La liberalizzazione degli orari delle attività commerciali ed il principio «Pensare anzitutto in piccolo» (Think Small First).
RUGGERO TUMBIOLO*
È notizia di questi giorni che alcune Regioni hanno sollevato avanti alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale nei confronti del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui ha, per quanto qui rileva, introdotto la liberalizzazione degli orari delle attività commerciali.
In attesa di conoscere il contenuto (e di poi l’esito) dei ricorsi delle Regioni si può osservare che l’art. 31, primo comma, del c.d. decreto “salva Italia” ha, in effetti, modificato la lettera d-bis) del comma 1 dell’art. 3 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 233, convertito con modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248.
Per comprendere la portata della modifica occorre rammentare che l’art. 3 del decreto legge n. 233 del 2006, nella versione risultante dalle modificazioni introdotte dalla legge di conversione n. 248 del 2006, dettava delle regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale, al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale.
Nell’introdurre tali regole la norma individuava determinati limiti e prescrizioni allo svolgimento delle attività commerciali da ritenersi incompatibili con la libertà di concorrenza; tra di essi si possono ricordare: l’iscrizione a registri abilitanti ovvero il possesso di requisiti professionali soggettivi per l’esercizio di attività commerciali; il rispetto di distanze minime obbligatorie tra attività commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio; le limitazioni quantitative all’assortimento merceologico offerto negli esercizi commerciali ad eccezione della distinzione tra settore alimentare e non alimentare; la fissazione di divieti ad effettuare vendite promozionali, ad eccezione di quelli prescritti dal diritto comunitario; le limitazioni di ordine temporale o quantitativo allo svolgimento di vendite promozionali di prodotti, tranne che nei periodi immediatamente precedenti i saldi di fine stagione per i medesimi prodotti.
Nella versione originaria il cit. art. 3 non ricomprendeva, tuttavia, la disciplina degli orari e della chiusura domenicale o festiva nell’elenco degli ambiti normativi per i quali escludeva che si potessero introdurre limiti e prescrizioni.
L’articolo 35, comma 6, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, ha successivamente introdotto la lettera d-bis) al cit. art. 3, comma 1, con l’effetto di ritenere incompatibili con l’obiettivo di promuovere la concorrenza i limiti e le prescrizioni concernenti “in via sperimentale, il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell’esercizio ubicato nei Comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte”.
Lo stesso art. 35, al comma 7, stabiliva che le Regioni e gli Enti locali avrebbero dovuto adeguare le proprie disposizioni legislative e regolamentari alla disposizione introdotta dal comma 6 entro la data del 1° gennaio 2012.
La modifica introdotta dal decreto c.d. “salva Italia”, da una parte, ha eliminato il riferimento alla fase sperimentale della disciplina e, dall’altra, ha soppresso la limitazione della liberalizzazione degli orari ai Comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche.
La modifica impone alcune brevi riflessioni.
Una prima riflessione riguarda la collocazione della materia della disciplina degli orari nell’architettura costituzionale.
Al riguardo, va precisato che in più occasioni la Corte Costituzionale ha affermato che la disciplina degli orari degli esercizi commerciali rientra nella materia «commercio» (sentenze n. 288 del 2010 e n. 350 del 2008), di competenza esclusiva residuale delle Regioni, ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost. (sentenza n. 150 del 2011).
Tale circostanza non è, tuttavia, di per sé sufficiente per ritenere l’intervento del legislatore statale invasivo della competenza esclusiva residuale regionale.
Occorre tenere in considerazione che anche le materie attribuite alla competenza legislativa residuale delle Regioni possono essere incise da disposizioni statali emanate nell’esercizio di quelle materie c.d. trasversali, com’è appunto la tutela della concorrenza.
La Corte Costituzionale ha, in effetti, precisato che la tutela della concorrenza, proprio in quanto ha ad oggetto la disciplina dei mercati di riferimento di attività economiche molteplici e diverse, non è una materia di estensione certa, ma presenta i tratti di una funzione esercitabile su più diversi oggetti ed è configurabile come «trasversale» (cfr., per tutte, le sentenze n. 430 e n. 401 del 2007).
