracciano un quadro poco lusinghiero della giurisprudenza della Corte, che è lungi dall’essere corroborato da prove, ad esempio quando si suggerisce che vi possono essere alcune sentenze in cui la Corte «in sostanza» non dica nulla o che le sentenze emesse in nuovi settori del diritto sono soggette a «revisione» e, più in generale, che una parte della giurisprudenza della Corte non sia d’accordo con un «approccio più tradizionale della giurisprudenza europea», comunque si voglia definirla. E, soprattutto, l’effetto cercato da questi criteri è quello di liberare i giudici ordinari dall’obbligo imposto dalla Convenzione di dare piena esecuzione alle sentenze della Corte [103].
52. Sorprendentemente, la Corte costituzionale è pronta ad ammettere che ogni giudice ordinario esercita un controllo diffuso sul carattere «consolidato» delle sentenze della Corte. Così, nel 2015, i giudici ordinari hanno riconquistato un potere veramente illimitato sull’applicazione della Convenzione che la prima coppia di «sentenze gemelle» aveva cercato di limitare rigorosamente. Va tuttavia sottolineata una differenza importante. Mentre fino al 2007 i giudici ordinari avevano l’ultima parola sull’applicazione della Convenzione nei confronti del diritto nazionale, nel 2015 hanno acquisito il potere di annullare l’applicazione delle sentenze della Corte quando ritengono che esse non costituiscano un «diritto consolidato». In linguaggio sociologico, sembra che la ridistribuzione dei poteri avvenuta nel 2015 tra la Corte di Strasburgo e la Corte costituzionale abbia rafforzato la posizione di quest’ultima, ma che ciò non sia stato privo di conseguenze a livello interno, poiché la ridistribuzione dei poteri tra giudici ordinari e giudici costituzionali ha indebolito la posizione di questi ultimi. Sembrerebbe che la preoccupazione suscitata dalla sempre maggiore autorità della giurisprudenza della Corte fosse così profonda dopo le cause Maggio e altri [104] e Agrati e altri [105] che il Giudice delle leggi ha ritenuto di poter contare sui giudici ordinari non solo per effettuare un primo controllo di tale giurisprudenza, ma anche per sostenerlo nel confronto con Strasburgo.
53. Nei tre anni trascorsi dalla sentenza n. 49 del 2015, la Corte costituzionale non ha fornito ulteriori indicazioni su come debbano essere interpretati o applicati i criteri per l’individuazione del diritto consolidato. Nella sua sentenza n. 184 del 2015, ad esempio, ha utilizzato il concetto di consolidata giurisprudenza europea per interpretare l’articolo 6 della Convenzione come applicato internamente [106]. La Corte non ha spiegato come questo «consolidamento» dovrebbe essere valutato. Analoghe osservazioni superficiali in merito al «diritto consolidato» sono contenute, ad esempio, nelle sentenze n. 187 del 2015 [107], n. 36 del 2016 [108], n. 102 del 2016 [109], n. 200 del 2016 [110] e n. 43 del 2018 [111]. In altre occasioni, la Corte costituzionale si è limitata a fare riferimento alla mancata applicazione delle sentenze della Corte di Strasburgo sulla base dei criteri stabiliti nella sentenza n. 49 del 2015. Pertanto, nella sentenza n. 166 del 2017, la Corte costituzionale non ha incluso alcun riferimento alla nozione di diritto consolidato nella sua valutazione giuridica, sebbene lo Stato lo abbia fatto. Tuttavia, il Giudice delle leggi ha osservato che la sentenza Stefanetti c. Italia era stata emessa dalla Corte «ma con l’opinione dissenziente di due dei suoi membri» [112].
54. Non sorprende quindi che il ricorso al criterio del «diritto consolidato» da parte dei giudici ordinari si sia rivelato, quanto meno, piuttosto caotico, come dimostra il modo in cui è stata accolta la sentenza della Grande Camera De Tommaso [113]. La modalità di applicazione di questo criterio dà l’impressione che esso agisca quasi come una sorta di «jolly» che permette di trarre qualsiasi conclusione che vada a vantaggio delle autorità nazionali. Il «diritto consolidato» di un giudice sarà il «diritto non consolidato» di un altro giudice. Tutto è possibile.
55. In poche parole, allo stato attuale della giurisprudenza costituzionale italiana, la Costituzione e la Convenzione contengono cataloghi di diritti fondamentali che sono tra loro correlati e che devono essere articolati al fine di massimizzare la tutela dei diritti convenzionali e costituzionali. Questo compito spetta al legislatore e ai tribunali nazionali, che hanno il dovere di interpretare il diritto interno secondo le norme della Convenzione così come interpretate dalla Corte di Strasburgo [114]. In caso di conflitto tra il diritto nazionale e la Convenzione, spetta alla Corte costituzionale risolverlo, in quanto i giudici ordinari non possono rifiutarsi di applicare una norma nazionale incompatibile. Solo il diritto consolidato può portare a un conflitto, poiché il diritto non consolidato non merita nemmeno un effetto erga omnes. Se la giurisprudenza consolidata della Corte è incompatibile con la Costituzione, è quest’ultima che prevale e la legge che ha recepito la Convenzione sarà parzialmente invalidata dalla Corte costituzionale.
56. Dal punto di vista di Strasburgo, la soluzione della Corte costituzionale implica sempre la possibilità di una dichiarazione di incostituzionalità parziale della legge del 1955, che non potrebbe essere attuata dinanzi al Consiglio d’Europa senza una denuncia della Convenzione, in quanto le riserve espresse «à la carte» non sono compatibili con la Convenzione e certamente non con il suo articolo 7.

Parte II – La risposta di Strasburgo a Roma (§§ 57-90)

IV. Il posto della Corte in Europa (§§ 57-71)

A. Lo spirito del tempo (§§ 57-63)

i. La Corte in preda a forti venti contrari (§§ 57-60)

57. In una Europa fortemente polarizzata e disordinata, destabilizzata dall’implosione dei partiti maggioritari tradizionali e dall’emergere di nuovi arrivati populisti, dilaniata da crescenti lotte economiche e dalla guerra alle proprie frontiere, la politica si volge verso un puro sciovinismo etno-religioso. Lo sciovinismo, non sono soltanto persone che agiscono contro la dignità intrinseca in ogni essere umano, sono i vantaggi materiali che lo sciovinista e la sua classe traggono dall’esercizio del potere, è il modo perverso in cui il potere viene esercitato nella società. Mettere la paura al centro della coscienza individuale in una logica primitiva di homo homini lupus e seminare la diffidenza tra i paesi in una logica basilare di regnum regno lupus è fondamentale per raggiungere il loro scopo, ossia minare la credibilità del sistema della Convenzione, aizzare sempre di più gli Europei gli uni contro gli altri e indebolire la coesione del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea. Questa stessa paura ha ispirato le purghe, le liste nere, le deportazioni e in alcuni casi la discriminazione e l’omicidio avallati dallo Stato.
58. Le linee di faglia politiche di ieri spariscono a vantaggio dei partiti estremisti e dei movimenti populisti che sono emersi nelle due estremità dello spettro politico. Uno dei principali punti comuni tra tali partiti e movimenti è il fiume senza precedenti di sproloquio bellicoso contro la Corte, fondato su informazioni errate, inesatte e facili da confutare. Un atteggiamento così riprovevole la dice lunga sui valori sociali e politici di questi partiti e movimenti e sul loro attaccamento inesistente alla cultura europea dei diritti umani. In questi ultimi anni, il risentimento contro la Corte ha raggiunto un livello allarmante, che attizza una rabbia settaria contro il sistema della Convenzione stesso. La retorica della Convenzione che sarebbe una «carta di scellerati», che proteggerebbe i terroristi, i pedofili, e i criminali di tutti i tipi contro la maggioranza innocente, i migranti abusivi e pigri contro i lavoratori devoti, o le minoranze privilegiate contro l’uomo comune svantaggiato, rispecchia la paura esacerbata del marginale, di ciò che è straniero o diverso.
59. Due correnti critiche sembrano essersi unite: da una parte l’idea onnipresente che la portata universale della Corte costituisca una minaccia per la democrazia locale; dall’altra, l’affermazione cinica secondo la quale il diritto dei diritti dell’uomo, così come applicato dalla Corte, respinge i limiti della nozione di diritto o addirittura, parlando chiaramente, non fa proprio parte del diritto. A forza di ripeterle, queste idee hanno finito per acquisire una finta credibilità. È difficile distinguerle dagli altri segni di un’ideologia reazionaria che monopolizza lo spazio mediatico con le proprie grida allarmistiche, affermando che lo Stato perde il controllo delle proprie frontiere e che l’Europa perde il controllo della propria identità. Questa retorica è impregnata di idee trite e ritrite su una Europa che subisce gli attacchi delle forze quasi eretiche della modernità e dei governi costantemente assediati da organizzazioni internazionali dalle mire politiche in costante aumento. Una tale retorica ha da molto tempo cancellato la linea di separazione tra la proclamazione di controverità di una critica dell’avanzata della giurisprudenza. Convinta che sia sufficiente esprimere un desiderio affinché questo si realizzi, essa schernisce l’idea di universalità dei diritti umani allo scopo di rimettere in discussione l’acquis culturale della Corte e far retrocedere quest’ultima.
60. Il problema principale è che questo racconto politicamente motivato, che mira a sconvolgere il sistema della Convenzione così come è stato costruito e si è evoluto nel corso degli ultimi sessant’anni, ha contaminato il discorso, se non il cuore, dei massimi rappresentanti giudiziari in alcuni paesi. La presente causa costituiva un’eccellente occasione per la Corte per lottare contro questi forti venti contrari e difendere il principale atout del sistema europeo e di tutela dei diritti umani e la garanzia fondamentale del sistema stesso della Convenzione, ossia la forza vincolante delle sentenze della Corte. Sostanzialmente, la Corte ha saputo cogliere questa opportunità.

ii. Un approccio del diritto penale che privilegia l’efficacia (§§ 61 63)

61. È vero che la maggioranza nega che la confisca urbanistica costituisca una sanzione amministrativa, ma non offre alcuna discussione credibile sugli argomenti contrari opposti dal governo convenuto, che continua a definire tale provvedimento come una misura di natura reale e di carattere ripristinatorio [115]. La maggioranza, infatti, ha scelto di non rispondere all’appello che avevo lanciato nella mia opinione separata allegata alla sentenza Varvara, nella quale rammentavo lo stato problematico della giurisprudenza in materia di confisca. Invece di mettere un po’ di ordine a questo proposito nella giurisprudenza della Corte, la maggioranza preferisce emettere una sentenza strettamente limitata alla confisca urbanistica, come è stato affermato nel paragrafo 155 della sentenza, senza collegare la valutazione giuridica che essa opera di tale misura ad altre forme di confisca che sono già state esaminate dalla Corte [116].
Dopo avere risolto la questione dell’applicabilità dell’articolo 7 in maniera così poco soddisfacente, la maggioranza affronta il nucleo della causa allo stesso modo. È vero che conferma il principio nulla poena sine culpa sancito nella causa Sud Fondi [117]. Secondo il paragrafo 242 della presente sentenza, infatti, l’articolo 7 esige, per punire, un nesso di natura intellettuale [118]. Ma nonostante questa conferma, la maggioranza ritorna immediatamente sulla propria posizione e ammette nel paragrafo successivo che tale esigenza non ostacola alcune forme di «responsabilità oggettiva che opera attraverso presunzioni di responsabilità», riprendendo così il nucleo dell’infelice paragrafo 70 della sentenza Varvara. Si arriva in tal modo a chiedersi come due prospettive radicalmente opposte dell’articolo 7, se non addirittura del diritto penale stesso, possano essere confermate dalla stessa giurisdizione, e ci si aspetterebbe che la maggioranza fornisca al lettore una spiegazione di questo groviglio giuridico. Ma essa omette semplicemente di fornire un’articolazione tra queste due dichiarazioni contraddittorie sia sul piano logico che assiologico. L’unica giustificazione che essa fornisce è che, poiché la Corte ha accettato alcune forme di presunzione di innocenza dal punto di vista dell’articolo 6 § 2 della Convenzione, essa «ritiene che la giurisprudenza sopra descritta si applichi mutatis mutandis sul piano dell’articolo 7» [119]. Ma la deplorevole confusione tra le garanzie procedurali dell’articolo 6 e le garanzie materiali dell’articolo 7 non si limita a questo.
62. A questo proposito, la presente sentenza è attuale. Purtroppo, la maggioranza sembra fuorviata da un approccio del diritto penale che privilegia unicamente l’efficacia. Come viene sottolineato nell’opinione dissenziente comune, il paragrafo 260 della presente sentenza assomiglia molto a un tentativo fatto senza convinzione di approvare la confisca urbanistica senza condanna sulla base di esigenze non negoziabili di «prevenzione dei reati» e di lotta contro «reati complessi», a prescindere da cosa questo possa significare. Questo tipo di ragionamento è indissociabile dall’amalgama politico ideologicamente retrogrado oggi dominante, che è composto da un approccio puramente retributivista del diritto penale [120], da una procedura penale che privilegia unicamente gli interessi della polizia [121], da un diritto penitenziario deliberatamente attenuato e giustificato dall’argomento del «ben meritato» [122], e da una politica di «crimmigration» davvero disumana [123], senza comunque offrire la minima giustizia per le vittime di gravi reati come la tortura [124]. Una giurisprudenza così liberticida fa vedere il lato peggiore dell’Europa nella storia recente del diritto penale, come se Beccaria non avesse mai scritto Dei delitti e delle pene.
63. In questo stato d’animo errato, applicando l’articolo 7 al sig. Gironda, la maggioranza arriva al punto di ammettere l’inammissibile in uno Stato retto dal principio della preminenza del diritto: essa baratta infatti le garanzie dell’articolo 7, inderogabili, con i diritti riconosciuti dall’articolo 6, per i quali sono previste deroghe [125]. Per di più, nel suo sforzo apparente di salvare a qualsiasi prezzo la confisca urbanistica senza condanna nel caso del sig. Gironda, la maggioranza si contraddice. Pur affermando che la confisca senza condanna è ammissibile dal punto di vista dell’articolo 7 della Convenzione, solo «a condizione che i tribunali in questione abbiano agito nel pieno rispetto dei diritti della difesa sanciti dall’articolo 6 della Convenzione» [126], essa conclude che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 2 della Convenzione nei confronti del sig. Gironda, ma che non vi è stata violazione dell’articolo 7. Non riesco a comprendere perché la maggioranza non applichi il suo stesso criterio nel caso del sig. Gironda. Nel caso di specie, i giudici non hanno agito «nel pieno rispetto» dell’articolo 6. Di conseguenza, in applicazione del criterio determinato dalla maggioranza stessa, si dovrebbe avere violazione non solo dell’articolo 6, ma anche dell’articolo 7. In ogni caso, in fin dei conti, la confisca urbanistica senza condanna non è salva in quanto contravviene sempre alla presunzione di innocenza, come riconosce la Grande Camera in maniera quasi unanime [127].

B. L’acquis culturale della Corte (§§ 64-67)

i. Lo straordinario retaggio della Corte (§§ 64-65)

64. Per ogni oncia di critica rivolta alla Corte vi è una libbra di elogio. Attraverso le sue decisioni e sentenze vincolanti, la Corte ha esercitato una ammirevole leadership a livello mondiale in materia di tutela dei diritti umani, stimolando l’umanità a progredire negli Stati membri e anche oltre. In una Europa in cui fin troppe persone si sono misurate con enormi sofferenze e hanno beneficiato solo di scarse opportunità, la Corte ha molto spesso portato la fiaccola del progresso, promuovendo la causa delle minoranze, degli emarginati, degli esclusi, dei denigrati, dei nullatenenti, dei diseredati, dei reietti, dei paria, di tutti quei figli di un dio minore dimenticati dai governi e dai tribunali nazionali.
65. La Corte ha cercato di essere un tetto sotto al quale chiunque avrebbe potuto trovare riparo dalle molteplici tempeste che hanno investito l’Europa in passato, e dalle molte altre che si profilano all’orizzonte. Ben al di là delle presunte violazioni dei diritti civili e politici fondamentali, la Corte ha ascoltato la voce di coloro che appartengono ai gradini più bassi della piramide sociale, che si sentono messi da parte, la cui aspirazione al miglioramento è soffocata da un sistema di istruzione pubblica impoverito, strangolata da un sistema sanitario pubblico carente di fondi e di personale, e dimenticati da un sistema giudiziario oberato, spesso indifferente. In questo difficile contesto, la Corte non ha evitato di rispondere alle preoccupazioni quotidiane della classe popolare in difficoltà, come ad esempio nel caso dell’accesso degli stranieri alle prestazioni sociali. Basti prendere l’esempio rivelatore dell’Italia.

(ii) L’esempio rivelatore dell’Italia (§§ 66-67)

66. In Italia, il retaggio della Corte è estremamente ricco e ha avuto un impatto su numerosi campi del diritto, tra gli altri, sulla procedura penale (in particolare, l’obbligo di pubblicità del dibattimento giudiziario [128], l’esclusione dei procedimenti in absentia [129], il risarcimento in caso di lunghezza eccessiva dei procedimenti [130] e il meccanismo di revisione sulla res judicata sulla base di una sentenza della Corte [131]), sul diritto penale (il principio della retroattività della legge più favorevole al reo [132]e la riabilitazione dopo la condanna [133]), sul diritto penitenziario (le condizioni di detenzione negli istituti di pena sovraffollati [134] e le conversazioni telefoniche dei detenuti [135]), sul diritto civile (il principio della non retroattività [136]), sul diritto di famiglia (il diritto di matrimonio degli stranieri [137], il diritto al ricongiungimento familiare [138] e la retroattività della legge che parifica i figli naturali a quelli nati all’interno del matrimonio [139]), sulla legge fallimentare (lo status personale del fallito [140]), sul diritto del paziente (la procreazione medicalmente assistita [141] e la ricerca scientifica sugli embrioni [142]), sul diritto previdenziale (la non-discriminazione nell’accesso degli stranieri alle prestazioni sociali [143]), sul diritto del lavoro (la libertà sindacale [144]), sul diritto amministrativo (l’espropriazione per causa di utilità pubblica [145]) e sullo stesso diritto costituzionale (l’immunità parlamentare [146]). In sintesi, la giurisprudenza della Corte ha profondamente influenzato il controllo costituzionale all’italiana e ha «indotto la Corte costituzionale a rivedere la sua precedente giurisprudenza e a sviluppare nuovi principi e norme »[147].
67. Un tale impatto ha attirato sulla Corte, in passato, l’antipatia dei partiti di entrambi gli schieramenti della scena politica nonché di una potente élite di abili combattenti politici che hanno unito le loro forze in una coalizione che comprende i propugnatori del neoliberismo, che detestano lo Stato interventista, e i sostenitori dello Stato nazione, che si oppongono visceralmente a ogni tipo di cortesia internazionale e di alleanza. L’umore è sanguigno in alcuni quartieri d’Europa. Alcuni leader spingono la popolazione verso gli istinti più bassi e nutrono la loro base politica di argomenti aggressivi su temi delicati come le politiche in materia penale, di immigrazione o di minoranze. Tali idee hanno nuova presa e sono difese da una massa immatura quanto i suoi leader. Lo stato d’animo ristretto e incline al sovranismo è ben evidente nella reazione ad alcune sentenze «scomode» della Corte. Nella crociata contro i principi consolidati di diritto internazionale e i principi fondamentali del sistema della Convenzione alcuni governi e i loro protégés pretendono che la loro appropriazione della Convenzione significhi che i tribunali nazionali abbiano l’ultima parola sulla sua interpretazione e, soprattutto, sull’esecuzione delle sentenze della Corte. L’effetto ipnotizzante del messaggio mira a far perdere di vista la differenza tra il potere delle Parti contraenti sulla sorte della Convenzione in quanto trattato internazionale e il ruolo unico e incondizionato della Corte nel determinare il suo contenuto in conformità all’articolo 19 della Convenzione e imporre la sua interpretazione attraverso sentenze aventi un effetto diretto e vincolante sull’ordinamento giuridico di tutte le Parti contraenti.

C. Quale dialogo giudiziario? (§§ 68-71)

(i) La logica antagonista di «noi e loro» (§§ 68-69)

68. Alcune giurisdizioni nazionali non hanno resistito all’attuale virata populista che tende a fare della Corte il capro espiatorio di tutti i mali d’Europa. Sotto l’accattivante motto del «dialogo giudiziario» tra le giurisdizioni nazionali e la Corte, si dispiega una cinica strategia volta a colpire i fondamenti del sistema della Convenzione [148]. In una logica amara, conflittuale e antagonistica di «noi e loro», alcune giurisdizioni nazionali hanno rimesso in causa la forza giuridica delle sentenze scomode della Corte, esprimendosi a favore di una interpretazione westphaliana dei diritti umani centrata sullo Stato, che darebbe la priorità al potere regolamentare discrezionale dei governi sui diritti fondamentali dei cittadini. Le lezioni della storia non potrebbero essere più lontane dal loro spirito. Domare la Corte è una sfida per le loro crescenti ambizioni.
69. Non lasciamoci invischiare in un gergo giuridico e in tecnicismi. Le dichiarazioni ipocrite secondo le quali il dialogo giudiziario riaffermerà l’impegno delle Parti contraenti al rispetto dei principi stabiliti da lunga data che garantiscono l’integrità del sistema della Convenzione sono serviti soltanto a mascherare una animosità malevola nei confronti della Corte tendente a ostacolare la spinta verso un’azione più ambiziosa da parte di quest’ultima. Il margine di reazione della Corte è sempre più ridotto.

(ii) La lotta per delega perla sopravvivenza del diritto internazionale (§§ 70-71)

70. La presente sentenza si è rivelata l’occasione per prefigurare quali mali ci potranno assalire in un prossimo futuro. Alcune autorità nazionali stanno puntando sul fallimento del sistema europeo dei diritti umani, e non si fermano dinanzi ad alcun tabù. Dopo l’adozione in Russia della legge del 15 dicembre 2015 che accordava alla Corte costituzionale russa il potere di dichiarare non esecutive le decisioni dei tribunali internazionali, tra cui quelle della Corte, se non contrastavano con la Costituzione russa, il campanello d’allarme in Europa dovrebbe avere già suonato [149]. Il fatto che, nella sua sentenza che ha aperto la porta a tale legge [150], la Corte costituzionale russa abbia citato come fonte di ispirazione, tra le altre, la sentenza n. 264/2012 emessa dalla Corte costituzionale italiana nella causa sulle pensioni svizzere, non è un segnale particolarmente confortante. Quando cedono i più forti tabù, come è accaduto nel dicembre 2015, nulla si oppone al crollo dei più deboli.
71. Nella loro lotta finale contro il diritto internazionale e le giurisdizioni internazionali, i cavalieri del campanilismo saranno fermati solo da un solido ragionamento giuridico basato su principi, che possa allo stesso tempo denunciare il loro discorso altezzoso ed egoista, convincere la comunità giuridica e placare i timori della classe popolare. La scelta dei giudici nazionali, in particolare delle corti costituzionali e supreme, sembra oggi molto chiara: aderire alla visione cosmopolita dei diritti umani universali in quanto limitazione della sovranità degli Stati [151], o adottare la visione opposta del ripiegamento su se stesso del diritto interno in quanto riserva inespugnabile della sovranità, e di conseguenza di diritti umani universali considerati come «una assurdità sui trampoli», per riprendere l’espressione di Bentham. È una lotta per delega tra partigiani e oppositori del diritto internazionale.

