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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Inquinamento atmosferico, Rifiuti Numero: 32688 | Data di udienza: 17 Settembre 2020

RIFIUTI – Concorso di reati tra l’art. 29-quaterdecies e l’art. 256, d.lgs. 152/06 – Differenza strutturale tra le due fattispecie di reato – INQUINAMENTO ATMOSFERICO – Getto pericoloso di cose – Concetto di “molestia” – Distinzione tra attività produttiva svolta con o senza autorizzazione dell’autorità preposta – Riferimento alla “normale tollerabilità” – Art. 674 cod. pen. e art. 844 cod. civ..


Provvedimento: SENTENZA
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 23 Novembre 2020
Numero: 32688
Data di udienza: 17 Settembre 2020
Presidente: LAPALORCIA
Estensore: CORBETTA


Premassima

RIFIUTI – Concorso di reati tra l’art. 29-quaterdecies e l’art. 256, d.lgs. 152/06 – Differenza strutturale tra le due fattispecie di reato – INQUINAMENTO ATMOSFERICO – Getto pericoloso di cose – Concetto di “molestia” – Distinzione tra attività produttiva svolta con o senza autorizzazione dell’autorità preposta – Riferimento alla “normale tollerabilità” – Art. 674 cod. pen. e art. 844 cod. civ..



Massima

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^, 23/11/2020 (Ud. 17/09/2020), Sentenza n.32688

RIFIUTI – Concorso di reati tra l’art. 29-quaterdecies e l’art. 256, d.lgs. 152/06 – Differenza strutturale tra le due fattispecie di reato.

Il reato di cui all’art. 29-quaterdecies, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 può concorrere con il reato previsto dall’art. 256, comma 2, del medesimo d.lgs. n.152/2006, stante la differenza strutturale tra le due fattispecie di reato.

INQUINAMENTO ATMOSFERICO – Getto pericoloso di cose – Concetto di “molestia” – Distinzione tra attività produttiva svolta con o senza autorizzazione dell’autorità preposta – Riferimento alla “normale tollerabilità” – Art. 674 cod. pen. e art. 844 cod. civ..

In tema di emissioni in atmosfera di gas, vapori e fumi, al fine di definire il concetto di “molestia” che integra il reato di getto pericoloso di cose di cui all’art. 674 cod. pen., occorre distinguere tra l’attività produttiva svolta senza l’autorizzazione dell’autorità preposta, per la quale il contrasto con gli interessi tutelati va valutato secondo criteri di stretta tollerabilità, e quella esercitata secondo l’autorizzazione e senza superamento dei limiti consentiti, per la quale si deve far riferimento alla “normale tollerabilità” delle persone che si ricava dall’art. 844 cod. civ. e che ricorre sempre che l’azienda abbia adottato gli accorgimenti tecnici ragionevolmente utilizzabili per abbattere l’impatto delle emissioni sulla realtà esterna.

(dich. inammissibili i ricorsi avverso sentenza del 15/01/2020 – CORTE DI APPELLO DI MILANO) Pres. LAPALORCIA, Rel. CORBETTA, Ric. Goffredini ed altro


Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^, 23/11/2020 (Ud. 17/09/2020), Sentenza n.32688CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. 3^, 23/11/2020 (Ud. 17/09/2020), Sentenza n.32688

SENTENZA

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

omissis

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:
Goffredini Alessio, nato a Milano;
Marsilio Orazio, nato a Limbiate;

avverso la sentenza del 15/01/2020 della CORTE DI APPELLO DI MILANO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Stefano Corbetta;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Marilia Di Nardo, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con l’impugnata sentenza, in parziale riforma della pronuncia emessa Tribunale di Monza e appellata dagli imputati, la Corte d’appello di Milano riduceva a un anno, sei mesi e quindici giorni di arresto e 15.000 euro di ammenda ciascuno la pena inflitta ad Alessio Goffredini e ad Orazio Marsilio, nel resto confermando la pronuncia di primo grado, che aveva affermato la penale responsabilità degli imputati per una serie di violazioni al d.lgs. n. 152 del 2006, di cui ai capi A), B), C), F), e per il reato ex art. 674 cod. pen., contestato al capo D).

2. Avverso l’indicata sentenza, gli imputati, per il tramite del comune difensore di fiducia, propongono, con un unico atto, ricorso per Cassazione affidato a nove motivi.

2.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 192 e 234 cod. proc. pen.

