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EMERGENZA E TUTELA AMBIENTALE.

Introduzione al volume di

Raffaele Chiarelli

 

   Nel convegno di Roma, “Emergenza e tutela ambientale”, anche se le questioni esaminate riguardavano prevalentemente argomenti attinenti alle “emergenze variamente aggettivate come emergenza ambientale, energetica, sismica …” sono affiorate convergenti istanze volte ad affrontare la complessiva problematica della emergenza al di là della sua inclusione nella disciplina della protezione civile, avvertendosi l’opportunità di un assetto unitario della regolazione delle sospensioni costituzionali per rispondere all’esigenza che, secondo Costantino Mortati, al fine di “evitare quanto possibile l’arbitrio e mantenere anche nei casi di emergenza alcune garanzie formali proprie dello Stato di diritto”, avrebbe indotto “ad includere nelle costituzioni contemporanee una qualche disciplina delle sospensioni stesse per quanto riguarda sia l’organo competente a dichiarare la sussistenza degli eventi straordinari e ad assumere i poteri dai medesimi richiesti, sia le modalità di emissione e le specie delle misure destinate a fronteggiarli, sia i controlli sulle medesime”. (Costituzione – Dottrine generali, in E.d.d., XI, Milano, 1962, p. 194). Se si era, da tempo, avvertito che la “storia del potere d’ordinanza, non è solo la storia delle forme di legittimazione della produzione giuridica ma è anche, se non innanzitutto, storia dei rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo, storia delle relazioni tra Stato centrale ed autonomie territoriali, storia della libertà privata e dei suoi mezzi di difesa nei confronti degli atti illegittimi del pubblico potere. E’ quindi, innanzitutto storia della nostra forma di stato, quest’ultima declinata sia in relazione al rapporto governanti-governati, sia con riferimento all’articolazione territoriale dell’ordinamento costituzionale” (Andrea Cardone La “normalizzazione” dell’emergenza. Contributo allo studio del potere extra ordinem del Governo, Torino, 2011, p. 69), oggi la vicenda del CORONAVIRUS sembra aver già largamente superato gli ambiti che tradizionalmente hanno circoscritto la trattazione giuridica delle varie emergenze, caratterizzata da una quasi intrinseca settorialità essenzialmente espressa dalla loro differente aggettivazione, che tendenzialmente avrebbe comportato accanto all’indicazione dell’evento reale o ipotizzato, il riferimento ad una serie determinata di istituzioni , di disposizioni e di problematiche giuridiche.

  Le questioni sollevate dalle emergenze non trovavano solitamente definitive soluzioni nella loro contingente regolazione, ma sotto il profilo politico, ma frequentemente esprimevano istanze di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e sollecitavano più vaste riforme e nuovi interventi legislativi ad hoc. Diverso è stato il caso dell’emergenza del coronavirus , che sembra destinata a risolversi non in una grande riforma, ma in una così estesa varietà di interventi riformatori, da non escludere nessun settore della vita associata.

  L’emergenza COVID-19, pur connotandosi come emergenza sanitaria, ha assunto una dimensione che ha largamente superato la sfera di tutte le istituzioni della sanità.

  Se si valutano le molteplici misure poste in essere per contrastare la pandemia nel contesto dell’emergenza dichiarata il 31 gennaio 2020, possono facilmente riscontrarsi le fondamentali connotazioni tradizionalmente indicate come proprie dell’emergenza: le soluzioni innovative adottate sembrerebbero attestare la constatazione, anche se non sempre esplicitata, dell’inadeguatezza dell’ordinamento costituzionale vigente e delle procedure da esso previsto a fronteggiare una situazione ritenuta imprevedibile e l’evocazione della intrinseca provvisorietà delle misure stesse parrebbe comportarne la necessaria temporaneità (Cfr. G. Marazzita, L’emergenza costituzionale. Definizioni e modelli, Milano, 2003, pp. 17 e 177).

  Il carattere relativo di una transitorietà destinata a protrarsi nel tempo in modo sostanzialmente indeterminato attraverso successive modificazioni di termini, la sottintesa evocazione di un salvifico vaccino da produrre e da testare, ma soprattutto la ragguardevole manomissione del nostro assetto costituzionale, che Simone Budelli ha illustrato, inducono a considerare la situazione venutasi a determinare con il coronavirus, come un contesto emergenziale differente dalle altre emergenze che sono state in vario modo costituzionalizzate.