V. L’«ultima parola» alla Corte (§§ 72-90)

A. L’«autorità interpretativa» della sentenza della Corte (§§ 72 80)

i. Dall’effetto res interpretata all’effetto erga omnes della sentenza della Corte (§§ 72 77)

72. La Convenzione obbliga gli Stati non soltanto a far rispettare, conformemente all’articolo 46 della Convenzione, il carattere vincolante di una sentenza della Corte nei confronti delle parti della controversia, ma anche a impedire che una violazione constatata in una sentenza sia ripetuta nei confronti di terzi [152]. Questa è una delle conseguenze del principio di sussidiarietà e del suo ruolo essenziale nell’architettura del sistema della Convenzione. In particolare, i giudici nazionali devono interpretare e applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione e alla giurisprudenza della Corte. Così, se spetta in primo luogo alle autorità nazionali interpretare e applicare il diritto nazionale, la Corte deve verificare se il modo in cui il diritto è interpretato e applicato produce effetti conformi ai principi della Convenzione [153]come interpretati alla luce della sua giurisprudenza [154].
73. Essendo una conseguenza del principio di sussidiarietà, questa norma si applica anche al di fuori degli stretti limiti degli articoli 41 e 46 della Convenzione, che riguardano principalmente i rapporti tra le parti della controversia. Ciò emerge anche dalla dichiarazione di Brighton, nella quale gli Stati membri si sono impegnati a garantire «la piena attuazione della Convenzione a livello nazionale [che] richiede che gli Stati parti adottino misure efficaci per prevenire le violazioni» [155]. A tal fine, «tutte le leggi e le politiche dovrebbero essere formulate, e tutti i funzionari dello Stato dovrebbero esercitare le proprie responsabilità in un modo che dia piena attuazione alla Convenzione». Perciò «i giudici e le autorità nazionali dovrebbero tener conto della Convenzione e della giurisprudenza della Corte».
74. Peraltro, le misure che uno Stato è tenuto ad adottare per l’esecuzione di una sentenza non si limitano a quelle che riguardano il ricorrente. Questa è la conseguenza delle considerazioni sopra espresse relativamente alla sussidiarietà. Se la violazione è dovuta a un problema strutturale, lo Stato convenuto deve, al contrario, adottare le misure generali appropriate per porvi rimedio al fine di evitare che la stessa violazione possa colpire altre persone. Secondo la giurisprudenza costante della Corte, in caso di constatazione di una violazione contro uno Stato,
«quest’ultimo non solo è chiamato a versare agli interessati le somme accordate a titolo di equa soddisfazione, ma anche ad adottare nel suo ordinamento giuridico interno misure individuali e/o, se del caso, generali per porre fine alla violazione constatata dalla Corte e per annullarne le conseguenze, allo scopo di porre il ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata inosservanza delle esigenze della Convenzione» [156].
75. Ciò è evidentemente legato al fatto che la Corte si basa su dei principi per deliberare [157] . Quest’ultima ha più volte rammentato che
«le sue sentenze servono non solo a decidere le cause ad essa sottoposte, ma più in generale a chiarire, salvaguardare e sviluppare le norme della Convenzione e a contribuire in tal modo al rispetto, da parte degli Stati, degli impegni che questi ultimi hanno assunto nella loro qualità di Parti contraenti» [158].
76. Poiché le sentenze della Corte hanno tutte la stessa forza giuridica, lo stesso carattere vincolante e la stessa autorità interpretativa [159], l’applicazione di questa norma non può dipendere, come lascia pensare la Corte costituzionale italiana nella sentenza n. 49/2015, dal collegio giudicante che le ha emesse [160]. Certo, non è escluso che talvolta sia necessario chiarire il significato di talune sentenze. Uno scambio giurisprudenziale tra la Corte e i giudici nazionali interessati può quindi rispondere a tale esigenza, senza tuttavia che ciò possa avere come conseguenza quella di sospendere gli obblighi di questi ultimi nei confronti della giurisprudenza di Strasburgo.
In altri termini, il valore giuridico della sentenza della Corte ingloba non solo il suo effetto obbligatorio inter partes (il suo «carattere vincolante» per riprendere le parole utilizzate dalla Corte), ma anche la sua «autorità interpretativa», altrettanto importante. Nominandola, la Corte ha trasformato il concetto dottrinale dell’«autorità interpretativa» (res interpretata) delle sue sentenze in un principio giuridicamente vincolante di interpretazione e di applicazione della Convenzione. Non si tratta più di una semplice enunciazione dottrinale, ma di un principio giuridico a se stante, giudizialmente sancito e che disciplina gli effetti delle sentenze della Corte. In tal senso, la sentenza della Corte ha un effetto erga omnes nei confronti di tutte le parti contraenti, anche se è stata pronunciata solo nei confronti di una o di alcune di esse [161]. Ciò corrisponde al riconoscimento giudiziario di un impegno che le Parti contraenti hanno assunto già nella dichiarazione di Interlaken:
«4. La Conferenza rammenta che è responsabilità primaria degli Stati parti assicurare l’applicazione e l’attuazione della Convenzione e, di conseguenza, invita gli Stati parti ad impegnarsi a:
(…)
c) tener conto dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte, soprattutto al fine di valutare le conseguenze che si impongono a seguito di una sentenza che constata una violazione della Convenzione da parte di un altro Stato parte quando il loro ordinamento giuridico solleva lo stesso problema di principio;» [162]
77. Si può trovare conferma di questo approccio anche nella dichiarazione di Brighton, in cui si afferma che «i ricorsi seriali derivano principalmente da problemi sistemici o strutturali a livello nazionale» e che «è responsabilità di uno Stato Parte, sotto la supervisione del Comitato dei Ministri, assicurare che tali questioni e le conseguenti violazioni siano regolate nell’ambito dell’effettiva esecuzione delle sentenze della Corte» [163]. Peraltro, «attraverso la sua supervisione, il Comitato dei Ministri assicura che sia dato il dovuto effetto alle sentenze della Corte, anche attraverso l’attuazione di misure generali per risolvere questioni sistemiche più ampie» [164]. Infine, gli Stati sono incoraggiati «a sviluppare le capacità ed i meccanismi interni per assicurare la rapida esecuzione delle sentenze della Corte».[165]

ii. Dal ripiegamento su se stessi costituzionale al costituzionalismo a vari livelli (§§ 78-80)

78. Questi obblighi si estendono al diritto costituzionale degli Stati parti alla Convenzione. L’articolo 1 della Convenzione non fa alcuna distinzione tra il tipo di norme o misure in questione e non esclude alcuna parte della «giurisdizione» degli Stati membri dall’ambito della Convenzione. È quindi con la totalità della loro «giurisdizione» la quale, spesso si esercita in primo luogo attraverso la Costituzione che questi Stati rispondono del loro rispetto della Convenzione [166]. Inoltre, tale approccio è conforme all’articolo 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati secondo il quale uno Stato non può invocare le disposizioni del suo diritto interno, compreso il suo diritto costituzionale, per giustificare la mancata esecuzione di un trattato [167].
79. L’era del ripiegamento su se stessi costituzionale è finita in Europa. In un’epoca di costituzionalismo a vari livelli, la Convenzione è uno «strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo» [168]. Essa prevale pertanto sulle disposizioni e sugli interessi costituzionali delle Parti contraenti non soltanto a Malta [169], in Irlanda [170], in Bosnia [171], in Russia [172] e in Ungheria [173], ma anche in Italia e in tutti gli altri Stati membri del Consiglio d’Europa. In termini dogmatici, dal punto di vista di Strasburgo, la distinzione superata tra ordini costituzionali monistici e dualistici è divenuta senza oggetto e non ha alcun effetto sul carattere vincolante della Convenzione, come interpretata dalle sentenze della Corte, nel diritto interno delle Parti contraenti [174]. Questo costituzionalismo, a vari livelli, difeso e praticato dal Consiglio d’Europa, va oltre questa distinzione in quanto cerca una reductio ad unitatem nelle questioni relative ai diritti fondamentali in tutti gli Stati membri [175].
80. Come dimostra chiaramente la causa Baka [176], questo principio, secondo il quale la Convenzione prevale sulle disposizioni e sugli interessi costituzionali delle Parti contraenti è particolarmente importante nell’attuale contesto politico europeo, in un momento in cui delle «democrazie illiberali» estendono i limiti delle loro costituzioni adottando disposizioni contrarie ai principi fondamentali del diritto della Convenzione, come il principio dell’indipendenza del potere giudiziario. Se le Parti contraenti vogliono una Corte di Strasburgo abbastanza forte per resistere alle autorità nazionali che sono grundrechtsfeindlich (ostili ai diritti umani), allora dovranno affrontarla anche quando busserà alla loro porta. Il sistema della Convenzione è evidentemente incompatibile con una logica ipocrita NIMBY («Not in my backyard!», non nel mio cortile) che afferma che i diritti umani universali sono una cosa buona per gli altri, ma una cosa cattiva per se stessi.

B. Una dottrina costituzionale dei diritti umani che privilegia la Convenzione (§§ 81-86)

i. L’integrazione della Convenzione nell’ordinamento costituzionale e giuridico (§§ 81 84)

81. È opportuno osservare che la Corte costituzionale italiana ha già recepito molti dei principi della Convenzione nel diritto interno, elaborando una teoria costituzionale dei diritti fondamentali sensibile alla Convenzione. Nella sentenza n. 349/2007, essa sottolinea pertanto che il sistema della Convenzione «garantisce l’applicazione di un livello uniforme di protezione in tutti gli Stati membri». Per maggiore precisione, la Convenzione è un trattato normativo multilaterale dotato di un meccanismo centralizzato e autorevole di definizione dei criteri e un sistema di garanzia collettiva [177].
82. Inoltre, secondo i giudici del Palazzo della Consulta, l’articolo 46 della Convenzione impone agli Stati di adottare non solo le misure individuali necessarie per porre fine agli effetti della violazione constatata e provvedere al risarcimento, ma anche, se del caso, qualsiasi misura di carattere generale idonea a risolvere il problema strutturale che è alla base della violazione [178]. Perciò, nella sua lodevole sentenza resa nella causa Dorigo, la Corte costituzionale ha concluso che l’articolo 630 del codice di procedura penale era incostituzionale in quanto non prevedeva la riapertura di un procedimento penale dopo la constatazione definitiva di una violazione dell’articolo 6.
83. Dopo la sentenza Scoppola (n. 2) [179], la Corte costituzionale è andata oltre. Nella sua esemplare sentenza n. 210/2013, la Consulta, di fronte ai «fratelli minori di Scoppola», ha fatto riferimento non soltanto all’obbligo di sostituire la pena inflitta all’imputato Scoppola, ma anche all’obbligo implicito di porre fine al problema strutturale del quadro giuridico interno che ha portato a una violazione della Convenzione e di eliminarne gli effetti per tutti i detenuti che si trovassero nella stessa situazione. Era un’occasione perfetta per i giudici del Palazzo della Consulta per riconoscere pienamente l’effetto erga omnes delle sentenze della Corte. Essi hanno risposto alle aspettative, sottolineando l’esistenza di un tale effetto anche quando la Corte non ricorre al meccanismo della sentenza pilota o non impone l’adozione di misure generali [180]. L’effetto giuridico di una sentenza definitiva della Corte, indipendentemente dal suo oggetto o dalla sua forma, è vincolante per qualsiasi Parte contraente. Come eccellente dimostrazione di questo principio, la Corte costituzionale ha affermato inequivocabilmente che l’effetto erga omnes delle sue sentenze comprendeva anche le sentenze emesse contro altre Parti contraenti [181].
84. L’integrazione della Convenzione nell’ordinamento giuridico italiano è favorita anche dall’intreccio sostanziale tra la Costituzione e la Convenzione e dall’interazione tra garanzie convenzionali e nazionali. Tale interazione è ovviamente facilitata dall’articolo 2 della Costituzione e dall’apertura del catalogo costituzionale dei diritti umani, in quanto una clausola aperta come quella della Costituzione italiana è il mezzo naturale per recepire diritti e libertà non espressamente previsti dalla Costituzione ma derivanti dal diritto internazionale [182]. Una tale apertura al diritto internazionale è in effetti una caratteristica della tradizione giuridica e della civiltà romane. Nella visione cosmopolita dell’eterno Gaio:
«Omnes populi, qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum jure utuntur; nam quod quisque populus ipse sibi jus constituit, id ipsius proprium est vocaturque jus civile, quasi jus proprium civitatis; quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur vocaturque jus gentium, quasi quo jure omnes gentes utuntur. Populus itaque Romanus partim suo proprio, partim communi omnium hominum jure utitur.»[183]

ii. La protezione della Convenzione: un «pavimento», non un «soffitto» (§§ 85-86)

85. Tuttavia una teoria costituzionale dei diritti fondamentali sensibile alla Convenzione oggi non è più sufficiente. Si ha bisogno di una teoria costituzionale che privilegi la Convenzione, fatto diverso e più esigente. Da un punto di vista assiologico, anche se la Convenzione e la Costituzione sono sullo stesso piano, la prima prevale sulla seconda in caso di conflitto inevitabile. La teoria costituzionale deve fondarsi su questo principio di base, soprattutto in un momento in cui la natura intrinsecamente contro-maggioritaria dei diritti umani è dimenticata da alcuni legislatori, da alcuni giudici e da altre autorità pubbliche nazionali. L’ipersensibilità nazionale a determinati interessi costituzionali o, peggio ancora, la transazione puramente materiale tra i diritti della Convenzione e gli «altri interessi costituzionali» non possono essere nascosti dietro lo strumento argomentativo della massimizzazione dei diritti fondamentali. Ciò snaturerebbe il senso dell’articolo 53 della Convenzione. Come ha recentemente dichiarato il presidente Raimondi
«la conformità alla Costituzione di una determinata disposizione legislativa non ne garantisce la conformità alla Convenzione le cui esigenze, in certi casi, possono essere più elevate di quelle della Costituzione nazionale» [184].
86. Considerato il vero significato dell’articolo 53 della Convenzione, il rapporto tra la Corte e le corti supreme e costituzionali deve rispettare la seguente linea rossa. Le giurisdizioni nazionali possono andare oltre il livello di tutela accordato al ricorrente dalla Convenzione, ma non possono rimanerne al di sotto, nemmeno invocando un esame sistemico di altri interessi costituzionali in gioco. Metaforicamente parlando, la protezione garantita dalla Convenzione è un «pavimento», non un «soffitto» [185]. Di conseguenza, le corti costituzionali e supreme sono chiamate ad interpretare le sentenze della Corte e a confrontarle con il contesto costituzionale nazionale in cui saranno applicate. Tuttavia, i giudici nazionali non possono «riscrivere» la sentenza della Corte. In altre parole, non possono riesaminare il caso alla luce di «altri interessi costituzionali» e decidere nei confronti di un ricorrente che abbia già vinto la causa a Strasburgo. Le corti supreme e costituzionali non dovrebbero fungere da organo di appello per il governo convenuto contro le sentenze emesse a Strasburgo a favore del ricorrente. Le corti supreme e costituzionali non dovrebbero dare al governo una seconda [186] o addirittura una terza [187] possibilità di ridiscutere una causa dopo aver perso a Strasburgo. Si tratterebbe di una distorsione astrusa del sistema della Convenzione. Come Lord Rodger, ha così brillantemente affermato, Argentoratum locutum, iudicium finitum: «Strasburgo ha parlato, la causa è chiusa» [188].

C. La sfida della retorica dell’«identità nazionale» (§§ 87-90)

i. Una lezione da trarre dalla saga Taricco (§§ 87-88)

87. I rischi sopra citati sono evidentemente aggravati dal fatto che «l’identità nazionale» è una «donna tuttofare» che viene facilmente confusa con la valutazione opportunistica dell’«interesse nazionale» nel particolare contesto politico e sociale di una determinata causa. Lo status della prescrizione ne è un buon esempio. Come può uno stesso Stato sostenere a Lussemburgo il contrario di ciò che difende a Strasburgo? Come può la stessa Corte costituzionale sostenere dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea che il termine di prescrizione è una garanzia materiale del diritto penale soggetta al principio di legalità [189], un elemento distintivo ed essenziale dei «principi fondamentali dell’ordine costituzionale dello Stato membro» e dei «diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro», in definitiva, dell’«identità nazionale» italiana [190], e allo stesso tempo sostenere dinanzi alla Corte di Strasburgo che si tratta di un elemento non pertinente del diritto italiano ai fini del principio di legalità, che non osta neppure a una confisca senza condanna nelle cause di lottizzazione abusiva nelle quali il reato è prescritto? Perché il meccanismo del tempo dell’oblio [191] costituisce una caratteristica essenziale del diritto costituzionale italiano da opporre all’applicazione di una pena a Lussemburgo, ma non a Strasburgo?
88. Queste domande non sono retoriche. Esse mirano a dimostrare che la pertinenza del termine di prescrizione per l’«identità nazionale», tutelata dai famosi «controlimiti» invocati nella sentenza n. 24/2017, è stata totalmente ignorata nella sentenza n. 49/2015, semplicemente perché ciò non era opportuno ai fini della causa. Se è vero che, come giustamente afferma la sentenza n. 24/2017 e come ha confermato anche la Corte di giustizia dell’Unione europea [192], la prescrizione è una garanzia fondamentale della persona nell’ordinamento costituzionale e giuridico italiano, così come lo è nell’ordinamento giuridico europeo, è incomprensibile che questa stessa garanzia non abbia avuto alcun peso nella motivazione della sentenza n. 49/2015.

ii. La linea Maginot tra la Convenzione e la Carta dei diritti fondamentali (§§ 89-90)

89. Inoltre, nessun «controlimite» può essere invocato contro il diritto della Convenzione come interpretato dalla Corte. I «diritti umani inalienabili» italiani non possono essere usati come arma contro i diritti umani europei data la profonda affinità assiologica tra la Convenzione e la Costituzione democratica della Repubblica Italiana. Per riprendere le parole utilizzate in uno dei migliori esempi della giurisprudenza costituzionale italiana, i diritti umani
«garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione (…): non solo per il valore da attribuire al generale riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo fatto dall’art. 2 della Costituzione, (…), ma anche perché, al di là della coincidenza nei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione.» [193].
Pertanto, non è certamente accettabile invocare in malam partem «altri interessi costituzionali», quali la tutela dell’ambiente, per estendere la confisca senza condanna a un reato prescritto di lottizzazione abusiva [194].
90. In fin dei conti, la «linea Maginot» che era precedentemente tracciata tra il diritto della Convenzione e quello dell’Unione europea è scomparsa. In realtà, è sempre stata una barriera difensiva inafferrabile contro la piena attuazione della Convenzione, che ispirava un falso senso di sicurezza, ma non rappresentava la natura veramente intrecciata del diritto della Convenzione e di quello dell’Unione europea attraverso la Carta dei diritti fondamentali. Entrambi i diritti limitano la sovranità dello Stato. La preminenza sul diritto interno, anche sul diritto costituzionale, e l’effetto diretto nell’ordinamento giuridico interno sono anch’essi caratteristiche intrinseche del sistema della Convenzione [195]. Ciò significa ovviamente che tutti i giudici ordinari sono «giudici comuni della Convenzione» abilitati a disapplicare il diritto interno qualora quest’ultimo sia contrario al diritto della Convenzione come interpretato dalla Corte [196]. Un tale sindacato diffuso di convenzionalità favorisce non solo la cortesia internazionale, ma anche la trasparenza giudiziaria interna, evitando la tentazione di un’interpretazione «forzata» del diritto interno conforme alla Convenzione, che equivarrebbe a una disapplicazione mascherata. La convergenza della giurisprudenza di Strasburgo e di Lussemburgo e l’influenza reciproca delle rispettive norme giuridiche contribuiscono alla costituzionalizzazione dell’ordinamento giuridico europeo [197]. Se è assolutamente necessario determinare una preponderanza, gli articoli 52, paragrafo 3, e 53 della Carta sono molto chiari: essi stabiliscono la subordinazione assiologica della Carta e, di conseguenza, di tutta la legislazione europea alle norme sui diritti umani definite dalla Convenzione secondo l’interpretazione della Corte. [198]

VI. Conclusione (§§ 91-95)

91.; Mi rammarico che la presente sentenza non fornisca risposta alla domanda di chiarimenti da me espressa nella sentenza Varvara. Sarà per un’altra volta. La maggioranza preferisce aggirare le principali questioni di merito, come la posizione del principio nulla poena sine culpa nell’articolo 7 della Convenzione e la questione spinosa della compatibilità dell’esigenza dell’elemento soggettivo stabilita nella sentenza Sud Fondi [199] con la giurisprudenza confusa e fuorviante della Corte sulle presunzioni di responsabilità. Invece di rispondere a tali questioni, essa aggrava la situazione trasponendo in maniera apodittica tale giurisprudenza nell’articolo 7, senza alcuna spiegazione plausibile e senza tenere conto del fatto che l’articolo 7 non prevede deroghe. Su questa base dottrinale vacillante, la maggioranza sceglie di discostarsi dalla sentenza Varvara nei confronti del sig. Gironda, ma non fornisce alcuna motivazione di principio a questa scelta e prende una posizione che privilegia unicamente l’efficacia in materia. Questa posizione è al passo coi tempi. In fin dei conti, la confisca urbanistica senza condanna non è salva in quanto contravverrà sempre alla presunzione di innocenza, come ammette la maggioranza stessa.
92. Considerando che l’applicazione di una sanzione al reato di lottizzazione abusiva non richiede, nel diritto italiano, una dichiarazione formale di colpevolezza, che la giurisprudenza della Corte vuole dire, su questo punto, il contrario di quanto enuncia chiaramente e, in senso più ampio, che le sentenze della Corte possono opportunamente essere ignorate quando il loro «principio effettivo» non è chiaro, la sentenza n. 49/2015 produce l’effetto pratico di permettere ai giudici nazionali di ignorare l’effetto erga omnes delle sentenze della Corte o, tutt’al più, di applicarle in maniera selettiva. I principi enunciati nella sentenza n. 49/2015 minacciano di limitare l’efficacia pratica della giurisprudenza della Corte sui sistemi giuridici nazionali in maniera manifestamente pregiudizievole per il funzionamento dell’insieme del sistema della Convenzione. Il rischio di contagio della disobbedienza tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa non è meno evidente, come dimostrano alcuni esempi recenti nel Regno Unito e in Russia. Tutto il sistema della Convenzione è in pericolo.
93. Riconoscendo tale pericolo, la Corte coglie l’occasione per dare una risposta e affermare un principio. La presente sentenza è molto importante per quanto riguarda la questione spinosa del diritto consolidato e rimarrà in memoria come un grande passo in avanti per la tutela dei diritti dell’uomo in Europa. Il Giudice delle leggi non può ignorare il più importante messaggio inviato da Strasburgo nella presente sentenza: le sentenze della Corte «hanno tutte lo stesso valore giuridico [e] il loro carattere vincolante e la loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate» [200]. Questo principio priva la sentenza n. 49/2015 della sua pietra angolare teorica. In effetti, la Corte rifiuta la nozione di «diritto consolidato» che si trova al centro di questa stessa sentenza. In tal modo, la Grande Camera chiama la Corte costituzionale a rivedere le modalità della sua relazione con la Corte e non le lascia alcun «margine di apprezzamento» che le permetta di astenersi dal farlo. Così facendo, la Corte costituzionale deve prestare attenzione al valore della Convenzione in quanto strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo e al ruolo unico della Corte che fa autorità nel panorama giuridico europeo [201].
94. La presente opinione è una perorazione per il principio di universalità dei diritti umani. In Europa, la Corte è la prima interprete di questa universalità. Tuttavia, la sua autorità interpretativa viene rimessa in discussione e le sue sentenze non vengono eseguite da alcune autorità nazionali, in particolare da alcune corti costituzionali e supreme. Oltre alle pressioni politiche recentemente esercitate sulla Corte, questa «reticenza» di alcune corti costituzionali e supreme esercita una pressione ingiusta sul sistema della Convenzione nel suo complesso [202]. È necessario superare questo atteggiamento diffidente [203].
95. È tempo di svegliarsi di fronte al rischio sistemico senza precedenti che il sistema europeo dei diritti umani si trova a dover affrontare. Non è il momento di usare eufemismi costituzionali, e ancora meno di attizzare le fiamme a Strasburgo con una retorica dell’«identità nazionale» falsata da un immaginario anti-cosmopolita. In quanto padre fondatore del sistema, l’Italia ha una responsabilità particolare nel periodo difficile che attraversa oggi il sistema della Convenzione. Spetta ai padri fondatori dare l’esempio. È tutto ciò che ci si può aspettare da una nazione che ha fatto tanto per la cultura giuridica europea.

OPINIONE PARZIALMENTE DISSENZIENTE, PARZIALMENTE CONCORDANTE,
DEI GIUDICI SPANO E LEMMENS

(Traduzione)

I. Introduzione

1. Non possiamo sottoscrivere buona parte della sentenza. A nostro avviso, la maggioranza perde una buona occasione per avviare un dialogo costruttivo con la Corte costituzionale italiana e correggere la giurisprudenza della Corte. Invece di fare ciò, essa continua a imporre alle autorità nazionali una interpretazione del diritto interno che ne disconosce le caratteristiche fondamentali, e a far pesare sul sistema interno di tutela dell’ambiente esigenze convenzionali che ne ostacolano gravemente l’efficacia.
2. Concordiamo tuttavia con la maggioranza sull’esistenza di alcuni difetti nel sistema italiano. Per questa ragione, abbiamo votato con essa, per motivi leggermente diversi, a favore di una constatazione di violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione.
Inoltre, contrariamente alla maggioranza, preferiremmo esaminare i motivi di ricorso anche sotto il profilo degli articoli 6 § 1 e 13 della Convenzione, che secondo noi sono stati violati, in larga misura per gli stessi motivi per i quali, a nostro avviso, vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.
Il nostro principale disaccordo riguarda l’esame da parte della maggioranza del motivo di ricorso relativo alla violazione dell’articolo 7. Riteniamo che un esame del regime italiano di confisca in materia di lottizzazione debba portare a concludere che quel tipo di misura, anche se imposta da un giudice penale in un processo penale, non costituisce una «pena» ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione e quindi esula dal campo di applicazione di tale disposizione. Inoltre, anche ammettendo che l’articolo 7 sia applicabile, riteniamo che, in generale, la maggioranza faccia derivare da tale disposizione garanzie che poco o niente hanno a che vedere con il principio di legalità nel diritto penale.
Infine, constatiamo di avere posizioni opposte sulla questione dell’esistenza di una violazione dell’articolo 6 § 2 della Convenzione. Secondo noi, non si tratta di una questione fondamentale. Pertanto, non ci dilungheremo sull’argomento nella presente opinione separata.

