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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Beni culturali ed ambientali, Diritto processuale civile, Diritto urbanistico - edilizia Numero: 14289 | Data di udienza: 17 Gennaio 2018

BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Prg e vincoli paesaggistici – Qualifica di oneri non apparenti gravanti sull’immobile – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Previsioni del piano regolatore generale – Contenuto normativo con efficacia "erga omnes" – Effetti – Presunzione legale di conoscenza da parte dei destinatari – Configurabilità – Riferimenti normativi – Art. 1489 c.c. – Giurisprudenza – Presunzione assoluta di conoscenza del vincolo di inedificabilità gravante su un immobile e certificato di destinazione urbanistica –  Vincoli imposti da specifico provvedimento amministrativo – Differenza – DIRITTO PROCESSUALE CIVILE – Interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto – Ricorso in cassazione – Limiti – Ermeneutica del negozio o clausola contrattuale – Clausole generiche o di mero stile e canone della buona fede – Criterio di autoresponsabilità e principio dell’affidamento – Natura di oneri non apparenti ex art. 1489 c.c. – Esclusione – Risoluzione per inadempimento di un contratto – Obbligazione risarcitoria e risarcimento del danno – Onere della prova da parte richiedente.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 2^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 4 Giugno 2018
Numero: 14289
Data di udienza: 17 Gennaio 2018
Presidente: MATERA
Estensore: GRASSO


Premassima

BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Prg e vincoli paesaggistici – Qualifica di oneri non apparenti gravanti sull’immobile – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Previsioni del piano regolatore generale – Contenuto normativo con efficacia "erga omnes" – Effetti – Presunzione legale di conoscenza da parte dei destinatari – Configurabilità – Riferimenti normativi – Art. 1489 c.c. – Giurisprudenza – Presunzione assoluta di conoscenza del vincolo di inedificabilità gravante su un immobile e certificato di destinazione urbanistica –  Vincoli imposti da specifico provvedimento amministrativo – Differenza – DIRITTO PROCESSUALE CIVILE – Interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto – Ricorso in cassazione – Limiti – Ermeneutica del negozio o clausola contrattuale – Clausole generiche o di mero stile e canone della buona fede – Criterio di autoresponsabilità e principio dell’affidamento – Natura di oneri non apparenti ex art. 1489 c.c. – Esclusione – Risoluzione per inadempimento di un contratto – Obbligazione risarcitoria e risarcimento del danno – Onere della prova da parte richiedente.



Massima

 

 

 
CORTE DI CASSAZIONE CIVILE, Sez.2^ 04/06/2018 (Ud. 17/01/2018), Sentenza n.14289
 

BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – Prg e vincoli paesaggistici – Qualifica di oneri non apparenti gravanti sull’immobile – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Previsioni del piano regolatore generale – Contenuto normativo con efficacia "erga omnes" – Effetti – Presunzione legale di conoscenza da parte dei destinatari – Configurabilità – Riferimenti normativi – Art. 1489 c.c. – Giurisprudenza.
 
I vincoli paesaggistici, inseriti nelle previsioni del piano regolatore generale, una volta approvati e pubblicati, hanno valore di prescrizione di ordine generale a contenuto normativo con efficacia "erga omnes", come tale assistita da una presunzione legale di conoscenza assoluta da parte dei destinatari, sicché i vincoli così imposti, a differenza di quelli introdotti con specifici provvedimenti amministrativi a carattere particolare, non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull’immobile, ai sensi dell’art. 1489 c.c., e non sono, conseguentemente, invocabili dal compratore quale fonte di responsabilità del venditore che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto (Massime precedenti Conformi: Sez. 2, n. 2737, 23/2/2012; conf., Sez. 2, n. 5561, 19/3/2015). 
 
 
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI – DIRITTO URBANISTICO – EDILIZIA – Presunzione assoluta di conoscenza del vincolo di inedificabilità gravante su un immobile e certificato di destinazione urbanistica –  Vincoli imposti da specifico provvedimento amministrativo – Differenza.
 
La presunzione assoluta di conoscenza del vincolo di inedificabilità gravante su un immobile ha efficacia "erga omnes" quando esso sia stato imposto dalla legge o da un atto avente portata normativa, quale il piano regolatore, nel quale il vincolo sia stato inserito. Quando invece il vincolo risulti imposto in forza di uno specifico provvedimento amministrativo, stante il carattere particolare, e non generale e normativo, dell’atto impositivo, può presumersene la conoscenza solo da parte del proprietario del bene, che, quale soggetto interessato, può venirne a conoscenza con l’ordinaria diligenza, ma non anche da parte del compratore, il quale quindi può far valere nei confronti del venditore l’obbligo di garanzia derivante dall’art. 1489 cod. civ.. Sicché, si deve escludersi la conoscenza per presunzione di legge, su quei vincoli apposti ai beni da provvedimenti amministrativi specifici, privi di portata generale. Nella specie, la circostanza che nel certificato di destinazione urbanistica fosse segnata sommariamente l’esistenza dei predetti, perciò solo, non ne muta la natura: non può, invero, che trattarsi di una annotazione pro memoria, che non può reputarsi scaturigine di fonte di produzione.
 
 
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE – Interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto – Ricorso in cassazione – Limiti.
 
