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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Appalti, Danno ambientale, Diritto processuale penale, Pubblica amministrazione, Rifiuti Numero: 58448 | Data di udienza: 25 Ottobre 2018

RIFIUTI – Reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti – Nozione e configurabilità del reato – Elementi e presupposti – Conseguimento di un ingiusto profitto – Art. 260, D.L.vo 152/2006 oggi art. 452-quattuordecies cod. pen. – Cconfigurabilità del reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen. – Natura di reato abituale – Elementi tipici – Consumazione del reato – DANNO AMBIENTALE – Pregiudizio o pericolo per l’ambiente – Esclusione – Giurisprudenza – Fattispecie – APPALTI – Esecuzione di un contratto di appalto – Configurabilità del delitto di frode in pubbliche forniture o nell’adempimento degli altri obblighi contrattuali – Reato in concorso – Principio di buona fede nell’esecuzione del contratto – Violazione – Art. 356 cod. pen. – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Differenza tra art. 356 cod. pen. (frode in pubbliche forniture) e art. 355 cod. pen. (Inadempimento di contratti di pubbliche forniture) – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Controllo di legittimità sulla motivazione – Presupposti e limiti. 


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 28 Dicembre 2018
Numero: 58448
Data di udienza: 25 Ottobre 2018
Presidente: RAMACCI
Estensore: MENGONI


Premassima

RIFIUTI – Reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti – Nozione e configurabilità del reato – Elementi e presupposti – Conseguimento di un ingiusto profitto – Art. 260, D.L.vo 152/2006 oggi art. 452-quattuordecies cod. pen. – Cconfigurabilità del reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen. – Natura di reato abituale – Elementi tipici – Consumazione del reato – DANNO AMBIENTALE – Pregiudizio o pericolo per l’ambiente – Esclusione – Giurisprudenza – Fattispecie – APPALTI – Esecuzione di un contratto di appalto – Configurabilità del delitto di frode in pubbliche forniture o nell’adempimento degli altri obblighi contrattuali – Reato in concorso – Principio di buona fede nell’esecuzione del contratto – Violazione – Art. 356 cod. pen. – PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Differenza tra art. 356 cod. pen. (frode in pubbliche forniture) e art. 355 cod. pen. (Inadempimento di contratti di pubbliche forniture) – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Controllo di legittimità sulla motivazione – Presupposti e limiti. 



Massima

 

 


CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^ 28/12/2018 (Ud. 25/10/2018), Sentenza n.58448

 
RIFIUTI – Reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti – Nozione e configurabilità del reato – Elementi e presupposti – Conseguimento di un ingiusto profitto – Art. 260, D.L.vo 152/2006 oggi art. 452-quattuordecies cod. pen. – APPALTI – Esecuzione di un contratto di appalto – Reato di concorso in frode nelle pubbliche forniture.
 
In materia di rifiuti, l’art. 260, comma 1,  D.L.vo 152/2006 contempla un reato abituale (già previsto, del resto, dall’art. 53-bis, d.lgs. n. 22 del 1997, come introdotto dalla legge 23 marzo 2001, n. 93, oggi art. 452-quattuordecies cod. pen. come introdotto dald. Lgs. 10 marzo 2018, n. 21) che punisce chi, al fine di conseguire un ingiusto profitto, allestisce una organizzazione di traffico di rifiuti, volta a gestire continuativamente, in modo illegale, ingenti quantitativi degli stessi materiali. Tale gestione deve concretizzarsi in una pluralità di operazioni con allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate, ovvero attività di intermediazione e commercio, e tale attività deve essere "abusiva", ossia effettuata o senza le autorizzazioni necessarie (ovvero con autorizzazioni illegittime o scadute) o violando le  prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazione stesse (ad esempio, la condotta avente per oggetto una tipologia di rifiuti non rientranti nel titolo abilitativo, ed anche tutte quelle attività che, per le modalità concrete con cui sono esplicate, risultano totalmente difformi da quanto autorizzato, sì da non essere più giuridicamente riconducibili al titolo abilitativo rilasciato dalla competente Autorità amministrativa). Il delitto in esame, dunque, sanziona comportamenti non occasionali di soggetti che, al fine di conseguire un ingiusto profitto, fanno della illecita gestione dei rifiuti la loro redditizia, anche se non esclusiva attività, sicché per perfezionare il reato è necessaria una, seppure rudimentale, organizzazione professionale (mezzi e capitali) che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo, ossia con pluralità di operazioni condotte in continuità temporale, operazioni che vanno valutate in modo globale: alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge, e perciò il reato è abituale dal momento che per il suo perfezionamento è necessaria le realizzazione di più comportamenti della stessa specie. Fattispecie: gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti costituiti da scorie di acciaieria, illecitamente smaltiti per la realizzazione dei sottofondi e dei rilevati stradali in esecuzione di un contratto di appalto, risultando colpevoli anche del reato di concorso in frode nelle pubbliche forniture.
 
 
RIFIUTI – Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti configurabilità del reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen. – Natura di reato abituale – Elementi tipici – Consumazione del reato – DANNO AMBIENTALE – Pregiudizio o pericolo per l’ambiente – Esclusione – Giurisprudenza – Fattispecie.  
 
Il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, previsto dall’art. 260, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (oggi art. 452-quaterdecies cod. pen., giusta il d. Lgs. 10 marzo 2018, n. 21) è un reato abituale, che si perfeziona soltanto attraverso la realizzazione di più comportamenti non occasionali della stessa specie, finalizzati al conseguimento di un ingiusto profitto, con la necessaria predisposizione di una, pur rudimentale, organizzazione professionale di mezzi e capitali, che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo (tra le molte, Sez. 3, n. 52838 del 14/7/2016, Serrao). Si consuma nel luogo in cui avviene la reiterazione delle condotte illecite (Cass., Sez. 3, n. 48350 del 29/9/2017, Perego); ossia, laddove si realizzano – con il citato carattere dell’abitualità – le condotte che costituiscono l’in sé del reato, che ne integrano gli elementi tipici, che ne evidenziano i caratteri essenziali per come individuati dal legislatore. Per cui, ai fini della integrazione del reato qui in argomento, non sono necessari un danno ambientale né la minaccia grave di esso, atteso che la previsione di ripristino ambientale contenuta nel comma quarto del citato articolo si riferisce alla sola eventualità in cui il pregiudizio o il pericolo si siano effettivamente verificati e, pertanto, non è idonea a mutare la natura della fattispecie da reato di pericolo presunto a reato di danno (Sez. 3, n. 19018 del 20/12/2012, Accarino; conforme, tra le altre, Sez. 3, n. 4503 del 16/12/2005, Sannarati). Nella specie, l’interramento dei rifiuti sicuramente può essere una frazione della condotta punibile, ma non è necessaria ai fini della rilevanza penale della fattispecie e della sua consumazione, che può essere raggiunta a monte, quando la pluralità e ripetitività delle operazioni di gestione inerenti quantitativi ingenti di rifiuti abbia raggiunto una intensità tale da mettere in pericolo il bene protetto.
 
 
APPALTI – Esecuzione di un contratto di appalto – Configurabilità del delitto di frode in pubbliche forniture o nell’adempimento degli altri obblighi contrattuali – Reato in concorso – Principio di buona fede nell’esecuzione del contratto – Violazione – Art. 356 cod. pen.
 
Ai fini della configurabilità del delitto di frode in pubbliche forniture, è sufficiente il dolo generico, costituito dalla consapevolezza di consegnare cose in tutto od in parte difformi (per origine, provenienza, qualità o quantità) in modo significativo dalle caratteristiche convenute, o disposte con legge o con atto amministrativo, non occorrendo necessariamente la dazione di "aliud pro alio" in senso civilistico o un comportamento subdolo o artificioso (tra le altre, Sez. 6, n. 6905 del 25/10/2016, Milesi ed altri; Sez. 6, n. 28301 dell’8/4/2016, Dolce). Al riguardo, si è affermato che l’indirizzo che interpreta la "frode nell’esecuzione dei contratti di fornitura o nell’adempimento degli altri obblighi contrattuali" nel senso che, per la sua configurabilità, sarebbe insufficiente il semplice inadempimento del contratto, perché la norma incriminatrice richiederebbe anche la presenza di un espediente malizioso o di un inganno, che faccia apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti confonde l’idea di frode come semplice inganno con quella di truffa (inganno mediante artificio o raggiro), mentre l’espressione "commette frode", contenuta nell’art. 356 cod. pen., non allude necessariamente a un comportamento subdolo o artificioso, perché si riferisce a ogni violazione contrattuale, a prescindere dal proposito dell’autore di conseguire un indebito profitto o dal danno patrimoniale del quale possa risentire l’ente committente. In altri termini, l’art. 356 cod. pen. sanziona le condotte contrattuali che, nei rapporti con l’amministrazione, violano il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, principio sancito dall’art. 1375 cod. civ.. "La frode è un fatto oggettivo che danneggia l’interesse pubblico indipendentemente dall’aggiungersi di espedienti truffaldini e, in un rapporto con la Pubblica Amministrazione, non contano le condizioni psicologiche delle persone fisiche contraenti ma le modalità di presentazione del bene in relazione a quanto oggettivamente convenuto o disposto con legge o atto amministrativo, per cui la frode non è esclusa dalla conoscenza o conoscibilità del difetto della cosa da parte di coloro che agirono per conto della Pubblica Amministrazione". Dal che, la conclusione per cui il reato di frode nelle pubbliche forniture non richiede una condotta implicante artifici o raggiri, propri del delitto di truffa, né un evento di danno per la parte offesa, coincidente con il profitto dell’agente, essendo sufficiente la dolosa inesecuzione del contratto pubblico di fornitura di cose o servizi, ritenendo, pertanto, configurabile – ove ricorrano anche i suddetti elementi caratterizzanti la truffa – il concorso tra i due delitti. 
 
