BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Art. 5, c. 3 l.r. Sicilia n. 17/1994 – Sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso – Non irrogabilità della sanzione amministrativa pecuniaria – Questione di legittimità costituzionale – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
Provvedimento: Sentenza
Sezione: Giurisdizionale
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 14 Giugno 2021
Numero: 532
Data di udienza: 5 Maggio 2021
Presidente: Taormina
Estensore: Molinari
Premassima
BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Art. 5, c. 3 l.r. Sicilia n. 17/1994 – Sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso – Non irrogabilità della sanzione amministrativa pecuniaria – Questione di legittimità costituzionale – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
Massima
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA – 14 giugno 2021, n. 532
BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Art. 5, c. 3 l.r. Sicilia n. 17/1994 – Sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso – Non irrogabilità della sanzione amministrativa pecuniaria – Questione di legittimità costituzionale – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994 in relazione agli artt. 3, 9, 97 e 117 comma 2 lett. s) della Costituzione, il quale prevede che la sanzione amministrativa pecuniaria non sia irrogabile nel caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso.
Pres. Taormina, Est. Molinari – Regione Siciliana – Dipartimento regionale beni culturali e identità siciliana e altro (Avv. Stato) c. C.B. (avv.ti Caponnetto e Caponnetto)
Allegato
Titolo Completo
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA – 14 giugno 2021, n. 532SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA
Sezione giurisdizionale
ha pronunciato la presente
SENTENZA NON DEFINITIVA
sul ricorso numero di registro generale 99 del 2020, proposto dalla
Regione Siciliana – Dipartimento regionale beni culturali e identità siciliana, Regione Siciliana – Soprintendenza per i beni culturali e ambientali di Agrigento, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura distrettuale, domiciliataria ex lege in Palermo, via Valerio Villareale, 6;
contro
Signora Cornelia Bardas, rappresentata e difesa dagli avvocati Gaetano Caponnetto e Vincenzo Caponnetto, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Prima) n. 1809/2019.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della signora Cornelia Bardas;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 5 maggio 2021, tenutasi da remoto ed in modalità telematica ex art. 4 del d.l. n. 84 del 2020 e ex art. 25 del d.l. n. 137 del 2020, così come modificato dall’art. 6 del d.l. n. 44/2021, il Cons. Sara Raffaella Molinaro;
Considerati presenti, ex art. 4 comma 1 penultimo periodo d.l. n. 28/2020 e art. 25 d.l. 137/2020, gli avvocati Gaetano e Vincenzo Caponnetto e l’avv. dello Stato Francesco Pignatone;
Visto l’art. 36, comma 2, cod. proc. amm.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1.Con la sentenza in epigrafe appellata, n.1809 dell’8 luglio 2019, il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia – sede di Palermo ha accolto il ricorso di primo grado proposto dalla odierna parte appellata, signora Cornelia Bardas, volto a ottenere l’annullamento del D.D.S. n. 395 del 31 gennaio 2018, emesso ai sensi dell’art. 167 d. lgs. n. 42/2004, con cui le è stato ingiunto il pagamento della somma di € 9.912,16, quale indennità risarcitoria per il danno causato al paesaggio con la realizzazione di un fabbricato composto da più elevazioni fuori terra, sito nel Comune di Agrigento, Via Montaperto 9, foglio 163, particella 1097, sub 2 e 3, senza preventivi atti di assenso.
2. La signora Cornelia Bardas nell’esporre di avere ereditato un immobile, realizzato abusivamente, ubicato ad Agrigento, distinto in catasto al foglio n. 163, particella sub 1097 sub 2 e 3, ha dedotto le seguenti censure:
a) intrasmissibilità della sanzione agli eredi e violazione dell’art. 7 l. n. 689/1981;
b) sopravvenienza del vincolo paesaggistico e violazione del regime di irretroattività (art. 1 l. n. 689/1981);
c) intervenuta prescrizione (art. 28 l. n. 689/1981).
3. Con la sentenza impugnata il T.a.r ha:
a) respinto la doglianza incentrata sulla asserita intrasmissibilità a eredi e aventi causa dell’obbligo di pagare l’indennità ex art. 167 d. lgs. n. 42/2004;
b) disatteso il motivo relativo all’intervenuta prescrizione della pretesa azionata dall’Amministrazione regionale, alla stregua dell’art. 28 l. n. 689/1981, individuando il dies a quo nella data di rilascio della concessione in sanatoria (ravvisando una permanente antigiuridicità che cesserebbe soltanto con il conseguimento della concessione in sanatoria).
c) accolto, invece, la seconda censura incentrata sulla sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso argomentando sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1 l. n. 689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 della l.r. n. 17/1994.