Per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Sez. 3, n. 24539, 20/11/2009; conformi: Sez. 1, n. 16254, 25/9/2012; Sez. 1, n. 6125, 17/3/2014; Sez. 1, n. 27136, 15/11/2017). In altri termini, deve affermarsi che: non può essere in sede di legittimità censurato il risultato opinabile, ma non implausibile, dell’interpretazione del negozio operato dal giudice, bensì gli strumenti ermeneutici utilizzati, i quali debbono conformarsi alle indicazioni di legge.
 
 
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE – Ermeneutica del negozio o clausola contrattuale – Clausole generiche o di mero stile e canone della buona fede – Criterio di autoresponsabilità e principio dell’affidamento – Natura di oneri non apparenti ex art. 1489 c.c. – Esclusione.
 
Il contratto d’acquisto di un bene immobile gravato da oneri o da diritti, non solo reali, ma anche personali, non percepibili mediante l’ordinario esercizio sensoriale (non apparenti), <<che ne diminuiscono il libero godimento>>, non dichiarati e non conosciuti dal compratore, può essere risolto su domanda di quest’ultimo (art. 1489, cod. civ.). Pertanto, l’espressa dichiarazione del venditore che il bene compravenduto è libero da oneri o diritti reali o personali di godimento esonera l’acquirente dall’onere di qualsiasi indagine, operando a suo favore il principio dell’affidamento nell’altrui dichiarazione, con l’effetto che se la dichiarazione è contraria al vero, il venditore è responsabile nei confronti della controparte tanto se i pesi sul bene erano dalla stessa facilmente conoscibili, quanto, a maggior ragione, se essi non erano apparenti. Di conseguenza, resta irrilevante anche la trascrizione del vincolo non dichiarato, per conoscere il quale l’acquirente, a dispetto della mancata contemplazione negoziale, che dovrebbe metterlo al sicuro, si deve attivare attraverso una specifica indagine. Di talché, ai fini della responsabilità per garanzia ex art. 1489 c.c., è irrilevante che l’acquirente sia stato in grado di conoscere, mediante l’esame dei registri immobiliari, l’esistenza di trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli, quando il venditore abbia affermato, contro il vero, l’inesistenza di diritti altrui e di oneri sulla cosa alienata, ovvero ne abbia taciuto l’esistenza. Diversamente deve concludersi, nel differente caso in cui si tratti di oneri e diritti apparenti, che risultino cioè da opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio, senza che rilevi la dichiarazione del venditore della inesistenza di pesi od oneri sul bene medesimo, non operando, in tal caso, il principio dell’affidamento giacché il compratore, avendo la possibilità di esaminare la cosa prima dell’acquisto, ove abbia ignorato ciò che poteva ben conoscere in quanto esteriormente visibile, deve subire le conseguenze della propria negligenza, secondo il criterio di autoresponsabilità (Sez. 2, n.57, 4/1/2018, Rv. 646615).
 
 
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE – Risoluzione per inadempimento di un contratto – Obbligazione risarcitoria e risarcimento del danno – Onere della prova da parte richiedente.
 
In caso di risoluzione per inadempimento di un contratto, le restituzioni a favore della parte adempiente non ineriscono ad un’obbligazione risarcitoria, derivando dal venir meno, per effetto della pronuncia costitutiva di risoluzione, della causa delle reciproche obbligazioni e, quando attengono a somme di danaro, danno luogo a debiti non di valore ma di valuta, non soggetti a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno rispetto a quello ristorato con gli interessi legali, ai sensi dell’art. 1224 cod. civ.; danno che va, peraltro, provato dalla parte richiedente.
 
 
(riforma sentenza n. 1241/2015 – CORTE D’APPELLO di VENEZIA, dep. 12/05/2015) Pres. MATERA, Rel. GRASSO, Ric. BANCA POPOLARE DELL’ALTO ADIGE SOC. COOP. P. A. contro Marfaleo S.r.l. 
 

Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE CIVILE, Sez.2^ 04/06/2018 (Ud. 17/01/2018), Sentenza n.14289

SENTENZA

 

 

CORTE DI CASSAZIONE CIVILE, Sez.2^ 04/06/2018 (Ud. 17/01/2018), Sentenza n.14289
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI SECONDA CIVILE
 
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis
 
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA
 
sul ricorso 15061-2015 proposto da:
 
BANCA POPOLARE DELL’ALTO ADIGE SOC. COOP. P. A. (già Banca Popolare di Marostica Soc. Coop. a R.L.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SAN NICOLA DA l
TOLENTINO 67, presso lo studio dell’avvocato PAOLO POTOTSCHNIG (Studio "Legange Avvocati Associati"), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO PARLATORE;
– ricorrente e e/ricorrente ai ricorso incidentale – 
 
contro
 
MARFALEO S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato ANDREA MANZI, che la rappresenta e difende unitamente 
all’avvocato DANNI LIVIO LAGO;
– e/ricorrente e ricorrente incidentale – 
 
avverso la sentenza n. 1241/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 12/05/2015;
 
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/01/2018 dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO;
 
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale GIANFRANCO SERVELLO che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale per quanto di ragione e per l’assorbimento del ricorso incidentale;
 
udito l’Avvocato PAOLO POTOTSCHNIG, difensore della ricorrente e controricorrente al ricorso incidentale, che ha chiesto l’accoglimento degli scritti difensivi;
 
uditi gli Avvocati ANDREA MANZI e DANNI LIVIO LAGO, difensori della controricorrente e ricorrente incidentale, che hanno chiesto l’accoglimento delle difese in atti. 
 