 
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE – Differenza tra art. 356 cod. pen. (frode in pubbliche forniture) e art. 355 cod. pen. (Inadempimento di contratti di pubbliche forniture).
 
La differenza tra i rapporti contenuti nella fattispecie di cui all’art. 356 cod. pen. (frode in pubbliche forniture) e quella di cui all’articolo 355 cod. pen. (Inadempimento di contratti di pubbliche forniture) sta nel fatto che, l’inadempimento contrattuale preso in considerazione dall’art 355 cod. pen. consiste nella mancata consegna, totale o parziale, ovvero nella ritardata consegna, delle cose od opere dovute; ipotesi per le quali occorre la sola constatazione dell’illiceità civile dell’inadempimento per la configurazione del reato, che può essere doloso o colposo secondo che vi sia la volontà di cagionare la mancanza della fornitura, ovvero la colpa (imprudenza, negligenza eccetera) dell’agente. Nelle ipotesi previste dall’art 356 cod. pen., che in genere riguardano gli inadempimenti che si concretano nella consegna di cosa od opera completamente diversa da quella pattuita, o di cosa od opera affetta da vizi o difetti, si richiede anche un comportamento, da parte del privato fornitore, non conforme ai doveri di lealtà e moralità commerciale e di buona fede contrattuale: ed in questo consiste l’elemento frode. Non si richiede, pertanto, un comportamento tendente a trarre in inganno il committente ed a dissimulare le deficienze della fornitura, ma semplicemente la malafede nell’eseguire il contratto in difformità dei patti.


DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Controllo di legittimità sulla motivazione – Presupposti e limiti.
 
L’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo. In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. 
 
(dich. inammissibili i ricorsi avverso sentenza del 14/3/2017 – CORTE DI APPELLO DI BRESCIA) Pres. RAMACCI, Rel. MENGONI, Ric. Rocca ed altri 

Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^ 28/12/2018 (Ud. 25/10/2018), Sentenza n.58448

SENTENZA

 

 

 
 
 
 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^ 28/12/2018 (Ud. 25/10/2018), Sentenza n.58448

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
 
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis 
 
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA
 
sui ricorsi proposti da:
Rocca Orietta Pace, nata a Bolgare (Bg);
Fusco Andrea, nato a Bergamo;
Locatelli Pier Luca, nato a Trescore Balneario (Bg);
Pagani Giovanni Battista, nato a Pontoglio (Bs);
Gregori Bartolomeo Beniamino, nato a Telgate (Bg);
Suardi Angelo, nato a Trescore Balneario (Bg);
 
avverso la sentenza del 14/3/2017 della Corte di appello di Brescia;
 
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;
 
sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;
 
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pietro Gaeta, che ha concluso chiedendo dichiarare inammissibili i ricorsi di Gregori, Pagani e Suardi, e rigettare quelli proposti da
Rocca, Fusco e Locatelli;
 
udite le conclusioni dei difensori dei ricorrenti, Avv. Barbara Bruni (anche in sostituzione degli Avv.ti Marco De Cobelli, Roberto Bruni e Mauro Moretti), Fabio Giovanni Belloni, Gian Piero Biancolella, Alessandro Volpi e Paola Severino, che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei ricorsi

RITENUTO IN FATTO
 
1. Con sentenza del 14/3/2017, la Corte di appello di Brescia confermava la pronuncia emessa il 3/11/2015 dal Tribunale di Bergamo, con la quale Orietta Pace Rocca e Pier Luca Locatelli erano stati giudicati colpevoli dei delitti di cui agli artt. 81 cpv., 110, 356 cod. pen., 260, d. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, e Andrea Fusco, Giovanni Battista Pagani, Bartolomeo Beniamino Gregori ed Angelo Suardi colpevoli del solo delitto di cui all’art. 260 citato, così venendo condannati tutti alle pene di cui al dispositivo; agli stessi – nelle qualità indicate in rubrica – era contestato di aver gestito abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti costituiti da scorie di acciaieria, illecitamente smaltiti per la realizzazione dei sottofondi e dei rilevati stradali in esecuzione di un contratto di appalto, risultando colpevoli anche – i soli Rocca e Locatelli – del reato di concorso in frode nelle pubbliche forniture, nei termini di cui al capo A) della contestazione. 
 
 
2. Propongono distinto ricorso per cassazione tutti gli imputati, a mezzo dei propri difensori, deducendo i seguenti motivi: 
Rocca:
Incompetenza per territorio, violazione degli artt. 8, 9, 21, comma 2, cod. proc. pen. La Corte di appello, al pari del Tribunale, avrebbe errato nell’indicare competente l’Ufficio di Bergamo in luogo di quello di Brescia, al quale il fascicolo avrebbe dovuto esser assegnato in ragione del fatto che il sito nel quale il presunto rifiuto sarebbe stato smaltito, ossia interrato, coinciderebbe con il cantiere stradale, sito in Orzivecchi, in provincia di Brescia. Nessun rilievo, dunque, potrebbe esser assegnato all’impianto di trattamento rifiuti di proprietà della "Locatelli Geometra Gabriele s.p.a.", in località Biancinella-Calcinate (Bg), come invece affermato dai Giudici del merito, atteso che in esso – ai sensi della contestazione – non sarebbe stata svolta nessuna attività e, in alcuni casi, i rifiuti non sarebbero stati neppure scaricati. Ne conseguirebbe – anche in forza di ampia giurisprudenza di legittimità, che ha affermato la natura abituale della condotta di cui all’art. 260 in esame, pronunciandosi su casi analoghi – che l’illecito smaltimento, ove mai accaduto, sarebbe stato commesso nel circondario del Tribunale di Brescia, unico luogo che avrebbe "unificato" le presunte condotte illecite, lì pervenendo tutto il materiale che si contesta non esser stato trattato; 
 
Inutilizzabilità della perizia. Tale mezzo di prova, disposto ai sensi dell’art. 392, comma 2, cod, proc. pen., avrebbe dovuto esser dichiarato inutilizzabile a norma dell’art. 191 cod. proc. pen., perché eseguito – nelle  forme dell’incidente probatorio – ben oltre il termine di durata delle indagini preliminari; in particolare, scaduto questo il 26/6/2012 (come da ordinanza del G.i.p. a data 15/6/2012), l’elaborato sarebbe stato depositato soltanto il 10/12/2012, e l’udienza per l’esame dei periti celebrata solo il 18/2/2013. La palese violazione dell’art. 393, comma 4 cod. proc. pen. comporterebbe, dunque, l’inutilizzabilità dell’atto, nei termini generali dell’art. 191 citato;
 
Erronea applicazione dell’art. 356 cod. pen. Contrariamente all’assunto della Corte di appello, il delitto di frode in pubbliche forniture richiederebbe un quid pluris rispetto al mero inadempimento contrattuale, ossia un espediente malizioso od un inganno, tale da far apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti. Questa conclusione – peraltro sostenuta da ampia giurisprudenza – troverebbe fondamento nel significato stesso del termine "frode", nonché nell’esigenza di distinguere – quel che, diversamente, non risulterebbe possibile – la portata della norma in esame da quella dell’art. 355 cod. pen., in tema di inadempimento di contratti di pubbliche forniture. 
 
Un’interpretazione – questa proposta dalla ricorrente – che risulterebbe poi necessaria per evitare effetti paradossali, quale il sanzionare più gravemente, ad esempio, la violazione contrattuale che fa mancare cose od opere necessarie ad uno stabilimento pubblico rispetto ad un mero inadempimento contrattuale di una qualche significatività. E con la precisazione, da ultimo, che il delitto contestato ben potrebbe concorrere con quello di cui all’art. 640 cod. pen., come da costante giurisprudenza di legittimità;
 
Carenza e contraddittorietà della motivazione con riferimento alla responsabilità per il delitto di cui all’art. 260, d. Lgs. n. 152 del 2006. La Corte di merito avrebbe concentrato l’attenzione – quanto alla contestazione de qua – su profili del tutto estranei al reato, quali il trattamento dei rifiuti o la loro miscelazione, sovrapponendo aspetti contrattuali della vicenda a quelli di rilevanza ambientale. In particolare, non si sarebbe valutato che l’unica prescrizione imposta per il recupero di scorie di fonderia si rinverrebbe nel d.m. 5 febbraio 1998 e coinciderebbe con il test di cessione regolato come da disciplina; test in ordine al quale, peraltro, la sentenza avrebbe immotivatamente prestato fede soltanto ai risulti riportati dai periti in incidente probatorio, non già a quelli dell’ARPAT o della Provincia di Brescia (decisivi per l’esito del 90% dei processi in materia) che non avrebbero rilevato alcun superamento dei livelli, ritenendo questi ultimi non affidabili in ragione di criteri – si ribadisce – non inerenti al reato ambientale, ad esempio in punto di miscelazione. A ciò si aggiunga, poi, che – eseguito con esito positivo il test di cessione su tutto il materiale e, quindi, destinato il prodotto al recupero – il mancato passaggio dello stesso al centro di trattamento, quand’anche avvenuto, non sarebbe comunque sufficiente ad integrare il delitto di cui all’art. 260 in esame; 
– Mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione con riguardo al giudizio di responsabilità. Premessa la pacifica inutilizzabilità – quanto alla Rocca – delle dichiarazioni testimoniali d’accusa, la colpevolezza della stessa sarebbe stata fondata soltanto sul noto criterio del "non poteva non sapere"; in particolare, il rapporto di coniugio con il Locatelli l’avrebbe resa ex se complice dell’altro e perfettamente a conoscenza di eventuali condotte illecite, pur in assenza della minima prova o di segnali che potessero far sorgere il dubbio della necessità di un controllo sull’attività di chi stava effettivamente realizzando l’appalto.
 