Assumono i ricorrenti che la Corte territoriale avrebbe erroneamente rigettato l’eccezione di inutilizzabilità del filmato esibito dal teste Luisi, trattandosi di videoriprese non acquisite al processo.

2.2. Con il secondo motivo si eccepisce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 192, 62, 63, 191 cod. proc. pen. con riferimento al reato di cui all’art. 29-quattordecies d.lgs. n. 152 del 2006 contestati ai capi A) e B).

Ad avviso dei ricorrenti, la Corte territoriale avrebbe utilizzato le dichiarazioni del teste Soldano in merito a quanto riferitogli dal Goffredini, ciò che integra la violazione dell’art. 62, comma 1, cod. proc. pen. con conseguente inutilizzabilità di tali dichiarazioni, non potendo la prova dello svolgimento dell’attività galvanica presso lo stabilimento essere desunta né da quanto riferito, peraltro in maniera discordante, dai testi dell’ARPA, né dal consumo dell’acqua, non essendo possibile stabilire a chi dovesse essere addebitato quel consumo, considerando che la società dei ricorrenti subentrò alla precedente nel settembre 2015.

2.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione al reato di cui all’art. 255, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, contestato capo B). Secondo i ricorrenti, la Corte territoriale avrebbe erroneamente ravvisato la penale responsabilità in relazione al reato di cui al capo B), in quanto, per un verso, vi è stato un parziale adempimento dell’ordinanza contingibile e, per altro verso, era impossibile adempiere ad alcune prescrizioni, come confermato dal teste escusso sul punto.

2.4. Con il quarto motivo si lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 192 cod. proc. pen. con riguardo al reato di cui all’art. 256, comma 2, lett. a) e b) d.lgs. n. 152 del 2006 contestato ai capi C) ed F). Ad avviso dei ricorrenti, la Corte territoriale avrebbe erroneamente confermato il giudizio di penale responsabilità per i reati in esame, non emergendo quali rifiuti sarebbero stati illecitamente smaltiti, anche considerando che il tecnico dell’ARPA ha riferito di non aver effettuato alcun campionamento e di non essere certo della tipologia dei rifiuti medesimi.

2.5. Con il quinto motivo si censura la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. c) ed e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 29-quattuordecies e 256 d.lgs. n. 152 del 2006.

I ricorrenti censurano la sentenza impugnata laddove ha ritenuto il concorso di norme, essendo invece applicabile il solo art. 29-quattuordecies per effetto della clausola di sussidiarietà espressa contemplata dall’art. 256, comma 1, n. 152 del 2006.

2.6. Con il sesto motivo si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. con riferimento al reato di cui all’art. 674 cod. pen., contestato al capo D).

Sostengono i ricorrenti che la semplice presenza di fumi non sarebbe idonea ad integrare il reato in esame, anche considerando che tre soli cittadini presentarono l’esposto, a riprova dello scarso rilievo della tollerabilità dei fumi medesimi.

2.7. Con il settimo motivo si eccepisce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’art. 133 cod. pen.

Secondo la prospettazione difensiva, la Corte territoriale avrebbe confermato la pena base inflitta del Tribunale, stimata eccessiva, con formule di stile e senza considerare l’esiguo lasso temporale della condotta, pari a soli tre mesi.

2.8. Con l’ottavo motivo si lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b ed e) cod. proc. pen. con riguardo all’art. 62-bis cod. pen.

Deducono i ricorrenti che la Corte d’appello avrebbe negato il riconoscimento delle attenuanti in parola ricalcando pedissequamente la motivazione di primo grado, e senza considerare il contegno collaborativo degli imputati.

2.9. Con il nono motivo si censura la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. con riguardo agli artt. 133 e 81 cod. pen.

I ricorrenti censurano la sentenza impugnata, laddove non ha dato conto degli aumenti di pena inflitti per la continuazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono inammissibili.

2. Il primo motivo è inammissibile.

Come risulta dall’ampia e articolata motivazione della sentenza di primo grado (cfr. p. 4), è dirimente osservare che il filmato in questione si riferisce semplicemente alla fuoriuscita di un denso fumo nero dal sito industriale gestito dalla società dei ricorrenti, circostanza su cui ha deposto il teste Luisi, che, con il proprio cellulare, effettuò le riprese video, sicché esso rappresenta solamente la premessa storica e fattuale da cui sono scaturiti gli approfondimenti investigativi del personale dell’Arpa presso il sito produttivo; in ogni caso, i ricorrenti non
hanno spiegato in che modo l’eventuale estromissione di tale filmato avrebbe condotto a una diversa valutazione dell’ampio corredo probatorio, che si fonda sugli esiti delle ispezioni effettuate presso il capannone gestito dalla società degli imputati.