FATTI DI CAUSA
 
1. Il Tribunale di Basano del Grappa, con sentenza pubblicata il 16/9/2010, riuniti due procedimenti, l’uno avviato su citazione della Marfaleo s.r.l. nei confronti della s. coop. a r. l. Banca Popolare di Marostica e l’altro da quest’ultima nei confronti della prima, rigettò le proposte domande, dando atto che il garante per fideiussione aveva versato quanto dovuto alla parte venditrice a titolo di residuo prezzo, con la sola condanna della Marfaleo al pagamento degli interessi nella misura legale.
 
In estrema sintesi, la Marfaleo, premettendo di avere acquistato il 2/11/2006 un compendio immobiliare dalla Banca per il prezzo di 8.500.000 euro, dei quali 425.000 erano stati corrisposti alla stipula e il residuo lo sarebbe stato entro il 31/12/2007, con prestazione di garanzia fideiussoria, che la parte venditrice si era rivelata gravemente inadempiente, in quanto gli immobili, in contrasto con la dichiarazione contrattuale di libertà da pesi e vincoli, erano risultati sottoposti al taciuto provvedimento ministeriale del 15/6/1915, che ne limitava grandemente l’edificabilità, aveva chiesto la risoluzione del negozio, con condanna al doppio della caparra e al risarcimento del danno e, in subordine che il contratto fosse annullato per vizio del volere, consistito nell’errore essenziale, con le conseguenti statuizioni. La Banca che, costituitasi tardivamente, aveva dedotto che il vicolo risultava contemplato nel contratto, poiché contemplato nel certificato di destinazione urbanistica, allegato all’atto pubblico, con la domanda svolta nell’altro giudizio, successivamente introdotto, aveva chiesto condannarsi la Marfaleo al pagamento del residuo prezzo e al risarcimento del danno.
 
La Corte d’appello di Venezia, con sentenza pubblicata il 12/5/2015, accolto l’appello principale della Marfaleo, risolse il contratto e condannò la Banca <<alla restituzione di quanto percepito>>, oltre alla rivalutazione monetaria. Con la medesima sentenza venne rigettato l’appello incidentale della Banca, la quale aveva rivendicato un più favorevole regolamento delle spese e la rivalutazione sul residuo prezzo tardivamente corrisposto dal garante.
 
 
2. La radicale discrasia tra la prima e la seconda decisione consiglia una sintesi, sia pure rapida, dell’opposto opinare.
 
La Corte d’appello riformava la sentenza del Tribunale sulla base delle seguenti considerazioni, giudicate decisive: a) la parte venditrice aveva garantito la libertà del compendio alienato e ciò esonerava quella compratrice da qualunque onere d’indagine, pur ove le limitazioni fossero state facilmente riconoscibili; b) il vincolo apposto dalla P.A., con specifico provvedimento, a cagione della sua natura particolare, priva di portata generale e normativa, nel qual caso avrebbe dovuto presumersi la conoscenza da parte del proprietario, deve essere espressamente dichiarato al compratore, il quale, in difetto, ha il diritto di esercitare la garanzia di cui all’art. 1489, cod. civ.; c) il tenore del contratto assicurava che l’unica limitazione derivava dal vincolo imposto dal Ministero della Pubblica Istruzione con decreto notificato il 15/5/1914; d) la circostanza che il certificato di destinazione urbanistica avesse fatto cenno al decreto "Grippo", emanato il 15/6/1915, il quale prevedeva ulteriori vincoli rispetto a quello risalente ad un anno prima, non superava l’obbligo di garanzia di cui all’art. 1489, cod. civ., a cagione della sua genericità <<in un contesto, come quello di Marostica, in cui vincoli e limiti sono diffusi>> e tenendo conto del fatto che la venditrice aveva richiamato espressamente solo il decreto del 1914 (indicazione questa, peraltro insufficiente, poiché nell’anno 1914 erano stati notificati due provvedimenti limitativi delle facoltà proprietarie, uno riferentesi al mappale 172 e l’altro, ai mappali 173 e 222).
 
Avverso la sentenza d’appello la Banca Popolare di Marostica, ricorre per cassazione, svolgendo otto motivi di censura. 
 
La Marfaleo resiste con controricorso, in seno al quale svolge ricorso incidentale corredato da cinque motivi.
 
Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
 
RAGIONI DELLA DECISIONE
 
1. Con i primi due motivi, osmotici fra loro, il ricorso denunzia la violazione o la falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 e 1367, cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ..
 
Secondo l’assunto impugnatorio la sentenza di primo grado aveva violato i principi ermeneutici soggettivi valorizzanti la ricerca della comune intenzione delle parti, anche attraverso uno studio sistematico di tutte le pattuizioni negoziali (artt. 1362 e 1363) e quello oggettivo, teso alla conservazione del contratto e delle sue singole clausole (art. 1367).
 
Questa una sintesi delle mosse critiche: il Tribunale avrebbe dovuto assegnare il dovuto rilievo al certificato di destinazione urbanistica e, pertanto al richiamo di esso ai vincoli di cui al decreto "Grippo"; il predetto certificato, al quale risultavano allegate le schede urbanistiche tratte dal P.R.G., indicava dettagliatamente le implicanze del vincolo, implicanze che non sarebbero potute sfuggire all’acquirente, operatore qualificato; il predetto certificato, così come si ritiene per le planimetrie e i tipi di frazionamento, in quanto allegato all’atto, ne faceva parte integrante; emergeva dal comportamento la piena consapevolezza dell’acquirente in ordine alla presenza e consistenza del vincolo, avendo acquistato i beni nello stato di fatto e di diritto nel quale si trovavano e avendo esonerato il notaio rogante alla lettura del certificato di destinazione urbanistica.
 