A ciò si aggiunga che, mentre il Tribunale aveva affermato la responsabilità della ricorrente ai sensi dell’art. 40 cpv. cod. pen., la Corte di merito l’avrebbe ritenuta colpevole in via diretta, senza però citare alcun conforto istruttorio;
– Vizi della motivazione in punto di circostanze attenuanti generiche (che si denunciano negate con argomento "collettivo" e senza alcuna valutazione dei numerosi argomenti offerti dall’appellante) e di trattamento sanzionatorio (ritenuto immotivatamente eccessivo e, soprattutto, legato ad un criterio – l’esposizione del bene ambientale a grave pericolo – che il processo avrebbe provato inesistente, tanto che il manufatto stradale sarebbe stato dissequestrato in corso di indagini senza l’imposizione di alcuna prescrizione, così come la parte civile Provincia di Brescia non si sarebbe vista liquidare alcunché per il rifacimento delle opere in oggetto);
– Con motivi nuovi a data 24/9/2018, la Rocca ha chiesto dichiararsi estinte per prescrizione entrambe le condotte in rubrica, da ritenersi consumate – se del caso – nel settembre 2010 (capo a) ed al 27/8/2010 (capo b);
Locatelli:
– Medesimi argomenti spesi dalla Rocca. Con l’unica precisazione, quanto alla seconda doglianza, che il ricorrente rappresenta che i termini delle indagini preliminari sarebbero scaduti, quanto alla propria posizione, il
7/10/2012; 
– Con motivi nuovi pervenuti il 2/10/2018, il Locatelli ha chiesto dichiararsi estinti per prescrizione entrambi i delitti in rubrica, risalendo la condotta di cui al capo a) – al più tardi – al 28/11/2010 (data del sequestro
preventivo), e quella di cui al capo b) all’agosto 2010, data di ultimo conferimento in cantiere, come da documentazione allegata;
 
Con memoria depositata il 9/10/2018, il ricorrente ha ulteriormente motivato la propria doglianza in punto di incompetenza per territorio;
 
Fusco:
– Medesimi argomenti spesi dalla Rocca e da Locatelli, con le seguenti precisazioni. In ordine all’inutilizzabilità della perizia, si evidenzia che il termine di durata delle indagini preliminari, quanto allo stesso ricorrente,
sarebbe scaduto il 26/6/2012. Con riguardo poi al giudizio di responsabilità, si contesta alla Corte di appello di non aver verificato che il ricorrente sarebbe stato del tutto estraneo alla vicenda, occupandosi – nell’ambito di una grande struttura come la "Locatelli s.p.a." – della partecipazione alle gare di appalto (peraltro, nell’ambito di un oggetto sociale molto ampio), con frequenti trasferte presso le stazioni appaltanti; quanto appena indicato, peraltro, avrebbe trovato piena conferma istruttoria, atteso che nessun teste avrebbe mai nominato il ricorrente, nessun documento porterebbe la sua firma, così come nessuna intercettazione lo riguarderebbe.
 
In ordine al trattamento sanzionatorio, ancora, e ribaditi i precedenti argomenti comuni, del tutto ignorata sarebbe risultata la richiesta di riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen., pur formulata in sede di appello;
– Con motivi aggiunti depositati il 5/10/2018, il Fusco ha chiesto dichiararsi estinto per prescrizione il delitto di cui al capo b), risultando accertato che l’ultima condotta astrattamente riferibile alla stessa fattispecie (ultimo conferimento di rifiuti) sarebbe avvenuta il 27/8/2010, come da documentazione allegata; 
 
Gregori:
– Medesimi argomenti più volte menzionati con riguardo all’eccezione di incompetenza per territorio, inutilizzabilità della perizia (con la precisazione che il termine di durata delle indagini preliminari, quanto allo stesso ricorrente, sarebbe scaduto il 26/6/2012), mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e carattere eccessivo del trattamento sanzionatorio. In punto di responsabilità, poi, si lamenta che l’intervenuta assoluzione per il delitto di cui al capo a) non consentirebbe – per gli argomenti impiegati – la condanna per la fattispecie di cui all’art. 260, d. Lgs. n. 152 del 2006; del pari, l’istruttoria avrebbe confermato che il ricorrente non avrebbe mai potuto assumere autonome determinazioni, o dare ordini con riguardo al trattamento delle scorie di acciaieria, quel che peraltro emergerebbe anche dal contenuto delle intercettazioni, qualora  lette correttamente;
 
Suardi:
– Oltre alla eccezione di incompetenza per territorio, nei termini già riferiti, il ricorrente lamenta il plurimo vizio motivazionale con riguardo alla responsabilità nel delitto di cui all’art. 260 appena citato. In particolare, si contesta l’assenza di ogni prova con riguardo al dolo, la contraddittoria assoluzione dalla condotta di cui all’art. 356 cod. pen. e la condanna in forza del mero assunto "non poteva non sapere". Palesemente errata, poi, risulterebbe la sentenza laddove richiama – a sostegno – due intercettazioni, una delle quali (n. 1766) non solo proveniente da altro procedimento (che la Corte afferma del tutto sovrapponibile a quello in esame, ma senza specificarne la ragione), ma anche da interpretare univocamente in senso opposto a quello offerto dalla decisione, ossia come solida prova dell’estraneità del ricorrente al ciclo di trattamento nell’impianto di Biancinella. Nel medesimo senso, poi, si richiamano talune deposizioni, che scagionerebbero il Suardi da ogni responsabilità, non valutate dal Collegio di merito, pur a ciò sollecitato con l’atto di appello;
– Con motivi aggiunti a data 25/9/2018, il Suardi ha chiesto dichiararsi estinto per prescrizione il delitto di cui al capo b), risultando accertato che l’ultima condotta astrattamente riferibile alla stessa fattispecie (ultimo carico di scorie) sarebbe avvenuta il 27/8/2010, come da documentazione e verbali di testimonianze allegati;
 
Pagani:
– Le stesse censure di cui sopra in tema di incompetenza per territorio, diniego delle circostanze attenuanti generiche ed entità della pena. In punto di responsabilità, poi„ il ricorrente evidenzia il travisamento della prova quanto al contenuto di talune testimonianze (come il Barzizza, che avrebbe riferito di aver ricevuto direttiva da Pagani, non dal Gregori; come il De Podestà, con riguardo al testo di una ma/I). E senza tacere che l’assoluzione dal delitto cui all’art. 356 cod. pen. renderebbe palesemente contraddittoria la motivazione a sostegno di una pronuncia di condanna quanto alla fattispecie ex art. 260, d. Lgs. n. 152 del 2006. 
 
Con riguardo, di seguito, al contenuto di alcune intercettazioni, questo sarebbe stato travisato o, comunque, risulterebbe del tutto irrilevante (come il riferimento a "camion radioattivi", in ordine ai quali nessuna contestazione sarebbe mai stata elevata). Palesemente assenti, inoltre, risulterebbero i caratteri propri dell’art. 260 in rubrica, sotto ogni profilo; 
 
Con motivi aggiunti depositati il 28/9/2018, il Pagani ha chiesto dichiararsi estinto per prescrizione il delitto di cui al capo b), risultando accertato che l’ultima condotta astrattamente riferibile alla stessa fattispecie (trasporto di scorie nel cantiere) sarebbe avvenuta il 27/8/2010, come da documentazione e verbali di testimonianze allegati;
 
CONSIDERATO IN DIRITTO
 
3. I ricorsi risultano manifestamente infondati per le argomentazioni che seguono; a muover da quelle concernenti le numerose questioni comuni, che verranno trattate con unica motivazione.
 
 
4. Con riguardo, innanzitutto, alla doglianza in punto di incompetenza per territorio – avanzata da tutti i ricorrenti – la stessa non può essere accolta, risultando corretta, adeguata e condivisibile la decisione assunta sul tema dalla Corte di appello, investita della medesima questione.
 
 
5. Sul punto, ritiene il Collegio che occorra ribadire un indirizzo costantemente affermato in questa sede, e sostenuto nella sentenza in esame, a mente del quale il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, previsto dall’art. 260, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (oggi art. 452-quaterdecies cod. pen., giusta il d. Lgs. 10 marzo 2018, n. 21) – reato abituale, che si perfeziona soltanto attraverso la realizzazione di più comportamenti non occasionali della stessa specie, finalizzati al conseguimento di un ingiusto profitto, con la necessaria predisposizione di una, pur rudimentale, organizzazione professionale di mezzi e capitali, che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo (tra le molte, Sez. 3, n. 52838 del 14/7/2016, Serrao, Rv. 268920) – si consuma nel luogo in cui avviene la reiterazione delle condotte illecite (tra le altre, Sez. 3, n. 48350 del 29/9/2017, Perego, Rv. 271798; Sez. 3, n. 29619 dell’8/7/2010, Leorati, Rv. 248145; Sez. 3, n. 46705 del 3/11/2009, Caserta, Rv. 245605); ossia, laddove si realizzano – con il citato carattere dell’abitualità – le condotte che costituiscono l’in sé del reato, che ne integrano gli elementi tipici, che ne evidenziano i caratteri essenziali per come individuati dal legislatore. Con la significativa precisazione – correttamente sottolineata nella sentenza impugnata – per cui, ai fini della integrazione del reato qui in argomento, non sono necessari un danno ambientale né la minaccia grave di esso, atteso che la previsione di ripristino ambientale contenuta nel comma quarto del citato articolo si riferisce alla sola eventualità in cui il pregiudizio o il pericolo si siano effettivamente verificati e, pertanto, non è idonea a mutare la natura della fattispecie da reato di pericolo presunto a reato di danno (Sez. 3, n. 19018 del 20/12/2012, Accarino, Rv. 255395; conforme, tra le altre, Sez. 3, n. 4503 del 16/12/2005, Sannarati, Rv. 233294).
 