II. Breve excursus storico dei rapporti tra la Corte europea e gli organi giudiziari italiani

3. Per comprendere bene la posta in gioco nella presente causa, è importante evidenziare il modo in cui la Corte ha trattato la questione delle misure di confisca in materia di lottizzazioni abusive in Italia, e il modo in cui i giudici italiani hanno reagito alle sue sentenze. Secondo noi, un excursus storico mostra che il sistema italiano si fonda su una politica di tutela ecologica rigida ma coerente, di cui tuttavia la Corte ha rifiutato sin dall’inizio alcune caratteristiche. I giudici italiani hanno cercato di allinearsi per quanto possibile ai principi della giurisprudenza della Corte, e al tempo stesso di rispettare le scelte politiche del legislatore.
4. Prima della decisione emessa dalla Corte nella causa Sud Fondi (2007) [1], la situazione nel diritto italiano era abbastanza chiara.
Le autorità amministrative (il comune e, in caso d’inerzia di questo, la regione) potevano disporre la confisca dei beni trasformati (lottizzati) in violazione delle norme urbanistiche applicabili. La proprietà ne veniva trasferita al comune; questo – o in caso di sua inerzia, la regione – poteva procedere alla demolizione di ogni manufatto costruito illegittimamente. Tali misure miravano al ripristino della legalità, né più né meno. Non vi era alcun elemento punitivo. Questo sistema di azione amministrativa è ancora in vigore (articolo 30, commi 7 e 8 del Testo unico in materia edilizia, menzionato nel paragrafo 107 della sentenza). Fino ad oggi, sembra che esso non sia oggetto di alcuna controversia tra la Corte e le autorità interne.
Una volta avviata l’azione penale nei confronti della persona accusata di essere responsabile di lottizzazione abusiva, il giudice penale acquisiva la competenza a disporre la confisca del bene abusivamente lottizzato, a condizione che fosse accertato che la lottizzazione era effettivamente «abusiva» (articolo 44, comma 2, del Testo unico in materia edilizia, citato nel paragrafo 108 della sentenza). Egli poteva quindi adottare una misura simile a quella che può adottare l’amministrazione. Si trattava di uno strumento efficace a disposizione del potere giudiziario per ovviare all’incapacità o alla reticenza dell’amministrazione nel prendere misure di contrasto alla lottizzazione abusiva. Come affermato dalla Corte di cassazione nella sua domanda del 20 maggio 2014 volta ad ottenere una decisione preliminare della Corte costituzionale (cui si fa cenno nel paragrafo 132 della presente sentenza), risoltasi con la sentenza n. 49 del 2015 emessa dalla Corte costituzionale (paragrafo 133 della presente sentenza), questo sistema può essere visto come un’attuazione del diritto ad un ambiente sano, tutelato dalla Costituzione.
Secondo l’interpretazione data al diritto interno dai giudici nazionali, la confisca disposta dal giudice penale era non già una pena (ai sensi del diritto interno), ma una «sanzione amministrativa», nel senso di una misura volta a ripristinare la legalità. Essa non è considerata una misura punitiva [2] collegata in un modo o nell’altro alla responsabilità personale dell’imputato; il solo fatto che la lottizzazione fosse «abusiva» o incompatibile con la legge (il che non equivale a dire che è il frutto di un fatto «delittuoso») giustificava la misura.
5. Poi è intervenuta la decisione della Corte nella causa Sud Fondi (2007, sopra citata), seguita dalla sentenza emessa nel merito in quella causa (2009) [3].
Secondo tale decisione, la misura di confisca è una «pena» ai sensi dell’articolo 7 § 1 della Convenzione. Come spiega in seguito la sentenza, ciò implica che la misura può essere imposta solo sulla base di una norma di diritto sufficientemente precisa (ibidem, §§ 107-110 e 111-114) e purché esista un «legame di natura intellettuale (coscienza e volontà)» tra il fatto oggettivamente illecito e il suo autore, in grado di rivelare un «elemento di responsabilità» nella condotta di quest’ultimo (ibidem, § 116).
6. I giudici italiani hanno tentato di applicare la giurisprudenza Sud Fondi pur rispettando come meglio potevano l’idea fondamentale alla base del meccanismo sanzionatorio in materia di urbanistica. Ora, secondo le parole della Corte costituzionale, essi hanno cercato di «dare della disposizione del diritto interno un’interpretazione quanto più possibile conforme a quella della Corte europea» (sentenza n. 239 del 2009, citata nel paragrafo 239 b) della presente sentenza). Ne è risultata un’interpretazione del diritto interno secondo la quale la confisca poteva essere pronunciata solo nei confronti di una persona «la cui responsabilità [fosse] stata accertata in virtù di un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) con i fatti» (sentenza n. 239 del 2009).
Questo sviluppo è sottolineato anche nelle osservazioni del Governo. Quest’ultimo comunica che, a seguito della sentenza n. 239 del 2009 emessa dalla Corte costituzionale, la Corte di cassazione ha giudicato che la confisca poteva essere pronunciata solo se fosse accertato che l’imputato era «responsabile», vale a dire se fosse provata l’esistenza non solo dell’elemento oggettivo, ma anche dell’elemento soggettivo della lottizzazione abusiva (si vedano le osservazioni del Governo, riassunte nei paragrafi 203 e 239 b) della presente sentenza; il Governo fa riferimento alla sentenza della Corte di cassazione del 13 luglio 2009 – 8 ottobre 2009, n. 39078, menzionata nei paragrafi 121, 122 e 129 della presente sentenza). Aggiunge che, in compenso, la confisca di beni abusivamente lottizzati non può più essere pronunciata nei confronti delle persone che non abbiano commesso alcun reato e che abbiano agito in buona fede (fa riferimento alla sentenza della Corte di cassazione del 6 ottobre 2010 – 10 novembre 2010, n. 39715, menzionata nel paragrafo 122 della presente sentenza). Occorre osservare che, nella sentenza n. 49 del 2015, la Corte costituzionale ha sottolineato che, in un processo penale, l’onere di accertare la cattiva fede di un terzo acquirente, indipendentemente dal fatto che sia chiamato in causa penalmente, grava sull’accusa.
A nostro avviso, si tratta di mutamenti considerevoli nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto interno, alla cui origine vi è la giurisprudenza della Corte [4]. Come sottolineato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 49 del 2015, i giudici interni hanno accettato di convertire la sanzione amministrativa che costituiva una misura applicabile in virtù della sola esistenza di una situazione oggettivamente illegale, indipendentemente dal fatto che il proprietario di una costruzione abusiva fosse chiamato a risponderne penalmente in un qualsiasi modo, in una misura applicabile alle sole persone che, in un modo o nell’altro, siano personalmente responsabili dell’illegalità.
Tuttavia, i giudici nazionali non hanno cambiato idea quanto alla natura della confisca ai sensi del diritto interno. A loro giudizio, la misura continua ad essere una «sanzione amministrativa», e non una «pena», certamente non una misura di natura «penale» (nel diritto interno; paragrafo 121 della presente sentenza). Per questo motivo, secondo noi, essi hanno accettato che la confisca potesse essere disposta anche quando il proprietario non fosse riconosciuto colpevole di un reato, o perché non era mai stato imputato (ad esempio, nel caso di una persona giuridica) o perché, sebbene giudicato responsabile dell’illecito perpetrato, è stato assolto (da un punto di vista strettamente penale) per effetto della prescrizione. Quest’ultima possibilità è sottolineata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 49 del 2015, secondo la quale, nel diritto interno, non è escluso di per sé che un proscioglimento per prescrizione possa accompagnarsi alla più ampia motivazione sulla «responsabilità» ai soli fini della confisca di terreni lottizzati abusivamente.
7. L’episodio successivo è la sentenza emessa dalla Corte nella causa Varvara (2013) [5].
La Corte ha confermato l’applicabilità dell’articolo 7, senza fornire altro motivo che un riferimento alla sua decisione Sud Fondi (Varvara, sopra citata, § 51).
Nel merito, la Corte ha ritenuto che dal principio di legalità in materia penale derivassero tre conseguenze: il divieto di interpretare in modo estensivo le norme di diritto penale (ibidem, § 62), il divieto di punire una persona quando il reato sia stato commesso da un’altra (ibidem, §§ 63-66) e il divieto di infliggere una pena in assenza di una constatazione di responsabilità (ibidem, §§ 67-71). Applicando quest’ultimo principio ai fatti del caso di specie, essa ha affermato: «la sanzione penale [criminal penalty secondo la traduzione inglese] [era stata] inflitta al ricorrente, mentre il reato era estinto e la sua responsabilità [his criminal liability secondo la traduzione inglese] [6] non è[era] stata dichiarata con una sentenza di condanna [verdict as to his guilt secondo la traduzione inglese].» Infliggere una pena in tali condizioni era incompatibile con il principio di legalità enunciato all’articolo 7 (ibidem, § 72).
8. Ci si aspettava che i giudici italiani reagissero nuovamente a questa sentenza della Corte.
Nell’interpretazione data dalla Corte di cassazione e dal tribunale di Teramo alla sentenza Varvara, questa esige una «condanna» formale per un reato, escludendo quindi la possibilità di disporre la confisca quando il reato sia prescritto. Basandosi su tale interpretazione, e presumendo di dovere di conseguenza interpretare il diritto interno, essi hanno chiesto alla Corte costituzionale se l’esigenza di una «condanna» fosse compatibile con la Costituzione italiana (paragrafo 132 della presente sentenza).
La Corte costituzionale ha risposto principalmente che le domande dei giudici di rinvio si fondavano su un postulato interpretativo erroneo sotto due aspetti (§ 6 della sentenza della Corte costituzionale, citato nel paragrafo § 133 della presente sentenza).
Il primo punto di tale postulato erroneo è pertinente nella nostra causa.[7] La Corte costituzionale ha affermato di non essere convinta che i due giudici di rinvio avessero interpretato correttamente la sentenza Varvara supponendo che questa esigesse una «condanna» per un illecito di natura «penale» ai sensi del diritto interno. Essa ha osservato che una tale interpretazione sarebbe stata in conflitto non solo con la Costituzione italiana (perché avrebbe limitato la facoltà per il legislatore di decidere se questo o quel comportamento debba essere «sanzionato» dal diritto penale o dal diritto amministrativo), ma anche con la giurisprudenza della Corte europea (che riconosceva che una «pena», secondo il senso autonomo che ne dà la Convenzione, poteva essere imposta da un’autorità amministrativa in assenza di sentenza formale di condanna da parte del giudice penale (§ 6.1). Inoltre, e soprattutto, essa ha indicato che era possibile attribuire un’altra interpretazione alla sentenza Varvara, ossia ritenendo che essa imponga soltanto che sia accertata la «responsabilità», indipendentemente dal modo (una «condanna» per un reato è uno dei diversi modi possibili). Pertanto, «allo stato attuale delle cose» – vale a dire a condizione che la Grande Camera non giudichi diversamente nella presente causa – non si poteva dedurre inequivocabilmente dalla sentenza Varvara che una confisca è possibile solo in caso di «condanna» per un reato di lottizzazione abusiva. Poiché era possibile interpretare diversamente la sentenza Varvara, i giudici interni avevano il dovere di adottare quest’ultima interpretazione, conforme alla giurisprudenza della Corte europea e compatibile con la Costituzione italiana (§ 6.2).
9. Quale conclusione possiamo trarre da questo excursus?
Secondo noi, con la causa Sud Fondi, la Corte ha pregiudicato gravemente l’efficacia del regime italiano in materia di lottizzazione abusiva. Tuttavia, lungi dal cercare lo scontro, i giudici interni hanno cercato di recepire l’interpretazione data dalla Corte all’articolo 7 nell’applicare il diritto interno, senza tuttavia ritenere che la natura intrinseca della confisca fosse cambiata (una misura volta non a punire una persona per un fatto delittuoso, bensì a ripristinare la legalità).
Con la sentenza Varvara, la Corte ha fatto un passo ulteriore. Questa volta, vi erano reali preoccupazioni in seno al sistema giudiziario italiano, incluso alla Corte costituzionale. Se la conseguenza della sentenza Varvara fosse stata che una confisca richiedeva una «condanna» per un reato (rispetto al diritto interno) e non poteva più essere disposta quando il reato era prescritto, sarebbe stato impossibile in molti casi al giudice penale adottare misure nei confronti delle società e delle persone giuridiche, anche quando queste avessero agito manifestamente in cattiva fede.
Ci rallegriamo che la maggioranza non si sia spinta tanto lontano quanto la sentenza Varvara. Tuttavia, ci dissociamo dalla sua conferma del ragionamento della giurisprudenza Sud Fondi, come spiegheremo di seguito nel dettaglio.

III. Articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione

10. A nostro giudizio, l’articolo 1 del Protocollo n. 1 è la disposizione fondamentale nel caso di specie. I beni dei ricorrenti sono stati confiscati. Abbiamo votato con i nostri colleghi a favore di una constatazione di violazione di tale disposizione. Tuttavia, siamo giunti a questa conclusione senza dover qualificare come «pena» la misura della confisca.
11. La prima questione che si pone in questo esame è quella della norma applicabile relativa all’articolo 1 del Protocollo n. 1 (paragrafi 289-291 della sentenza).
Come nella causa Sud Fondi, la maggioranza lascia senza risposta la domanda se la confisca sia una misura rientrante nel campo del «controllo dell’uso dei beni» o volta ad «assicurare il pagamento di ammende» (paragrafi 290-291 della sentenza).
A nostro avviso, la Corte avrebbe dovuto prendere posizione chiaramente. Le confische disposte nel caso di specie erano una reazione alla violazione delle norme urbanistiche interne. È quindi chiaro, per noi, che esse costituivano misure che implicavano il «controllo dell’uso dei beni». Per contro, la confisca non è uno strumento per «assicurare il pagamento di ammende» (il testo inglese dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 parla di «penalties». Si tratta di una misura autonoma, imposta in caso di lottizzazione abusiva, indipendentemente dal fatto che il proprietario abbia commesso un reato o sia stato condannato a un’ammenda.
12. Per essere compatibile con il secondo comma dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, una misura relativa al controllo dell’uso di terreni deve essere «legittima» (Centro Europa 7 S.r.l. e Di Stefano c. Italia [GC], n. 38433/09 § 187, CEDU 2012), perseguire un fine di «interesse generale» e assicurare un giusto equilibrio tra gli imperativi dell’interesse generale e quelli della salvaguardia dei diritti fondamentali di ciascuno (si vedano, tra le altre, Depalle c. Francia [GC], n. 34044/02, § 83, CEDU 2010, e Brosset-Triboulet e altri c. Francia [GC], n. 34078/02, § 86, 29 marzo 2010).
Per quanto riguarda la legittimità della misura in questione, la maggioranza non si pronuncia (paragrafo 294 della sentenza). A nostro avviso, non vi è alcun motivo di dubitare che questa prima condizione sia soddisfatta.
Quanto all’interesse generale, concordiamo con la maggioranza che le politiche statali destinate a tutelare l’ambiente perseguono un tale scopo (paragrafo 295 della sentenza). Riteniamo anche che i giudici interni abbiano agito nell’interesse generale quando hanno disposto la confisca dei beni appartenenti ai ricorrenti. Certo, il successivo comportamento delle autorità municipali era forse inatteso (paragrafi 296-298 della sentenza), ma, a nostro avviso, comunque ininfluente sulla giustificazione delle decisioni dei tribunali. Inoltre, a parte la restituzione alla società G.I.E.M. dei beni di sua proprietà, le autorità competenti possono ancora adottare misure volte al concreto ripristino della legalità.
La questione principale è stabilire se i tribunali abbiano assicurato un giusto equilibrio tra l’interesse generale e i diritti individuali dei ricorrenti. Concordiamo con la maggioranza che il sistema italiano non consente di raggiungere un buon equilibrio tra gli interessi. Indipendentemente dal fatto che la confisca sia una misura imposta automaticamente non appena sia accertata la natura abusiva della lottizzazione e indipendentemente dal fatto che, nel caso di specie, le società ricorrenti non fossero neanche parti nei processi (paragrafo 303 della sentenza), giudichiamo inaccettabile che non sia stato accertato in alcun modo se la confisca facesse o meno gravare un onere sproporzionato sul proprietario. Questo è per noi un elemento particolarmente rilevante, dal momento che la lottizzazione abusiva riguardava solo una parte dei terreni di cui era stata disposta la confisca.
13. La nostra conclusione è quindi che vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1.

IV. Articolo 6 § 1 e articolo 13 della Convenzione

14. La maggioranza dichiara ricevibili il motivo di ricorso della G.I.E.M. relativo al difetto di accesso ad un tribunale al fine di decidere su una contestazione sui suoi diritti ed obblighi di natura civile e il motivo di ricorso della Falgest relativo all’assenza di ricorsi interni effettivi riguardanti le dedotte violazioni dell’articolo 7 e dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, ma non ritiene necessario esaminare tali motivi di ricorso nel merito (paragrafi 308-309 della sentenza).
Noi abbiamo votato a sfavore di quest’ultima conclusione.
L’abbiamo fatto per evidenziare che, come indicato in precedenza nella trattazione del motivo di ricorso relativo alla violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (§ 12 supra), le società ricorrenti non beneficiavano di alcuna tutela processuale contro le misure in questione dal momento che non erano neanche parti nei procedimenti. Per tale motivo, a nostro avviso, vi è stata una violazione dell’articolo 6 § 1 per quanto riguarda la G.I.E.M., e una violazione del combinato disposto dell’articolo 13 e dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (soltanto) per quanto riguarda le società G.I.E.M. e Falgest.

V. Articolo 7 della Convenzione

1. Applicabilità

15. La maggioranza conferma la decisione Sud Fondi sopra citata, che assimila il provvedimento di confisca a una «pena» ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione.
È stato un errore, secondo noi, giudicare l’articolo 7 applicabile alle confische come previste nella legislazione italiana in materia di lottizzazione [8]. Per i motivi esposti di seguito, riteniamo che una misura di questo tipo non costituisca una «pena». Le conclusioni che i giudici interni hanno tratto da ciò che la Corte ha dichiarato nella causa Sud Fondi hanno indotto il Governo a invitare espressamente la Corte a tornare su tale decisione. A nostro avviso, sarebbe stato meglio fare un passo indietro e lasciare che le misure di confisca conservassero le loro caratteristiche fondamentali, che noi non giudichiamo di per sé incompatibili con la Convenzione.
16. La maggioranza sottolinea che il concetto di «pena» ai sensi dell’articolo 7 ha una portata autonoma (paragrafo 210 della sentenza). Essa aggiunge che, se è vero che il punto di partenza di ogni valutazione sull’esistenza di una «pena» consiste nello stabilire «se la misura in questione sia stata imposta a seguito di una condanna per un reato», è altrettanto vero che possono essere presi in considerazione anche altri elementi (paragrafo 211 della sentenza).
Noi avremmo adottato un altro approccio. Al fine di stabilire se una misura debba essere qualificata come «pena», riteniamo che la Corte debba approfondire la «natura intrinseca» della stessa (Del Río Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, § 90, CEDU 2013), tenuto conto «del diritto interno nel suo complesso e del modo in cui è stato applicato a[ll’]epoca [presa in considerazione]» (Kafkaris c. Cipro [GC], n. 21906/04, § 145, CEDU 2008). In altre parole, è basandosi sulle caratteristiche attribuite a una misura dal diritto interno che la Corte deve dare a tale misura la sua qualificazione ai sensi della Convenzione. E compete ai giudici interni rendere comprensibile il significato del diritto interno pertinente (Hutchinson c. Regno Unito [GC], n. 57592/08, § 40, CEDU 2017). Nella sentenza n. 49 del 2015, la Corte costituzionale ha affermato la stessa cosa, indicando che spetta alla Corte di Strasburgo non già pronunciarsi sul significato del diritto interno, ma soltanto verificare se questo, come definito e applicato dagli organi giurisdizionali interni, sia conforme alla Convenzione. Aggiungiamo che la Corte può discostarsi dall’interpretazione data dai giudici nazionali al diritto interno soltanto quando questa sia arbitraria o manifestamente irragionevole (Anheuser-Busch Inc. c. Portogallo [GC], n. 73049/01, § 85, CEDU 2007-I, Károly Nagy c. Ungheria [GC], n. 56665/09, § 71, CEDU 2017, e Radomilja e altri c. Croazia [GC], n. 37685/10, § 149, 20 marzo 2018).
Come spiegato in precedenza, prima e dopo la causa Sud Fondi sopra citata, i giudici interni hanno sempre visto nella confisca in materia di politica urbana una «sanzione amministrativa», e non una «pena» ai sensi del diritto interno (§§ 4 e 6 supra). A nostro avviso, ci sono buoni motivi per dirlo: la competenza principale a disporre la misura appartiene all’amministrazione; la confisca, nel diritto interno, non è subordinata a una condanna per un reato; e la confisca mira al ripristino della legalità, vale a dire a riparare il danno causato all’interesse generale, nonché alla prevenzione di nuove irregolarità. Quest’ultimo punto è, a nostro avviso, il più rilevante, se non il punto dirimente, quando si tratti di valutare la «natura intrinseca» della misura.
17. La maggioranza riconosce che le confische in questione non sono state imposte a seguito di condanne per reati (paragrafi 215-219 della sentenza). A nostro giudizio, si tratta di un elemento molto importante che indica chiaramente che le misure imposte non erano «pene» ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione.
Per la maggioranza, il fatto che la misura di confisca potesse essere imposta in assenza di condanna preliminare non esclude necessariamente l’applicabilità dell’articolo 7 (paragrafo 217 della sentenza). Non lo contestiamo, purché esistano argomenti convincenti in senso inverso. Ora, secondo noi, non esiste alcun argomento del genere.
A quanto pare, la maggioranza giudica sufficiente, per qualificare una misura come «pena», che questa «si riallacci comunque a un reato basato su norme giuridiche generiche» (paragrafo 218 della sentenza). Un tale legame tra la misura e il reato è a nostro avviso troppo vago e troppo distante. Una misura imposta concretamente a questo o a quell’individuo non può passare per una «pena» semplicemente perché, in altre circostanze, nei confronti di altri individui, potrebbe essere considerata come tale. E in che cosa il riferimento alle «disposizioni giuridiche generiche» è pertinente? Le misure non costitutive di una «pena» non sono forse anch’esse fondate su tali disposizioni?
18. La maggioranza fornisce quattro motivi per i quali, pur non essendo state imposte a seguito di una condanna per un reato, le confische erano comunque delle «pene» ai sensi dell’articolo 7. La maggioranza amplia così il ragionamento della decisione Sud Fondi sopra citata.
A nostro avviso, tali motivi sono lungi dall’essere convincenti.
19. La maggioranza menziona innanzitutto il fatto che l’articolo 44 del Testo unico in materia edilizia, che disciplina la misura di confisca in questione, è intitolato «Sanzioni penali». A suo dire, è un’indicazione che la misura è qualificata come sanzione penale nel diritto interno (paragrafo 220 della sentenza).
Certo, nel Testo unico in materia edilizia, le pene nel senso stretto del termine (articolo 44, comma 1) e le decisioni di confisca (articolo 44, comma 2) sono disciplinate dallo stesso articolo, con il titolo «Sanzioni penali». A prima vista, potrebbe trattarsi di un argomento solido. Ora, a un esame più attento, noi non pensiamo che se ne possa trarre il minimo argomento. In primo luogo, una tale conclusione contraddice manifestamente l’interpretazione costante della natura delle confische disposte dai giudici interni. In secondo luogo, il Testo unico in materia edilizia è il frutto di una codificazione delle disposizioni di legge vigenti per mezzo di un decreto presidenziale (decreto n. 380 del 6 giugno 2001; paragrafo 105 della sentenza). Una semplice codificazione da parte del potere esecutivo non può cambiare il senso delle disposizioni di legge codificate. È quindi opportuno soffermarsi sulle disposizioni iniziali in materia di sanzioni penali e di confische, come enunciate nella legge n. 47 del 28 febbraio 1985. Gli articoli 19 e 20 di questo testo operavano una netta distinzione tra, rispettivamente, le misure di confisca e le sanzioni penali. La confisca non figurava tra le sanzioni penali (paragrafi 103 e 104 della sentenza). Pertanto, concordiamo con il Governo quando afferma che gli autori della qualificazione hanno fatto un errore (paragrafo 202 della sentenza), e riteniamo che tale errore non possa avere la benché minima conseguenza sulla codificazione della misura di confisca. Infine, è lecito dubitare che la formulazione del titolo di un articolo in una legge o in un regolamento possa avere una qualche rilevanza. Secondo l’adagio «rubrica non fit ius» (un titolo non crea il diritto), un titolo non ha alcuna portata normativa.
20. La maggioranza fa poi riferimento alla natura e alla finalità della confisca, affermando che la confisca dei beni dei ricorrenti aveva un carattere punitivo (paragrafi 222-226 della sentenza).
Sebbene questa interpretazione non sia determinante dal momento che il concetto ha una portata autonoma ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, constatiamo subito che essa non è conforme allo scopo attribuito dai giudici interni alle misure di confisca, persino in seguito alla decisione Sud Fondi [9].
La maggioranza prende in considerazione tre argomenti per confutare l’interpretazione data alla misura in questione dai giudici interni.
In primo luogo, essa si basa sulla giurisprudenza di questi ultimi successiva alla decisione Sud Fondi, che riconosce che trovano applicazione le garanzie dell’articolo 7 della Convenzione (paragrafo 223 della sentenza). A nostro avviso, questo non può essere un argomento pertinente in grado di giustificare a posteriori le conclusioni della decisione Sud Fondi. I giudici italiani si sono sentiti in dovere di applicare le garanzie dell’articolo 7, come interpretate dalla Corte, in ragione dell’autorità delle sue sentenze, non perché ritenevano che ciò potesse derivare dalla natura delle misure di confisca. Non solo, essi si sono preoccupati di dire (soltanto) che dovevano trovare applicazione le garanzie dell’articolo 7, in particolare la condizione che esige la chiamata in causa della responsabilità della persona nei cui confronti sia stata disposta la confisca. Non sono tornati sul loro esame della natura di una confisca, secondo il quale, in particolare, una tale misura non era punitiva.
In secondo luogo, la maggioranza si basa sul «riconoscimento» da parte del Governo, nelle sue osservazioni sotto il profilo dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, che la confisca perseguiva uno scopo punitivo (paragrafo 224 della sentenza). L’argomento è, secondo noi, estremamente debole. Sotto il profilo dell’articolo 7, il Governo sostiene molto chiaramente che tale misura non è una pena perché la sua finalità è non già di punire, bensì di ripristinare il buon uso dei terreni e di rimuovere le conseguenze della lottizzazione abusiva (paragrafi 194 b) e 200 della sentenza). Quando parla di «pena» (mettendo la parola tra virgolette, si veda il § 119 delle sue osservazioni), lo fa per dimostrare che la misura soddisfaceva la finalità di «interesse generale» ai sensi dell’articolo 1 del Protocollo n. 1, e nell’ipotesi in cui la Corte, contrariamente a quanto da esso sostenuto, avesse concluso che la confisca rientra nel campo d’applicazione dell’articolo 7 della Convenzione. Non vi è il benché minimo riconoscimento della natura punitiva della misura ai fini di quest’ultima disposizione.
In terzo luogo, la maggioranza si basa sul fatto che la confisca è una misura obbligatoria che il giudice interno deve imporre indipendentemente dall’esistenza di un pericolo reale o di un rischio concreto per l’ambiente (paragrafo 225 della sentenza). È vero che alcune misure punitive possono essere imposte per il solo motivo che il comportamento dell’interessato era contrario al diritto penale, indipendentemente dal fatto che la vittima o l’interesse generale abbia subito un qualsivoglia danno. Ma non avviene forse la stessa cosa per le altre misure non punitive volte al ripristino della legalità? Non comprendiamo perché l’assenza di un pericolo reale o di un rischio concreto di danno osterebbe a una misura di natura puramente amministrativa, destinata a fare rispettare il regime legale applicabile.
A nostro giudizio, non esiste alcun valido motivo per discostarsi dall’opinione dei giudici nazionali, fondata su un esame del diritto interno, secondo la quale la confisca, rispetto alla legislazione in materia di lottizzazione, mira a ripristinare la legalità e non a punirne l’autore. Il diritto amministrativo è costellato di misure non punitive volte a prevenire le irregolarità e a porre fine alle situazioni illegali. Come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 49 del 2015, spetta al legislatore decidere quali siano i migliori strumenti per garantire l’effettiva imposizione degli obblighi e dei doveri. La maggioranza attribuisce alla confisca una finalità che non corrisponde a quella prevista dal legislatore.
21. La maggioranza si basa peraltro sulla gravità degli effetti di una confisca. Essa sottolinea che la misura è « una sanzione particolarmente onerosa e intrusiva», che non dà luogo ad alcun indennizzo (paragrafo 227 della sentenza).
Condividiamo quest’analisi. È in parte a causa dell’assenza di un esame degli oneri che ne risultano per i ricorrenti, confrontati con l’interesse generale, che concludiamo per la violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (§ 12 supra). Riconosciamo anche che il grado di gravità della pena è un elemento rilevante per quanto riguarda l’applicabilità dell’elemento penale dell’articolo 6 della Convenzione, ammesso che esista un’«accusa». Tuttavia, al fine di stabilire se la confisca sia una «pena» ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, «la gravità della misura non è (…) di per sé dirimente, giacché numerose misure non penali di natura preventiva, così come alcune misure che devono essere qualificate come penali, possono avere un impatto sostanziale sull’interessato» (Bergmann c. Germania, n. 23279/14, § 150, 7 gennaio 2016; si vedano anche, tra le altre, Welch c. Regno Unito, 9 febbraio 1995, § 32, serie A n. 307-A, Van der Velden c. Paesi Bassi (dec.), n. 29514/05, CEDU 2006-XV, M. c. Germania, n. 19359/04, § 120, CEDU 2009, e Del Río Prada, sopra citata, § 82).
In poche parole, il fatto che una confisca sia una misura gravosa non implica necessariamente che sia di natura punitiva.
22. La maggioranza menziona infine le procedure di adozione e di esecuzione di una misura di confisca (paragrafi 228-232 della sentenza).
Essa osserva innanzitutto che la misura viene disposta dai giudici penali (paragrafo 228 della sentenza). È innegabile, ma non per questo l’argomento è convincente ai nostri occhi. Del resto, non è inusuale che dei giudici penali emettano decisioni di natura non penale. Il miglior esempio di ciò è costituito dalla possibilità che essi hanno in un certo numero di paesi di disporre misure di riparazione di natura civile a favore della vittima di un fatto delittuoso il cui autore sia stato giudicato colpevole. Ad ogni modo, la Corte deve andare oltre le apparenze (paragrafo 210 della sentenza). Se la confisca disposta dal giudice penale è spesso una pena aggiuntiva, ciò non avviene necessariamente in tutte le cause. Tenuto conto del particolare regime legale delle confische nella legislazione urbanistica italiana, la loro natura differisce da quella delle confische «ordinarie». La maggioranza non sembra prestare la minima attenzione alla particolarità delle misure di confisca in questione [10].
La maggioranza respinge poi la tesi del Governo secondo la quale il giudice penale si sostituisce all’autorità amministrativa competente (paragrafi 229-232 della sentenza). Quel che il Governo sembra sostenere è che il potere di disporre una confisca appartiene innanzitutto all’amministrazione, e che il giudice penale gode della stessa competenza, che può esercitare in caso d’inerzia dell’amministrazione. In altre parole, secondo il Governo, una decisione di confisca in caso di lottizzazione abusiva ha lo stesso contenuto, produce gli stessi effetti e riveste quindi la stessa natura (non punitiva), quale che sia l’autorità che la emette (paragrafo 191 della sentenza). A noi pare che non si possa replicare alla sostanza di questo argomento, che condividiamo pienamente.
23. Alla luce di quanto precede, concludiamo che non esistono sufficienti motivi per affermare che la confisca nel diritto italiano, imposta dal giudice penale in caso di lottizzazione abusiva, è una «pena» ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione. Il motivo di ricorso fondato su questa disposizione avrebbe dovuto pertanto essere dichiarato incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione. Ecco perché noi abbiamo votato a sfavore della ricevibilità di questo motivo di ricorso.
Il nostro esame sotto il profilo dell’articolo 7 potrebbe fermarsi qui. Tuttavia, siamo in grande disaccordo anche con alcune delle esigenze che la maggioranza fa discendere da tale disposizione. Di conseguenza, esamineremo adesso il motivo di ricorso anche nel merito.