 
2. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 132, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., per carenza assoluta di motivazione.
 
Deduce la Banca Popolare di Marostica che la sentenza della Corte locale aveva incongruamente degradato a mero "fatto generico" l’indicazione del decreto Grippo nel certificato di destinazione urbanistica. Richiamo che in alcun modo avrebbe potuto definirsi tale a cagione della pluralità delle specificazioni, per la sua collocazione all’interno del predetto certificato e non di un atto qualsiasi e, non ultimo, per l’ellittico riferimento al cognome del ministro al quale si doveva l’emanazione dello strumento, ben noto in sede locale; circostanza questa che aveva un indubbio peso di segno contrario, rispetto all’opinamento del Giudice d’appello. In definitiva, l’espressione censurata si mostra ambigua e inesplicata, così da doversi reputare non in grado di assolvere al compito giustificativo della motivazione. Né, l’aver fatto riferimento ai molteplici vincoli gravanti sul territorio di Marostica poteva considerarsi esplicativo e, ancor meno, l’asserto secondo il quale la controparte aveva avviato le attività dirette all’ottenimento dei necessari permessi amministrativi a fini edilizi; stante che, semmai, era da attendersi, al contrario, che un operatore economico locale fosse a conoscenza delle limitazioni derivanti dalle esigenze di tutela storico-culturale.
 
 
3. Con il quarto motivo, dedotto come subordinato, viene allegata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1489, cod. cìv., in relazione con l’art. 360, n. 3, cod. proc. civ..
 
Ipotizza il ricorso che l’annotazione dei vincoli in discorso nel P.R.G., e, quindi, certificati nel documento allegato all’atto, comportava la condivisione della forza normativa dello strumento urbanistico, con la conseguenza che di essi era da presumere la conoscibilità generale, dì talché gli stessi avrebbero dovuto considerarsi ben apparenti; ciò anche nel rispetto del principio dì autoresponsabilità, non potendo assumere rilievo la circostanza della contestata omessa espressa citazione.
 
 
4. La critica mossa con le esposte, connesse censure, va disattesa.
 
 
4. 1. Gli elementi che qualificano e definiscono il fatto che qui assume rilievo, posto a base della decisione della Corte locale, non sono in discussione: nell’atto di compravendita veniva dichiarato il vincolo derivante dal provvedimento amministrativo notificato il 15/5/1914, con espressa esclusione di ogni altro peso gravante sull’intero compendio alienato; all’atto era stato allegato il certificato di destinazione urbanistica, in seno al quale si faceva, fra l’altro, riferimento alla esistenza di un vincolo, che implicava la necessità dell’autorizzazione della Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali, per l’approvazione dei piani di comparto e per risanamenti conservativi, per le aree e gli edifici soggetti al decreto "Grippo" (cioè quello del 1915, evocato con il richiamo del cognome del ministro del tempo); la indicazione in seno allo strumento negoziale del decreto del 15/5/1914 non riportava con puntualità neppure i vincoli imposti in quell’anno, stante che predetti derivavano non da un solo provvedimento, bensì da due, uno per il mappale 172 e l’altro per i mappali 173 e 222, anche se, come scrive la sentenza d’appello, <<nell’elenco dei mappali vincolati contenuto nella clausola del rogito c’è l’indicazione di tutti quelli oggetto dei due decreti>>.
 
Nonostante gli sforzi argomentativi di parte ricorrente la vicenda resta confinata negli apprezzamenti di merito, non bastando, come più volte chiarito in questa sede, la enunciazione della pretesa violazione di legge in relazione al risultato interpretativo favorevole, disatteso dal giudice del merito, occorrendo individuare, con puntualità, il canone ermeneutico violato correlato al materiale probatorio acquisito. In quanto, <<L’opera dell’interprete, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dagli artt. 1362 ss. c.c., oltre che per vizi di motivazione nell’applicazione di essi: pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi due cennati profili [il secondo, ovviamente, sotto il regime del vecchio testo del n. 5 dell’art. 360, cod. proc. civ.], il ricorrente per cassazione deve, non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti. Di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea – anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente – la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (ex pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579. 16.3.04 n. 5359, 19.1.04 n. 753)>> (Sez. 2, n. 18587, 29/10/2012; si veda anche, per la ricchezza di richiami, Sez. 6-3, n. 2988, 7/2/2013). Per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Sez. 3, n. 24539, 20/11/2009, Rv. 610944; conformi: Sez. 1, n. 16254, 25/9/2012, Rv. 623697; Sez. 1, n. 6125, 17/3/2014, Rv. 630519; Sez. 1, n. 27136, 15/11/2017, Rv. 646063). In altri termini, deve affermarsi che: non può essere in questa sede censurato il risultato opinabile, ma non implausibile, dell’interpretazione del negozio operato dal giudice, bensì gli strumenti ermeneutici utilizzati, i quali debbono conformarsi alle indicazioni di legge.
 