 
6. Tanto premesso in termini generali, ritiene il Collegio che la sentenza impugnata abbia fatto buon governo di questi principi, evidenziando che la competenza per territorio doveva esser radicata proprio laddove le condotte illecite erano state reiterate, ossia presso l’impianto di trattamento di Biancinella-Calcinate, sito in provincia di Bergamo e nel circondario del locale Tribunale; senza che assumesse decisivo rilievo, invece, il cantiere di Orzivecchi, costantemente richiamato dai ricorrenti come il luogo in cui tutti i materiali in esame erano pervenuti per esser interrati e, quindi, smaltiti.
 
 
7. In particolare, la Corte di appello – dopo aver congruamente affermato che "l’interramento dei rifiuti sicuramente può essere una frazione della condotta punibile, ma non è necessaria ai fini della rilevanza penale della fattispecie e della sua consumazione, che può essere raggiunta a monte, quando la pluralità e ripetitività delle operazioni di gestione inerenti quantitativi ingenti di rifiuti abbia raggiunto una intensità tale da mettere in pericolo il bene protetto" – ha sottolineato con ampio argomento che l’impianto di Biancinella: a) costituiva lo strumento attraverso il quale legittimare la fornitura di scorie di acciaieria sotto l’asserita forma di materie prime secondarie di cui al contratto di appalto del 18/12/2008, aggiudicato dal raggruppamento temporaneo di imprese costituito da "Origini s.r.l.", "Asfalti Geom. Locatelli s.r.l." e "Tecnofrese s.r.l.", contratto poi modificato con la variante proposta il 2/10/2009 e recepita nel verbale di concordamento nuovi prezzi del 2/12/2009; b) costituiva il luogo di ubicazione della complessa struttura operativa ove le attività di illecita gestione erano state compiute; c) in particolare, in questo luogo era transitato l’ingente quantitativo di rifiuti di acciaieria (nell’ordine di decine di migliaia di tonnellate, come riscontrato da numerosissimi documenti di trasporto), "con la principale finalità di risultare oggetto di una lavorazione e di una trasformazione, che in realtà non c’è stata, se non in minima parte" (a corredo, e non smentita in alcun ricorso, la Corte di appello ha sottolineato che il consulente tecnico del pubblico ministero aveva constatato di persona la presenza di un autocarro che aveva scaricato, nella zona del prodotto finito in uscita, scorie invero provenienti dall’esterno, quindi solo apparentemente risultanti oggetto di lavorazione presso l’impianto). 
 
Ancora presso la struttura di Biancinella, poi, erano avvenuti i test di cessione sul rifiuto cd. tal quale, da ritenersi "addomesticati" in ragione di emergenze istruttorie che la sentenza ha analiticamente richiamato e, in particolare, due intercettazioni telefoniche del 28/12/2010 (il cui riferimento – proprio di una delle due, la n. 1766 – al diverso procedimento "Bre.Be.Mi." ha costituito oggetto di una censura generica, di tipo motivazionale, senza che risulti mai eccepita l’inutilizzabilità processuale della medesima captazione. E fermo restando, peraltro, che la posizione di diversi indagati – relativamente a tale ulteriore vicenda – era stata stralciata proprio dal presente procedimento, ad evidenza della palese connessione tra gli stessi fatti). Sempre presso il medesimo impianto in provincia di Bergamo, poi, era avvenuta l’operazione di "sbiancatura"
dei documenti di trasporto, tale da far apparire "come lavorati e provenienti dall’impianto di Biancinella materiale che, viceversa, non era stato affatto lavorato o, addirittura, nemmeno scaricato"; quel che la Corte di merito – in uno con il primo Giudice – ha tratto anche dall’esame dei numerosi documenti di trasporto in atti, evidenziando al riguardo che alcuni autisti, congruamente ritenuti inattendibili, talvolta avevano addirittura disconosciuto le sottoscrizioni a loro nome apposte sui documenti stessi, recanti orari incompatibili con il trasporto lì indicato (elemento che, peraltro, taluni odierni ricorrenti cercano di superare con il riferimento a problemi di natura tecnico/informatica che avrebbero inciso sulla datazione dei documenti in oggetto, quindi con argomento di mero fatto e, dunque, inammissibile in questa sede. Argomento, in ogni caso, ancora adeguatamente superato dalla Corte di appello, che ne ha evidenziato "l’incomprensibile durata" – per diverse ore, per più giorni a settimana – tale da renderne assai poco verosimile il contenuto).
 
 
8. In forza di tutte le considerazioni che precedono, dunque, la sentenza ha concluso sul punto rappresentando che l’impianto di Biancinella-Calcinate aveva costituito il teatro delle complesse operazioni di gestione illecita qui contestate, 1) evidentemente finalizzate al conseguimento dell’ingiusto profitto che regge il profilo soggettivo del delitto di cui all’art. 260 ex capo B), 2) precedenti e ben più significative – nell’ottica della competenza per territorio in esame – rispetto al mero interramento dei rifiuti, quale operazione materiale conclusiva, e 3) tali da realizzare – in modo duraturo, organizzato e continuativo, come evidenziato dalle quantità di rifiuti movimentate indebitamente – quel pericolo concreto al bene interesse tutelato che il legislatore ha posto a fondamento della medesima previsione normativa in oggetto.
 
 
9. In senso contrario, peraltro, non opera neppure il richiamo a Sez. 3, n. 46705 del 2009, contenuto in molti dei ricorsi (e, inizialmente, nella sentenza impugnata, con accento critico). Con tale pronuncia, infatti, questo Supremo Collegio ha ribadito i medesimi argomenti invero sostenuti dalla Corte di appello di Brescia, qui interamente condivisi e sopra richiamati ("Il reato deve considerarsi abituale dal momento che per il suo perfezionamento è necessaria la realizzazione di più comportamenti della stessa specie; consegue che la competenza deve essere individuata nel luogo in cui le varie frazioni della condotta, per la loro reiterazione, hanno determinato il comportamento punibile"), per poi concludere che "solo con l’arrivo dei vari camion di rifiuti ed il loro interramento (…) si è avuto l’accumulo di ingenti quantitativi che sigla il perfezionamento del reato". Ciò, tuttavia, la Corte ha nell’occasione affermato non perché soltanto il definitivo interramento integri il delitto di cui all’art. 260, come invece sostenuto dai ricorrenti, ma perché "le condotte antecedenti (del caso di specie, ovviamente, non in termini generali, n.d.e.) non valgono a sostanziare la pluralità di operazioni atte a configurare le attività di gestione organizzata". Diversamente, quindi, dalla vicenda qui in esame, nella quale le condotte anteatte – quelle tenute presso l’impianto di trattamento – sono state, e congruamente, ritenute sufficiente ed adeguata espressione di quegli atti reiterati di gestione che – già in sé – integravano il delitto in rubrica.
 
E senza che, ancora sul punto, si possa condividere l’altra pronuncia menzionata nei ricorsi, la Sez. 1, n. 19509 del 2014, la quale ha affermato – quanto alla predisposizione di una struttura operativa organizzata – che "tale segmento della condotta (di natura per così dire preparatoria) (…), intanto assume rilevanza e configura il comportamento punibile ex D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, ex art. 260, in quanto allo stesso segua poi effettivamente una protratta e consistente attività di smaltimento dei rifiuti, necessaria per la configurabilità del delitto". Trattasi, infatti, di un indirizzo che non tiene conto della frequente complessità delle operazioni che integrano la gestione abusiva di rifiuti, molte delle quali possono invero precedere l’attività di smaltimento qui richiamata, oppure prescinderne, ciononostante integrando tutti gli elementi costitutivi del reato. Quel che, all’evidenza, consente anche di non lasciare pericolose zone grigie di impunità, che ben potrebbero individuarsi qualora si accentrasse l’attenzione dell’interprete sul solo conferimento in discarica (o sull’interramento di cui ai ricorsi), così privando di ogni rilievo i profili organizzativi e le relative condotte che ben possono precedere questo ultimo tassello della vicenda; tali – già essi stessi – da integrare appieno quell’attività organizzata sanzionata dal legislatore (id est: consumare il reato), senza doversi quindi attendere la sola, ultima fase della medesima operazione illecita.
 
La prima censura comune, dunque, deve essere dichiarata inammissibile, perché reiterativa di una questione già avanzata in seconde cure, ed alla quale il Collegio di appello ha fornito più che adeguata risposta.
 
 
10. Alle stesse conclusioni, poi, perviene la Corte quanto alla successiva, in punto di inutilizzabilità della perizia disposta in sede di incidente probatorio; anche al riguardo, infatti, ritiene il Collegio che la motivazione stesa dal Giudice di appello risulti del tutto corretta, congrua ed immeritevole di censura in questa sede.
 