3. Il secondo motivo – evidentemente finalizzato a censurare la motivazione del reato di cui all’art. 29-quaterdecies d.lgs. n. 152 del 2006 di cui al capo A) – sicché il riferimento al capo B), peraltro oggetto del terzo motivo, deve considerarsi un mero lapsus calami – è manifestamente infondato.

3.1. In primo luogo si rileva che il motivo appare generico, non avendo i ricorrenti documentato che, nel momento della prima ispezione presso il capannone, il Goffredini abbia reso dichiarazioni da cui emergessero indizi di reità a suo carico, avendo peraltro egli semplicemente riferito al personale dell’Arpa che “aveva necessità impellente di lavorare, pur non lavorando in piena attività aveva fatto dei lavoretti per pagare l’affitto”.

3.2. In secondo luogo, i ricorrenti non si confrontano con la motivazione della sentenza impugnata, laddove ha desunto la prova che nel capannone si svolgesse attività galvanica da una serie di elementi, diversi dalle dichiarazioni del Goffredini, quali: l’accertata presenza di liquidi galvanici all’interno di quasi tutte le ventinove vasche presenti all’interno del sito industriale, ciò che, a causa delle forti esalazioni, rendeva difficile la respirazione nonostante l’utilizzo della mascherina; l’accertata presenza sia di materie prime destinate alla galvanica, sia di rifiuti industriali pericolosi, derivanti da quel tipo di attività; l’accertata presenza di lavoratori all’interno del capannone; l’ingente consumo di acqua potabile – elemento indispensabile per il ciclo produttivo in esame, essendo necessaria per il riempimento e il successivo risciacquo delle vasche – nel periodo intercorrente tra il settembre 2015, data in cui-la società Sant’Anna Group, gestita dai ricorrenti, subentrò nel contratto di fornitura, e il dicembre di quello stesso anno; le deposizioni dei resti Luisi, Montrasio e Corno, i quali hanno tutti riferito delle forti esalazioni provenienti dallo stabilimento a far tempo del novembre 2015, quando presentarono l’esposto.

Orbene, la Corte territoriale, con motivazione esente da logicità manifeste e da errori di diritto, ha correttamente ravvisato la sussistenza del reato di cui all’art. 29-quaterdecies d.lgs. n. 152 del 2006 sulla base della valutazione congiunta degli elementi ora esposti, ritenuti indicativi dello svolgimento dell’attività di galvanica, per la quale non era stata richiesta la prescritta autorizzazione integrata ambientale.

4. Il terzo motivo è manifestamente infondato.

Anche il tal caso, la Corte territoriale ha dato puntuale risposta ai motivi di appello, qui riproposti, osservando che, nel corso della seconda ispezione, avvenuta dopo circa tre mesi dell’emissione dell’ordinanza sindacale contingibile e urgente in materia di salute pubblica e dopo la scadenza della proroga richiesta dalla società Sant’Anna Group per l’adempimento, all’interno dell’azienda fu accertata la persistente presenza di rifiuti pericolosi, nonché l’inottemperanza alle prescrizioni che imponevano di provvedere: all’elencazione delle sostanze pericolose, all’effettuazione delle prove di tenuta delle vasche e delle tubazioni, all’invio dei formulari di trasporto e dei registri dei rifiuti, alla presentazione di un piano di indagine ambientale.

Con motivazione non manifestamente illogica, la Corte territoriale ha ritenuto che l’impossibilità di ottemperare, per causa non imputabile ai ricorrente, alla prescrizione relativa allo smaltimento dei rifiuti pericolosi, non incide sul mancato adempimento di tutte le altre prescrizioni, ciò che integra il reato di cui all’art. 255 d.lgs. n. 152 del 2006.

5. Il quarto e il quinto motivo, esaminabili congiuntamente stante la stretta relazione tra le questioni dedotte, sono manifestamente infondati.