La Corte d’appello di Venezia non ha violato il precetto in discorso avendo ricercato la intenzione dei contraenti, senza arrestarsi al senso letterale delle parole e scandagliando il loro complessivo comportamento (art. 1362, cod. civ.); ha valorizzato il significato complessivo delle clausole e il loro reciproco interferire (art. 1363, cod. civ.); ha escluso che il contratto potesse avere comunque un qualche effetto a cagione delle gravissime implicanze derivanti dal vincolo imposto nel 1915 (art. 1367, cod. civ.).
 
 
4.2. Ovviamente, è appena il caso di soggiungere, una tale operazione non può compiersi al di fuori dell’alveo segnato dalle regole normative, che pur non aventi lo scopo di disciplinare l’ermeneutica del negozio, ne segnano confini invalicabili. Il contratto d’acquisto di un bene immobile gravato da oneri o da diritti, non solo reali, ma anche personali, non percepibili mediante l’ordinario esercizio sensoriale (non apparenti), <<che ne diminuiscono il libero godimento>>, non dichiarati e non conosciuti dal compratore, può essere risolto su domanda di quest’ultimo (art. 1489, cod. civ.). Secondo la consolidata lettura della disposizione formatasi in sede di legittimità l’espressa dichiarazione del venditore che il bene compravenduto è libero da oneri o diritti reali o personali di godimento esonera l’acquirente dall’onere di qualsiasi indagine, operando a suo favore il principio dell’affidamento nell’altrui dichiarazione, con l’effetto che se la dichiarazione è contraria al vero, il venditore è responsabile nei confronti della controparte tanto se i pesi sul bene erano dalla stessa facilmente conoscibili, quanto, a maggior ragione, se essi non erano apparenti (ex multis, Sez. 2, n. 976, 19/1/2006, Rv. 586013; Sez. 2, n. 19752, 27/9/2011). Di conseguenza, resta irrilevante anche la trascrizione del vincolo non dichiarato, per conoscere il quale l’acquirente, a dispetto della mancata contemplazione negoziale, che dovrebbe metterlo al sicuro, si deve attivare attraverso una specifica indagine. L’affermazione non si pone in contrasto con la decisione di questa Sezione n. 757 del 28/1/1999 (Rv. 522700), la quale ha precisato che al terzo acquirente di un fondo servente la servitù prediale è opponibile soltanto se il titolo costitutivo di essa è trascritto, ovvero se è menzionata nell’atto di trasferimento, ancorché indirettamente attraverso il richiamo alla situazione dei luoghi, ma inequivocabilmente, e non con clausole generiche o di mero stile. In questo secondo caso, infatti, si tratta dell’apponibilità nei confronti del terzo e non della parte negoziale, la quale, nel rispetto del canone della buona fede, ha il diritto di stare alle dichiarazioni dell’alienante, salvo che le stesse trovino diretta ed immediata smentita nel modo d’essere del bene percepibile attraverso i sensi. Di talché, <<ai fini della responsabilità per garanzia ex art. 1489 c.c., è irrilevante che l’acquirente sia stato in grado di conoscere, mediante l’esame dei registri immobiliari, l’esistenza di trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli, quando il venditore abbia affermato, contro il vero, l’inesistenza di diritti altrui e di oneri sulla cosa alienata, ovvero ne abbia taciuto l’esistenza (Cass. nn. 881/87, 1215/85, 5287/82, 577/82, 6033/81)>> (sent. n. 19752/2011 cit.).
 
Peraltro, del tutto correttamente la sentenza impugnata ha evidenziato che: <<non solo veniva garantita la libertà del bene da oneri, ma la libertà veniva garantita ancor più specificatamente dalla seconda affermazione [dopo essere stata indicato il vincolo imposto dal decreto ministeriale notificato il 15/5/1914, la parte venditrice aveva prestato la garanzia di legge "sia per la proprietà che per la libertà da ipoteche, pesi, vincoli, trascrizioni pregiudizievoli e privilegi anche fiscali ad eccezione del vincolo artistico di cui sopra"] che funge nell’atto da clausola di chiusura definitiva, così come appare dall’uso dell’espressione, di significato eminentemente giuridico, "ad eccezione">>. Resta, quindi, escluso trattarsi di clausola generica di stile.
 
Diversamente deve concludersi, nel differente caso in cui si tratti di oneri e diritti apparenti, che risultino cioè da opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio, senza che rilevi la dichiarazione del venditore della inesistenza di pesi od oneri sul bene medesimo, non operando, in tal caso, il principio dell’affidamento giacché il compratore, avendo la possibilità di esaminare la cosa prima dell’acquisto, ove abbia ignorato ciò che poteva ben conoscere in quanto esteriormente visibile, deve subire le conseguenze della propria negligenza, secondo il criterio di autoresponsabilità (Sez. 2, n.57, 4/1/2018, Rv. 646615).
 
 
4.3. Costituisce punto fermo l’affermazione secondo la quale la presunzione assoluta di conoscenza del vincolo di inedificabilità gravante su un immobile ha efficacia "erga omnes" quando esso sia stato imposto dalla legge o da un atto avente portata normativa, quale il piano regolatore, nel quale il vincolo sia stato inserito. Quando invece il vincolo risulti imposto in forza di uno specifico provvedimento amministrativo, stante il carattere particolare, e non generale e normativo, dell’atto impositivo, può presumersene la conoscenza solo da parte del proprietario del bene, che, quale soggetto interessato, può venirne a conoscenza con l’ordinaria diligenza, ma non anche da parte del compratore, il quale quindi può far valere nei confronti del venditore l’obbligo di garanzia derivante dall’art. 1489 cod. civ. (ex multis, Sez. 2, n. 19812, 4/10/2004, Rv. 577503).
 