In particolare, le sentenze di merito hanno evidenziato che la richiesta di incidente probatorio, avente ad oggetto la perizia qui in discussione, era stata avanzata dal pubblico ministero il 16/12/2011, nel medesimo giorno, cioè, della (separata) richiesta di una proroga del termine delle indagini preliminari; quanto alla prima, il G.i.p. si era pronunciato con ordinanza ammissiva a data 28/12/2011, con nomina del perito e fissazione del quesito per l’udienza del 10/1/2012. Provvedimento emesso – quest’ultimo – quando il termine di indagine (ordinario per Pagani, Gregori e Suardi, prorogato per Rocca, Fusco e Locatelli) non era ancora spirato per alcuno dei ricorrenti; provvedimento cui era seguito, poi, il conferimento dell’incarico ed ogni relativo incombente (deposito dell’elaborato il 10/12/2012), anche istruttorio (esame dei periti il 18/2/2013), senza che nessuno dei difensori avesse sollevato questioni di sorta. Quel che vale, in particolare, per gli indagati non "prorogati", con riguardo ai quali l’assenza di una notifica della richiesta di proroga "già li rendeva ampiamente consapevoli del fatto che l’incidente probatorio era andato oltre la scadenza del termine ordinario per le indagini, per cui avrebbero dovuto sollevare la relativa eccezione alla prima occasione utile, cioè in sede di esame dei periti, cosa che non è avvenuta".
 
 
11. Ancora, la sentenza ha evidenziato che il G.i.p. – con ordinanza del 15/6/2012 – aveva disposto altra proroga del termine delle indagini per Rocca, Fusco e Locatelli (oltre a Bortolo Perugini, la cui posizione è stata stralciata), "giustappunto in relazione alla esigenza di espletare l’incidente probatorio, effettuando una motivazione congrua ed esaustiva ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 406 c.p.p. e 393, comma 4 c.p.p., il primo indicato nella intestazione del provvedimento e il secondo nella parte motiva" (quel che questa Corte ha verificato, anche in forza della produzione del medesimo documento in allegato al ricorso Locatelli).
 
Nel pieno rispetto, dunque, della norma da ultimo citata, a mente della quale "il pubblico ministero e la persona sottoposta alle indagini possono chiedere la proroga del termine delle indagini preliminari ai fini dell’esecuzione dell’incidente probatorio. Il giudice provvede con decreto motivato, concedendo la proroga per il tempo indispensabile all’assunzione della prova quando risulta che la richiesta di incidente probatorio non avrebbe potuto essere formulata anteriormente. Nello stesso modo il giudice provvede se il termine per le indagini preliminari scade durante l’esecuzione dell’incidente probatorio. Del provvedimento è data in ogni caso comunicazione al procuratore generale presso la corte di appello"; dal che la palese infondatezza della questione qui sollevata.
 
E con la precisazione ulteriore – propria della sentenza e conforme alla costante giurisprudenza di questa Corte – secondo cui la (invocata) sanzione dell’inutilizzabilità per le acquisizioni tardive – le quali devono costituire oggetto di specifica deduzione e documentazione – riguarda, comunque, solo gli atti di indagine del pubblico ministero e non gli elementi di prova acquisibili indipendentemente da qualsivoglia impulso della pubblica accusa. Ne consegue che detta sanzione non concerne l’incidente probatorio, il quale non è atto di indagine ma mezzo di acquisizione anticipata della prova, il cui espletamento non è correlato a termini perentori, trattandosi dell’assunzione anticipata di prove non rinviabili al dibattimento (o la cui acquisizione richiederebbe un tempo elevato), indispensabili per l’accertamento dei fatti e preordinati a garantire l’effettività del diritto alla prova (Sez. 5, n. 15844 del 5/2/2013, M., Rv. 255505; Sez. 3, n. 11650 del 10/12/2014, D., non massimata).
 
Anche questa comune censura, dunque, deve esser dichiarata inammissibile.
 
 
12. Nei medesimi termini, poi, conclude la Corte con riguardo alla erronea applicazione dell’art. 356 cod. pen., dedotta dalla Rocca e da Locatelli, i soli per i quali l’imputazione di cui al capo A) si è tradotta in pronuncia di condanna.
 
 
13. Al riguardo, ritiene il Collegio che la motivazione stesa dal Giudice di appello sia ancora adeguata, conforme alla prevalente giurisprudenza di legittimità e priva del denunciato errore di diritto; come tale, dunque, non censurabile. In particolare, la sentenza ha fatto proprio il più recente indirizzo – cui questa Corte aderisce – a mente del quale, ai fini della configurabilità del delitto di frode in pubbliche forniture, è sufficiente il dolo generico, costituito dalla consapevolezza di consegnare cose in tutto od in parte difformi (per origine, provenienza, qualità o quantità) in modo significativo dalle caratteristiche convenute, o disposte con legge o con atto amministrativo, non occorrendo necessariamente la dazione di "aliud pro alio" in senso civilistico o un comportamento subdolo o artificioso (tra le altre, Sez. 6, n. 6905 del 25/10/2016, Milesi ed altri, Rv. 269370; Sez. 6, n. 28301 dell’8/4/2016, Dolce, Rv. 267828; Sez. 6, ri. 27992 del 20/5/2014, Peratello, Rv. 262538). Al riguardo, peraltro, nella prima delle pronunce di legittimità richiamate – emessa, per incidens, anche nei confronti del Locatelli e per una vicenda del tutto analoga alla presente – si è affermato che l’indirizzo che interpreta la "frode nell’esecuzione dei contratti di fornitura o nell’adempimento degli altri obblighi contrattuali" nel senso che, per la sua configurabilità, sarebbe insufficiente il semplice inadempimento del contratto, perché la norma incriminatrice richiederebbe anche la presenza di un espediente malizioso o di un inganno, che faccia apparire l’esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti (Sez. 6, n. 5317 del 10/01/2011, Rv. 249448; Sez. 6, n. 11144 del 25/02/2010, Rv. 246544) confonde l’idea di frode come semplice inganno con quella di truffa (inganno mediante artificio o raggiro), mentre l’espressione "commette frode", contenuta nell’art. 356 cod. pen., non allude necessariamente a un comportamento subdolo o artificioso, perché si riferisce a ogni violazione contrattuale, a prescindere dal proposito dell’autore di conseguire un indebito profitto o dal danno patrimoniale del quale possa risentire l’ente committente. In altri termini, l’art. 356 cod. pen. sanziona le condotte contrattuali che, nei rapporti con l’amministrazione, violano il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto, principio sancito dall’art. 1375 cod. civ. (Sez. 6, n. 38346 del 15/05/2014, Rv. 260270). "La frode è un fatto oggettivo che danneggia l’interesse pubblico indipendentemente dall’aggiungersi di espedienti truffaldini e, in un rapporto con la Pubblica Amministrazione, non contano le condizioni psicologiche delle persone fisiche contraenti ma le modalità di presentazione del bene in relazione a quanto oggettivamente convenuto o disposto con legge o atto amministrativo, per cui la frode non è esclusa dalla conoscenza o conoscibilità del difetto della cosa da parte di coloro che agirono per conto della Pubblica Amministrazione". Dal che, la conclusione per cui il reato di frode nelle pubbliche forniture non richiede una condotta implicante artifici o raggiri, propri del delitto di truffa, né un evento di danno per la parte offesa, coincidente con il profitto dell’agente, essendo sufficiente la dolosa inesecuzione del contratto pubblico di fornitura di cose o servizi, ritenendo, pertanto, configurabile – ove ricorrano anche i suddetti elementi caratterizzanti la truffa – il concorso tra i due delitti (Sez. 6, n. 38446 del 15/05/2014, Moroni, Rv. 260270; Sez. 2, n. 15667 del 20/03/2009, Mari, Rv.243951; Sez. 6, n. 5102 del 25/03/1998, Minervini, Rv. 213672) 
 
 
14. Con riguardo, infine, ai rapporti tra la fattispecie di cui all’art. 356 cod. pen. e quella di cui all’articolo precedente (Inadempimento di contratti di pubbliche forniture), richiamati anche dai ricorrenti, questa Corte — sin da molti anni addietro (Sez. 6, n. 763 del 29/9/1971, Serra, Rv. 119353) — ha affermato che l’inadempimento contrattuale preso in considerazione dall’art 355 cod. pen. consiste nella mancata consegna, totale o parziale, ovvero nella ritardata consegna, delle cose od opere dovute; ipotesi per le quali occorre la sola constatazione dell’illiceità civile dell’inadempimento per la configurazione del reato, che può essere doloso o colposo secondo che vi sia la volontà di cagionare la mancanza della fornitura, ovvero la colpa (imprudenza, negligenza eccetera) dell’agente. Nelle ipotesi previste dall’art 356 cod. pen., che in genere riguardano gli inadempimenti che si concretano nella consegna di cosa od opera completamente diversa da quella pattuita, o di cosa od opera affetta da vizi o difetti, si richiede anche un comportamento, da parte del privato fornitore, non conforme ai doveri di lealtà e moralità commerciale e di buona fede contrattuale: ed in questo consiste l’elemento frode. Non si richiede, pertanto, un comportamento tendente a trarre in inganno il committente ed a dissimulare le deficienze della fornitura, ma semplicemente la malafede nell’eseguire il contratto in difformità dei patti. Principi – questi che precedono – che la Corte di appello ha correttamente applicato, sì da risultare del tutto infondati i ricorsi pure con riguardo a tali profili.
 
 
15. Inammissibili, di seguito, risultano anche le comuni doglianze – con riferimenti soggettivi via via differenti – concernenti la motivazione in ordine alla fattispecie di cui all’art. 260, d. Lgs. n. 152 del 2006. 
 
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l’indagine di legittimità sul discorso 
giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato  argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074). In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato alla verifica della rispondenza dell’atto impugnato a due requisiti, che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv, 251760).
 