4. Con ricorso n. 99 del 2020 l’Amministrazione regionale, già resistente e rimasta soccombente nel giudizio di prime cure, ha depositato l’atto di appello (tempestivamente passato per notifica) proponendo una articolata critica alla sentenza in epigrafe e chiedendone la riforma, in quanto:
a) incentrata su un errore fattuale, posto che alla data di commissione dell’abuso edilizio per cui è causa l’area sarebbe stata (già) interessata da un vincolo paesaggistico (e non soltanto archeologico) che avrebbe, quindi, sin dal 1971 preceduto il vincolo introdotto dalla l. 8.8.1985 n. 431;
b) incentrata sull’asserita obliterazione della circostanza che il sistema vigente all’epoca dell’abuso sanzionava l’esecuzione di opere abusive su un bene di interesse artistico o storico (art. 59 l. n. 1089/1939).
5. L’appellata Signora Cornelia Bardas ha tempestivamente depositato un appello incidentale, in seno al quale:
a) ha controdedotto alle critiche dell’appellante, sostenendo che troverebbe applicazione nel caso di specie l’art. 5 della l.r. n. 17/1994, secondo cui non è irrogabile la sanzione amministrativa pecuniaria in caso di vincolo paesaggistico sopravvenuto, e che, sino all’entrata in vigore della l. n. 431/1985 (in epoca quindi successiva alla realizzazione dell’abuso), l’area non era interessata da alcun vincolo paesaggistico;
b) ha incidentalmente censurato il capo di sentenza reiettivo della censura di cui al primo motivo del ricorso introduttivo, ribadendo la tesi della intrasmissibilità a eredi e aventi causa dell’obbligo di pagare la sanzione ex art. 167 d. lgs. n. 42/2004 affermando che tale obbligo incombeva unicamente sull’autore dell’abuso.
6. All’adunanza camerale del 26.2.2020 fissata per la delibazione della domanda cautelare di sospensione della provvisoria esecutività della impugnata decisione la trattazione della causa è stata differita al merito su richiesta dell’Amministrazione appellante.
7. Questo CGARS, con ordinanza collegiale 23.10.2020 n. 976, da intendersi integralmente richiamata e trascritta in questa sede, ha disposto una verificazione al fine di chiarire l’esatta collocazione dell’immobile per cui è lite rispetto alla perimetrazione della “zona B” di cui ai decreti ministeriali 12.6.1957, 16.5.1968 e 7.10.1971 ed al successivo decreto del Presidente della Regione siciliana n. 91 del 1991, nonché al precedente decreto Presidenziale 6.8.1966 n. 807.
8. In data 15.11.2020 il verificatore ha depositato la relazione di verificazione.
9. In data 30.11.2020 e in data 19.12.2020 l’appellata ha depositato memoria.
10. Alla pubblica udienza del 17.3.2021 la causa è stata posta in decisione e il Collegio ha reso l’ordinanza collegiale n. 222 del 19.3.2021, da intendersi integralmente richiamata nel presente provvedimento, con cui ha dato avviso alle parti ai sensi dell’art. 73 comma 3 c.p.a. circa le seguenti circostanze:
“- sebbene il provvedimento impugnato in primo grado recasse l’indicazione di “sanzione pecuniaria” e di “indennità per il danno arrecato al paesaggio” e non contenesse alcun riferimento alla l. n. 689/1981 le parti e il giudice di primo grado hanno argomentato le proprie considerazioni riferendosi a tale ultima disposizione di legge;
– con sentenza n. 95 del 9 febbraio 2021 questo C.G.A.R.S. ha – seppur senza prendere posizione sul punto in quanto superfluo rispetto al thema decidendi di quella controversia – fatto presente l’esistenza della più recente ricostruzione della fattispecie di cui all’art. 167 d. lgs. n. 42/2004 in termini difformi da quella fatta propria dalla sentenza impugnata nell’odierna causa e, per quanto si è sinora chiarito, dalle deduzioni contenute negli scritti difensivi delle parti dell’odierno processo (Cons. St., IV, 31.8.2017 n. 4109 e, più di recente, Cons. St., II, 30.10.2020 n. 6678)”.