2. Sul merito

24. Avendo giudicato che le confische in questione potevano essere qualificate come «pene» ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, la maggioranza conclude poi che questa disposizione esigeva che tali misure fossero prevedibili per i ricorrenti e infirmava qualsiasi decisione che imponesse le stesse «in mancanza di un nesso intellettuale che denoti un elemento di responsabilità nella loro condotta» (paragrafo 246 della sentenza). Su questa premessa, la maggioranza passa ad accertare se quest’ultima esigenza sia stata soddisfatta, tenuto conto del fatto che nessuno dei ricorrenti è stato formalmente giudicato colpevole e che le società ricorrenti non sono mai state parti nei processi in questione (paragrafo 247 della sentenza).
La maggioranza fonda le sue conclusioni sul ragionamento esposto nei paragrafi 116-117 della sentenza Sud Fondi sopra citata (come ripreso nel paragrafo 241 della presente sentenza), nella quale la Corte aveva riconosciuto che l’articolo 7 non faceva espressamente menzione di alcun legame morale tra l’elemento oggettivo del reato e la persona che ne era considerata l’autore. Ciononostante, essa ha affermato: «la logica della pena e della punizione, così come la nozione di «guilty» (nella versione inglese) e la corrispondente nozione di «personne coupable» (nella versione francese) vanno nel senso di una interpretazione dell’articolo 7 che esige, per punire, un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato. In caso contrario, la pena non sarebbe giustificata» (ibidem, § 116). E ha proseguito: «sarebbe (…) incoerente, da una parte, esigere una base legale accessibile e prevedibile e, dall’altra, permettere che si consideri una persona come «colpevole» e «punirla» mentre essa non era in condizione di conoscere la legge penale, a causa di un errore insormontabile che non poteva assolutamente essere imputato a colui o colei che ne era vittima» (ibidem). La Corte ne conclude: «un quadro legislativo che non permette ad un imputato di conoscere il senso e la portata della legge penale è lacunoso non solo rispetto alle condizioni generali di «qualità» della «legge» ma anche rispetto alle «esigenze specifiche» della legalità penale» derivanti dall’articolo 7 della Convenzione (ibidem, § 117).
Con tutto il rispetto dovuto ai nostri colleghi, non siamo d’accordo.
25. L’articolo 7 della Convenzione è intitolato «Nulla poena sine lege» («No punishment without law» nella versione inglese). Inoltre, come affermato dalla Corte, la garanzia sancita dall’articolo 7 è un elemento fondamentale della preminenza del diritto. Essa impedisce l’applicazione retroattiva della legge penale a scapito dell’imputato. Sancisce altresì, più in generale, il principio secondo il quale soltanto la legge può definire un reato e fissare una pena (nullum crimen, nulla poena sine lege). Essa da un lato vieta in particolare l’estensione del campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano reato, dall’altro pone come principio anche che la legge penale non può essere applicata in maniera estensiva a scapito dell’imputato, ad esempio per analogia. In altre parole, la legge deve definire chiaramente i reati e le relative pene. Questa esigenza viene soddisfatta quando la persona sottoposta a giudizio abbia modo di sapere, a partire dalla formulazione della disposizione pertinente, se necessario mediante l’interpretazione data della stessa dai giudici ed eventualmente dopo avere fatto ricorso a consulenze illuminate, quali atti e quali omissioni comportano la sua responsabilità penale e in quale pena incorre per tale reato (si vedano, tra le altre, Del Río Prada, sopra citata, §§ 77-79, e Vasiliauskas c. Lituania [GC], n. 35343/05, §§ 153-154, CEDU 2015).
Quindi, secondo noi, è direttamente dalla sua giurisprudenza costante che discende per la Corte il compito di verificare, rispetto all’articolo 7 della Convenzione, che, nel momento in cui l’imputato ha commesso l’atto per il quale è stato perseguito e condannato, una disposizione di legge in vigore rendesse l’atto punibile e che la pena inflitta non abbia oltrepassato i limiti fissati da tale disposizione. Così, l’articolo 7 è innanzitutto una garanzia di preminenza del diritto che limita la capacità degli Stati contraenti di infliggere sanzioni penali in modo retroattivo o non prevedibile. Tuttavia, secondo noi, tale articolo non limita, come conclude oggi la maggioranza, la libertà di cui gode lo Stato quando il suo legislatore si appresta a formulare gli elementi soggettivi e oggettivi della responsabilità penale a livello interno. In altre parole, e per essere estremamente chiari, l’articolo 7 non è e non è mai stato uno strumento di armonizzazione del diritto penale materiale tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa.
26. Un esame più dettagliato dell’opinione della maggioranza ci porta poi ad osservare che questa è innanzitutto fondata sulla diretta correlazione tra l’esigenza di prevedibilità derivante dall’articolo 7 della Convenzione e la constatazione secondo la quale « una pena nel senso dell’articolo 7 si può concepire in linea di principio soltanto a condizione che a carico dell’autore del reato sia stato accertato un elemento di responsabilità personale» (paragrafo 242 della sentenza).
Noi contestiamo questa interpretazione del principio di legalità sotto il profilo dell’articolo 7. Del resto, la maggioranza fa subito marcia indietro nel paragrafo 243, rispetto al brano sopra citato del paragrafo 242, secondo il quale l’articolo 7 della Convenzione richiede un «legame di natura intellettuale che permetta di individuare precisamente un elemento di responsabilità» affermando che tale esigenza «non costituisce un ostacolo ad alcune forme di responsabilità oggettiva a livello delle presunzioni di responsabilità, a condizione che esse rispettino la Convenzione». Essa fa poi riferimento alla giurisprudenza della Corte relativa all’articolo 6 § 2, sostenendo che, in linea di principio, gli Stati contraenti possono, «ad alcune condizioni, rendere punibile un fatto materiale od oggettivo considerato di per sé, che provenga o meno da un intento criminoso o da una negligenza». È ciò che viene abitualmente chiamata la responsabilità penale di pieno diritto o oggettiva. Sebbene la Corte non abbia avuto la possibilità di definire in maniera più dettagliata in cosa consistano queste «condizioni», che limitano l’applicazione della responsabilità penale oggettiva sotto il profilo della Convenzione, è chiaro a nostro avviso che tali limitazioni deriverebbero dalle prescrizioni non dell’articolo 7, ma dell’articolo 6 § 2. In altre parole, la questione se possa essere giustificato rispetto alla Convenzione reprimere un «fatto semplice o oggettivo», senza che l’accusa debba accertare un legame di natura intellettuale, è strettamente connessa all’interpretazione e all’applicazione della presunzione d’innocenza garantita dalla seconda di tali disposizioni, ma non è un’esigenza derivante dalla prima. In poche parole, se di certo noi non mettiamo in discussione il ricorso della maggioranza alla metodologia consolidata secondo la quale «deve essere letta nel suo insieme ed interpretata in modo da promuovere la coerenza interna e l’armonia tra le sue varie disposizioni» (paragrafo 244 della sentenza), la maggioranza, invece di applicare tale metodologia per chiarire l’articolazione tra gli articoli 6 § 2 e 7 della Convenzione, semina confusione nell’interpretazione e nell’applicazione di queste due garanzie dei diritti umani certamente importanti, ma concettualmente distinte.
27. In secondo luogo, l’opinione della maggioranza si fonda su una prassi volta ad estrapolare, a partire dal concetto di «condannato» («guilty») nell’articolo 7 § 1 e dalla ragion d’essere della pena e del castigo, l’esigenza di un «legame intellettuale», inteso nel senso di una coscienza e di una volontà, che riveli un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore del reato, in assenza della quale la pena sarà ingiustificata. Questa interpretazione dell’articolo 7 non ha alcuna base nella giurisprudenza della Corte, se si eccettua la sentenza di camera Sud Fondi, che la maggioranza della Grande Camera ormai conferma. A nostro giudizio, anche tale interpretazione non è indicativa di una buona lettura della disposizione in questione.
La prima frase dell’articolo 7 § 1 della Convenzione afferma che «nessuno può essere condannato» per un qualsivoglia reato in conseguenza di un’«azione o un’omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto nazionale o internazionale». La norma enunciata in questa frase è chiara: essa vieta l’applicazione retroattiva della legge penale e, per di più, è stata interpretata nella giurisprudenza nel senso di esigere una prevedibilità nell’applicazione di quella stessa legge, come detto in precedenza (§ 25 supra). Pertanto, il termine «condannato» deve essere inteso come un rimando al concetto tradizionale preso in considerazione per descrivere la constatazione di colpevolezza in base alle leggi interne in materia di procedura penale. In altre parole, quando un giudice nazionale valuta che l’accusa abbia accertato, secondo il criterio di prova voluto, gli elementi soggettivi e oggettivi della disposizione penale indicata nell’atto di accusa, dichiara l’imputato «colpevole» del reato. In compenso, tale concetto, sotto il profilo dell’articolo 7 della Convenzione, non fa nascere alcuna esigenza quanto alla sostanza delle leggi penali interne. In altri termini, non ne deriva che la legge penale debba essere formulata in maniera da esigere alcuni tipi particolari di elementi soggettivi (mens rea) o oggettivi (actus reus) per imporre la responsabilità penale. Tale scelta è di competenza non della Corte bensì delle autorità nazionali, per lo meno rispetto all’articolo 7 della Convenzione. Del resto, come dichiarato dalla Corte nella sentenza di principio Engel e altri, «la Convenzione lascia gli Stati liberi, in linea di principio, di punire penalmente un atto commesso fuori dal normale esercizio di uno dei diritti da essa tutelati» (Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 81, serie A n. 22). Pertanto, se altre disposizioni materiali della Convenzione possono fissare limiti alla capacità per lo Stato di reprimere alcuni comportamenti (si veda, ad esempio, Dudgeon c. Regno Unito, 22 ottobre 1981, serie A n. 45, sotto il profilo dell’articolo 8 della Convenzione e della criminalizzazione di alcuni atti omosessuali tra adulti consenzienti), l’articolo 7 si accontenta di vietare, in termini generali, l’applicazione retroattiva della legge penale e di esigere che questa sia prevedibile e accessibile. Non disciplina la sostanza della legge penale.
28. Infine, la conclusione della maggioranza, che esige sotto il profilo dell’articolo 7 della Convenzione un «nesso intellettuale che denoti un elemento di responsabilità nella condotta [dei ricorrenti]» (paragrafo 246 della sentenza), costituisce la base a partire dalla quale la maggioranza accerta poi se l’applicazione della misura di confisca nei confronti del sig. Gironda e delle società ricorrenti fosse contraria a tale disposizione, dal momento che né il primo né le seconde sono stati formalmente condannati per il reato di lottizzazione abusiva, nel senso della sentenza emessa dalla Corte nella causa Varvara, e che tale misura è stata imposta senza che dette persone siano state parti nei procedimenti penali (paragrafi 248-275 della sentenza).
Ora, secondo noi, non c’è alcun bisogno di interpretare l’articolo 7 della Convenzione fuori del suo contesto al fine di offrire le garanzie necessarie in simili casi. Una tale tutela deriva naturalmente dall’articolo 1 del Protocollo n. 1 e dall’articolo 6 § 1. Come spiegato in precedenza, è chiaro che imporre una misura di confisca ad una parte in un procedimento giudiziario che non abbia avuto la possibilità di difendersi essa stessa non ha molte chance di essere considerata una violazione proporzionata al diritto al rispetto dei beni (§ 12 supra). Inoltre, tali procedimenti saranno anche inevitabilmente contrari all’esigenza di giusto processo derivante dall’articolo 6 § 1 della Convenzione, indipendentemente dal fatto che la misura di confisca sia esaminata sotto il profilo civile o penale di tale disposizione (§ 14 supra).
29. Insomma, noi riteniamo che, interpretando l’articolo 7 della Convenzione in maniera da esigere un legame morale per l’imposizione di una misura penale, la maggioranza abbia impregnato il principio di legalità in materia penale di un contenuto che non è razionalmente conforme alla natura e allo scopo di tale garanzia fondamentale della preminenza del diritto, secondo l’espressione che questa trova in un trattato internazionale relativo ai diritti umani che fissa norme minime di irretroattività e di prevedibilità nelle cause penali.
Infine, l’interpretazione estensiva data al campo di applicazione dell’articolo 7 nella causa Sud Fondi sopra citata ha lasciato i giudici interni in un notevole imbarazzo. Questi ultimi hanno tuttavia deciso che avrebbero applicato le garanzie derivanti dall’articolo 7 (§ 6 supra). Nella sentenza Varvara sopra citata, la Corte ha interpretato in maniera estensiva anche le esigenze materiali dell’articolo 7. La presente sentenza non segue la sentenza Varvara su tutti i punti, tuttavia noi avremmo preferito che, nel merito, essa tornasse all’interpretazione incontestata dell’articolo 7 precedente alla giurisprudenza Varvara, cosa che avrebbe evitato di sconvolgere inutilmente e maggiormente il sistema italiano delle confische in materia di lottizzazione.

VI. Articolo 6 § 2 della Convenzione

30. Sotto il profilo dell’articolo 6 § 2 della Convenzione, è necessario accertare se nei confronti del sig. Gironda sia stata calpestata la presunzione d’innocenza, in conseguenza del fatto che la confisca dei suoi beni è stata disposta quando era prescritto il reato per il quale era perseguito.
Ciascuno di noi è giunto a conclusioni diverse su questo punto. Teniamo a spiegare brevemente i motivi del nostro voto.
Il giudice Spano condivide la constatazione della Corte di una violazione dell’articolo 6 § 2 della Convenzione in quanto la Corte di cassazione ha dichiarato il sig. Gironda colpevole in sostanza, quando l’azione penale per il reato in questione era estinta (paragrafi 310-318 della sentenza). Il giudice Lemmens ritiene che non vi sia stata violazione dell’articolo 6 § 2. La misura di confisca adottata nei confronti del sig. Gironda non era una sanzione penale fondata su una sentenza di «condanna», bensì una misura di riparazione basata sull’illegalità materiale della situazione. Pertanto, la prescrizione del reato non impediva di concludere che ricorrevano i presupposti per disporre la confisca.

VII. Conclusioni

31. Come spiegato nella presente opinione, la sentenza emessa oggi dalla Grande Camera pone una mancanza di chiarezza e di coerenza nella giurisprudenza della Corte relativa all’articolo 7 della Convenzione.
Da un lato, la maggioranza conferma la giurisprudenza sopra citata Sud Fondi nella misura in cui la Corte aveva affermato che le confische in materia di lottizzazioni abusive costituivano delle «pene» ai sensi dell’articolo 7 (paragrafo 233 della sentenza). Essa conferma le sentenze Sud Fondi e Varvara sopra citate anche nella misura in cui la Corte aveva ritenuto che l’articolo 7 esigesse, perché una tale «pena» potesse essere inflitta, che fosse in qualche modo accertata la responsabilità del proprietario del bene confiscato (paragrafo 242 della sentenza). Secondo noi, la Corte avrebbe dovuto invece cogliere l’occasione per invalidare tali sentenze.
Dall’altro, la maggioranza si discosta dalla sentenza Varvara nella misura in cui la Corte aveva ritenuto in quella causa che fosse necessaria una «condanna» formale perché potesse essere imposta una pena. La maggioranza afferma adesso che è sufficiente che sussistano tutti gli elementi del reato, il che consente ormai ai giudici penali di dichiarare una persona «responsabile» anche quando l’azione penale fosse estinta per effetto della prescrizione legale (paragrafo 261 della sentenza). A nostro avviso, questo è solo un palliativo. Resta da vedere se questo adeguamento della giurisprudenza della Corte sarà sufficiente a consentire alla giustizia italiana di adottare misure efficaci contro le lottizzazioni abusive.

OPINIONE PARZIALMENTE DISSENZIENTE COMUNE AI GIUDICI SAJÓ, KARAKAŞ, PINTO DE ALBUQUERQUE, KELLER, VEHABOVIĆ, KŪRIS E GROZEV
(Traduzione)

1. Ci dissociamo rispettosamente dalla constatazione fatta dalla maggioranza di non violazione dell’articolo 7 della Convenzione nei confronti del sig. Gironda.
2. Nei paragrafi sottostanti, sosterremo innanzitutto che la maggioranza si discosta dal principio ricavato dalla sentenza Varvara (Varvara c. Italia, n. 17475/09, 29 ottobre 2013). Poi, mostreremo che è difficile dire se la conclusione della maggioranza rappresenti l’esposizione di un nuovo principio contrario a quello enunciato nella sentenza Varvara, o di un’eccezione a detto principio. Infine, dimostreremo che la constatazione fatta dalla maggioranza, di violazione dell’articolo 6, contraddice intrinsecamente la sua stessa constatazione di violazione dell’articolo 7 nei confronti del sig. Gironda.

I. Mancato rispetto della giurisprudenza Varvara

3. A nostro avviso, la maggioranza si discosta dalle conclusioni della sentenza Varvara. È significativo che lo faccia senza avanzare solidi motivi, e senza ammettere il mancato rispetto. Ad ogni modo, noi sosterremo qui di seguito che la decisione della maggioranza nei confronti del sig. Gironda è di per sé un errore.
4. In passato, la Corte ha dichiarato: «senza che la Corte sia formalmente tenuta a seguire le sue precedenti sentenze, è nell’interesse della certezza giuridica, della prevedibilità e dell’uguaglianza davanti alla legge che essa non si discosta senza validi motivi dai suoi precedenti» (Chapman c. Regno Unito [GC], n. 27238/95, § 70, CEDU 2001-I).
5. Nella sentenza Varvara, come nel caso di specie, è stata imposta una confisca «quando il reato era estinto e [la] responsabilità [del ricorrente] non risulta[va] da una sentenza di condanna» (Varvara, sopra citata, § 72). La maggioranza, nella presente sentenza, ritiene che questo passo non permetta di concludere che «le confische per lottizzazione abusiva devono necessariamente essere accompagnate da condanne penali da parte di giudici penali» (paragrafo 252). Ne consegue, secondo la maggioranza, che la sentenza Varvara «non comporta che qualsiasi controversia ai sensi [dell’articolo 7 della Convenzione] debba essere necessariamente trattata nell’ambito di un procedimento penale in senso stretto» (paragrafo 253). Concordiamo con questi brani, che riteniamo conformi alla sentenza Varvara e alla giurisprudenza della Corte.
6.  Poi la maggioranza aggiunge: «avendo così escluso la necessità di un procedimento penale, la Corte deve comunque esaminare se l’imposizione delle controverse confische richiedesse almeno una dichiarazione formale di responsabilità penale a carico dei ricorrenti» (paragrafo 255). È in ciò che la maggioranza si discosta chiaramente dalla sentenza Varvara: mentre quest’ultima sentenza, nella versione francese autentica, dichiara che l’articolo 7 esige una «sentenza di condanna» del ricorrente (Varvara, sopra citata, § 72), la maggioranza afferma che è sufficiente che vi sia «in sostanza (…) una dichiarazione di responsabilità» (paragrafo 258). Mentre, nella sentenza Varvara, la Corte aveva fatto dell’inesistenza di una sentenza formale di condanna una delle due condizioni che rendevano la confisca incompatibile con l’articolo 7, la maggioranza non giudica questo elemento rilevante.
7. Le due condizioni enunciate nel paragrafo 72 della sentenza Varvara sono cumulative: perché si applichi una pena come la confisca, il reato non deve essere prescritto e deve esistere una «sentenza di condanna» formale (o una «condanna», per riprendere la terminologia della presente sentenza). In altre parole, il principio posto nella sentenza Varvara è che una pena non può essere inflitta se è scaduto il termine legale di prescrizione e in assenza di condanna formale. Una tale condanna può essere pronunciata nell’ambito di un processo penale in senso stretto o di un qualsiasi procedimento ai sensi dell’articolo 7, ad esempio un procedimento amministrativo che applichi una «pena» (paragrafo 254). Contrariamente al sopra menzionato principio della sentenza Varvara, la maggioranza conclude: «qualora i tribunali investiti constatino che sussistono tutti gli elementi del reato di lottizzazione abusiva pur pervenendo a un non luogo a procedere, soltanto a causa della prescrizione, tali constatazioni, in sostanza, costituiscono una condanna nel senso dell’articolo 7, che in questo caso non è violato» (paragrafo 261).