In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte, osserva allora il Collegio che le censure mosse dai ricorrenti al provvedimento impugnato si evidenziano come inammissibili; ed invero, dietro la comune doglianza in punto di motivazione, gli stessi di fatto tendono ad ottenere in questa sede una diversa e più favorevole lettura delle medesime emergenze istruttorie già esaminate dai Giudici del merito (prove testimoniali, documenti, intercettazioni telefoniche), invocandone una valutazione nuova ed alternativa.  Il che, come appena richiamato, non è consentito.
 
 
16. A ciò si aggiunga che la Corte di appello ha riconosciuto i caratteri propri del delitto di cui all’art. 260 in esame, in uno con le singole responsabilità, in forza di un adeguato percorso argomentativo, fondato su oggettive risultanze dibattimentali e privo di qualsivoglia vizio motivazionale; come tale, dunque, non censurabile, specie a fronte di una doglianza che si concentra non tanto sui caratteri propri della fattispecie, quanto su presunti parametri contrattuali che la Corte di merito avrebbe esaminato in luogo di quelli ambientali, in uno con le specifiche di cui al d.m. 5 febbraio 1998 (in particolare, il test di cessione) che la sentenza non avrebbe adeguatamente valutato in termini probatori, screditando l’operato dell’ARPAT e dei funzionari della Provincia di Brescia.
 
 
17. Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire – quel che, in parte, è stato già sopra affermato – che l’art. 260, comma 1, in oggetto contempla un reato abituale (già previsto, del resto, dall’art. 53-bis, d.lgs. n. 22 del 1997, come introdotto dalla legge 23 marzo 2001, n. 93) che punisce chi, al fine di conseguire un ingiusto profitto, allestisce una organizzazione di traffico di rifiuti, volta a gestire continuativamente, in modo illegale, ingenti quantitativi degli stessi materiali. Tale gestione deve concretizzarsi in una pluralità di operazioni con allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate, ovvero attività di intermediazione e commercio (cfr. Sez. 3, n. 40827 del 6/10/2005, Carretta, Rv. 232348) e tale attività deve essere "abusiva", ossia effettuata o senza le autorizzazioni necessarie (ovvero con autorizzazioni illegittime o scadute) o violando le  prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazione stesse (ad esempio, la condotta avente per oggetto una tipologia di rifiuti non rientranti nel titolo abilitativo, ed anche tutte quelle attività che, per le modalità concrete con cui sono esplicate, risultano totalmente difformi da quanto autorizzato, sì da non essere più giuridicamente riconducibili al titolo abilitativo rilasciato dalla competente Autorità amministrativa) (cfr. Sez. 3, n. 40828 del 6/10/2005, Fradella, Rv. 232350). Il delitto in esame, dunque, sanziona comportamenti non occasionali di soggetti che, al fine di conseguire un ingiusto profitto, fanno della illecita gestione dei rifiuti la loro redditizia, anche se non esclusiva attività, sicché per perfezionare il reato è necessaria una, seppure rudimentale, organizzazione professionale (mezzi e capitali) che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo, ossia con pluralità di operazioni condotte in continuità temporale, operazioni che vanno valutate in modo globale: alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge, e perciò il reato è abituale dal momento che per il suo perfezionamento è necessaria le realizzazione di più comportamenti della stessa specie (cfr. Sez. 3, n. 46705 del 3/11/2009, Caserta, Rv. 245605, confermata anche da Sez. 3, n. 29619 de11 1 8/7/2010, Leorati, Rv. 248145).
 
 
18. Tanto premesso in termini generali, la sentenza impugnata ha quindi richiamato sul punto rilevanti elementi di prova emersi dal dibattimento, ossia l’utilizzo di scorie di acciaieria in termini ben superiori a quello contrattualmente previsto per la realizzazione della strada, oggetto dell’appalto a fondamento del raggruppamento temporaneo di imprese e dei negozi collegati; in particolare, era risultato un impiego sovrabbondante di tali scorie – quali materie prime secondarie – mentre il rapporto con gli inerti avrebbe dovuto essere di misura paritaria. Ancora, era risultata la presenza di scorie di acciaieria anche laddove il loro impiego non era previsto, al di sotto del piano di campagna e nel tout venant. Un massiccio, abnorme uso di scorie di acciaieria, dunque, in notevole parte non lavorate, sì da integrare un quantitativo ingente di rifiuti; quel che era risultato, ad esempio, dal rinvenimento – lungo l’intera bretella della nuova tangenziale – di scorie di dimensioni tali da non potere esser certo state oggetto di lavorazione presso l’impianto di Biancinella-Calcinate. Di seguito, nel medesimo senso, la sentenza ha sottolineato che il superamento dei valori limite del cromo esavalente nell’eluato del tout venant nel 100% delle analisi e in quello delle scorie nel 36%, orbene tutto ciò confermava ulteriormente l’assunto circa la rilevantissima mole di rifiuti utilizzata. Quel che, peraltro, la sentenza ha tratto anche dallo "strategico apparato predisposto dall’impresa appaltatrice per dare al transito presso l’impianto di Biancinella del materiale di provenienza delle acciaieria la parvenza di esser stato lavorato". Come confermato, peraltro, dalle dichiarazioni di alcuni degli autisti, che avevano riferito di aver portato materiale direttamente dalle acciaierie al cantiere, dunque senza "passare" per l’impianto citato, su disposizioni impartite dal Gregori e con documenti di trasporto falsi predisposti dal Suardi.
 
Una puntuale pianificazione delle operazioni, dunque, all’evidenza già ideata al momento in cui erano stati concordati i nuovi prezzi con l’amministrazione, proponendosi i ricorrenti l’impiego massiccio di scorie di acciaierie a fine di lucro.
 
Del resto, ha evidenziato ancora la Corte, diversamente non si comprenderebbero gli esiti delle analisi chimiche, le preoccupazioni legate al fatto che fossero state viste scaricare scorie ancora calde in cantiere, le numerosissime incongruenze – clamorose e per lo più ingiustificabili – riscontrate sui documenti di trasporto (che non potevano esser certo spiegate con il malfunzionamento del server), in uno con il tentativo di manomettere lo stato dei luoghi onde frustrare la prova dell’avvenuto scarico di materiale di provenienza esterna in un sito destinato alla raccolta del prodotto finito.
 
 
19. Sì da affermare, ancora con argomento più che congruo e non censurabile, che si era in presenza di "un’attività coinvolgente in modo complessivo, duraturo e coordinato una pluralità di soggetti, che altra funzione non poteva avere che dare copertura di apparente legalità ad un traffico di rifiuti del tutto ingente, per consentire un guadagno ben maggiore a quello pattuito". 
 
Quel che, peraltro, non risulta certo smentito dal fatto che la "Locatelli Geom. Gabriele s.p.a.", subappaltatrice, fosse debitamente autorizzata al trattamento di scorie di acciaieria nell’impianto di Biancinella, sì da poterle trasformare – al termine del ciclo produttivo – in materie prime secondarie; come correttamente affermato nella sentenza impugnata, infatti, ciò non costituisce di per sé garanzia del rispetto delle prescrizioni contenute nel contratto stipulato, "per cui, nel momento in cui ne vengono disattese integralmente e palesemente le indicazioni, la gestione va considerata abusiva".
 
Quanto precede, da ultimo, ha quindi consentito di ritenere – e congruamente motivare – che quell’insieme di elementi, "già ampiamente richiamati, quali le contraddizioni rilevate sui documenti di trasporto e formulari, il constatato trasporto sui cantieri di scorie di acciaieria ancora calde, lo scarico di materiale proveniente dall’esterno all’interno dell’impianto in zona riservata al prodotto lavorato, i risultati delle analisi chimiche disposte per conto della Provincia di Brescia dal Laboratorio Chemiricerche, per conto della Direzione Lavori dal Laboratorio Laberg, e, per conto dei Periti, dal Laboratorio Technoprove, i dubbi sulla genuinità dei test di cessione effettuati (quindi valutati, contrariamente all’assunto di molti dei ricorrenti, n.d.e.), per conto della Locatelli Geom. Gabriele s.p.a., dal Laboratorio Terraverde e il depistaggio delle analisi che gli Enti Pubblici svolgevano sul materiale in sito, convergono in modo univoco nel dimostrare l’integrale violazione delle prescrizioni a cui il materiale doveva essere sottoposto".
 
Una motivazione completa, dunque, che all’evidenza non si limita a trattare incongrui profili contrattuali confondendoli con quelli di cui alla rubrica, come si legge nei ricorsi, ma si attarda – con riferimenti oggettivi che gli stessi atti neppure menzionano, tantomeno contestano – proprio sugli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 260 in esame, correttamente riscontrato in forza delle considerazioni che precedono. E senza che, pertanto, si possa accedere alla comune prospettazione difensiva in ragione della quale, data per presupposta (contrariamente alle conclusioni del Collegio) la conformità del materiale alle prescrizioni, la mera omissione del passaggio per l’impianto di Biancinella non comporterebbe, ex se, condotta sufficiente ad integrare la fattispecie di cui al capo B); questo illecito, infatti, è stato congruamente riconosciuto in forza di una pluralità di elementi istruttori, letti in modo "sinergico" e non isolato, tali da evidenziare entrambi i profili appena richiamati, in uno con una struttura organizzativa ed una reiterazione di condotte – rette dal dolo specifico richiesto – idonee a configurare proprio il reato qui contestato. 
 
 
20. Tutte le considerazioni che precedono, di seguito, si apprezzano e valgono anche con riguardo alle singole posizioni dei ricorrenti, in ordine alle quali, per un verso, gli argomenti spesi dalla Corte di merito risultano congrui e fondati su oggettive risultanze dibattimentali, puntualmente richiamate, e, per altro verso, le censure mosse dagli interessati involgono profili di puro merito, dei quali si domanda una non consentita valutazione alternativa.
 