  Sembra difficile sostenere che i mutamenti introdotti possano ricomprendersi tra quelli desumibili dall’elasticità della nostra Carta, o essere considerati espressione dell’ampiezza delle sue finestre aperte sulla realtà. Ritenerlo equivarrebbe ad affermare una così accentuata flessibilità costituzionale che escluderebbe ogni identità morfologica della nostra Costituzione.

  Il rilievo dei complessivi mutamenti nel sistema delle fonti, nel complessivo rapporto tra governanti e governati e particolarmente nella sfera dell’autonomia privata, nei diritti fondamentali, nelle formazioni sociali e nello stato sociale, nelle relazioni tra gli organi costituzionali territoriali e non, tra l’ordinamento interno e quello dell’Unione Europea è tale da indicare come inevitabilmente aperta una nuova fase costituente, indipendentemente dalle procedure che potranno essere adottate per attivarla. Sono tutte questioni che non possono considerarsi complessivamente riassumibili nel confronto tra libertà individuali ed obblighi di solidarietà, i quali ultimi parrebbero necessariamente destinati a prevalere, pervenendo a concretarsi nella necessità di contrastare la diffusione nella popolazione di un’epidemia considerevolmente mortale. Si sarebbe trattato di un modo di considerare le limitazioni dei diritti individuali che parrebbe volto ad anteporre alle garanzie costituzionali la riserva dell’assenza del coronavirus, che equivarrebbe a riconoscere la sovranità del medesimo coronavirus, che ha evocato Donatella Di Cesare nel titolo del suo recente lavoro: Virus sovrano? L’asfissia capitalista, Torino, giugno 2020. Se non si ritengono i diritti fondamentali della persona oggetto di tutela costituzionale esclusivamente quando non possano limitare i beni giuridici necessari alla comunità, ma li si consideri posti a sostegno dell’individualità e dell’autodeterminazione di ciascuno riguardo al “proprio progetto di vita e al suo compimento” e sottratti ad ogni riserva orientata al bene sociale, (come ha efficacemente illustrato H. Dreier, Lo Stato costituzionale delle libertà come ordinamento azzardato, trad. it. F. Pedrini, Modena, 2013, p. 29 ss.), allora le possibilità, da parte dei pubblici poteri, di intervento limitativo del loro esercizio risultano necessariamente circoscritte e bisognevoli di specifiche giustificazioni.

  Nell’emergenza Covid 19, le limitazioni hanno necessariamente “sconfinato” riguardando uno spettro così esteso e interrelato di libertà da lasciare incerti; le giustificazioni, nella loro drammatica vaghezza, hanno riflesso le persistenti incertezze della scienza medica.

  L’emergenza del coronavirus non ha solo compresso le libertà dei singoli, ma anche lo stato sociale che è stato gravemente colpito nella scuola, nell’università, negli stessi ospedali, dove il contrasto alla pandemia ha prevalso sulle altre funzioni.

  Opportunamente Gustavo Zagrebelsky (Se non basta obbedire, Repubblica, 30/4/2020), ha ritenuto di anteporre ai problemi della natura delle norme, che pure, a mio avviso, non andrebbero necessariamente sottovalutati, la questione dell’invasività delle costrizioni, della sostanziale trasformazione del cittadino in suddito osservante destinatario di un disciplinamento minuzioso. E’ stato un effetto che può essere valutato nella dinamica delle sue accentuazioni, se consideriamo la varietà delle strumentazioni costrittive che, accanto alle norme e alle sanzioni, hanno compreso articolati messaggi mediatici che hanno potuto concretamente distribuire agli utenti televisivi la responsabilità dell’esercizio delle libertà degli altri, ad esempio, ponendo in essere atteggiamenti dissuasivi nei confronti di chi accompagnava per strada bambini senza guinzaglio.

   Il discorso sulle fonti dell’emergenza per il coronavirus non sembra potersi esaurire nella pur necessaria determinazione della catena normativa dell’emergenza che Massimo Luciani ha attentamente ricostruito indicando il fondamento della deliberazione dello stato di emergenza nel Codice della protezione civile.