Non è del pari dubbio che il piano regolatore generale abbia portata normativa e, pertanto, i vincoli paesaggistici, inseriti nelle sue previsioni, una volta approvati e pubblicati nelle forme previste hanno valore di prescrizione di ordine generale a contenuto normativo con efficacia "erga omnes", come tale assistita da una presunzione legale di conoscenza assoluta da parte dei destinatari, sicché i vincoli in tal modo imposti, a differenza di quelli inseriti con specifici provvedimenti amministrativi a carattere particolare, non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull’immobile, secondo l’art. 1489 cod. civ., e non sono, conseguentemente, invocabili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore, che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto (Sez. 2, n. 2737, 23/2/2012, Rv. 621590; conforme, Sez. 2, n. 5561, 19/3/2015, Rv. 634977).
 
I vincoli apposti ai beni per cui è causa derivano da provvedimenti amministrativi specifici, privi di portata generale, dei quali è escluso debba ritenersi la conoscenza per presunzione di legge. La circostanza che nel certificato di destinazione urbanistica fosse segnata sommariamente l’esistenza dei predetti, perciò solo, non ne muta la natura: non può, invero, che trattarsi di una annotazione pro memoria, che non può reputarsi scaturigine di fonte di produzione.
 
Sul piano, poi, degli accertamenti di merito, peraltro, la Corte territoriale ha puntualmente evidenziato che l’indicazione sul predetto certificato dei vincoli in parola non superava la soglia di una mera, approssimativa annotazione, evocante la legge n. 1089/1939, con il riferimento generico agli edifici soggetti al decreto "Grippo" (come si è chiarito quello del 1915, non contemplato nell’atto). Precisazione, quest’ultima, inidonea a soddisfare l’esigenza di una compiuta informazione, nel rispetto del canone della buona fede negoziale, alla luce del quale ciascuna delle parti del contratto è tenuta ad eseguire non solo quanto espressamente previsto da esso, ma anche tutte le prestazioni necessarie a salvaguardare l’utilità del negozio per la controparte (Sez. 3, n. 25410, 12/11/2013, Rv. 629168). In tal senso, il riferimento espresso in sentenza al contesto di Marostica, <<in cui i vincoli e limiti sono diffusi>>, invece che mostrarsi inconferente, come vorrebbe la ricorrente, assume un significato argomentativo pertinente: la esistenza di plurimi vincoli posti per la tutela artistico-storica della località (circostanza pacifica) avrebbe reso necessario una puntuale specificazione delle limitazioni gravanti su ogni singolo bene facente parte del vasto compendio alienato.
 
 
5. Con il quinto motivo, ulteriormente subordinato, la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 1455 e 1375, cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ..
 
Anche ad ammettere la sussistenza dell’inadempimento da parte della ricorrente perché da esso potesse derivare la risoluzione del contratto sarebbe stato necessario, secondo questa, constatare l’alterazione irrimediabile del sinallagma contrattuale, occorrendone dimostrare la non scarsa importanza, avuto speciale riguardo all’interesse dell’altra parte e tenuto conto della complessiva economia del negozio. In altri termini la disposizione di cui all’art. 1489, cod. civ., non poteva considerarsi derogativa dell’art. 1455, cod. civ. non constava, in spregio al principio di buonafede, che la Marfaleo avesse manifestato in sede negoziale l’intento di far luogo ad un intervento edilizio esuberante rispetto al consentito dagli anzidetti limiti; ed invece si era dato rilievo al presunto interno volere di quest’ultima, mai appalesato. Inoltre, nell’economia complessiva" dell’operazione la parte soggetta ai vincoli imposti nel 1915 non era prevalente.
 
 
6. Con il sesto motivo la ricorrente prospetta nullità della sentenza per la violazione, ancora una volta, dell’art. 132, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ..
 
La Corte veneta aveva reso solo una parvenza di motivazione a riguardo della gravità dell’inadempimento, la quale, mancando di sviluppo argomentativo pertinente, doveva considerarsi inesistente. Per contro, dovevasi constare che, per un verso, l’acquirente non aveva manifestato, come s’è già detto, la volontà di sfruttare l’intero compendio con modalità non consentite dalla presenza dei vincoli e, per altro verso, i predetti divieti non erano assoluti, tanto che la stessa – Marfaleo, il 2/2/2007, davanti al diniego della competente Sovrintendenza, aveva formulato una ipotesi alternativa a riguardo dei lavori straordinari da effettuarsi, così da preservare volumi esistenti e la destinazione originaria delle unità assoggettate.
 
 
7. Entrambi i motivi sono infondati.
 
Il vaglio della importanza dell’inadempimento avuto riguardo all’interesse della parte adempiente (art. 1455, cod. civ.) risulta essere stato effettuato, sia pure in forma sintetica, dalla Corte di Venezia, la quale ha tenuto conto della rilevanza dell’operazione immobiliare, che aveva come scopo la ristrutturazione radicale dell’intiera area, sulla base della documentazione urbanistica prodotta e, di conseguenza, ha, insindacabilmente, stimato di particolare rilievo le ripercussioni negative sull’interesse dell’acquirente (pag. 10). Perciò, resta assorbito verificare se il diritto alla risoluzione ex art. 1489, cod. proc. civ., debba superare la soglia posta dall’art. 1455, cod. civ. (importanza dell’inadempimento), o seppure, privilegiandosi la natura speciale della prima disposizione rispetto alla seconda e valorizzandosi il mancato espresso richiamo dell’art. 1455, in seno all’art. 1489, debba accedersi all’opposta conclusione.
 