11. Con la medesima ordinanza questo CGARS si è interrogato, considerata la “possibile refluenza di tale opinamento sugli argomenti centrale dell’odierno processo”, sulla eventuale condivisibilità di tale ultima ricostruzione consentendo alle parti di argomentare sul punto, oltre che “in ordine all’attuale vigenza del disposto di cui al comma 3 dell’articolo 5 della legge regionale 31 maggio 1994, n. 17, a seguito della sopravvenuta disposizione di cui all’art. 2 comma 46 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e, nel caso, circa la compatibilità costituzionale di quest’ultima in relazione, tra l’altro, al parametro di cui all’art.9 comma II della Costituzione”.
12. Alla odierna pubblica udienza del 5.5.2021 la causa è stata posta in decisione. In vista di essa tutte le parti hanno depositato memorie e scritti difensivi.
DIRITTO
13. Il Collegio ritiene in via preliminare di illustrare l’ordine espositivo con il quale verranno affrontate le questioni sottoposte allo scrutinio del Collegio nel presente giudizio, anche in relazione alla decisione di rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 comma 3 della l.r. siciliana n. 17/1994.
14. Si premette che:
– il presente giudizio è uno dei circa ottanta attualmente pendenti innanzi a questo Consiglio di Giustizia Amministrativa ed aventi ad oggetto immobili edificati abusivamente nell’area della Valle dei Templi in Agrigento nella medesima area;
– non può essere messa in discussione l’assoluta peculiarità della Valle dei Templi di Agrigento, espressione di una compenetrazione fra profili archeologici, artistici, storici e dell’ambiente circostante che attribuisce al sito il carattere dell’unicità: nel dicembre del 1997, nel corso della 21a riunione annuale del Comitato del Patrimonio mondiale dell’Unesco, tenutasi a Napoli (1-6 dicembre 1997), è stata iscritta nella Lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità con la denominazione “Area Archeologica di Agrigento” (il documento ICOMOS n. 831 descrive il sito e i principali monumenti in esso contenuti).
14.1. Ciò posto, si procede alla disamina delle questioni oggetto di scrutinio nel seguente ordine:
a) in primis – al fine di perimetrare gli argomenti effettivamente rilevanti – si esamina il secondo (ed infondato, ad avviso del Collegio) motivo dell’appello della difesa erariale;
b) successivamente si espone il convincimento del Collegio, in punto di fatto, sul regime vincolistico dell’area in cui insiste l’immobile per cui è causa (con reiezione della tesi della difesa erariale secondo cui al tempo dell’abuso sarebbe stato già presente un vincolo paesaggistico o che, comunque, il vincolo archeologico fosse “equipollente” a quello paesaggistico);
c) immediatamente di seguito, sono rappresentate le conseguenze che ciò comporta con riguardo all’odierno processo, qualificando la natura giuridica della fattispecie ex art. 167 d. lgs. n. 42/2004;
d) sono quindi esposte le ragioni per cui:
d1) si ritiene inaccoglibile il motivo dell’appello incidentale proposto dalla parte privata in punto di asserita intrasmissibilità agli eredi della sanzione ex art. 7 l. n. 689/1981, così ulteriormente (rispetto al punto a) perimetrando gli argomenti effettivamente conducenti;
d2) si ritiene inapplicabile alla fattispecie il disposto di cui all’art. 1 l. n. 689/1981.
e) infine, riassunte le ragioni della rilevanza della questione, è esaminato il tema della non manifesta infondatezza della questione concernente la compatibilità costituzionale dell’art. 5 comma 3 della l.r. siciliana n. 17/1994, considerato anche l’inquadramento giuridico di cui al punto c).
14.2. In ossequio alla condivisibile ricostruzione di cui a Cass. civ., ss. uu. 11.12.2007 n. 25837 (secondo cui avrebbero sempre carattere decisorio, e devono essere immediatamente impugnati ovvero essere oggetto di riserva di impugnazione, i capi della ordinanza di rimessione che decidono nei sensi di cui all’art. 279 comma 1 n. 4 c.p.c.) ed in linea con le prescrizioni di cui all’art. 36 comma 2 c.p.a., a miglior garanzia delle parti del processo, si provvederà a decidere le questioni di cui alle lettere da a) a d1) del superiore elenco con sentenza non definitiva, che tuttavia, al fine di consentire la unicità di esame alla Corte costituzionale, non verrà resa separatamente, ma unitamente alla ordinanza collegale di rimessione.