 
21. Muovendo, al riguardo, dalla posizione della Rocca, la stessa lamenta che la propria responsabilità sarebbe stata fondata sul noto principio del "non poteva non sapere", emergendo evidente l’assenza di prove a carico e di segnali che "potessero far sorgere il dubbio della necessità di un controllo sull’attività svolta da chi stava effettivamente realizzando l’appalto"; ebbene, questa tesi non può essere ammessa. Premesso che l’assunto in questione è sostenuto da considerazioni di mero fatto (pagg. 41-43), qui non ammissibili, si osserva che la Corte di appello ha riconosciuto la responsabilità della ricorrente con una motivazione adeguata e non manifestamente illogica, quindi non censurabile. 
 
In particolare, e premessa l’utilizzabilità nei suoi confronti delle sole prove documentali (compresa la citata perizia), non anche delle testimoniali d’accusa, la sentenza ha evidenziato che: a) la Rocca era legale rappresentante e socia di maggioranza della "Origini s.r.l.", capogruppo della R.T.I., aggiudicatrice del contratto di appalto, della "Tecnofrese s.r.l.", altra partecipe dello stesso raggruppamento, e della "Trasporti Geom. Locatelli s.r.l.", azienda incaricata dei trasporti del materiale utile alla realizzazione del sottofondo stradale della tangenziale; b) la ricorrente era moglie del Locatelli, il quale, peraltro, per realizzare i propri fini illeciti si era circondato soltanto di persone di provata fiducia; c) la prima delle società citate – sebbene la firma fosse stata materialmente apposta da un delegato – aveva formulato la proposta, già caldeggiata alla Provincia dal Locatelli, di utilizzare la miscelazione sul posto di MPS con materiale inerte in ragione del 50%, con uno sconto di 200.000,00 euro rispetto al prezzo già stabiiito nel capitolato d’appalto, "che ha costituito la chiave di volta per l’utilizzo delle scorie di acciaieria nel sottofondo stradale"; d) la Rocca, ancora, aveva beneficiato del ritorno economico della gestione illecita in esame. Sì da concludere – con affermazione non manifestamente illogica – che la stessa era perfettamente consapevole di quanto organizzato e realizzato, ed aveva condiviso la scelta di frodare la pubblica amministrazione mediante la fornitura di materiale ben diverso da quello contrattualmente previsto e, per di più, con un rilevante rischio ambientale. Un giudizio di responsabilità pieno, dunque, e sostenuto da concreti elementi; in ordine al quale, peraltro, non emerge netta la discrasia tra le pronunce di merito evidenziata sul punto dalla difesa (in forza della quale il Tribunale avrebbe riconosciuto la responsabilità solo ex art. 40 cpv. cod. pen., mentre la Corte di appello in via diretta), atteso che il primo Giudice ha sì riconosciuto la responsabilità da posizione per non aver impedito l’evento, ben distinta dalla denunciata responsabilità oggettiva, ma ciò muovendo dalla premessa che la veste di mera "testa di legno" di direttive impartite dal marito, dedotta dalla difesa, non aveva comunque trovato riscontro in dibattimento. Responsabilità da posizione, in ogni caso, evidente nella vicenda in oggetto, per come ricostruita dai Giudici del merito, ed a fronte della quale non possono valere le considerazioni fattuali del ricorso circa l’assenza di "segnali perspicui relativi alla commissione di violazione di obblighi contrattuali o di violazione di norma ambientali", tali da far sorgere il dubbio della necessità di un controllo sull’attività invero svolta da altri; la posizione ricoperta dalla ricorrente, infatti, con il pacifico portato di obblighi e responsabilità, anche di natura penale, avrebbe comunque imposto tale verifica, costantemente, senza necessità di attendere il sorgere di chissà quali segnali indicatori.
 
E senza che, da ultimo, possa rilevare la censura di omessa valutazione dei motivi di appello, attesa la sua evidente genericità e l’assenza di ogni riferimento al contenuto di questi.
 
 
22. Con riguardo, poi, alla posizione del Fusco, questi denuncia una motivazione apparente ("Non poteva non sapere"), in contrasto con le risultanze istruttorie (assenza di prove testimoniali a carico, così come di documenti a sua firma o di intercettazioni rilevanti) e manifestamente illogica (fondata sulla conoscenza di illeciti da parte di alcuni quadri aziendali); orbene, questa censura appare al Collegio del tutto infondata, atteso che la responsabilità del ricorrente è stata confermata in ragione di oggettive emergenze istruttorie e di plurime considerazioni giuridiche – sostenute da adeguato impianto logico – che non meritano di esser censurate nei termini di cui alla doglianza. 
 
In particolare, la Corte di appello, trattando la figura in esame, ha evidenziato che questi – legale rappresentante della "Locatelli Geom. Gabriele s.p.a.", che gestiva l’impianto ripetutamente citato – era addentro alle logiche aziendali, "essendo soggetto che per conto di quella società si sarebbe occupato di seguire le procedure di appalto a cui l’azienda partecipava"; ancora, la sentenza ha sottolineato che il ricorrente rientrava in quella stretta cerchia di persone cui Locatelli era maggiormente legato e nelle quali riponeva fiducia, tanto da rivestire la carica di legale rappresentante di una delle società di maggior importanza sotto il profilo strategico nella vicenda in esame. La sentenza di prime cure, peraltro, ha rilevato che lo stesso Fusco aveva dichiarato di aver assunto l’incarico di legale rappresentante su richiesta del Locatelli, di cui era dipendente nella omonima s.p.a., al solo fine di seguire le gare di appalto e senza mai occuparsi dell’impianto di Calcinate-Biancinella; orbene, questa circostanza – anche qualora confermata – aveva comunque fatto sorgere in suo capo una chiara responsabilità ex art. 40 cpv. cod. pen., avendo questi (quantomeno) omesso di esercitare qualsivoglia controllo inerente alla propria qualifica, così (quantomeno) accettando il rischio che condotte penalmente rilevanti venissero realizzate nell’ambito della società nella quale lui rivestiva un ruolo di responsabilità.
 
Senza alcun richiamo, quindi, a generici canoni del "non poteva non sapere", né ad una colpevolezza che sarebbe stata affermata solo in ragione dell’asserita conoscenza di determinate pratiche illecite all’interno del contesto aziendale; concetto, quest’ultimo, sì presente nella sentenza impugnata, ma soltanto come ultima considerazione sul tema, evidentemente tratta dall’istruttoria dibattimentale. E con la precisazione conclusiva, peraltro, che non appare manifestamente illogica l’affermazione per cui se una determinata prassi (specie se illecita) è conosciuta tra i quadri aziendali, deve ritenersi viepiù patrimonio del vertice della struttura, ossia del "dipendente maggiormente fidato", quale era di certo il Fusco.
 
 
23. Con riferimento, poi, alla figura del Gregori, la doglianza in punto di responsabilità è sostenuta esclusivamente da argomenti di puro merito, quindi inammissibili, sul presupposto della sua estraneità alle condotte di cui al capo B) della rubrica, dell’assenza di poteri decisionali circa il trattamento delle scorie in acciaieria, dello scarso significato delle intercettazioni valorizzate in sentenza, se non correlate alla menzionata carenza di poteri; orbene, questa censura non può trovare accoglimento, perché manifestamente infondata. La Corte di appello, infatti, ancora con adeguato e logico argomento ha sottolineato che il ricorrente: a) era colui al quale – nell’ambito della "Locatelli" – era rimessa la scelta del materiale da conferire sul cantiere; b) era pienamente consapevole, con adesione fattiva, del progetto criminoso qui in esame, come ben emerso, tra l’altro, dalle dichiarazioni degli autisti Barzizza e De Palmas (i quali – oltre a confermare di aver più volte scaricato scorie di acciaieria direttamente in cantiere, transitando nell’impianto di Biancinella soltanto per munirsi dei documenti di trasporto predisposti dal Suardi – avevamo individuato proprio nel Gregori colui che aveva dato loro le relative disposizioni). Ancora, la sentenza – sul punto oggetto di una censura del tutto generica – ha evidenziato che le conversazioni monitorate (per come riportate diffusamente nella pronuncia di primo grado, pagg. 67-68, qui non contestate nel loro contenuto) avevano confermato il pieno coinvolgimento del ricorrente "nelle problematiche inerenti il fatto che, a destinazione, veniva portato materiale non oggetto di lavorazione e di come vi fosse l’esigenza di approntare rimedi per evitare che la Direzione lavori potesse scoprire la vicenda". Da ultimo, ma non certo per significato, la Corte di merito ha evidenziato il tentativo del ricorrente, unitamente a Pagani, di "mettere a tacere" l’autista Barzizza, autore di dichiarazioni suscettibili di pregiudicare i vertici aziendali; a conferma ulteriore dei forti interessi, specie di natura economica, che emergevano da questa gestione di rifiuti, organizzata e ripetutamente realizzata dai ricorrenti, e soprattutto del carattere illecito della stessa, nei termini di cui alla contestazione del capo B).
 
E senza che, da ultimo, sussista contraddizione di sorta con l’avvenuta assoluzione del Gregori dal delitto di cui all’art. 356 cod. pen., emergendo chiara la diversa ratio sottesa alle due condotte e, soprattutto, il diverso ruolo ricoperto dai vari imputati nella vicenda in oggetto; con posizione apicale riscontrata in capo alla Rocca ed al Locatelli, per ciò sottoposti a trattamento sanzionatorio più severo.
 