   Le forme di stimolo tra i cittadini attivate da quella che Robert Alan Dahl (Politica e virtù. La teoria democratica nel nuovo secolo, trad. it. A cura di S. Fabrini, Roma-Bari, 2001, p.149) definiva la “comprensione empatica”, hanno talvolta assunto la forma di un consiglio o dell’esortazione di un comportamento da tenere, che sarebbero risultati provvisti di una loro particolare sanzione, indicata da Norberto Bobbio (Comandi e consigli , in Studi per una teoria generale del diritto, a cura di T. Greco, Torino, 2002, p. 59) come “una conseguenza incerta e indipendente dalla volontà del consigliere”. Le modalità della comunicazione del consiglio o dell’esortazione si sarebbero rivelati determinanti per la loro efficacia, per il conseguimento di una effettiva costrittività. L’evocazione televisiva continua della morte attraverso l’elenco quotidiano dei decessi, le immagini delle bare e dei cimiteri, unitamente alle notizie sull’andamento dei contagi, rendeva tuttavia l’incertezza della sanzione che accompagnava i consigli particolarmente preoccupante: non si trasmetteva solo la paura della morte, e del contagio che avrebbe potuto procurare la morte – e l’incertezza dell’esito mortale paradossalmente ne accentuava l’effetto terrorizzante -, ma la si rendeva una paura collettiva e si lasciava immaginare la presenza di una serie indiscussa di comportamenti e di divieti per limitare il rischio di perdere la vita, in un contesto in cui sembrava quasi sollecitarsi l’attenzione generalizzata della comunità contro i potenziali untori.

   All’attenta e minuziosa regolazione dei comportamenti dei destinatari delle esortazioni e dei consigli, singoli e formazioni sociali, corrispondeva l’imposizione di una necessaria trasparenza che richiedeva obblighi di documentazione e giungeva a penetrare nel domicilio, a cui corrispondeva frequentemente l’opacità di una prescrizione variamente tecnicamente motivata.

   L’emergenza coronavirus ha espresso in modo universale il primato della precauzione.

  Affermando il primato del principio di precauzione, concretato nel contrasto alla diffusione della pandemia, nei confronti di molte prevenzioni anche in ambito sanitario, con la curiosa conseguenza di affermare, in nome della scienza, il prevalere dell’opinione preoccupata da supposizioni scientifiche sugli stessi risultati dell’attività scientifica. Governare secondo il principio di precauzione significa manovrare le paure, e la manovra delle paure difficilmente non può non perturbare i bilanciamenti tra principi, valori e interessi previsti dalla Costituzione.

   Nel suo assai recente lavoro, Virus sovrano cit. , p. 46, Donatella di Cesare, descrive le forme che potrebbe assumere ai nostri giorni la fobocrazia: “Si accendono e si spengono focolai di apprensione collettiva, si induce lo stress a intermittenza, fino a raggiungere l’apice dell’isteria collettiva, senza alcuna strategia e senza chiari scopi, se non la chiusura immunitaria di una comunità passiva, disgregata, depoliticizzata. Così il “noi” fantasmagorico si sottomette temporaneamente all’emergenza e ai suoi decreti”.

   Quella particolare forma di “arresti domiciliari” in cui si è venuta a trovare la maggioranza delle persone presenti in Italia solo apparentemente poteva ritenersi una misura costrittiva orientata al livellamento delle paure o ad una semplice riduzione quantitativa delle paure medesime.

   Nella realtà la differenza delle abitazioni, del numero delle persone presenti e delle condizioni di vita al loro interno avrebbe assicurato quella redistribuzione delle paure ancorata al mantenimento degli equilibri sociali preesistenti illustrata da Z. Bauman (Paura liquida, trad. it. M. Cupellaro, Roma-Bari, 2008, p. 102), che in tal modo sembrava voler mettere in guardia nei confronti di ogni prospettiva di socialismo delle paure.

  La fobocrazia posta in essere dall’emergenza coronavirus ha variamente modulato la regolazione della maggior parte delle attività umane attraverso una molteplicità di prescrizioni e divieti emanati da centri decisionali differenti, la pluralità dei quali ha variamente diffuso le autorità fobocratiche nel territorio dello Stato.