6. Cominciando dal quinto motivo, il cui esame è logicamente preliminare, non è persuasiva la tesi, sostenuta dai ricorrenti, secondo la quale, nel caso in esame, troverebbe configurabile solamente il reato di cui all’art. 29-quaterdecies d.lgs. n. 152 del 2006 (capo A), essendo in esso assorbito il reato di cui all’art. 256 del medesimo d.lgs. (capi C ed F), per effetto dalla clausola di sussidiarietà espressa contemplata dall’art. 256, comma 1, che così recita: “Fuori dai casi sanzionati dall’articolo art. 29-quaterdecies, comma 1, (…)”.

Pur giungendo a una conclusione corretta, la concisa motivazione della Corte territoriale, secondo cui il reato di cui all’art. 256 non può ritenersi assorbito in quello previsto dall’art. 29-quaterdecies “stante la diversità degli elementi costitutivi dei predetti reati”, merita un approfondimento.

7. Va anzitutto evidenziato che ai ricorrenti, ai capi C) ed F), è contestato il reato previsto dal comma 2 dell’art. 256 d.lgs. n. 152 del 2006, nella loro qualità di soci e rappresentanti dalla Sant’Anna Group s.r.l., e, quindi, quali titolari dell’impresa; il che rispecchia la dizione letterale della norma in esame, secondo cui “Le pene di cui al comma 1 si applicano ai titolari di imprese ed ai responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti ovvero li immettono nelle acque superficiali o sotterranee in violazione del divieto di cui all’articolo 192, commi 1 e 2”.

8. Orbene, dal confronto con la fattispecie di cui al comma 1, emerge come l’ipotesi del comma 2 non contempli alcuna clausola di sussidiarietà espressa, la quale, peraltro, è prevista, nei medesimi termini (“Fuori dai casi sanzionati dall’articolo art. 29-quaterdecies, comma 1, …”), dal successivo comma 3.

Ciò denota una chiara scelta del legislatore, il quale, quando ha voluto escludere il concorso materiale di reati, prevedendo la sola applicazione della più grave ipotesi contemplata dall’art. 29-quaterdecies, comma 1, lo ha previsto in maniera espressa mediante l’utilizzo dell’indicata clausola di sussidiarietà, che compare nella dizione letterale delle fattispecie di cui ai commi 1 e 3; con la conseguenza che, non prevedendo il comma 2 detta clausola, è astrattamente configurabile il concorso con il più grave reato previsto dall’art. 29-quaterdecies, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006.

9. Né potrebbe obiettarsi che tale clausola sia implicitamente richiamata dal comma 2, che rinvia al comma 1; invero, quel richiamo è unicamente quoad poenam, come emerge dal chiaro tenore letterale della disposizione (“Le pene di cui al comma 1 si applicano”), e non si riferisce alla struttura del fatto, che è radicalmente diverso: l’art. 29-quaterdecies, comma 1, incrimina l’esercizio di una delle attività di cui all’Allegato VIII alla Parte Seconda senza essere in possesso dell’autorizzazione integrata ambientale, o dopo che la stessa sia stata sospesa o revocata; l’art. 256, comma 2, punisce l’abbandono o il deposito incontrollato di rifiuti, ovvero l’immissione dei medesimi nelle acque superficiali o sotterranee in violazione del divieto fissato dall’art. 192, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006.

10. Neppure tra le due ipotesi di reato vi è una necessaria implicazione fattuale o logica, in quanto la realizzazione di un reato può ben prescindere dalla commissione dell’altro: così come l’esercizio abusivo di una della attività indicate nell’Allegato VIII alla, Parte Seconda può avvenire senza che l’agente, al contempo, abboni o depositi in modo incontrollato i rifiuti derivanti da quell’attività, allo stesso modo l’abbondano o il deposito di rifiuto può essere realizzato da chi abbia ottenuto l’autorizzazione integrata ambientale.

11. Va perciò affermato il seguente principio: il reato di cui all’art. 29- quaterdecies, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 può concorrere con il reato previsto dall’art. 256, comma 2, del medesimo d.lgs., stante la differenza strutturale tra le due fattispecie di reato.

12. Manifestamente infondato è il quinto motivo perché articolato in fatto.

Invero, la Corte territoriale ha accertato, sulla base di quanto constatato dai tecnici dell’Arpa in occasione delle due ispezioni, la presenza di rifiuti speciali, derivanti dall’attività di galvanica abusivamente esercitata nell’azienda (quali soluzioni acquose di lavaggio, carboni attivi esausti, pitture, tanite di morchia) che si trovavano abbandonati in più punti del sito; oltre a ciò, si è inoltre appurato che nella fossa biologica sita all’interno del capannone vi era depositata una quantità molto elevata di nichel e, in misura inferiore, anche di altri metalli (rame, zinco, cromo totale), ciò che costituiva un insieme di rifiuti pericolosi generati dall’attività svolta nella fabbrica e quindi oggetto di illecito smaltimento.