II. La presente sentenza enuncia un principio?

8. Indipendentemente dall’articolazione della presente sentenza con la sentenza Varvara, è difficile dire se dovremmo vedere nelle conclusioni della maggioranza l’enunciazione di un principio (secondo la maggioranza la prescrizione e la garanzia di una condanna formale non rilevano ai fini dell’articolo 7) o di un’eccezione al principio posto nella sentenza Varvara (secondo il quale infliggere una pena una volta scaduto il termine di prescrizione e in assenza di una condanna formale è incompatibile con l’articolo 7). Se è vero che l’«osservazione preliminare» contenuta nel paragrafo 155 indica che la presente sentenza è di interpretazione restrittiva, è altrettanto vero che la maggioranza non fornisce alcun motivo che consenta di distinguere la presente causa dalle altre. Esamineremo quindi entrambe queste ipotesi.
9. Secondo noi, la presente sentenza non può essere interpretata nel senso di stabilire un principio che consentirebbe l’applicazione di una pena a seguito di una constatazione di colpevolezza «sostanziale», malgrado la scadenza del termine di prescrizione. Un tale principio si baserebbe sulla distinzione tra una «condanna formale» (paragrafo 248) e «in sostanza (…) una dichiarazione di responsabilità [penale]» (paragrafo 258). Secondo la maggioranza, l’articolo 7 non esige la prima quando sia accertata l’esistenza della seconda.
10. Un tale principio porterebbe a un rompicapo linguistico, se non addirittura logico. Che cosa significherebbe una sentenza di condanna «sostanziale» seguita dall’imposizione di una pena? In cosa differirebbe da una «condanna formale»? Nella distinzione così fatta dalla maggioranza noi riusciamo a vedere soltanto una questione di tipo linguistico: una «dichiarazione sostanziale» di colpevolezza sarebbe esattamente simile a una «condanna formale» (perché deve decidere in fatto e in diritto, perché può essere seguita dall’imposizione di una pena, ecc.), senza tuttavia essere chiamata «condanna formale». I termini legali di prescrizione ostacolerebbero non le dichiarazioni «sostanziali» di colpevolezza accompagnate dall’imposizione di pene, bensì le sole condanne definite «formali».
11. Noi riteniamo che questa conclusione non sia molto difendibile, e, a nostro avviso, è impensabile che la maggioranza abbia voluto approvarla. Anche se, in precedenza, la Corte ha lasciato agli Stati membri una certa libertà nell’applicazione dei termini legali di prescrizione, non ha mai giudicato che questi fossero totalmente privi di rilevanza ai fini dell’articolo 7. Essa ha convalidato la proroga a posteriori di tali termini, ponendo, tuttavia, come riserva importante che non vi fosse «arbitrio» (Previti c. Italia (dec.), n. 1845/08, § 81, 7 giugno 2012). Un principio fondato su una dichiarazione «sostanziale» di colpevolezza che faccia della prescrizione legale una formalità futile sarebbe un invito all’arbitrio.
12. Queste considerazioni sono tanto più pertinenti se si rammenta che in alcuni sistemi costituzionali interni i termini legali di prescrizione sono di natura sostanziale. Ad esempio, in Italia, la Corte costituzionale ha giudicato che la legge che disciplina i termini di prescrizione era una «norma sostanziale di diritto penale» ed era «soggetta al principio di legalità» (Ordinanza Costituzionale n. 24/2017, § 8). Sarebbe manifestamente incompatibile con la stessa interpretazione della Corte costituzionale declassare a futile formalità i termini di prescrizione, nei quali essa vede garanzie sostanziali di diritto penale.

III. La presente sentenza enuncia un’eccezione

13. Per i motivi sopra esposti, nella presente sentenza si può vedere soltanto l’esposizione di un’eccezione al principio della sentenza Varvara che vieta l’imposizione di pene alla scadenza dei termini di prescrizione e in assenza di una condanna formale. L’«osservazione preliminare» contenuta nel paragrafo 155 conferma che questo era l’intento della maggioranza. Ma se si tratta di un’eccezione, quali sono i casi che derogano al principio? Sono alcuni tipi di reato, alcune forme di pena o una combinazione dei due? E per quale motivo restringere l’eccezione a questi casi? Queste sono domande importanti rimaste senza risposta.
14. Se la Corte enuncia un’eccezione al principio nato dalla Convenzione e dalla sua stessa giurisprudenza, non può farlo con il solo fiat giudiziario. Occorre che lo faccia con motivi convincenti, aventi una duplice funzione. Da un lato, i motivi hanno una funzione normativa fondamentale: quelli che sono accolti devono essere sufficientemente imperiosi da giustificare l’assenza di tutela per alcune categorie di ricorrenti o di cause. Il ricorrente deve essere in grado di comprendere in cosa il suo caso differisca da quello di un’altra persona che, in circostanze simili, godrebbe della tutela offerta dalla Convenzione. Dall’altro lato, i motivi hanno una funzione giuridica più determinante: quelli che la Corte dovrebbe esporre si presume che delimitino la portata dell’eccezione nelle cause future in modo che gli Stati contraenti così come le persone che abitano nel loro territorio siano in grado di adeguare il loro comportamento al fine di conformarsi alla Convenzione. Ciò è ancora più fondamentale in una sentenza relativa all’articolo 7 che sottolinea l’importanza della prevedibilità in quanto valore della Convenzione (paragrafo 246).
15. Sfortunatamente, non è quello che fa la presente sentenza. Le sole «considerazioni» che sembrano avere spinto la maggioranza a enunciare questa eccezione al principio della sentenza Varvara – nessuna pena senza condanna formale – sono esposte nel suo paragrafo 260 e meritano di essere citate integralmente:
«260. Secondo la Corte, si deve tener conto, da una parte, dell’importanza che ha, in una società democratica, il fatto di garantire lo Stato di diritto e la fiducia nella giustizia delle persone sottoposte a giudizio, e, dall’altra, dell’oggetto e dello scopo del regime applicato dai tribunali italiani. A questo proposito, sembra che l’obiettivo di questo regime sia la lotta contro l’impunità che deriva dal fatto che, per l’effetto combinato di reati complessi e di termini di prescrizione relativamente brevi, gli autori di questi reati sfuggirebbero sistematicamente all’azione penale e, soprattutto, alle conseguenze dei loro misfatti (si veda, mutatis mutandis, El-Masri c. l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia [GC], n. 39630/09, § 192, CEDU 2012).»
A nostro avviso, ciò non basta a giustificare l’eccezione che la maggioranza sembra enunciare.
16. Ogni regime repressivo – è pleonastico dirlo – si presume lotti contro l’impunità. Quando hanno redatto la Convenzione, gli Stati contraenti erano consapevoli che il rispetto dell’articolo 7, al quale si impegnavano, implicava un limite alla loro capacità di «impedire l’impunità». Una lotta incondizionata contro l’impunità non può di per sé e da sola giustificare un’attenuazione dei diritti convenzionali.
17. La sola giurisprudenza citata nel paragrafo 260, vale a dire la sentenza El-Masri, sottolinea l’importanza di avviare azioni giudiziarie tempestivamente «al fine di evitare ogni parvenza d’impunità relativamente ad alcuni atti» (El-Masri c. l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia [GC], n. 39630/09, § 192, CEDU 2012). Ora, le questioni di fatto e di diritto prese in esame nella sentenza El-Masri (una violazione dell’articolo 3 sotto il suo profilo procedurale in conseguenza della mancanza di inchiesta degli organi dello Stato su denunce di maltrattamenti commessi da agenti dello Stato) non sono le stesse del caso di specie. Nella sentenza El-Masri, non vi erano valori concorrenti da bilanciare: nessuno in quella causa aveva sostenuto che l’articolo 7 o qualsiasi altra disposizione della Convenzione ostava all’avvio di azioni giudiziarie da parte dello Stato. Al contrario, nella causa El-Masri, lo Stato aveva l’obbligo di avviare azioni giudiziarie proprio sulla base di un diritto ricavato dalla Convenzione. Il ricorrente lamentava una violazione dell’articolo 3 sotto il profilo procedurale in conseguenza dell’inerzia dello Stato nelle indagini su alcuni maltrattamenti e la Corte gli ha dato ragione. Infine, il diritto internazionale, che la Corte tratta con particolare deferenza, fa obbligo di reprimere la tortura. Tutte queste differenze bastano a dimostrare che la sola autorità citata dalla maggioranza a sostegno della sua posizione non è pertinente nel caso di specie.
18. Noi riteniamo che neanche la «complessità» dei reati in questione sia un criterio sufficientemente solido per un’eccezione così importante. La maggioranza non offre, del resto, alcuno strumento per distinguere una causa «complessa» da una causa «semplice». Ammesso che il diritto interno serva da riferimento, il legislatore italiano non sembra avere ritenuto che il reato di lottizzazione abusiva fosse particolarmente complesso: niente indica che la causa abbia formato oggetto di inchiesta da parte di servizi specializzati o di azioni giudiziarie da parte di procure specializzate, né che sia stata giudicata da giudici specializzati. Inoltre, nel diritto italiano, la lottizzazione abusiva è una semplice contravvenzione punibile con l’arresto fino a due anni e l’ammenda fino a 51.645 euro (articolo 44, comma 1 c) del Testo unico in materia edilizia, decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 6 giugno 2001).
19. Ciò non significa che non possano esistere reati le cui caratteristiche particolari richiederebbero una sorta di considerazione particolare. Così, talvolta, alcune garanzie processuali possono entrare in conflitto con i diritti altrui. I maltrattamenti su bambini ne sono un esempio. In tali cause, la Corte «tiene conto in modo particolare delle peculiarità della procedura relativa ai maltrattamenti su bambini, soprattutto quando siano coinvolti dei minori», al punto di valutare la conformità di tale procedura al diritto di interrogare i testimoni, sancito dall’articolo 6 § 3 d) (Magnusson c. Svezia (dec.), n. 53972/00; si veda anche S.N. c. Svezia, n. 34209/96, 2 luglio 2002, §§ 47-53). Il motivo di ciò risiede soprattutto nella necessità di rispettare il diritto alla vita privata delle vittime, tutelato dall’articolo 8 della Convenzione. Non siamo investiti di alcun conflitto di questo tipo nel caso di specie.
20. La Convenzione non impone agli Stati un termine legale di prescrizione breve, cosicché qualsiasi Stato membro che vedesse nei propri termini di prescrizione un pesante ostacolo può allungarli (Previti, sopra citata, § 80, e Coëme e altri c. Belgio, nn. 32492/96 e altri 4, § 149, CEDU 2000-VII). Del resto, l’Italia ha allungato i termini legali di prescrizione dopo il periodo considerato nel caso di specie: la riforma operata dalla legge n. 251 del 5 dicembre 2005 ha allungato detti termini stabiliti nel codice penale, mentre la legge n. 103 del 23 giugno 2017 prevede la sospensione del termine di prescrizione non appena siano posti in essere alcuni atti procedurali. Ciò significa che, anche ammesso che all’epoca dei fatti fosse eccessivamente difficile, a causa dei brevi termini di prescrizione fissati dal diritto italiano, avviare azioni giudiziarie nelle cause analoghe a quelle prese in esame nella presente sentenza, la causa di ciò è da imputarsi a una scelta politica dello Stato italiano e non al sig. Gironda.

IV. Le conclusioni della maggioranza sono incoerenti

21. Infine, le conclusioni della maggioranza sono intrinsecamente incoerenti. Nel paragrafo 252, la maggioranza afferma: «[d]al canto suo, la Corte deve assicurarsi che la dichiarazione di responsabilità penale rispetti le garanzie previste dall’articolo 7 e che risulti da un procedimento conforme alle esigenze dell’articolo 6». Essa riprende lo stesso ragionamento del paragrafo 261.
22. Noi riteniamo che questo ragionamento sia giuridicamente indifendibile e che crei un precedente pericoloso. Secondo la maggioranza, la violazione dell’articolo 7 dipende dal rispetto delle garanzie dell’articolo 6, il che vorrebbe dire che il rispetto dell’articolo 6 può compensare una violazione dell’articolo 7. È essenziale tenere separate le analisi sotto questi due profili. Il principio di legalità sancito dall’articolo 7 è una garanzia di diritto penale materiale che, logicamente, non può dipendere dalle garanzie processuali. Il rispetto delle garanzie dell’articolo 6 è estraneo a ciò che l’articolo 7 consente allo Stato di fare. Non è una moneta di scambio per una violazione dell’articolo 7. Non si dovrebbe aprire la porta alle negoziazioni tra garanzie processuali e garanzie materiali.
23. I rischi di un tale ragionamento sono illustrati nella presente sentenza. Nel ragionamento della maggioranza, in caso di constatazione di colpevolezza «sostanziale», una violazione dell’articolo 6 implica a pieno titolo una violazione dell’articolo 7 (paragrafi 252 e 255). Tuttavia, la maggioranza non ritiene di contraddirsi quando conclude che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 2 senza constatare una violazione dell’articolo 7 nei confronti del sig. Gironda. Secondo il suo stesso approccio sotto il profilo dell’articolo 6, una constatazione di violazione dell’articolo 6 § 2 porta necessariamente a una violazione dell’articolo 7. Alla luce del ragionamento della maggioranza, l’assenza di constatazione di violazione dell’articolo 7 nei confronti del sig. Gironda non è convincente.
24. È opportuno notare che sorgerà un problema in tutti gli altri casi simili a quello del sig. Gironda (casi che, nella terminologia giuridica italiana, si chiamerebbero fratelli minori di Gironda). Una dichiarazione di colpevolezza «sostanziale» (e la conseguente imposizione di una pena di confisca) quando sia estinta l’azione penale implicherà sempre una violazione dell’articolo 6 § 2, come fa osservare la maggioranza nel paragrafo 317 (per ulteriori riferimenti, si veda la giurisprudenza citata nei paragrafi 314-315). Ciò significa chiaramente che per tutti i fratelli minori di Gironda ci sarà necessariamente violazione dell’articolo 6 § 2 e, secondo noi, anche una violazione dell’articolo 7. Perciò, lo Stato convenuto non può disporre una confisca una volta prescritto il reato e in assenza di condanna formale, a meno che non sia disposto ad assumersene la responsabilità a livello internazionale, per lo meno sotto il profilo dell’articolo 6 § 2 della Convenzione.

V. Conclusioni

25. Come dimostrato in precedenza, siamo dell’avviso che il rispetto del principio nulla poena sine lege avrebbe dovuto portare la Grande Camera a concludere che vi è stata violazione dell’articolo 7 della Convenzione nei confronti del sig. Gironda. L’importanza di tale principio sancito dall’articolo 7 non può essere sottovalutata.
26. I motivi accolti dalla Corte non sono soltanto una fonte per la giurisprudenza futura: il loro apporto è cruciale anche nelle decisioni dei giudici interni degli Stati del Consiglio d’Europa o dei paesi terzi, e persino nelle decisioni degli altri organi di tutela dei diritti umani in tutto il mondo. I giuristi, i politici, gli attivisti e gli universitari studiano regolarmente le nostre sentenze per trarne argomenti a sostegno delle loro pretese giuridiche. Non possiamo sapere oggi come sarà interpretato questa attenuazione del principio di legalità. Possiamo solo sperare che, in futuro, la Corte precisi la portata della presente sentenza e riaffermi con forza il principio secondo il quale lo Stato non può imporre alcuna pena una volta scaduti i termini legali di prescrizione e in assenza di una condanna formale.

ALLEGATO

  • N. del ricorso – 1828/06  
  • Nome della causa – G.I.E.M. S.r.l.  
  • Data di presentazione – 21/12/2005  
  • Ricorrente(i) – G.I.E.M. S.r.l.  
  • Nome del rappresentante – Giuseppe MARIANI           
  • N. del ricorso – 34163/07
  • Nome della causa – Hotel Promotion Bureau S.r.l. e R.I.T.A Sarda S.r.l. Hotel Promotion Bureau S.r.l. c. Italia  
  • Data di presentazione – 02/08/2007   
  • Ricorrente(i) – R.I.T.A Sarda S.r.l.  
  • Nome del rappresentante – Giuseppe LAVITOLA            
  • N. del ricorso – 19029/11
  • Nome della causa – Falgest S.r.l. e Gironda c. Italia
  • Data di presentazione – 23/03/2011
  • Ricorrente(i) Falgest S.r.l. – Filippo GIRONDA
  • Nome del rappresentante – Anton Giulio LANA

NOTE

nota 1 L’Italia ha firmato ma non ratificato il Protocollo n. 16.

nota 2 Recentemente, alla fine del 2017, la Corte di giustizia dell’UE si è pronunciata su un’altra causa in materia di IVA: M.A.S. e M.B. (Taricco II). In questa causa, la Corte ha ribadito che, in caso di gravi frodi in materia di IVA, gli Stati membri devono assicurarsi che siano adottate sanzioni penali effettive e dissuasive. Tuttavia, in mancanza di un’armonizzazione a livello dell’Unione, spetta agli Stati membri adottare le norme in materia di prescrizione applicabili ai procedimenti penali relativi a questo tipo di cause. Ciò significa, in sostanza, che, qualora uno Stato membro debba imporre sanzioni penali efficaci e dissuasive in caso di frode grave in materia di IVA, è libero di considerare, per esempio, che l’istituto della prescrizione sia parte del diritto penale sostanziale. La CGUE ha sottolineato che in tal caso, lo Stato membro deve rispettare il principio secondo cui i reati e le sanzioni devono essere definiti dalla legge, il che costituisce un diritto fondamentale sancito dall’articolo 49 della Carta, anche in un ambito di impunità in numerosi casi di frode grave in materia di IVA.

nota 3 Sud Fondi S.r.l. e altri c. Italia, n. 75909/01, 20 gennaio 2009.

nota 4 Varvara c. Italia, n. 17475/09, 29 ottobre 2013.

nota 5 Si veda il paragrafo 252 della sentenza.

nota 6 Per una dettagliata presentazione riguardo all’utilità della confisca dei beni, si veda: Boucht, J., The Limits of Asset Confiscation, Hart Publishing, 2017, pp. 2-5.

nota 7 Boucht, supra, p. 4.

nota 8 R c. Ahmad [2014] 3 WLR 23, paragrafo [36].

nota 9 Gadamer, H-G., Truth and Method, Bloomsbury Academic; edizione Reprint (27 giugno, 2013).

nota 10 Dworkin, R., Law’s Empire, Hart Publishing; edizione New Ed (1° ottobre 1998).

nota 11 Nell’utilizzare qui la parola “momento”, mi riferisco al termine “constitutional moments” coniato in : Ackerman, B., “Storrs Lectures: Discovering the Constitution”, Yale Law Journal, vol. 93, pp. 1013-1072 (1984).

nota 12 AGOSI c. Regno Unito, 24 ottobre 1986, serie A n. 108, § 66; CM c. Francia (dec.), n. 28078/95, 26 giugno 2001.

nota 13 Si veda, per esempio, AGOSI, sopra citata, § 65.

nota 14 Yildirim c. Italia (dec.), n. 38602/02, CEDU 2003-IV.

nota 15 Decisione Yildirim sopra citata.

nota 16 Si veda AGOSI, sopra citata, § 54, e Air Canada c. Regno Unito, 5 maggio 1995, §§ 29-48, serie A n. 316-A.

nota 17 AGOSI, sopra citata, § 55.

nota 18 Sentenza Varvara, § 51.

nota 19 Ibidem, § 72.

nota 20 Ibidem

nota 21 Si veda l’ordinanza di rinvio a giudizio del 17 gennaio 2014, riassunta al paragrafo 1 della sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale.

nota 22 Sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale italiana, § 6.

nota 23 Ibidem, § 6.1.

nota 24 Ibidem, § 6.2.

nota 25 Sabato, R., The Experience of Italy in Judicial Dialogue and Human Rights, Cambridge University Press, p. 275.

nota 26 Si veda Bignami, M, “Le gemelle crescono in salute: la confisca urbanistica tra costituzione, CEDU e diritto vivente”; Martinico, G., “Corti costituzionali (o supreme) e ‘disobbedienza funzionale’” Pulitano. D., “Due approcci opposti sui rapporti fra Costituzionale e CEDU in materia penale. Questioni lasciate aperte da Corte cost. N. 49/2015”; Ruggeri. A., “Fissati nuovi paletti alla Consulta a riguardo del rilievo della CEDU in ambito interno”; Vigano, F., “La consulta e la tela di Penelope”, Vol. 2, Diritto Penale Contemporaneo (Rivista Trimestrale), 2015.

nota 27 Si veda il paragrafo 252 della sentenza.

nota 28 Si veda il paragrafo 130 della sentenza.

nota 29 Barsotti V., Carozza P. G., Cartabia M., Simoncini A., Italian Constitutional justice in Global Context, Oxford University Press, 2016, p. 224.

nota 30 Ibidem, p. 226.

nota 31 Pollicino, O. The ECtHcR and the Italian Constitutional Court, The UK and European Human Rights: A strained Relationship?, Bloomsbury, p. 366.

nota 32 Barsotti e altri, supra, p. 229.

nota 33 Pollicino, supra, p. 366.

nota 34 Sabato, supra, pp. 273-274.

nota 35 Pollicino, supra, p. 366.

nota 36 Barsotti e altri, supra, p. 230.

nota 37 Ibidem.