   La manovra delle paure avrebbe potuto essere realizzata in modo da occultare quello che è stato considerato come ”il conflitto strutturale insito nella logica comunicativa del rischio”: il conflitto tra coloro che evocano e definiscono i rischi e coloro che sono disciplinati come oggetto di protezione dai rischi medesimi (U. Beck, Conditio humana. Il rischio nell’età globale, trad. it. C. Sandrelli, Roma-Bari, 2011, p. 312). Ecco un decisivo terreno di riflessione per il costituzionalismo del dopo-coronavirus, un terreno che già Niklas Luhmann, aveva iniziato a dissodare in Sociologia del rischio, (trad. it. G. Corsi, Milano, 1996).

   Se l’ottimismo professato da Luhmann sul superamento del paternalismo dei decisori (p.79s.) parrebbe esserci di scarso aiuto, non altrettanto può dirsi sulle sue riflessioni relative al contrasto della sovraordinazione della politica al diritto, provocato dalla regolazione dei rischi. Il continuo rilievo assunto oggi dagli esperti in una serie di occasioni decisive evoca la problematica del rapporto tra tecnici e politici nello Stato contemporaneo che era stata il tema della prolusione romana di Giuseppe Guarino (Tecnici e politici nello Stato contemporaneo, in Scritti di diritto pubblico dell’economia e di diritto dell’energia, Milano, 1962, p. 10s.), che aveva allora valutato l’ipotesi delle discordie dei tecnici nella formulazione delle previsioni e della persistente presenza di variabili condizionate dall’azione politica e sottratte alla competenza degli specialisti e aveva anche riflettuto sull’uso politico della tecnica e dei tecnici (p. 13ss.).

  Non c’è necessità di sottolineare il rilievo politico non solo della scienza e del suo governo, ma dei mutamenti culturali e di sensibilità politica provocati dal coronavirus. Gli allarmi per il contagio hanno comportato la produzione continua di nuove regole che le rilevazioni statistiche ed epidemiologiche modificavano in continuazione: quello che è stato definito il confronto transattivo tra i valori al fine di equilibrare le istanze di sicurezza e le libertà fondamentali posto alla base dell’iter logico-argomentativo del decisore politico (G. De Minico, Costituzione, emergenza e terrorismo, Napoli, 2016, p.150) acquisiva sempre più connotazioni tecniche, e partecipava necessariamente alle loro oscillazioni. La stessa scelta tra normalità e atipicità, considerata paradigmatica dell’emergenza, tendeva a perdere il suo esclusivo carattere politico, mentre si modificavano profondamente le forme di produzione del consenso.

   Il confinamento emergenziale nelle abitazioni e l’intensità della paura hanno moltiplicato l’utenza televisiva di messaggi politici che, integrando spesso in forma ripetitiva i comunicati degli esperti, pervenivano ad acquisire nuove attendibilità ed a fornire nuove legittimazioni in uno scenario politico in cui la maggiore protezione dal contagio si affidava oltre che al rigore delle misure, anche alla modalità della comunicazione.

   E’ da considerarsi, essenzialmente, un effetto delle competenze nell’ambito della manovra delle paure se oggi i sondaggi di popolarità in Italia premiano i governatori regionali nei confronti dei dirigenti dei partiti. Non è da escludersi che gli sviluppi della crisi occupazionale possano domani premiare atteggiamenti di indifferenza nei confronti del contagio. I manovratori delle paure risulteranno comunque avvantaggiati.

  Il protrarsi della minaccia pandemica tenderebbe ad infrangere la linea di confine tra paura e angoscia, tra paura relativa e paura assoluta (M. Foessel, E’tat de vigilance. Critique de la banalité sécuritarie, Paris, 2016 , p.142), alimentando anche la crisi dell’ideale sicurtario. Ne deriverebbe lo scenario di un mondo senza ottimismi in cui la contingenza della precauzione parrebbe prevalere su ogni programmazione. Va infine valutato che il coronavirus è autenticamente cosmopolita: la prova di forza dimostrata dagli Stati nel controllo dei confini non ha impedito alla pandemia di diffondersi. Anche di questo dovranno tener conto i nuovi costituenti. Non serve a nessuno fingere che non sia accaduto nulla. Anche se per ora sembrano difficili da superare i limiti di quella che Simone Budelli ha definito la democrazia disciplinare, è necessario studiare il modo di impedire il consolidamento di una società della paura.

Raffaele Chiarelli

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