A fronte di una motivazione del genere, il ricorrente oppone una diversa valutazione dei dati probatori, non consentita in sede di legittimità.

13. Il sesto motivo è manifestamente infondato.

I giudici di merito hanno accertato che dallo stabilimento, dove era esercitata in maniera abusiva l’attività di galvanica, si sprigionava in atmosfera un denso fumo nero, per un lasso temporale non ridotto, accompagnato da un odore acre, simile a quello della “gomma bruciata”, che perdurava nel corso della giornata e che affaticava la respirazione delle persone che abitavano nelle vicinanze, tanto che alcune di queste si risolsero a sporgere denuncia da cui presero avvio le indagini, da ciò desumendo il superamento della soglia di stretta tollerabilità delle immissioni olfattive, che integra in reato in esame.

La Corte territoriale ha perciò fatto corretta applicazione del principio secondo cui, in tema di emissioni in atmosfera di gas, vapori e fumi, al fine di definire il concetto di “molestia” che integra il reato di getto pericoloso di cose di cui all’art. 674 cod. pen., occorre distinguere tra l’attività produttiva svolta senza l’autorizzazione dell’autorità preposta, per la quale il contrasto con gli interessi tutelati va valutato secondo criteri di stretta tollerabilità, e quella esercitata secondo l’autorizzazione e senza superamento dei limiti consentiti, per la quale si deve far riferimento alla “normale tollerabilità” delle persone che si ricava dall’art. 844 cod. civ. e che ricorre sempre che l’azienda abbia adottato gli accorgimenti tecnici ragionevolmente utilizzabili per abbattere l’impatto delle emissioni sulla realtà esterna (Sez. 3, n. 54209 del 23/10/2018, dep. 04/12/2018, Tirapelle, Rv. 275298; 17/01/2008, Alghisi, Rv. 238447).

Nel caso in esame, come anticipato, con apprezzamento fattuale Sez. 3, n. 2475 del 09/10/2007, dep. logicamente motivato, la Corte territoriale ha ritenuto superato il limite della stretta tollerabilità, ciò che integra la fattispecie ex art. 674 cod. pen.

14. I restanti tre motivi, afferenti al trattamento sanzionatorio, sono manifestamente infondati perché generici e fattuali.

14.1. Quanto alla commisurazione della pena base per il più grave reato di cu all’art. 29-quaterdecies, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, la Corte ha osservato che lo scostamento rispetto al minimo edittale si giustifica in considerazione dell’elevato pericolo per l’ambiente e la salute pubblica, per la quantità e qualità dei rifiuti generati dall’attività illecitamente svolta in azienda e per la molteplicità di prescrizioni violate.

Si tratta di una motivazione che dà conto, in maniera non manifestamente illogica, dei parametri ex art. 133 cod. pen. ritenuti prevalenti nel caso concreto e che, pertanto, supera il vaglio di legittimità.

14.2. Le medesime considerazioni valgono in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, avendo la Corte territoriale per un verso, ritenuto assenti, nel caso in esame, elementi valutabili in tal senso, e, per altro verso, ravvisato, quale elemento ostativo, la pluralità di violazioni, anche sul piano edilizio, stante la copiosa presenza di amianto nella copertura dell’edificio, e i precedenti penali, non specifici ma molto gravi, di cui sono gravati entrambi i ricorrenti.

14.3. Quanto, poi, agli aumenti di pena a titolo di continuazione, pur nel contesto sopra ricordato, connotato da una pluralità di illeciti non certo trascurabili, la Corte territoriale ha comunque ridotto gli aumenti inflitti ex art. 81 cpv. cod. pen. per ciascuno dei reati satellite così da addivenire a una pena stimata congrua; si tratta, anche in tal caso, di una valutazione discrezionale logicamente motivata che deve essere confermata, non avendo peraltro i ricorrenti indicato alcun elemento che, ove fosse stato correttamente valutato, avrebbe condotto all’inflizione di una pena più mite.

15. Essendo i ricorsi inammissibili e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso il 17/09/2020.

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