 

nota 1 La Corte costituzionale italiana, con sede nel Palazzo della Consulta, sarà altresì designata nella presente opinione con le espressioni la «Consulta» o il «Giudice delle leggi».

nota 2 Varvara c. Italia, n. 17475/09, 29 ottobre 2013.

nota 3 Paragrafo 252 della sentenza della Grande Camera.

nota 4 È opportuno osservare che il primo riferimento alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo nel rapporto annuale del presidente della Corte costituzionale ai media risale al 1989 (esso riguardava la giurisprudenza relativa alla durata della procedura) e che il primo riferimento al rapporto tra la Corte costituzionale e la Corte di Strasburgo è del 2004.

nota 5 Sentenze della Corte costituzionale n. 188/80, n. 153/87, n. 323/89, n. 315/90 e n. 388/99.

nota 6 Soltanto più tardi la Corte costituzionale ha dichiarato, in un celebre obiter dictum, rimasto isolato, che la legge del 1955 che ratificava la Convenzione aveva una forza particolare perché «si tratta[va] di norme derivanti da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tali, [erano] insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (sentenza n. 10/93).

nota 7 Sentenza della Corte costituzionale n. 413 del 2004.

nota 8 Sentenza della Corte costituzionale n. 154 del 2004, che faceva riferimento al diritto tutelato dall’articolo 6 della Convenzione, alla luce dell’interpretazione data nelle sentenze Cordova c. Italia (n. 1), n. 40877/98, CEDU 2003 I e Cordova c. Italia (n. 2), n. 45649/99, CEDU 2003 I (estratti).

nota 9 A. Pace, «La limitata incidenza della CEDU sulle libertà politiche e civili in Italia» (2001) 7 Diritto pubblico 1; M. Cartabia, «La CEDU e l’ordinamento italiano: rapporti tra fonti, rapporti tra giurisdizioni», e F. Viganò, «’Sistema CEDU’ e ordinamento interno: qualche spunto di riflessione in attesa delle decisioni della Corte costituzionale», entrambi in R. Bin e al. (ed.), All’incrocio tra Costituzione e CEDU. Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo, Torino, Giappichelli, 2007. I contributi al seminario di Ferrara danno un quadro eccellente della situazione come si presentava immediatamente prima della pronuncia delle «sentenze gemelle».

nota 10 L’espressione «giudici comuni» sarà utilizzata nella presente opinione nel senso degli organi giudiziari interni ordinari, ossia in opposizione alla Corte costituzionale.

nota 11 Si vedano le sentenze emblematiche della Corte di cassazione n. 2194 del 1993, n. 6672 del 1998 e n. 28507 del 2005.

nota 12 I lavori degli studiosi universitari italiani destinati agli argomenti affrontati in detta opinione sono estremamente ricchi. Al fine di arrivare a un pubblico più vasto, darò tuttavia la preferenza alla letteratura redatta in inglese e in francese, senza dimenticare i testi in italiano. Riguardo alle sentenze n. 348 e n. 349 si vedano, inter alia, G. Repetto, «Rethinking a constitutional role for the ECHR, The dilemmas of incorporation into Italian domestic law» in G. Repetto, The Constitutional Relevance of the ECHR in Domestic and European Law, an Italian perspective, Cambridge: Intersentia, 2013, 37-53; M. Parodi, «Le sentenze della Corte Edu come fonte di diritto. La giurisprudenza costituzionale successiva alle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007» (2012) Diritti Comparati; F. Jacquelot, «La réception de la CEDH par l’ordre juridique italien: itinéraire du dualisme italien à la lumière du monisme français» (2011) Revue de Droit Public 1235; A. Ruggeri, «Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive», in Del Canto e Rossi (ed.), Corte costituzionale e sistema istituzionale, Torino, Giappichelli, 2011; P. Ridola, «La Corte costituzionale e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo: tra gerarchia delle fonti nazionali e armonizzazione in via interpretativa», in P. Ridola, Diritto comparato e diritto comune europeo, Torino, Giappichelli, 2010; E. Cannizzaro, «The effect of the ECHR on the Italian legal order: direct effect and supremacy» (2009) XIX Italian Yearbook of International Law 173; F. Lafaille, «CEDH et constitution italienne: la place du droit conventionnel au sein de la hiérarchie des normes» (2009) Revue de Droit Public 1137; F. Sorrentino, «Apologia delle «sentenze gemelle» (brevi note a margine delle sentenze nn. 348 e 349/2007 della Corte costituzionale», in Diritto e società, 2/2009; AAVV, Riflessioni sulle sentenze 348 349/2007 della Corte costituzionale, a cura di C. Salazar e A. Spadaro, Milano, 2009; O. Pollicino, «Constitutional Court at the crossroads between parochialism and co-operative constitutionalism» (2008) 4 European Constitutional Law Review 363; F. Dal Monte e F. Fontanelli, «The Decisions no. 348 and 349 of 2007 of the Italian Constitutional Court: the efficacy of the European convention in the Italian legal system» (2008) 9 German Law Journal 889; F. Ghera, «Una svolta storica nei rapporti del diritto interno con il diritto internazionale pattizio (ma non in quelli con il diritto comunitario)» (2008) Foro italiano I, 50; M. Luciani, «Alcuni interrogativi sul nuovo corso della giurisprudenza costituzionale in ordine ai rapporti tra diritto italiano e diritto internazionale» (2008) Corriere giuridico 185; M. Cartabia, «Le sentenze gemelle: Diritti fondamentali, fonti, giudici» (2007) 52 Giurisprudenza Costituzionale 3564; F. Donati, «La CEDU nel sistema italiano delle fonti del diritto alla luce delle sentenze della Corte costituzionale del 24 ottobre 2007» (2007) I Diritti dell’Uomo 14; A. Guazzarotti, «La Corte e la CEDU: il problematico confronto di standard di tutela alla luce dell’art. 117, comma I, Cost.» (2007) Giurisprudenza Costituzionale 3574; e Pinelli, «Sul trattamento giurisdizionale della CEDU e delle leggi con essa confliggenti» (2007) 52 Giurisprudenza Costituzionale 3518.

nota 13 Il fatto è che alcuni tribunali ordinari hanno continuato ad escludere l’applicazione del diritto interno sulla base della Convenzione, come nella sentenza di Cassazione (Corte di cassazione) (sezione I) n. 27918 del 2011, che menziona la immediata operatività, nonché la diretta applicabilità della Convenzione, la sentenza di Cassazione (sezione III) n. 19985 del 2011, che fa riferimento alla precettività delle norme convenzionali, nonché nella sentenza del Consiglio di Stato n. 1220 del 2 marzo 2010, che afferma che la Convenzione è divenuta parte integrante del diritto dell’UE ipso jure, dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona e che beneficia ormai dell’effetto diretto e del primato. La Corte costituzionale si è opposta a quest’ultima interpretazione nella sentenza n. 80 del 2011 e soprattutto nella sentenza n. 210/2013, ritenendo che la nuova versione dell’articolo 6 § 3 del trattato sull’Unione Europea non avesse trasformato la Convenzione in una parte del diritto dell’UE. La Corte di giustizia di Lussemburgo ha confermato l’opinione della Corte costituzionale nella sentenza del 24 aprile 2012, pronunciata nella causa C-571/10, Kambejaj. Riguardo alla reazione dei tribunali ordinari, si vedano, inter alia, L. Fontaine e F. Laffaille, «La «communautarisation» de la Convention Européenne des Droits de l’Homme. Le juge administratif italien et les normes européennes» (2011) 127 Revue de Droit Public 1015; A. Ruggeri, «La Corte fa il punto sul rilievo interno della CEDU e della Carta di Nizza-Strasburgo (a prima lettura di Corte cost. n. 80 del 20/1)», in forumcostituzionale.it, 23 marzo 2011; E. Lamarque, «Il vincolo alle leggi statali e regionali derivante dagli obblighi internazionali nella giurisprudenza comune», in Corte costituzionale (ed), Corte costituzionale, giudici comuni e interpretazioni adeguatrici, Milano: Giuffrè, 2010; e I. Carlotto, «l giudici comuni e gli obblighi internazionali dopo le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale: un’analisi sul seguito giurisprudenziale» (2010) Politica del Diritto 41.

nota 14 Tale punto di vista non era condiviso all’unanimità dalle alte giurisdizioni italiane. Per esempio, nella sentenza n. 1191/89, la Corte di cassazione aveva già dichiarato che l’articolo 6 della Convenzione era self executing.

nota 15 Paragrafo 3.3 del cons. in dir. (considerando in diritto) della sentenza n. 348/2007 della Corte costituzionale.

nota 16 Paragrafo 6.2 del cons. in dir. della sentenza n. 348/2007 della Corte costituzionale.

nota 17 Paragrafo 6.1 del cons. in dir. della sentenza n. 348/2007 della Corte costituzionale.

nota 18 Paragrafo 6.1 del cons. in dir. della sentenza n. 349/2007 della Corte costituzionale.

nota 19 Ibidem.

nota 20 Paragrafo 4.6 del cons. in dir. della sentenza n. 348/2007 della Corte costituzionale.

nota 21 Riguardo alle sentenze n. 311 e 317 si vedano, inter alia, V. Barsotti e al., «Italian Constitutional Justice in Global Context», Oxford: Oxford University Press, 2015; N. Perlo, «Les juges italiens et la Cour européenne des droits de l’homme: vers la construction d’un système juridique intégré de protection des droits», in X. Magnon e al. (ed.), «L’office du juge constitutionnel face aux exigences supranationales», Bruxelles: Bruylant, 2015; e «La Cour Constitutionnelle italienne et ses résistances à la globalisation de la protection des droits de l’homme: un barrage contre le pacifique»?» (2013) 95 Revue française de droit constitutionnel 717; C. Padula, «La Corte costituzionale ed i «controlimiti» alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: riflessioni sul bilanciamento dell’art. 117, co. 1, Cost.», in Federalismi.it, 10 dicembre 2014; G. Reppetto, «L’effetto di vincolo delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nel diritto interno: dalla riserva di bilanciamento al «doppio binario»» (2014) 20 (3) Diritto Pubblico 1075; M. Cartabia, «La tutela multilivello dei diritti fondamentali – il cammino della giurisprudenza costituzionale italiana dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona», Incontro trilaterale tra le Corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola – Santiago di Compostela 16-18 ottobre 2014; F. Gallo, Rapporti fra Corte Costituzionale e Corte EDU, Bruxelles, 24 maggio 2012, in Rivista AIC 1/2013; D. Tega, «I diritti in crisi tra Corti nazionali e Corte europea di Strasburgo», Milano: Giuffrè, 2012; O. Pollicino, «Allargamento dell’Europa ad est e rapporti tra Corti costituzionali e corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale», Milano: Giuffrè, 2012; D. Tega, «L’ordinamento costituzionale italiano e il «sistema» CEDU: accordi e disaccordi», in V. Manes e V. Zagrebelsky (ed.), «La CEDU nell’ordinamento penale italiano», Milano: Giuffrè, 2011; E. Gianfrancesco, «Incroci pericolosi: CEDU, Carta dei diritti fondamentali e Costituzione italiana tra Corte costituzionale, Corte di giustizia e Corte di Strasburgo», in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, n. 1/2011; O. Pollicino, «Margine di apprezzamento, art 10, c.1, Cost. e bilanciamento «bidirezionale»: evoluzione o svolta nei rapporti tra diritto interno e diritto convenzionale nelle due decisioni nn. 311 e 317 del 2009 della Corte costituzionale?», in Forum di Quaderni costituzionali, 16 dicembre 2009, A. Ruggeri, «Conferme e novità di fine anno in tema di rapporti tra diritto interno e CEDU (a prima lettura di Corte cost. nn. 311 e 317 del 2009)», Forum di Quaderni costituzionali, 2009.

nota 22 Paragrafo 6 del cons. in dir. della sentenza n. 311/2009 della Corte costituzionale.

nota 23 Paragrafo 7 del cons. in dir. della sentenza n. 317/2009 della Corte costituzionale.

nota 24 Paragrafo 6 del cons. in dir. della sentenza n. 311/2009 della Corte costituzionale. Nella recente sentenza n. 49 del 2015, la Corte costituzionale ha ricordato questo principio interpretativo: «Questa Corte ha già precisato, e qui ribadisce, che il giudice comune è tenuto ad uniformarsi alla «giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente» (sentenze n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009), «in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza» (sentenza n. 311 del 2009; nello stesso senso, sentenza n. 303 del 2011)».

nota 25 Paragrafo 7 del cons. in dir. della sentenza n. 317/2009 della Corte costituzionale.

nota 26 Ibidem.

nota 27 È un approfondimento del «ragionevole bilanciamento» già menzionato nel paragrafo 4.7 del cons. in dir. della sentenza n. 348/2007. Il valore aggiunto della sentenza del 2009 consiste nel mettere in evidenza i rapporti meno formalistici e gerarchici, e più assiologici e sostanziali, tra la Costituzione e la Convenzione, in nome del principio della «massimizzazione delle garanzie».

nota 28 Questo nucleo intangibile dell’identità costituzionale e della sovranità dello Stato comprende «i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale» e «i diritti inalienabili della persona umana», come descritti dalle sentenze della Corte costituzionale n. 183/73, n. 170/84, n. 232/89 e n. 238/2014.

nota 29 Sentenza del Consiglio di Stato dell’8 agosto 2005, causa 4207/2005.

nota 30 Sentenza della Corte costituzionale n. 238/2014.

nota 31 Il margine di apprezzamento è stato menzionato nel paragrafo 7 della sentenza n. 317 del 2009 e nel paragrafo 9 della sentenza n. 311 del 2009. Questi due riferimenti rinviano tuttavia a situazioni molto diverse. Se la sentenza n. 311 fa semplicemente riferimento alla giurisprudenza della Corte sull’interpretazione di alcuni ambiti sociali, la sentenza n. 317 differisce laddove pretende che gli Stati dispongano di un margine di apprezzamento nell’esecuzione delle sentenze della Corte. Sul ricorso alla dottrina del margine di apprezzamento da parte della Corte costituzionale, si veda M. Cartabia, «La tutela multilivello (…)», sopra citata, pag. 20, che giustifica il suo uso «quando un consenso non si è ancora consolidato»; si vedano, altresì V. Schiarabba, «La dottrina del margine di apprezzamento e i rapporti con le corti nazionali», in O. Pollicino e V. Sciarabba, «La Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di Giustizia nella prospettiva della giustizia costituzionale», in Forum costituzionale.it, 2010; e F. Bilancia, «Con l’obiettivo di assicurare l’effettività degli strumenti di garanzia la Corte costituzionale italiana funzionalizza il ‘margine di apprezzamento’ statale, di cui alla giurisprudenza CEDU, alla garanzia degli stessi diritti fondamentali» (2009) Giurisprudenza costituzionale 4772.

nota 32 Si veda il paragrafo 7 del cons. in dir. della sentenza n. 311/2009 della Corte costituzionale.

nota 33 Sentenza n. 236/2011 della Corte costituzionale. Facendo riferimento alle posizioni della Corte di Strasburgo e della Corte costituzionale, M. Cartabia ha ritenuto che «benché il caso non abbia innescato un vero e proprio conflitto giurisprudenziale, non si può sottacere la diversità di posizioni mantenuta dalle due corti» («La tutela multilivello (…)», sopra citata, pag. 18).

nota 34 Sentenza n. 236/2011 della Corte costituzionale.

nota 35 Sentenza n. 264/2012 della Corte costituzionale.

nota 36 È opportuno osservare che, nella sentenza n. 264/2012, la Corte costituzionale, al fine di evitare l’applicazione della sentenza emessa dalla Corte, ha fatto ricorso alla dottrina del margine di apprezzamento e non ai controlimiti, come chiesto dal giudice rimettente (paragrafo 4.2). Si veda, in relazione a questa sentenza, inter alia, M. Cartabia, «I diritti in Europa: la prospettiva della giurisprudenza costituzionale italiana» (2015) Rivista trimestrale di diritto pubblico, I, 45, e «La tutela multilivello (…)», sopracitata, pagg. 12-15; F. Viganò, «Convenzione europea dei diritti dell’uomo e resistenze nazionalistiche: Corte costituzionale italiana e Corte europea tra guerra e dialogo», in Diritto Penale Contemporaneo (DPC), 14 luglio 2014; R. Dickmann, «Corte costituzionale e controlimiti al diritto internazionale. Ancora sulle relazioni tra ordinamento costituzionale e CEDU», in Federalismi.it, Focus Human Rights, n. 3/2013, 16 settembre 2013; M. Massa, «La sentenza .n. 264 del 2012 della Corte costituzionale: dissonanze tra le corti sul tema della retroattività», in Quaderni costituzionali, 1/2013; e A. Ruggeri, «La Consulta rimette abilmente a punto la strategia dei suoi rapporti con la Corte EDU e, indossando la maschera della consonanza, cela il volto di un sostanziale, perdurante dissenso nei riguardi della giurisprudenza convenzionale, («a prima lettura» di Corte cost. n. 264 del 2012)», in Diritti Comparati, 14 dicembre 2012.

nota 37 Si vedano le osservazioni illuminanti dell’ex giudice della Corte costituzionale, Sabino Cassese, Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale, Bologna: Il Mulino, 2015, 78, 88, 89 e 213.

nota 38 La Corte costituzionale non usa un linguaggio coerente dopo la sentenza n. 317/2009, e continua a volte a ricorrere al linguaggio di tipo gerarchico, per esempio nella sentenza n. 93/2010.

nota 39 Avevo già anticipato questo conflitto nella nota a fine pagina 9 della mia opinione separata allegata alla sentenza Fabris c. Francia [GC], n. 16574/08, CEDU 2013 (estratti).

nota 40 Maggio e altri c. Italia, nn. 46286/09 e altri 4, 31 maggio 2011.

nota 41 Cataldo e altri c. Italia, nn. 54425/08 e altri 5, 24 giugno 2014.

nota 42 Stefanetti e altri c. Italia, nn. 21838/10 e altri 7, 15 aprile 2014.

nota 43 Paragrafo 5 del cons. in dir. della sentenza n. 166/2017 della Corte costituzionale. La situazione attuale potrà essere superata soltanto con un intervento del legislatore, come suggerito dalla Corte costituzionale nel paragrafo 8 della presente sentenza, o con una dichiarazione di incostituzionalità parziale della legge n. 848 del 1955, a condizione che sia interessato l’articolo 6 della Convenzione, seguito dalla formulazione di una riserva alla Convenzione al riguardo. La Corte ha l’ultima parola riguardo alla compatibilità di tale riserva con la Convenzione. Se questa via di ricorso dovesse fallire, allo Stato italiano non resterebbe che denunciare la Convenzione. In ogni caso, lo Stato italiano è considerato responsabile di ogni situazione di rifiuto dell’esecuzione di una delle sentenze della Corte.

nota 44 In effetti, in un’altra causa contemporanea a quella delle pensioni di anzianità svizzere che riguardava la legittimità costituzionale delle disposizioni legislative di interpretazione autentica (la causa del personale ATA), la Corte ha affermato che «riguardo alla decisione della Corte costituzionale, la Corte rammenta che non può essere sufficiente per stabilire la conformità della legge n. 266 del 2005 con le disposizioni della Convenzione» (Agrati e altri c. Italia, nn. 43549/08 e altri 2, § 62, 7 giugno 2011), contrastando così le conclusioni della sentenza n. 234/2007 della Corte costituzionale. Nella sua sentenza n. 257/2011, la Corte costituzionale ha fornito un’interpretazione rigorosa della sentenza Agrati e altri c. Italia, dichiarando la costituzionalità delle disposizioni in questione. Riguardo a queste sentenze, si vedano, inter alia, M. Bignami, «La Corte Edu e le leggi retroattive», in Questione Giustizia, 13 settembre 2017; G. Bronzini, «I limiti alla retroattività della legge civile tra ordinamento interno e ordinamento convenzionale: dal «disallineamento» al dialogo?», in AAVV, Dialogando sui diritti. Corte di Cassazione e CEDU a confronto, Napoli: EGEA Editore, 2016; Servizio Studi Corte Costituzionale, «La legge di interpretazione autentica tra Costituzione e Cedu», a cura di I. Rivera, 2015; M. Massa, «Difficoltà di dialogo. Ancora sulle divergenze tra Corte costituzionale e Corte europea in tema di leggi interpretative», in Giurisprudenza Costituzionale 1/2012; e F. Bilancia, «Leggi retroattive ed interferenza nei processi in corso: la difficile sintesi di un confronto dialogico tra Corte costituzionale e Corte europea fondato sulla complessità del sistema dei reciproci rapporti», in Giurisprudenza costituzionale, 6/2012.

nota 45 Riguardo alla reazione della sentenza Varvara si vedano, inter alia, F. Viganò, «Confisca urbanistica e prescrizione: a Strasburgo il re è nudo (a proposito di Cass. pen., sez. III, ord. 30 aprile 2014)», in DPC, 9 giugno 2014; A. Balsamo, «La Corte europea e la confisca senza condanna per la lottizzazione abusiva» (2014) Cassazione Penale 1396; e G. Civello, «La sentenza Varvara c. Italia «non vincola» il giudice italiano: dialogo fra Corti o monologhi di Corti?», in Archivio Penale, 2015, n. 1.

nota 46 Si vedano, inter alia, V. Lo Giudice, «Confisca senza condanna e prescrizione: il filo rosso dei controlimiti», in DPC, 28 aprile 2017; A. Giannelli, «La confisca urbanistica (art. 7 CEDU)», in Di Stasi, CEDU e Ordinamento Italiano, Vicenza: CEDAM, 2016, 563-590; C. Padula, «La Corte Edu e i giudici comuni nella prospettiva della recente giurisprudenza costituzionale», in Consulta online, 2016 fasc. 2; D. Pulitanò, «Due approcci opposti sui rapporti fra Costituzione e CEDU in materia penale. Questioni lasciate aperte da Corte cost. n. 49/2015», in DPC, 22 giugno 2015; O. Di Giovine, «Antiformalismo Interpretativo: Il pollo di Russell e la stabilizzazione del precedente giurisprudenziale», in DPC, 5/2015; G. Martinico, «Corti costituzionali (o Supreme) e «disobbedienza funzionale» – Critica, dialogo e conflitti nel rapporto tra diritto interno e diritto delle convenzioni (CEDU e Convenzione americana sui diritti umani)», in DPC, 28 aprile 2015; A. Ruggeri, «Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della Cedu in ambito interno», in DPC, 2 aprile 2015; D. Tega, «La sentenza della Corte costituzionale n. 49/2015 sulla confisca: il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU» (2015) Quaderni costituzionali 400; e «A National Narrative: The Constitution’s Axiological Prevalence of the ECHR–A Comment on the Italian Constitutional Court Judgment No. 49/2015», in Blog of the International Journal of Constitutional Law, 1° maggio 2015; A. Pin, «A Jurisprudence to Handle with Care: The European Court of Human Rights’ Unsettled Case Law, its Authority, and its Future, According to the Italian Constitutional Court», nello stesso blog; F. Viganò, «La Consulta e la tela di Penelope. Osservazioni a primissima lettura su C. cost., sent. 26 marzo 2015, n. 49, in materia di confisca di terreni abusivamente lottizzati e proscioglimento per prescrizione», in DPC, 30 marzo 2015; M. Bignami, «Le gemelle crescono in salute: la confisca urbanistica tra Costituzione, CEDU e diritto vivente», in DPC, 30 marzo 2015; A. Russo, «Prescrizione e confisca. La Corte costituzionale stacca un nuovo biglietto per Strasburgo», in Archivio Penale; R. Conti, «La Corte assediata? Osservazioni a Corte cost. n. 49/2015», in Consulta online, 10 aprile 2015; N. Colacino, «Convenzione europea e giudici comuni dopo Corte costituzionale n. 49/2015: sfugge il senso della «controriforma» imposta da Palazzo della Consulta», in Ordine Internazionale e Diritti Umani, n. 3/2015; G. Civello, «Rimessa alla Grande Camera la questione della confisca urbanistica in presenza di reato prescritto: verso il superamento della sentenza Varvara?», Archivio Penale 2015, n. 2; P. Mori, «Il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU: Corte costituzionale 49/2015 ovvero della ‘normalizzazione’ dei rapporti tra diritto interno e la CEDU», in SIDIBlog, 2015; V. Zagrebelsky, «Corte cost. n. 49/2015, giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, art. 117 Cost., obblighi derivanti dalla ratifica della Convenzione», in Osservatorio costituzionale, 2015, n. 5; G. Sorrenti, «Sul triplice rilievo di Corte cost., sent. n. 49/2015, che ridefinisce i rapporti tra ordinamento nazionale e CEDU e sulle prime reazioni di Strasburgo», in Forum di Quaderni Costituzionali, 7 dicembre 2015; D. Russo, «Ancora sul rapporto tra Costituzione e Convenzione europea dei diritti dell’uomo: brevi note sulla sentenza della Corte Costituzionale n. 49 del 2015», in Osservatorio delle fonti, 2/2015; G. Repetto, «Vincolo al rispetto del diritto CEDU ‘consolidato’: proposta di adeguamento interpretativo» (2015) Giurisprudenza Costituzionale 411.

nota 47 Paragrafo 6 del cons. in dir. della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale. Nella misura in cui la Corte costituzionale stessa ammette l’applicabilità delle garanzie offerte dall’articolo 7 alla confisca urbanistica, non posso più mantenere la posizione che ho difeso nella mia opinione separata allegata alla sentenza Varvara, in cui ritenevo che l’articolo 7 non fosse applicabile. Non voglio certamente essere più realista del re.

nota 48 Paragrafo 5 del cons. in dir. della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale.

nota 49 La sentenza Sud Fondi srl e altri c. Italia, n. 75909/01, 20 gennaio 2009, ha ricevuto un’accoglienza positiva nella sentenza n. 239/2009 della Corte costituzionale. Nella sua sentenza n. 49/2015, la Corte costituzionale ha confermato detta giurisprudenza.

nota 50 Paragrafo 5 del cons. in dir. della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale.

nota 51 Paragrafo 6.2 del cons. in dir. della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale.

nota 52 Sud Fondi, sopra citata.

nota 53 La Corte di cassazione ha ritenuto che la sentenza Varvara non fosse compatibile con alcune disposizioni della Costituzione italiana, nella misura in cui essa garantiva una «forma di iper-tutela del diritto al rispetto dei beni anche se il bene controverso non aveva alcuna utilità sociale (articoli 41 e 42 della Costituzione), sacrificando i principi di un valore costituzionale superiore o del diritto di sviluppare la propria personalità in un ambiente sano (articoli 2, 9 e 32 della Costituzione)». È opportuno osservare, tuttavia, che la Corte di cassazione aveva precedentemente ammesso la logica che aveva presieduto alla sentenza Varvara (sezione penale III, sentenza dell’11 marzo 2014, n. 23965, e sezione penale III, sentenza dell’11 marzo-16 aprile 2014, n. 16694).

nota 54 Il giudice di Teramo ha ritenuto che la pratica della confisca vigente nei casi di reati prescritti fosse stato giudicata contraria all’articolo 7, così come interpretato nella sentenza Varvara, e che non vi fosse alcuna altra soluzione interpretativa per risolvere tale contraddizione.

nota 55 Paragrafo 6.1 del cons. in dir. della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale.

nota 56 Ibidem.

nota 57 Paragrafo 7 del cons. in dir. della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale.

nota 58 Ibidem.

nota 59 Paragrafo 4 del cons. in dir. della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale. Non sorprende che la Corte costituzionale si sia associata alla posizione adottata dalla Corte suprema del Regno Unito riguardo all’assenza dell’efficacia erga omnes delle sentenze della Corte che non rappresentano una giurisprudenza «chiara e costante». Riguardo alle opinioni di Lord Philip nella causa Horncastle e di Lord Bingham nella causa Ullah, si veda la mia opinione separata allegata alla sentenza Hutchinson c. Regno Unito [GC], n. 57592/08, CEDU 2017.

nota 60Paragrafo 6 della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale.

nota 61 Come giustamente osservato da F. Viganò, la sentenza Varvara seguiva l’orientamento della sentenza Paraponiaris c. Grecia, n. 42132/06, 25 settembre 2008, e non segnava perciò alcuna discontinuità rispetto alla precedente giurisprudenza («Confisca urbanistica (…)», sopra citata, p. 280).