 
8. Con il settimo e l’ottavo motivo si ipotizza la violazione e falsa applicazione degli artt. 1453 e 1224, cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.; nonché, nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ..
 
La Corte locale aveva condannato la ricorrente a corrispondere la rivalutazione monetaria, così violando il consolidato principio che assegna al debito di restituzione in caso di scioglimento, risoluzione o annullamento del negozio la natura di debito di valuta, ex art. 2033, cod. civ. Inoltre la sentenza censurata aveva illogicamente disposto in tal senso, dopo avere affermato che la controparte aveva fallito nell’assolvimento dell’onere di dimostrare di aver patito un maggior danno.
 
Quest’ultima considerazione, secondo la ricorrente, comportava la nullità della sentenza in quanto la giustificazione motivazionale risultava palesemente contraddittoria.
 
 
9. Le due connesse censure che precedono sono fondate.
 
Costituisce punto fermo che, in caso di risoluzione per inadempimento di un contratto, le restituzioni a favore della parte adempiente non ineriscono ad un’obbligazione risarcitoria, derivando dal venir meno, per effetto della pronuncia costitutiva di risoluzione, della causa delle reciproche obbligazioni e, quando attengono a somme di danaro, danno luogo a debiti non di valore ma di valuta, non soggetti a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno rispetto a quello ristorato con gli interessi legali, ai sensi dell’art. 1224 cod. civ.; danno che va, peraltro, provato dalla parte richiedente (Sez. 3, n. 10373, 17/7 /2002, Rv. 555849;
conforme, Sez. 2, n. 13339, 7/6/2006, Rv. 590011; Sez. U, n. 5931, 17/05/1995, Rv. 492295).
 
La sentenza impugnata, senza motivazione alcuna, ha condannato la ricorrente alla rivalutazione monetaria.
 
Una linea interpretativa di maggior favore per il creditore ha affermato che nel caso in cui il creditore – del quale non sia controversa la qualità di imprenditore commerciale – deduca di aver subito dal ritardo del debitore nell’adempimento un pregiudizio conseguente al diminuito potere di acquisto della moneta, non è necessario, ai fini del riconoscimento del maggior danno ragguagliato alla svalutazione monetaria, che egli fornisca la prova di un danno concreto causalmente ricollegabile all’indisponibilità del credito per effetto dell’inadempimento, dovendosi presumere, in base all’"id quod plerumque accidit", che, se vi fosse stato tempestivo adempimento, la somma dovuta sarebbe stata utilizzata in impieghi antinflattivi per il finanziamento dell’attività imprenditoriale e, quindi, sottratta agli effetti della svalutazione (Sez. 1, n. 22096, 26/9/2013, Rv. 627769). Le S.U., in precedenza avevano fissato parametri applicativi, che maggiormente convincono, non solo per l’autorevolezza della fonte, ma anche per l’intrinseca ragionevolezza della opzione, diretta a evitare, per quanto possibile, ingiuste locupletazioni e disparità di trattamento, precisando che nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224, secondo comma, cod. civ. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale. 
 
Successivamente, si è puntualizzato che l’obbligo restitutorio relativo all’originaria prestazione pecuniaria ha natura di debito di valuta, come tale non soggetto a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno – da provarsi dal creditore – rispetto a quello soddisfatto dagli interessi legali, ai sensi dell’art. 1224 cod. civ. (Sez. 3, n. 5639, 12/3/2014, Rv. 630187).
 
Ciò premesso, la statuizione al vaglio, come s’è detto del tutto silente, non consente di conoscere quale sia stata la ratio decidendi. Trattasi, invero, di difetto assoluto di motivazione, la cui rilevanza resta integra, pur dopo la novella che ha riformulato il n. 5) dell’art. 360, cod. proc. civ. (d.l. n. 83/2012, conv. nella I. n. n. 134/2012), investendo il contenuto minimo del provvedimento giurisdizionale (art. 132, n. 4, cod. proc. civ.).
 
Insegnano, infatti, le S.U. che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.I. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (sent. n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830). 
 
 
10. Occorre ora passare ad esaminare i motivi del ricorso incidentale.
 
Appaiono connessi il primo e il secondo ed il quarto motivo con i quali la Marfaleo lamenta l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo, ex art. 360 n. 5, cod. proc. civ.; la violazione degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 3, cod. proc. civ.; la nullità parziale della statuizione per difetto assoluto di motivazione, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ.
 
In sintesi, questo l’assunto censuratorio. La ricorrente incidentale aveva chiesto il risarcimento del danno emergente e del lucro cessante. Il primo, non solo per le spese notarili e di registrazione, ma anche per le spese di registrazione, le cui pezze d’appoggio erano state prodotte. Il secondo, nella concreta prospettiva di sfruttare economicamente il compendio immobiliare, opportunamente ristrutturato, recuperando i volumi abbandonati, ponendo le singole unità in vendita o locandole.
 