Il problema si sposta, quindi, nel verificare se le norme adottate dallo Stato siano essenzialmente finalizzate a garantire la concorrenza fra i diversi soggetti del mercato (sentenza n. 285 del 2005), allo scopo di accertarne la coerenza rispetto all’obiettivo di assicurare un mercato aperto e in libera concorrenza (sentenza n. 430 del 2007).
La Corte Costituzionale – in sede di esame dell’art. 3 del decreto legge n. 233 del 2006, nella versione risultante dalle modificazioni introdotte dalla legge di conversione n. 248 del 2006 e prima delle modifiche introdotte dall’articolo 35, comma 6, del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 – ebbe a precisare che erano all’evidenza coerenti con l’obiettivo di promuovere la concorrenza tutte le prescrizioni recate dal citato comma 1 dell’art. 3, in quanto dirette a rimuovere limiti all’accesso al mercato, sia soggettivi (fatti salvi quelli imposti dalla tutela di interessi generali), sia riferiti alla astratta predeterminazione del numero degli esercizi, sia concernenti le modalità di esercizio dell’attività, nella parte influente sulla competitività delle imprese, anche allo scopo di ampliare la tipologia di esercizi in concorrenza.
Giova rammentare che, per la giurisprudenza della Corte Costituzionale (cfr., da ultimo, sentenze n. 45 e n. 232 del 2010), nella nozione di «tutela della concorrenza» devono essere ricomprese: a) le misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti degli operatori economici che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati; b) le disposizioni legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata e vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra gli operatori economici; c) le disposizioni legislative che perseguono il fine di assicurare procedure concorsuali di garanzia in modo da realizzare la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici.
La liberalizzazione degli orari sembra, in effetti, rientrare tra le misure volte ad assicurare concorrenza “nel mercato” e finalizzate ad eliminare vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese.
Potrebbe, tuttavia, dubitarsi sulla conformità al canone della ragionevolezza di una disciplina che non operi alcuna differenziazione in relazione alla tipologia e alla dimensione dell’esercizio, al livello occupazionale, al settore di appartenenza ovvero alle specificità territoriali.
Può risultare utile ricordare che, per converso, la Corte Costituzionale ha già riconosciuto la legittimità di una legge regionale che operi delle differenziazioni in materia di regolamentazione degli orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, non solo in relazione alla dimensione dell’esercizio commerciale, ma anche tenendo conto di altri fattori tra i quali il settore merceologico di appartenenza e gli effetti sull’occupazione (sentenza n. 288 del 2010).
In via più generale, si è ritenuto legittimo tutelare l’esigenza di interesse generale di riconoscimento e valorizzazione del ruolo delle piccole e medie imprese già operanti sul territorio regionale (sentenza n. 64 del 2007).
Del resto, allo scopo anche di garantire la piena applicazione della comunicazione della Commissione europea del 25 giugno 2008, recante «Una corsia preferenziale per la piccola impresa – Alla ricerca di un nuovo quadro fondamentale per la Piccola Impresa (uno “Small Business Act” per l’Europa)», lo Statuto delle imprese, di cui alla legge 11 novembre 2011, n. 180, sostiene la promozione delle micro, piccole e medie imprese e delle reti di imprese nei mercati nazionali e internazionali, alla cui esigenze va adeguato l’intervento pubblico e l’attività della pubblica amministrazione.
Lo “Small Business Act” per l’Europa individua dieci principi ritenuti essenziali per valorizzare le iniziative a livello della UE e creare condizioni di concorrenza paritarie per le PMI.
In particolare, il principio n. 3 esorta a formulare regole conformi al principio “Pensare anzitutto in piccolo” (Think Small First); la domanda allora da porsi è: liberalizzando la disciplina degli orari degli esercizi commerciali senza distinzione alcuna si pensa anzitutto in piccolo?
* Avvocato in Como