nota 62 Nulla nella sentenza Varvara esige una sentenza emessa da una giurisdizione penale. È vero che la traduzione in inglese di questa sentenza critica il fatto che «the criminal penalty which was imposed on the applicant despite the fact that the criminal offence had been time-barred and his criminal liability had not been established in a verdict as to his guilt» («la sanzione penale inflitta al ricorrente quando il reato era estinto e la sua responsabilità non è stata riconosciuta in una sentenza di condanna)». Ma le parole «criminal liability» (responsabilità penale) devono essere lette nel loro contesto: nella causa Varvara, la confisca è stata ordina dai giudici penali, e quindi non è stato contestato il suo carattere penale. Questo aspetto risulta ancora più evidente nella versione originale francese, che ritiene semplicemente problematico il fatto che la «responsabilità [del ricorrente] non è stata stabilita in una sentenza di condanna».

nota 63 Paragrafo 255 della sentenza.

nota 64 Sud Fondi, sopra citata.

nota 65 Sentenza n. 239/2009 della Corte costituzionale.

nota 66 Questa elegante formulazione della sentenza n. 24/2017 della Corte costituzionale contraddice su un piano letterale, logico ed assiologico la seguente frase, che si può leggere nella sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale: «Nell’ordinamento giuridico italiano la sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia alcuna incompatibilità logica o giuridica con un pieno accertamento di responsabilità» Queste frasi non possono essere entrambe vere: una di loro è sicuramente erronea, e l’autore della presente opinione ritiene che la Corte costituzionale avesse ragione nella sentenza n. 24/2017, ma non nella sentenza n. 49/2015.

nota 67 A giusto titolo, F. Viganò ha individuato il cuore della sentenza Varvara in termini esattamente identici: «Quest’ultima osservazione ci consente, d’altra parte, di evidenziare che il problema qui in discussione non è soltanto quello della piena garanzia di un ‘giusto processo’ in relazione all’accertamento del fatto e delle responsabilità individuali quali presupposto della misura ablatoria; ma anche quello, squisitamente sostanziale, del significato della declaratoria di prescrizione del reato dal punto di vista dell’imputato. (…) A Strasburgo, purtroppo, il re è nudo. La sottile retorica e le raffinate distinzioni della nostra giurisprudenza non valgono, avanti ai giudici europei, a difendere l’indifendibile: e cioè l’inflizione di una pena per un reato che lo stesso ordinamento giuridico italiano ritiene estinto per prescrizione, essendo ormai inutilmente trascorso il ‘tempo dell’oblio’ legislativamente stabilito per quel medesimo reato.» («Confisca Urbanistica (…)», sopra citato, p. 286).

nota 68 Varvara, sopra citata, § 72.

nota 69 Sud Fondi, sopra citata.

nota 70 Sulla natura della prescrizione in materia penale nel diritto convenzionale, si veda la mia opinione separata allegata alla sentenza Mocanu e altri c. Romania [GC], n. 10865/09 e altri 2, CEDU 2014 (estratti), e l’opinione da me redatta unitamente al giudice Turkovic nella sentenza Matytsina c. Russia, n. 58428/10, 27 marzo 2014. Essa si discosta evidentemente dal concetto limitato esposto nella decisione Previti c. Italia (dec.), n. 1845/08, 12 febbraio 2013.

nota 71 Questo argomento viene riformulato dalla maggioranza nel paragrafo 253 della sentenza.

nota 72 Paragrafo 5 della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale.

nota 73 Ibidem. L’unico riferimento rinvia ad «adeguati standard probatori».

nota 74 Paragrafo 260 della sentenza.

nota 75 La maggioranza si limita a supporre quello che deve essere dimostrato. Ancora peggio, essa ignora il diritto italiano. Nella sentenza o nel fascicolo non vi è nulla che suggerisca che il reato di lottizzazione abusiva sia più complesso nel diritto italiano rispetto a reati analoghi in altri paesi, o che sia più difficile perseguire tale reato in Italia che perseguire gli autori di reati analoghi in altri paesi. Nulla prova inoltre che il legislatore italiano ritenga che tale reato sia di per sé complesso. Al contrario, il legislatore ritiene che si tratti di un reato minore (contravvenzione), punibile con una pena detentiva massima di due anni e con un’ammenda non superiore a 51.645 euro, per il quale è addirittura consentita la sospensione condizionale (articolo 163 del codice penale italiano). Se la persona condannata non commette reati nei due anni di sospensione condizionale, il reato è estinto ai sensi dell’articolo 167 del codice penale. La sospensione condizionale associata alla pena non comporta, tuttavia, la sospensione della confisca.

nota 76 Né la sentenza né il fascicolo contengono elementi che indichino che sia questo il caso. Le norme sulla prescrizione applicabili nel diritto italiano non sono state confrontate con quelle in vigore in altri paesi. Per di più, la maggioranza non dovrebbe dimenticare che gli Stati hanno molte altre possibilità che sono più compatibili con lo Stato di diritto quando vogliono adempiere alla loro missione di lotta contro i «reati complessi», come ad esempio la proroga dei relativi termini di prescrizione legale. In proposito, la maggioranza ignora la modifica apportata dallo stesso legislatore alla norma di prescrizione pertinente contenuta nella legge del 13 giugno 2017, n. 103, che proroga i termini di prescrizione in questione.

nota 77 Anche in questo caso, nella sentenza o nel fascicolo non vi sono elementi che provino che vi sia stata al momento dei fatti o che vi sia attualmente un’assenza «sistematica» di procedimenti e di sanzioni in caso di lottizzazione abusiva in Italia. Al contrario, le statistiche fornite dal Ministero mostrano che la percentuale di prescrizioni sul totale dei procedimenti definiti è in costante diminuzione, passando dal 14,69% del 2004 al 9,48% del 2014. Consultando le statistiche disponibili per categoria di reato, si osserva che i reati prescritti nell’ambito della Pubblica Amministrazione e dinanzi ai giudici di primo grado rappresentano rispettivamente il 15,5% e il 5,6% del totale delle decisioni emesse (https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/ANALISI_PRESCRIZIONE_CON_COMMENTI.pdf). Queste cifre semplicemente non confermano il ragionamento elaborato dalla maggioranza.

nota 78 Le carenze del regime di prescrizione nel diritto italiano sono già state severamente criticate dalla Corte in passato (Alikaj e altri c. Italia, n. 47357/08, § 99, 29 marzo 2011, e Cestaro c. Italia, n. 6884/11, § 208, 7 aprile 2015).

nota 79 Paragrafo 261 della sentenza.

nota 80 La maggioranza limita quindi l’uso della confisca senza condanna ai casi in cui gli elementi del reato siano già stati accertati nel momento in cui il reato risulta prescritto, il che vieta altre indagini su tali elementi a partire da quel momento.

nota 81 Marguš c. Croazia [GC], n. 4455/10, § 120, CEDU 2014 (estratti).

nota 82 Non si tratta qui di soffermarsi sulle conseguenze della tesi della «condanna sostanziale» per il principio del ne bis in idem. A questo proposito rinvio semplicemente alla mia opinione separata allegata alla sentenza A e B c. Norvegia [GC], nn. 24130/11 e 29758/11, CEDU 2016.

nota 83 Vedere, tra altre, Cleve c. Germania, n. 48144/09, 15 gennaio 2015, e Sekanina c. Austria, 25 agosto 1993, serie A n. 266 A. Per inciso, la Corte costituzionale interpreta erroneamente la giurisprudenza della Corte quando sviluppa i suoi argomenti a favore di una dichiarazione sostanziale di colpevolezza. Ciò è palesemente dimostrato dall’uso che essa fa della sentenza Minelli c. Svizzera, 25 marzo 1983, Serie A n. 62, per difendere l’affermazione secondo cui «non è una questione di forma della sentenza, ma di sostanza (Corte costituzionale, § 6.2). Quello che la Corte afferma al paragrafo 37 della sentenza Minelli, è che anche nelle decisioni formali di assoluzione un giudice nazionale può violare la presunzione di innocenza formulando affermazioni sulla colpevolezza di un imputato. Ma se la Corte di Strasburgo fa riferimento a questo fenomeno per spiegare che è vietato, la Corte costituzionale descrive lo stesso fenomeno al fine di autorizzare i tribunali nazionali a perpetuare questa pratica. Non si tratta nemmeno di un’applicazione in malam partem di un principio, ma di una sua integrale sovversione.

nota 84 Paragrafo 6.2 del cons. in dir. della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale.

nota 85 Paragrafo 7 del cons. in dir. della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale.

nota 86 Paragrafo 7 del cons. in dir. della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale.

nota 87 Paragrafo 6.2 del cons. in dir. della sentenza n. 348/2007 della Corte costituzionale.

nota 88 Rapporto esplicativo del Protocollo n. 14 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, che modifica il sistema di controllo della Convenzione, § 68.

nota 89 Ibidem, § 40.

nota 90 Ibidem.

nota 91 Ibidem.

nota 92 Sul valore di precedente delle sentenze della Corte, si veda la mia opinione separata allegata alla sentenza Herrmann c. Germania [GC], n. 9300/07, 26 giugno 2012.

nota 93 Articolo 61 del regolamento della Corte.

nota 94 Sulla forza giuridica delle sentenze «pilota» e «quasi pilota», si vedano le mie opinioni separate allegate alle sentenze Vallianatos e altri c. Grecia [GC], nn. 29381/09 e 32684/09, CEDU 2013 (estratti), e Al-Dulimi e Montana Management Inc. c. Svizzera [GC], n. 809/08, CEDU 2016.

nota 95 Paragrafo 6.2 del cons. in dir. della sentenza n. 348/2007 della Corte costituzionale.

nota 96 Paragrafo 252 della sentenza. L’inserimento di questa frase può sembrare singolare, ma ha una spiegazione. La Corte voleva porre un principio prima di iniziare l’analisi del valore della sentenza Varvara nei successivi paragrafi 255 – 261. Il principio, che riguarda il «carattere vincolante» e «l’autorità interpretativa» di tutte le sentenze della Corte, è una risposta diretta alla sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale nonché un messaggio rivolto a tutte le corti supreme e costituzionali in Europa.

nota 97 Si veda la parte II (V. A. i.) infra a proposito del significato «dell’autorità interpretativa» della sentenza della Corte.

nota 98 Va osservato che la maggioranza non risolve il caso in esame basandosi sull’argomentazione del margine di apprezzamento, sebbene tale pratica sia diventata comune da qualche tempo. L’unico riferimento marginale al margine di apprezzamento nell’analisi della Corte si trova al paragrafo 293 e riguarda l’articolo 1 del Protocollo n. 1.

nota 99 Un minimo senso di decenza impedisce di appellarsi ancora al margine di apprezzamento per appellarsi all’articolo 7 della Convenzione, che garantisce, non dimentichiamolo, un diritto inderogabile.

nota 100 Come giustamente sottolinea F. Viganò, «L’accertamento della violazione presuppone, in altre parole, la valutazione della Corte di non riconoscere più alcun margine di apprezzamento da parte dello Stato (…) una volta che sia stata accertata una violazione, lo Stato soccombente non ha più alcun margine di apprezzamento da far valere agli occhi della Corte, se non forse sulle concrete modalità con le quali eseguire la sentenza medesima» («Convenzione europea (…)», sopra citata, p. 19). La sentenza Moreira Ferreira c. Portogallo (n. 2) [GC], n. 19867/12, CEDU 2017 (estratti), non modifica assolutamente tale questione, poiché le infelici conclusioni formulate dalla ristretta maggioranza sul merito si limitano alle circostanze molto specifiche della causa, mentre la prima sentenza Moreira Ferreira non era stata, sempre secondo la maggioranza, sufficientemente chiara in merito all’opportunità di riaprire il procedimento penale. In ogni caso, Moreira Ferreira (n. 2) riguarda una violazione dell’articolo 6, che costituisce una disposizione derogabile, e quindi non si applica certamente all’esecuzione delle sentenze relative al principio di legalità delle pene, che è inderogabile.

nota 101 In effetti, la stessa Corte costituzionale riconosce che il Consiglio d’Europa è una «realtà giuridica, funzionale e istituzionale» (paragrafo 6.1 dei cons. in dir. della sentenza n. 349/2007). Per quanto riguarda la struttura costituzionale e il modus operandi dell’ordinamento giuridico del Consiglio d’Europa, si veda la mia opinione separata allegata alla sentenza Muršic c. Croazia [GC], n. 7334/13, CEDU 2016. Il riconoscimento dell’esistenza di questo sistema giuridico è importante in quanto consente di leggere le disposizioni della Convenzione e la giurisprudenza della Corte alla luce dell’articolo 11 della Costituzione italiana.

nota 102 Come sarà dimostrato qui di seguito, il quinto criterio della Corte costituzionale contraddice le sue importanti sentenze n. 170/2013 e n. 210/2013.

nota 103 Si deve notare che questa stessa sentenza n. 49/2015 non spiega perché la sentenza Sud Fondi costituisca una giurisprudenza consolidata mentre lo stesso non vale per la sentenza Varvara. La Corte costituzionale non tenta di dimostrare che la sentenza Sud Fondi è più allineata con la giurisprudenza della Corte rispetto alla sentenza Varvara. Non sono stati presi in considerazione né la «creatività» della sentenza Sud Fondi, né il fatto che si tratta di una sentenza camerale che non è stata confermata dalla Grande Camera. È evidente che nessuno di questi fattori è stato preso in considerazione nella sentenza n. 239/2009, che è stata la prima a dire che la sentenza Sud Fondi determinava una evoluzione nel diritto italiano riguardante la natura penale della confisca.

nota 104 Maggio e altri, sopra citata.

nota 105 Agrati e altri, sopra citata.

nota 106 Paragrafo 5 del cons. in dir. della sentenza n. 184/2015 della Corte costituzionale.

nota 107 Sentenza n. 187/2015 della Corte costituzionale (che si limita a dichiarare che la sentenza Varvara «non è l’espressione della giurisprudenza consolidata della Corte di Strasburgo»).

nota 108 Si veda il paragrafo 8 del cons. in dir. della sentenza n. 36/2016 della Corte costituzionale, che indica solo che «dalla giurisprudenza europea consolidata deriva il principio di diritto secondo cui (…)», che cita tre cause contro l’Italia.

nota 109 Paragrafi 1, 4 e 6.1 del cons. in dir. della sentenza n. 102/2016 della Corte costituzionale. Questa sentenza è citata nella sentenza n. 43/2018.

nota 110 Si veda il paragrafo 4 del cons. in dir. della sentenza n. 200/2016 della Corte costituzionale, che osserva soltanto che «la Grande Camera ha consolidato la giurisprudenza europea relativamente al principio ne bis in idem da quando ha risolto un «conflitto tra sezioni della Corte europea dei diritti dell’uomo».

nota 111 Paragrafo 5 del cons. in dir. della sentenza n. 43/2018 della Corte costituzionale. Nonostante «l’innovazione» del principio enunciato nella sentenza A. e B. c. Norvegia (GC), che contraddice la precedente giurisprudenza della Corte, compresa la giurisprudenza contro l’Italia, come la sentenza Grande Stevens e altri c. Italia, la Corte costituzionale ha ordinato al giudice a quo di tener conto della sentenza della Grande Camera.

nota 112 Paragrafo 4.1 del cons. in dir. della sentenza n. 166/2017 della Corte costituzionale.

nota 113 D. Galliani, «Sul mestiere del giudice, tra Costituzione e Convenzione», in Consulta online, 23 marzo 2018, p. 50.

nota 114 L’interpretazione dovrebbe rientrare «nei limiti permessi dal testo normativo» (paragrafo 6.2 del cons. in dir. della sentenza n. 349/2007 e paragrafo 3 del cons. in dir. della sentenza n. 239/2009), «secondo la lettura che ne dà la Corte di Strasburgo» (paragrafo 6 del cons. in dir. della sentenza n. 311/2009). A proposito di questo metodo interpretativo, si vedano V. Zagrebelsky e altri, «Manuale dei diritti fondamentali in Europa», Bologna: Il Mulino, 2016; E. Malfatti, «L’interpretazione conforme nel «seguito» alle sentenze di condanna della Corte di Strasburgo», in Scritti in onore di G. Silvestre, II, Torino: Giappichelli, 2016; I. Rivera, «L’obbligo di interpretazione conforme alla CEDU e i controlimiti del diritto convenzionale vivente», in Federalismi.it, 19/2015; B. Randazzo, «Interpretazione delle sentenze della Corte europea dei diritti ai fini dell’esecuzione (giudiziaria) e interpretazione della sua giurisprudenza ai fini dell’applicazione della CEDU», in Rivista AIC 2/2015; E. Lamarque, «The Italian courts and interpretation in conformity with the Constitution, EU law and the ECHR», in Rivista AIC, 4/2012; V. Marzuillo, «Giurisprudenza della Corte di Strasburgo e interpretazione conforme delle norme interne», in F. Del Canto e E. Rossi, E. Sciso, «Il principio dell’interpretazione conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e la confisca per la lottizzazione abusiva», in Rivista di diritto internazionale, 1/2010, 131.

nota 115 Osservazioni del Governo dinanzi alla Grande Camera.

nota 116 Mi sembra che una ricerca nella giurisprudenza della Corte sui vari tipi di pena (come la confisca) inflitta in assenza di una condanna penale metterebbe in evidenza almeno quattro gruppi di cause: decisioni di confisca e misure simili pronunciate nei confronti di terzi nell’ambito di un procedimento penale (ad esempio, AGOSI c. Regno Unito, 24 ottobre 1986, § 66, serie A n. 108, e Air Canada c. Regno Unito, 5 maggio 1995, §§ 29-48, serie A n. 316 A); decisioni di confisca e misure simili pronunciate al di fuori di qualsiasi procedimento penale, in particolare misure preventive nei confronti di persone i cui beni sono presumibilmente di origine illecita (ad esempio, Riela e altri c. Italia (dec.), n. 52439/99, 4 settembre 2001, e Butler c. Regno Unito (dec.), n. 41661/98, 27 giugno 2002); giurisdizione amministrativa che infligge una sanzione amministrativa nonostante nell’ambito di un procedimento penale sia stata emessa una decisione di assoluzione o di non luogo (ad esempio, Vanjak c. Croazia, n. 29889/04, §§ 69-72, 14 gennaio 2010, Šikic c. Croazia, n. 9143/08, §§ 54-56, 15 luglio 2010, e Kapetanios e altri c. Grecia, nn. 3453/12 e altri 2, § 88, 30 aprile 2015); e pronuncia da parte di un giudice penale di decisioni di confisca nonostante nell’ambito di un procedimento penale sia stata emessa una decisione di assoluzione o di non luogo (ad esempio, Saliba c. Malta (dec.), n. 4251/02, 23 novembre 2004, Geerings c. Paesi Bassi, n. 30810/03, 1° marzo 2007, e Paraponiaris, sopra citata). Su questa giurisprudenza, si veda A. Maugeri, «La tutela della proprietà nella CEDU e la giurisprudenza della Corte europea in tema di confisca», in M. Montagna (org), Sequestro e confisca, Torino: Giappichelli editore, 2017.

nota 117 Sud Fondi, sopra citata.

nota 118 L’affermazione del paragrafo 242 è formulata in termini generali e non è legata alle circostanze del caso di specie. L’affermazione analoga contenuta nel paragrafo 246, che riguarda «le presenti cause», deve perciò essere considerata come un’applicazione al caso di specie del principio enunciato al paragrafo 242.

nota 119 Paragrafo 244 della sentenza. Come se si trattasse di una sorta di consolazione per una evidente omissione, la Corte osserva poi, nel paragrafo 245, che «i tribunali interni hanno accettato tale argomentazione», ossia la condizione dell’elemento soggettivo e il principio della responsabilità soggettiva nel diritto penale, argomentazione che, tuttavia, non cambia in alcun modo il fatto che la Corte non giustifica le affermazioni contraddittorie che ha fatto nei paragrafi 242 e 243 della sentenza.

nota 120 Armani Da Silva c. Regno Unito [GC], n. 5878/08, CEDU 2016, sulla giustificazione della politica della polizia che consiste nello sparare per uccidere nell’ambito di azioni antiterroristiche e sull’applicazione di un criterio soggettivo che privilegia l’interesse della polizia per giustificare la legittima difesa putativa in favore degli agenti di polizia.

nota 121 Ibrahim e altri c. Regno Unito [GC], nn. 50541/08 e altri 3, CEDU 2016, riguardante il diniego, senza alcun motivo imperioso, del diritto di accesso a un avvocato durante il primo interrogatorio del sospettato al posto di polizia, e poi l’utilizzo e l’esame durante il processo degli elementi di prova a carico che ne derivavano, e la mia opinione separata nella sentenza A e B c. Norvegia, sopra citata, sulla retrocessione della garanzia ne bis in idem al rango di un diritto fluido, rigidamente interpretato, in poche parole illusorio.

nota 122 Hassan c. Regno Unito [GC], n. 29750/09, CEDU 2014, sulla pratica dell’internamento in assenza di deroghe ai sensi dell’articolo 15, e la mia opinione separata nella causa Hutchinson, sopra citata, sull’assenza ostinata di un qualsivoglia meccanismo di liberazione condizionale per i condannati alla pena dell’ergastolo senza alcuna prospettiva di liberazione.

nota 123 Si vedano le mie opinioni separate nella causa S.J. c. Belgio (cancellazione) [GC], n. 70055/10, 19 marzo 2015, riguardante l’implacabile e sfrontata politica di espulsione dei malati stranieri in fin di vita, e Abdullahi Elmi e Aweys Abubakar c. Malta, nn. 25794/13 e 28151/13, 22 novembre 2016, riguardante la politica di detenzione disumana dei richiedenti asilo e dei migranti irregolari. A mio parere, la sentenza emessa nella causa Paposhvili c. Belgio [GC], n. 41738/10, CEDU 2016, non risponde sufficientemente alle preoccupazioni che ho manifestato nella opinione da me espressa in S.J. c. Belgio. Ritorneremo sulla questione in un’altra occasione.

nota 124 Naït-Liman c. Svizzera [GC], n. 51357/07, 15 marzo 2018, sul rifiuto del forum necessitatis o del foro internazionale in materia civile nei confronti di un rifugiato che aveva adito un giudice svizzero presentando una domanda di riparazione, in ambito civile, per i danni derivanti dalla tortura che affermava di avere subito in uno Stato terzo, la Tunisia; e Al Adsani c. Regno Unito [GC], n. 35763/97, CEDU 2001 XI, e Jones e altri c. Regno Unito, nn. 34356/06 e 40528/06, CEDU 2014, riguardanti la concessione di una immunità rispettivamente a uno Stato e ad agenti di Stati esteri contro i quali era stata intentata azione civile per atti di tortura.

nota 125 È opportuno osservare che, in questo contesto, né Paraponiaris, sopra citata, né Geerings, sopra citata, vengono menzionate, e ancor meno discusse.

nota 126 Paragrafo 261 della sentenza.

nota 127 Paragrafi 317 e 318 della sentenza.

nota 128 Sentenze nn. 93/2010, 135/2014, 109/2015 della Corte costituzionale.

nota 129 Sentenza n. 371/2009 della Corte costituzionale.

nota 130 Sentenze nn. 184/2015 e 36/2016 della Corte costituzionale.

nota 131 Sentenza n. 113/2011della Corte costituzionale.

nota 132 Sentenza n. 210/2013 della Corte costituzionale.

nota 133 Sentenza n. 234/2015 della Corte costituzionale.

nota 134 Sentenza n. 279/2013 della Corte costituzionale.

nota 135 Sentenza n. 143/2013 della Corte costituzionale.

nota 136 Sentenze nn. 78/2012, 170/2013, 191/2014 e 260/2015 della Corte costituzionale.

nota 137 Sentenza n. 254/2011 della Corte costituzionale.

nota 138 Sentenza n. 202/2013 della Corte costituzionale.

nota 139 Sentenza n. 146/2015 della Corte costituzionale.

nota 140 Sentenza n. 39/2008 della Corte costituzionale.

nota 141 Sentenza n. 229/2015 della Corte costituzionale.

nota 142 Sentenza n. 84/2016 della Corte costituzionale.

nota 143 Sentenze nn. 187/2010, 329/2011, 40/2013 e 22/2015 della Corte costituzionale.

nota 144 Sentenza n. 178/2015 della Corte costituzionale.

nota 145 Sentenze nn. 348 e 349/2007, 181/2011, 338/2011 e 187/2014 della Corte costituzionale.

nota 146 Sentenze nn. 313/2013 e 115/2014 della Corte costituzionale.

nota 147 M. Cartabia, Of Bridges and walls: the «Italian» style of constitutional adjudication, Bled, 23 giugno 2016, p. 12 (ma l’autore si riferisce anche alle sentenze n. 264/2012 e n. 49/2015 come esempi della «differenza e [dell’]originalità» della giurisprudenza costituzionale italiana); si veda anche T. Groppi, «La jurisprudence de la Cour européenne des droits de l’homme dans les décisions de la Cour Constitutionnelle italienne, une recherche empirique», in L. Burgorgue-Larsen (ed.), Les défis de l’interprétation et de l’application des droits de l’homme, de l’ouverture au dialogue, Parigi: Pedone, 2017; E. Sciso, «The Italian Constitutional Court and the Impact of the European Convention of Human Rights in Italy», in Judging Human Rights – Courts of General Jurisdiction as Human Rights Courts, 2017, Month 1, 1-15; L. Mezzetti, «Human rights between Supreme Court, Constitutional Court and Supranational Court: the Italian experience» (2016) 52 IUS Gentium 29; e M. D’Amico, «Il rilievo della CEDU nel «diritto vivente»: in particolare, il segno lasciato dalla giurisprudenza «convenzionale» nella giurisprudenza costituzionale», in L. D’Andrea et al., Crisi dello Stato nazionale, dialogo intergiurisprudenziale, tutela dei diritti fondamentali, Torino: Giappichelli, 2015.