Oltre ai documenti, concernenti il danno emergente, si era chiesto di provare il lucro cessante, escutendo quale teste un soggetto che si era dimostrato concretamente interessato all’acquisto, per un prezzo che avrebbe consentito un buon margine di guadagno alla Marostica. Una tale prova non era stata ammessa in primo grado, essendo stata rigettata per intero la domanda della esponente. Riproposta la istanza in appello, la Corte di Venezia, che pur aveva accolto la domanda di risoluzione, non l’aveva mai presa in considerazione, concludendo poi in sentenza, del tutto incongruamente, per la mancanza di prova sul punto da addebitarsi all’appellante.
 
Ciò aveva integrato l’omissione assoluta di motivazione e, comunque, l’omessa presa in esame di un fatto storico decisivo e, allo stesso tempo, implicato la violazione degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., per non essere stata esaminata l’istanza istruttoria, per non essere stata disposta CTU, per non essere stato considerato che la controparte non aveva specificamente contestato la pretesa, non potendo assolvere all’onere di contestazione la generica opposizione alle pretese avverse.
 
 
10.1. La doglianza è fondata.
 
La sentenza della Corte locale, dopo aver ricordato, nel riassumere i fatti di causa, che la Marfaleo aveva chiesto anche il risarcimento del danno, disattende la pretesa affermando: <<Non v’è spazio per la liquidazione di danni diversi, posto che ne manca ogni allegazione da parte dell’appellante, la quale si è limitata a generiche doglianze senza introdurre in causa elementi da fatto idonei ad identificare il danno subito al fine di definirlo e liquidarlo>>.
 
Una siffatta statuizione elude in radice il dovere di esaminare il fatto controverso sottoposto al giudice, fonte di responsabilità (sia da danno emergente, che da lucro cessante); fatto, peraltro, puntualmente allegato e specificato, facente parte della domanda azionata e compiutamente coltivata in primo grado e riproposta in appello. Mentre, il Tribunale, avendo rigettato la pretesa principale (la domanda di risoluzione per inadempimento colpevole della alienante), dalla quale la richiesta di risarcimento era dipendente, ha correttamente omesso di decidere sulla domanda dipendente, travolta dall’epilogo della principale, la Corte d’appello, che quest’ultima ha accolto, avrebbe dovuto scrutinare quella dipendente, sulla base di quanto allegato. Con la giustificazione pseudo-motivazionale riportata, invece, la sentenza elude in toto l’esame del punto fattuale (la circostanza di aver affrontato spese fidando nell’adempimento della controparte e aver visto sfumare vantaggi economici futuri derivanti dall’operazione economica), afferma, in contrasto con le evidenze di causa, l’assenza di documentazione diretta a dimostrare gli esborsi e non prende in alcuna considerazione le richieste istruttorie.
 
Pur vero che in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., da ultimo, Sez. 6-1, n. 27000, 27/12/2016, Rv. 642299). Tuttavia, qui, l’errore nel quale è incorsa la statuizione è da porsi a monte: non si è in presenza di un giudizio in ordine al complessivo risultato probatorio, né di una consapevole (sia pure non necessariamente esplicitata) scelta istruttoria, ma di uno scrutinio della domanda condotto con l’ausilio di una motivazione apparente e in contrasto con le evidenze di causa, apoditticamente negate.
 
In definitiva, non diversamente da quanto già esposto al § 9, anche in questo caso deve constatarsi il difetto assoluto di motivazione, oltre alla violazione dell’art. 115, cod. proc. civ.
 
 
11. Con il terzo motivo la Marostica prospetta la violazione dell’art. 1226, cod. civ., in relazione all’art. 360 n. 3, cod. proc. civ., poiché il Giudice d’appello, in presenza della evidente difficoltà di provare l’entità del danno subìto, del quale era certo l’an, constati i reali sforzi della parte interessata diretti alla dimostrazione, avrebbe dovuto far luogo a liquidazione attraverso stima equitativa.
 
 
12. Con il quinto ed ultimo motivo viene denunziata la violazione degli artt. 91 e 92, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 n. 3, cod. proc. civ., nonché difetto di motivazione in punto di liquidazione delle spese di causa al di sotto del limite di tariffa.
 
Deduce la ricorrente incidentale che prima dell’avvio della causa di merito aveva avuto corso un procedimento sommario d’urgenza, conclusosi con la declaratoria d’inammissibilità del ricorso, proposto dalla medesima e successivo rigetto del reclamo; nonché un procedimento con il quale, su istanza della controparte, era stato disposto sequestro conservativo, parzialmente riformato in sede di reclamo. Erano state, inoltre, depositate analitiche note spesa (che si assume essere state riportate in ricorso). Nonostante ciò, e senza motivazione alcuna che giustificasse l’esclusione delle spese esposte e la riduzione degli onorari al disotto del minimo tariffario, la Corte d’appello, senza operare alcuna distinzione tra fasi e gradi, aveva immotivatamente liquidato il complessivo ammontare di cui in sentenza, che si poneva ben al di sotto di quanto spettante.
 
 
13. Le due ultime doglianze incidentali restano assorbite dall’epilogo.
 
 
14. Ciò premesso la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio. Il giudice del rinvio regolerà anche le spese del giudizio di legittimità.
 
P.Q.M.
 
Accoglie il settimo e l’ottavo motivo del ricorso principale e rigetta gli altri; accoglie, del ricorso incidentale, il primo, il secondo e il quarto e dichiara assorbiti gli altri; cassa in relazione ai nativi accordi e rinvia alla Corte d’appello di Trieste, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
 
Così deciso in Roma il 17 gennaio 2018
 
 
 

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