 
24. Con riguardo, di seguito, al ricorso del Pagani, questo risulta inammissibile per il carattere fattuale che lo distingue, contenendo plurimi riferimenti ad emergenze istruttorie (conversazioni, dichiarazioni, mail) delle quali si offre una diversa e più favorevole lettura, sotto la parvenza di un travisamento della prova invero non ravvisabile, per poi concludere sull’insussistenza del delitto di cui all’art. 260, d. Lgs. n. 152 del 2006.
 
Una doglianza, dunque, non consentita in questa sede. 
 
A ciò si aggiunga, peraltro, che la Corte di appello ha confermato il giudizio di responsabilità dell’imputato ancora con congruo apparato argomentativo, basato su concreti elementi dibattimentali e privo del denunciato travisamento; come tale, dunque, non censurabile. In particolare, la sentenza ha innanzitutto evidenziato che il Pagani – coordinatore dei trasporti, unitamente al Gregori – rientrava tra le figure operative nell’impianto Biancinella, chiamato a "tradurre sul campo" le direttive impartite dai vertici aziendali, a muover dal Locatelli. Ancora, si è affermato – con argomento non manifestamente illogico – che, se davvero estraneo all’abusiva gestione dei rifiuti, "non si comprende la ragione per la quale i più stretti collaboratori del Locatelli avrebbero dovuto parlare con lui di camion radioattivi, della scarsa qualità del materiale per il quale ci voleva un po’ di colore, della necessità di portare un po’ di terra per dare "un qualche colpetto dove serve", della necessità di far sparire le scorie". E senza cha abbia alcun rilievo il fatto che, in ordine ai citati prodotti radioattivi, nessun imputato abbia mai ricevuto contestazione formale.
 
Di seguito, e sempre nel medesimo argomento logico, la piena intraneità del ricorrente è stata tratta dalla circostanza – già sopra richiamata – del rimprovero mosso all’autista Barzizza per aver, questi, ammesso innanzi alla Polizia giudiziaria di aver scaricato scorie di acciaieria in cantiere senza alcuna lavorazione presso l’impianto. Quanto precede, ancora, in uno con il contenuto della mail intercorsa tra Mercadante e Locatelli, nella quale si rappresentava come il Pagani fosse al corrente di problemi inerenti alla posa del materiale (eccesso di ghiaia e mancanza di fino, "di tal che i risultati di piastra non davano i risultati dovuti"), così evidenziando la conoscenza "di cosa ed in che modo era realizzata l’opera per cui vi è processo". Conclusione che, peraltro, non sembra superabile dall’argomento – proposto anche in questa sede – secondo cui tale missiva atterrebbe a profili ingegneristici e non ambientali, poiché argomento di puro fatto, sostenuto con mero richiamo per estratto ad una deposizione testimoniale (De Podestà) e, peraltro, difficilmente riferibile ad un soggetto – il Pagani – con mansioni di autista specializzato, anzi "un semplice autista, che esegue altrui commesse di trasporto", come si legge alla pag. 9 del ricorso.
 
E senza che, da ultimo, sussista contraddizione di sorta con l’avvenuta assoluzione anche del Pagani dal delitto di cui all’art. 356 cod. pen., richiamandosi al riguardo le considerazioni già sopra spese per il Gregori. 
 
 
25. Da ultimo, il Suardi, il cui ricorso risulta del pari inammissibile sul punto.
 
Osserva la Corte, infatti, che la doglianza da questi proposta contiene argomenti ancora di puro fatto, volti ad ottenere in questa sede una inammissibile, diversa lettura delle medesime emergenze istruttorie già esaminate dai Giudici di merito; quel che, in particolare, emerge dall’analitico richiamo alle conversazioni nn. 1766 e 2412 (pagg. 11-16), così come alla deposizione del teste De Podestà (pagg. 16-17) e dai ripetuti riferimenti in fatto che, anche di seguito, connotano il ricorso. Il quale, peraltro, non considera adeguatamente la motivazione stesa al riguardo dalla Corte di appello, che ha confermato la responsabilità del ricorrente  ancora con argomento congruo, sostenuto da adeguata motivazione e non censurabile. In particolare, la sentenza ha sottolineato che il ricorrente "era colui cui era deputata la funzione di dare "regolarità cartolare" al rifiuto"; colui al quale Locatelli si era rivolto "rampognandolo per le discrasie rilevate sui ddt e sui formulari, delle quali era stato messo al corrente del Gregori". Ancora sul punto, poi, il Collegio di merito ha sottolineato che, qualora la problematica fosse dipesa dal malfunzionamento del server (come sostenuto anche in questa sede, n.d. e.), non si comprenderebbe la ragione dell’intervento del Locatelli, "il quale richiama a una maggiore attenzione il Suardi, onde evitare, giocoforza, che la superficialità nella compilazione dei documenti di trasporto potesse disvelare che il materiale delle acciaierie, in transito presso l’impianto di Biancinella, non veniva ivi scaricato per le previste lavorazioni". Infine, la pronuncia ha ribadito che il Suardi era stato menzionato in intercettazioni tra Andrea Oldrati e Giorgio Oprandi che, sebbene riferite alla connessa vicenda  dell’autostrada "Bre.Be.Mi.", evidenziavano il pieno coinvolgimento del ricorrente nella gestione abusiva di cui si tratta, anche in rapporto ai test di cessione solo apparentemente effettuati.
 
Elementi istruttori, si ribadisce, che non possono esser in questa sede fatti oggetto di una nuova lettura in merito, poiché non consentita. Così come non significativo, da ultimo, appare il riferimento all’assoluzione dal reato di cui all’art. 356 cod. pen., per le stesse argomentazioni già sopra richiamate.
 
 
26. Infine, la censura – ancora comune a tutti i ricorrenti – in punto di circostanze attenuanti generiche e trattamento sanzionatorio (e, quanto al solo Fusco, di applicabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen.).
 
Quanto alle prime, occorre innanzitutto richiamare il costante e condiviso indirizzo in forza del quale nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il Giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (per tutte, Sez. 5, n. 43952 del 13/4/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899). Tanto premesso, la Corte di appello ha fatto buon governo di questo principio, affermando – con argomento comune, ma non per questo in sé censurabile – che, per un verso, non erano emersi elementi favorevoli in tale ottica ai ricorrenti (se non l’incensuratezza) e, per altro verso, che questi non avevano evidenziato alcuna "minima presa di coscienza dei pericoli, a cui l’ambiente e la salute della collettività è stata esposta". In uno, peraltro, con l’assenza di ogni volontà di intervenire per rimuovere le conseguenze pericolose dell’opera realizzata.
 
Un argomento del tutto adeguato, quindi, che prescinde dal mancato verificarsi di un danno ambientale o dal mancato riconoscimento – in favore della parte civile Provincia di Brescia – dell’importo richiesto per eseguire il rifacimento di quanto già oggetto di contratto, come invece dedotto in tutti i ricorsi in esame; la natura del delitto ex art. 260, d. Lgs. n. 152 del 2006, già sopra più volte richiamata, consente infatti di ritenere tali elementi privi di ogni decisività, risultando necessario e sufficiente, per la consumazione del delitto, che una seria condizione di pericolo si sia verificata. Quel che la sentenza impugnata, in uno con quella di primo grado, espressamente richiamata, ha evidenziato con argomento non censurabile.
 
 
27. Con riferimento, poi, al trattamento sanzionatorio, lo stesso è stato individuato dai Giudici del merito, innanzitutto, in ragione del ruolo soggettivamente svolto nella gestione abusiva in esame, in uno con "l’impiego di rilevantissimi mezzi e forze e il coinvolgimento a diversi livelli operativi di un’intera struttura aziendale", per un periodo considerevole; quel che ha giustificato una pena individuata in termini non prossimi ai minimi, ma neppure ai massimi edittali. Di seguito, la sentenza ha ribadito la necessità di punire più severamente i soggetti che avevano maggiormente beneficiato, sotto il profilo economico, delle condotte illecite, con abbattimento dei costi derivanti dall’utilizzo di rifiuti in luogo di materie prime secondarie, ossia la Rocca ed il Locatelli; con differente trattamento, quindi, per tutti gli altri imputati, nei termini delle condotte sopra richiamate.
 
 
28. Da ultimo, quanto alla circostanza attenuante di cui all’art. 114 cod. pen., che il ricorso Fusco contesta non esser stata neppure esaminata, ritiene il Collegio che la stessa sia stata implicitamente disattesa in ragione degli argomenti sopra richiamati. Ciò, in adesione al costante indirizzo in forza del quale in tema di concorso di persone nel reato, allorché l’imputato abbia richiesto l’applicazione della circostanza attenuante prevista dall’art. 114 cod. pen., non sussiste il dovere di una motivazione esplicita in ordine alla sua mancata concessione, nel caso in cui il giudice abbia posto in evidenza la gravità del fatto in relazione alle condotte di tutti gli imputati, non operando alcuna distinzione tra il grado di efficienza causale delle condotte rispettivamente poste in essere rispetto alla produzione dell’evento (Sez. 2, n. 48029 del 20/10/2016, Siesto, Rv. 268176).
 
D’altronde, il compendio istruttorio a carico del ricorrente, come ricostruito ed esaminato dalla Corte di appello, impedisce ex se di ritenere che il ruolo ricoperto dal Fusco abbia avuto non solo una minore rilevanza causale rispetto alla partecipazione degli altri concorrenti, ma anche un’importanza obiettivamente minima e marginale, ossia di efficacia causale, così lieve rispetto all’evento da risultare trascurabile nell’economia generale dell’iter criminoso (per tutte, Sez. 3, n. 9844 del 17/11/2015, Barbato, Rv. 266461).
 
 
29. Tutti i ricorsi, pertanto, debbono essere dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.

P.Q.M.
 
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
 
Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2018
 

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