nota 148 Sul dialogo tra la Corte e le corti supreme e costituzionali delle Parti contraenti, si veda B. Peters, «The Rule of Law Effects of Dialogues between National Courts and Strasbourg: An Outline», in A. Nollkaemper e M. Kanetake (ed.) The rule of law at the national and international levels: contestations and deference, Oxford: Hart, 2016; AAVV, «Dialogando sui diritti. Corte di Cassazione e CEDU a confronto», Napoli: EGEA Editore, 2016; D. Russo, «La ‘confisca in assenza di condanna’ tra principio di legalità e tutela dei diritti fondamentali: un nuovo capitolo del dialogo tra le Corti», in Osservatorio sulle fonti, aprile 2015; A. Baraggia, «La tutela dei diritti in Europa nel dialogo tra corti: ‘epifanie’ di una unione dai tratti ancora indefiniti», in Rivista AIC, 2/2015; R. Conti, «Costituzione e diritti fondamentali: una partita da giocare alla pari», in R. Cosio e R. Foglia (ed.), Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, Milano: Giuffrè, 2013; G. Civello, «Il ‘dialogo’ fra le quattro corti: dalla sentenza ‘Varvara’ della CEDU (2013) alla sentenza ‘Taricco’ della CGUE (2015)» Archivio Penale, 2015, n. 3; A. Ruggeri, «‘Dialogo’ tra le corti e tecniche decisorie, a tutela dei diritti fondamentali», in www.federalismi.it, 24/2013; G. Martinico, «Is the European Convention going to be «Supreme»? A comparative-constitutional overview of ECHR and EU law before national courts» (2012) 23 EJIL 415; Popelier et al. (ed.), Human Rights Protection in the European Legal Order: «The Interaction between the European and the National Courts», Cambridge: Intersentia, 2011; O. Pollicino e G. Martinico, «The National Judicial Treatment of the ECHR and EU laws. A Constitutional Comparative Perspective», Groningen: Europa Law, 2010; M. Cartabia, «Europe and Rights: Taking dialogue seriously» (2009) European Constitutional Law Review 5; Fontanelli et al., «Shaping Rule of Law through Dialogue, International and Supranational Experiences», Groningen: Europa Law, 2009; W. Sadursky, «Partnering with Strasbourg: Constitutionalisation of the European Court of Human Rights, the Accession of Central and East European States to the Council of Europe, and the Idea of Pilot Judgments» (2009) 3 Human Rights Law Review 397; H. Keller and A. Stone-Sweet, «A Europe of Rights, The Impact of the ECHR on National Legal Systems», Oxford: Oxford University Press, 2008; G. Ferrari, «Corti nazionali e corti europee», Napoli: ESI, 2007; L. Montanari, «I diritti dell’uomo nell’area europea tra fonti internazionali e fonti interne», Torino: Giappichelli, 2002. Sull’abuso della nozione di «dialogo» in questo contesto, che rinvia in realtà a una actio finium regundorum tra le giurisdizioni interessate, si veda R. Bin, «L’interpretazione conforme. Due o tre cose che so di lei» Rivista AIC, 1/2015, e De Vergottini, «Oltre il dialogo tra le corti», Bologna: Il Mulino, 2010.

nota 149 Su questa legge e sul suo impatto sul sistema della Convenzione, si veda il mio articolo «Plaidoyer for the European Court of Human Rights» (2018) European Human Rights Law Review, Issue 2, 119-133; A. Guazzarotti, «La Russia e la CEDU: I controlimiti visti da Mosca», in (2016) Quaderni costituzionali 383; C. Filippini, «La Russia e la CEDU: l’obiezione della Corte costituzionale all’esecuzione delle sentenze di Strasburgo», in (2016) Quaderni costituzionali 386; e A. De Gregorio, «Russia, Il confronto tra la corte costituzionale e la Corte europea per i diritti dell’uomo tra chiusure e segnali di distensione», in Federalismi Focus Human Rights, 27 luglio 2016.

nota 150 Corte costituzionale di Russia n. 21-P/2015 del 14 luglio 2015.

nota 151 Su questa visione, si veda la mia opinione separata nella causa Al-Dulimi e Montana Management Inc., sopra citata.

nota 152 Si veda la mia opinione separata in Fabris, sopra citata.

nota 153 Carbonara e Ventura c. Italia, n. 24638/94, § 68, CEDU 2000 VI, Streletz, Kessler e Krenz c. Germania [GC], nn. 34044/96 e altri 2, § 49, CEDU 2001 II, e Storck c. Germania, 61603/00, § 93, CEDU 2005 V.

nota 154 Scordino c. Italia (n. 1) [GC], n. 36813/97, § 191, CEDU 2006 V, e Daddi c. Italia (dec.), n. 15476/09, 2 giugno 2009.

nota 155 Conferenza di altro livello sul futuro della Corte europea dei diritti dell’uomo, Dichiarazione di Brighton, 20 aprile 2012, paragrafi 7 e 9.

nota 156 Verein gegen Tierfabriken Schweiz (VgT) c. Svizzera (n. 2) [GC], n. 32772/02, § 85, CEDU 2009.

nota 157Sulla necessità di una motivazione di principio nelle sentenze della Corte, diversa dal suo approccio talvolta deplorevolmente casuistico, si veda anche la mia opinione separata in Centro di risorse giuridiche in nome di Valentin Câmpeanu c. Romania [GC], n. 47848/08, CEDU 2014.

nota 158 Irlanda c. Regno Unito, 18 gennaio 1978, § 154, serie A n. 25.

nota 159 Paragrafo 252 della presente sentenza.

nota 160 Ibidem.

nota 161 La Corte ha già implicitamente espresso questo punto di vista in diverse occasioni, come nella causa Opuz c. Turchia, n. 33401/02, § 163, CEDU 2009. Anche molti presidenti della Corte hanno espresso questo principio a titolo extragiudiziale. Ad esempio, nel «Memorandum del Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo agli Stati in vista della Conferenza di Interlaken» del 3 luglio 2009, l’allora presidente della Corte ha sottolineato questa idea: «Non è più accettabile che uno Stato non tragga quanto prima le conseguenze da una sentenza che constata una violazione della Convenzione da parte di un altro Stato quando il suo ordinamento giuridico presenta lo stesso problema. L’autorità della cosa interpretata dalla Corte va al di là dell’autorità della res judicata in senso stretto. Tale evoluzione andrà di pari passo con l’«effetto diretto» della Convenzione nel diritto interno e con la sua appropriazione da parte degli Stati.». Questo principio è confermato anche dal Parere sull’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, adottato dalla Commissione di Venezia nella sua 53a sessione plenaria, 2002, paragrafo 32. È stata anche utilizzata la nozione di effetto de facto erga omnes delle sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo (si veda la prefazione del presidente Costa al Rapporto annuale 2008 della Corte europea dei diritti dell’uomo, 2009, e D. Spielmann, «Jurisprudence of the European Court of Human Rights and the Constitutional Systems of Europe» in Rosenfeld e Sajó (ed), The Oxford Handbook of Comparative Constitutional Law, Oxford: Oxford University Press, 2012, Capitolo 59, p. 1243).

nota 162 Conferenza di alto livello sul futuro della Corte europea dei diritti dell’uomo, Dichiarazione di d’Interlaken, 19 febbraio 2010. Rilevo che la dichiarazione si riferisce alla «sentenza» della Corte al singolare e non a una pluralità di sentenze da cui potrebbe essere stabilito un principio giuridico.

nota 163 Dichiarazione di Brighton, sopra citata, paragrafo 18.

nota 164 Dichiarazione di Brighton, sopra citata, paragrafo 26.

nota 165 Dichiarazione di Brighton, sopra citata, paragrafo 29 a) i).

nota 166 Partito comunista unificato di Turchia e altri c. Turchia, 30 gennaio 1998, §§ 27 e segg., Recueil des arrêts et décisions 1998 I.

nota 167 Si veda la mia opinione separata in Fabris, sopra citata.

nota 168 Loizidou c. Turchia (eccezioni preliminari), 23 marzo 1995, § 75, serie A n. 310; si veda anche il parere della Corte sulla riforma del sistema di controllo della Convenzione, 4 settembre 1992, paragrafo I (5).

nota 169 In Demicoli c. Malta, 27 agosto 1991, serie A n. 210, la Corte ha concluso che vi era stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione da parte dell’articolo 11 della Costituzione maltese che accordava alla Camera dei rappresentanti la competenza a giudicare sul reato di violazione dei privilegi. Malta ha modificato la sua Costituzione dopo la pronuncia della sentenza. Sul seguito dato a questa causa, si veda il mio articolo «Plaidoyer for the European Court of Human Rights», sopra citato.

nota 170 Dopo Open Door e Dublin Well Woman c. Irlanda, 29 ottobre 1992, serie A n. 246 A, l’Irlanda ha modificato la sua Costituzione. Sul seguito dato a questa causa, si veda il mio articolo «Plaidoyer for the European Court of Human Rights», sopra citato.

nota 171 In Sejdic e Finci c. Bosnia-Erzegovina [GC], nn. 27996/06 e 34836/06, CEDU 2009, la Corte ha criticato l’impossibilità per i ricorrenti, in virtù della Costituzione, di candidarsi alle elezioni per la Camera dei popoli e per la presidenza dello Stato in ragione della loro rispettiva origine rom ed ebrea.

nota 172 In Anchugov e Gladkov c. Russia, nn. 11157/04 e 15162/05, 4 luglio 2013, la Corte ha censurato l’articolo 32 § 3 della Costituzione russa che vietava ai detenuti condannati di votare.

nota 173 In Baka c. Ungheria [GC], n. 20261/12, CEDU 2016, la Corte ha concluso che vi era stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione in quanto l’articolo 11 § 2 delle disposizioni transitorie della Legge fondamentale del 31 dicembre 2011 aveva comportato per il ricorrente la cessazione anticipata del suo mandato di presidente della Corte suprema e questa disposizione costituzionale ad hoc, ad hominem non era stata esaminata, e non poteva esserlo, da un tribunale ordinario o da altro organo che esercitava funzioni giudiziarie.

nota 174 In termini pratici, come affermato da un alto funzionario del Consiglio d’Europa, «quando (…) controlla l’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, il Comitato dei Ministri non tiene mai conto del carattere monistico o dualistico dello Stato, né del fatto che lo Stato abbia o meno recepito le disposizioni della Convenzione europea nel proprio diritto interno» (A.). Drzemczewski, «Les faux débats entre monisme et dualisme – droit international et droit français: l’exemple du contentieux des droits de l’homme» 1998 (51) Boletim da sociedade brasileira de direito internacional, 100; sottolineato nell’originale).

nota 175 Sulla protezione a vari livelli dei diritti dell’uomo in Europa e la creazione di uno jus commune europeaum dei diritti fondamentali, si vedano B. Randazzo, «La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione», Milano: Giuffrè, 2017, e «Giustizia costituzionale sovranazionale. La Corte europea dei diritti dell’uomo», Milano: Giuffrè, 2012; G. Amato e B. Barbisan, «Corte costituzionale e Corti europee. Fra diversità nazionali e visione comune», Bologna: Il Mulino, 2016; R. Conti, «Il sistema multilivello e l’interazione tra ordinamento interno e fonti sovranazionali», in Questione Giustizia, 4/2016; C. Padula (ed.), «La Corte europea dei diritti dell’uomo: quarto grado di giudizio o seconda Corte costituzionale?», Napoli: Editoriale Scientifica, 2016; G. Martinico, «Constitutionalism, Resistance and Openness: Comparative law Reflections on Constitutionalism in Postnational Governance» (2016) 35 Yearbook of European Law 318; S. Sonelli, «La Cedu nel quadro di una tutela multilivello dei diritti e il suo impatto sul diritto italiano: direttrici di un dibattito», in S. Sonelli (ed.), «La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’ordinamento italiano. Problematiche attuali e prospettive per il futuro», Torino: Giappichelli, 2015; E. Malfatti, «I ‘livelli’ di tutela dei diritti fondamentali nella dimensione europea», Torino: Giappichelli; S. Gambino, «Vantaggi e limiti della protezione multilevel dei diritti e delle libertà fondamentali, fra diritto dell’Unione, convenzioni internazionali e costituzioni nazionali», in Forum di Quaderni costituzionali, 11 gennaio 2015; M. Cartabia, «La tutela multilivello…», in Fundamental Rights and the Relationship among the Court of Justice, the National Supreme Courts and the Strasbourg Court, 50° anniversaire de l’arrêt Van Gend en Loos: 1963-2013: actes du colloque, Luxembourg, 13 mai 2013, Lussemburgo, 2013, 155-168; e «L’universalità dei diritti umani nell’età dei «nuovi diritti»» (2009), Quaderni costituzionali 537; E. Lamarque, «Le relazioni tra l’ordinamento nazionale, supranazionale e internazionale nella tutela dei diritti», in Diritto pubblico 3/2013; L. Cassetti (ed.), «Diritti, principi e garanzie sotto la lente dei giudici di Strasburgo», Napoli: Jovene, 2012; L. Montanari, «La difficile definizione dei rapporti con la CEDU alla luce del nuovo art. 117 della Costituzione: un confronto con Francia e Regno Unito», in Diritto Pubblico Comparato ed Europeo, I/2008; G. Zagrebelsky, Corti costituzionali e diritti universali», in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2/2006; e G. Silvestri, «Verso uno jus commune europeaum dei diritti fondamentali» (2006) Quaderni costituzionali 7.

nota 176 Baka, sopra citata.

nota 177 Si veda la mia opinione separata in Muršic, sopra citata.

nota 178 Si veda la sentenza n. 113/2011 della Corte costituzionale sulla riapertura di un procedimento penale a seguito di una constatazione definitiva di violazione dell’articolo 6 da parte della Corte. Questa sentenza di principio è particolarmente lodevole in quanto la Consulta si è mostrata pronta a capovolgere la sentenza n. 129/2008 che aveva emesso poco tempo prima. Riguardo queste sentenze, si vedano, tra altri, G. Grasso e F. Giuffrida, «L’incidenza sul giudicato interno delle sentenze della Corte Europea che accertano violazioni attinenti al diritto penale sostanziale», in DPC, 25 maggio 2015; A. Cerruti, «Considerazioni in margine alla sent. N. 113/2011: esiste una «necessità di integrazione» tra ordinamento interno e sistema convenzionale?», in Giurisprudenza italiana, 1/2012; «Gli effetti dei giudicati ‘europei’ sul giudicato italiano dopo la sentenza n. 113/2011 della Corte Costituzionale, Tavola rotonda con contributi di G. Canzio, R. Kostoris, A. Ruggeri», Rivista AIC 2/2011; R. Greco, «Dialogo tra Corti ed effetti nell’ordinamento interno. Le implicazioni della sentenza della Corte costituzionale del 7 aprile 2011, n. 113» e T. Guarnier, «Un ulteriore passo verso l’integrazione CEDU: il giudice nazionale come giudice comune della Convenzione?», entrambi in Consulta online, 10 novembre 2011.

nota 179 Scoppola c. Italia (n. 2) [GC], n. 10249/03, 17 settembre 2009.

nota 180 Paragrafo 7.2 del cons. in dir. della sentenza n. 210/2013 della Corte costituzionale. Riguardo questa sentenza, si vedano, tra altri, N. Perlo, «L’attribution des effets erga omnes aux arrêts de la Cour européenne des droits de l’homme en Italie: la révolution est en marche» (2015) Revue française de droit constitutionnel, 887; e E. Lamarque e F. Viganò, «Sulle ricadute interne della sentenza Scoppola, Ovvero: sul gioco di squadra tra Cassazione e Corte costituzionale nell’adeguamento del nostro ordinamento alle sentenze di Strasburgo (Nota a C. Cost. n. 210/2013)», in Giurisprudenza italiana, n. 2/2014.

nota 181 Paragrafo 4.4 della sentenza n. 170/213 della Corte costituzionale, che si riferisce a sentenze pronunciate contro la Francia, la Grecia e il Regno Unito: «Anche se non sono state pronunciate contro l’Italia, le ultime sentenze citate contengono affermazioni generali che la Corte europea stessa considera applicabili al di là della causa in esame e che la presente Corte considera vincolanti per l’ordinamento giuridico italiano».

nota 182 Sentenze della Corte costituzionale nn. 404/88, 278/92 e 388/99.

nota 183 Gaio, Institutiones, Commentarius Primus, 1 De Iure Civili et Naturali, 1.1: «Tutti i popoli governati da leggi o consuetudini si valgono di un diritto in parte proprio e in parte comune a tutti gli uomini; perché il diritto che ogni popolo si è stabilito da sé, è specificatamente proprio di quel popolo e si chiama diritto civile, cioè diritto proprio della civitas; ma in verità il diritto che la ragione naturale ha stabilito tra tutti gli uomini viene osservato nello stesso modo presso tutti i popoli e viene chiamato diritto delle genti, nel senso di diritto del quale tutte le genti si valgono. Così il popolo romano si vale in parte di un diritto che gli è proprio, in parte di un diritto comune a tutti gli uomini.»

nota 184 G. Raimondi, «La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e le corti costituzionali e supreme europee», Forum di Quaderni costituzionali, 24 marzo 2018, p. 10: «la conformità alla costituzione di una determinata disposizione legislativa non ne garantisce la conformità alla Convenzione, le cui esigenze, in certi casi, possono essere più elevate di quelle della costituzione nazionale».

nota 185 Si veda la mia opinione separata in Hutchinson, sopra citata.

nota 186 Nel caso in cui la camera accerti che vi è stata violazione e la sua sentenza divenga definitiva o nel caso in cui la Grande Camera decida dopo essersi dichiarata incompetente.

nota 187 Nel caso in cui la Grande Camera accerti che vi è stata violazione dopo una sentenza camerale.

nota 188 Per riprendere le parole usate da Lord Rodger nella causa AF v. Secretary of State for Home Department and Another (2009) UKHL 28, § 98.

nota 189 Si veda la seconda questione sollevata nella sentenza n. 24/2017 della Corte costituzionale.

nota 190Si veda la terza questione sollevata nella sentenza n. 24/2017 della Corte costituzionale.

nota 191 Si veda la nota a piè di pagina 67 supra.

nota 192 Corte di giustizia dell’Unione europea, Grande Camera, 5 dicembre 2017, C-42/17. Per una introduzione a questa sentenza si veda Bassini e Pollicino, «Defusing the Taricco bomb through fostering constitutional tolerance: all roads lead to Rome», in verfassungsblog.de.

nota 193 Sentenza n. 388/1999 della Corte costituzionale.

nota 194 In effetti, anche il diritto internazionale in materia di confisca senza condanna è contrario a tale estensione, come dimostra la ricerca della Corte (punti 139-146 e 150 della presente sentenza). In tutti i casi di confisca senza condanna, i reati elencati nei documenti internazionali citati sono molto più gravi del reato di lottizzazione abusiva.

nota 195 La Corte ha dato una indicazione su questa preminenza nella sentenza Parrillo c. Italia [GC], n. 46470/11, §§ 98-99, CEDU 2015.

nota 196 A tale riguardo, non vi è alcuna differenza tra la Convenzione e la Carta dei diritti fondamentali. Recentemente la Corte di giustizia, nella causa C-42/17 sopra citata, ha ricordato anche gli obblighi dei giudici italiani in quanto giudici ordinari della Carta dei diritti fondamentali e, in generale, del diritto dell’Unione europea. Non è questa la sede adatta per discutere dell’enigmatico obiter dictum contenuto nei paragrafi 5.1 e 5.2 nella parte in diritto della sentenza della Corte Costituzionale n. 269 emessa nel 2017, che tratta del rapporto tra la Corte costituzionale e i giudici ordinari nell’applicazione della Carta. La sua compatibilità con la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia (Grande Camera) 22 giugno 2010 nella causa Melki e Abdeli, C-188 e 189/10, è una questione aperta alla discussione. In ogni caso, questo obiter dictum non è certamente sufficiente a modificare la posizione costante della Corte sulla natura del meccanismo di controllo della costituzionalità in Italia (Parrillo, sopra citata, §§ 101-104).

nota 197 Nonostante le sue caratteristiche particolari, il meccanismo consultivo del Protocollo n. 16 non farebbe che rafforzare tale costituzionalizzazione.

nota 198 Si vedano le «Spiegazioni relative alla Carte dei diritti fondamentali», 14 dicembre 2017, 2007/C 303/02: «Il l riferimento alla CEDU riguarda sia la Convenzione che i relativi protocolli. Il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non solo dal testo di questi strumenti, ma anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.» Si veda anche la mia opinione separata in Al-Dulimi e Montana Management Inc, sopra citata.

nota 199 Sud Fondi, sopra citata.

nota 200 Paragrafo 252 della presente sentenza.

nota 201 La Corte costituzionale ha già fornito in passato degli esempi importanti della sua capacità di sviluppare la propria giurisprudenza in modo da rimanere dalla parte dei diritti umani, come quando ha cambiato posizione tra la sentenza n. 129/2008 e la sentenza n. 113/2011.

nota 202 «Reticenza» è il termine utilizzato dalla Corte stessa per definire la reazione della Corte costituzionale alla sentenza Maggio e altri, sopra citata (Documento preparatorio al seminario, «La mise en œuvre des arrêts de la Cour européenne des droits de l’homme: une responsabilité judiciaire partagée?», Corte europea dei diritti dell’uomo, 2014). Sulla pressione politica recentemente esercitata sulla Corte, si vedano P. Leach e A. Donald, «A Wolf in Sheep’s Clothing: Why the Draft Copenhagen Declaration Must be Rewritten», EJIL: Talk!, 21 febbraio 2018; e «Copenhagen: Keeping on Keeping on. A Reply to Mikael Rask Madsen and Jonas Christoffersen on the Draft Copenhagen Declaration», EJIL: Talk!, 24 febbraio 2018; e A. Follesdal e G. Ulfstein, «The Draft Copenhagen Declaration: Whose Responsibility and Dialogue?», EJIL: Talk!, 22 febbraio 2018.

nota 203 F. Viganò, «La Consulta e la tela di Penelope (…)», sopra citata, p. 334.

 

nota 1 Sud Fondi srl e altri c. Italia (dec.), n. 75909/01, 30 agosto 2007.

nota 2 Rileviamo che il termine «sanzione» è alquanto ambiguo. Esso può riguardare il castigo di una persona autore di un atto biasimevole, ma anche una semplice reazione ad una situazione illegale. A quanto pare, è in quest’ultimo senso che i giudici interni intendono il termine.

nota 3 Sud Fondi srl e altri c. Italia, n. 75909/01, 20 gennaio 2009.

nota 4 Ci rincresce che l’esposizione del diritto interno pertinente, in particolare nel paragrafo 121 della sentenza, non presti maggiore attenzione a tali mutamenti.

nota 5 Varvara c. Italia, n. 17475/09, 29 ottobre 2013.

nota 6 Constatiamo che la versione originale francese utilizza un’espressione ampia, mentre la traduzione inglese utilizza un’espressione più stretta.

nota 7 Il secondo malinteso riguarda l’autorità delle sentenze della Corte (§ 7 della sentenza della Corte costituzionale).

nota 8 Teniamo a far osservare che la confisca nella legislazione urbanistica italiana è alquanto diversa dalla confisca in altri campi del diritto (ad esempio il riciclaggio di denaro). Si veda § 22 infra.

nota 9 Osserviamo che, nel paragrafo 121 della sentenza, si fa riferimento a due sentenze della Corte di cassazione (n. 39078 del 2009 e n. 5857 del 2011), secondo le quali la confisca non è di natura «punitiva», e a una sentenza dello stesso organo giudiziario (n. 21125 del 2007), secondo la quale la funzione principale della confisca è quella di deterrente. Ora, le prime due sentenze richiamano la natura «punitiva» ai sensi dell’articolo 7 della Convenzione, seguendo la giurisprudenza della nostra Corte. Quanto alla terza sentenza, precedente alla decisione della Corte nella causa Sud Fondi, essa parla di un «elemento deterrente importante», senza tuttavia ricollegarlo ad una qualsivoglia natura punitiva della misura. Occorre aggiungere che la deterrenza non è solo una prerogativa delle pene. Per quanto ci riguarda, noi attribuiamo maggiore importanza al fatto che, in altre decisioni, successive alle sentenze Sud Fondi e Varvara e menzionate nello stesso paragrafo, la Corte costituzionale così come la Corte di cassazione abbiano confermato che la misura di confisca in questione doveva essere qualificata come «sanzione amministrativa» (Corte costituzionale, n. 49 del 2015; Corte di cassazione, n. 42741 del 2008, e n. 4880 (Sezioni Unite) del 2015).

nota 10 Per questo stesso motivo, riteniamo che sia forse alquanto fuorviante fare riferimento, nella parte della sentenza dedicata alle fonti pertinenti di diritto internazionale e di diritto dell’Unione europea, a strumenti consacrati alla confisca in campi che niente hanno a che vedere con la tutela dell’ambiente né con la lottizzazione abusiva.

Iscriviti alla Newsletter GRATUITA

Ricevi gratuitamente la News Letter con le novità di AmbienteDiritto.it e QuotidianoLegale.

N.B.: se non ricevi la News Letter occorre una nuova iscrizione, il sistema elimina l'e-mail non attive o non funzionanti.

ISCRIVITI SUBITO


Iscirizione/cancellazione

Grazie, per esserti iscritto alla newsletter!