15. Si ribadisce che il provvedimento amministrativo impugnato è il decreto n. 395 del 31 gennaio 2018, emesso ai sensi dell’art. 167 d. lgs. n. 42/2004, con cui è stato ingiunto il pagamento della somma di € 9.912,16, quale indennità risarcitoria per il danno causato al paesaggio con la realizzazione di un fabbricato non previamente assentito.
15.1 Ciò premesso, proprio al fine di sgombrare il campo da censure che appaiono manifestamente inaccoglibili (e, insieme, per rendere manifesta la rilevanza della questione devoluta con la ordinanza collegale di rimessione) si esamina prioritariamente la seconda e subordinata censura contenuta nell’appello principale, imperniata sull’asserita obliterazione della circostanza che il sistema vigente all’epoca dell’abuso sanzionava l’esecuzione di opere abusive su un bene di interesse artistico o storico (art. 59 l. n. 1089/1939).
15.2. Il motivo non è fondato.
L’art. 59 l. n. 1089/1939 dispone, fra l’altro, che chi trasgredisce le disposizioni contenute negli artt. 11, 12, 13, 18, 19, 20 e 21 è tenuto a corrispondere allo Stato una somma pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione di valore subita dalla cosa per effetto della trasgressione, se la riduzione in pristino non è possibile.
L’obbligo di corrispondere la somma discende dall’effettuazione di attività non consentite (o almeno non consentite in mancanza di autorizzazione) su cose di interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, che appartengono a province, comuni ed enti e istituti legalmente riconosciuti o che, pur appartenendo a privati, siano state oggetto di specifica notifica ai sensi della stessa legge (artt. 11, 12, 13, 18, 19, 20 e 21).
La l. n. 1089/1939 tutela quindi beni determinati, da essa non derivano vincoli di zona o porzioni di territorio.
Nel caso di specie né le parti, né l’Amministrazione, e neppure il verificatore, hanno mai reso edotto il Giudice di primo grado o questo Collegio della sussistenza di detto vincolo specifico sul bene di proprietà dell’appellata, né risulta altrimenti che esso sia mai stato apposto né gli atti amministrativi impugnati vi hanno mai fatto riferimento.
Neppure sarebbe possibile traslare l’impianto normativo della l. n. 1089/1939 ai beni (in passato) oggetto di tutela ai sensi della l. n. 1497/1939, senza al contempo porre in essere una operazione ermeneutica contra legem, in sfavor rei, e contraria alla lettera delle norme invocate ed applicabili.
Il motivo è, all’evidenza, manifestamente infondato, armonicamente alle conclusioni da tempo raggiunte dalla giurisprudenza amministrativa (ex aliis Cons. St., VI, 12.11.1990 n. 951) in punto di distinzione dell’impianto di cui alla l. n. 1089/1939 rispetto a quello di cui alla l. n. 1497/1939.
16. Ciò rilevato, il Collegio ritiene a questo punto di doversi addentrare, ai fini della trattazione dell’appello incidentale, del primo motivo dell’appello principale e della rimessione alla Corte costituzionale, nell’inquadramento giuridico dei vari aspetti che contraddistinguono l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 167 comma 5 del d. lgs. n. 42/2004 e dell’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994 al caso di specie.
16.1. Come brevemente chiarito nella parte “in fatto” della presente decisione, il primo giudice ha accolto il ricorso di primo grado (anche richiamando per relationem numerosi propri precedenti), sulla scorta di un triplice argomentare fattuale e giuridico:
a) l’insussistenza di alcun vincolo paesaggistico sull’area ove venne edificato l’immobile, al momento in cui l’abuso venne commesso (fino al sopravvenire della l. n. 431/1985, c.d. legge Galasso);
b) la sussistenza, sull’area predetta, di un vincolo archeologico al momento in cui l’abuso venne commesso;
c) la non assimilabilità del vincolo archeologico sussistente sull’area ove venne edificato l’immobile ad un vincolo paesaggistico, ai fini dell’applicabilità dell’art. 167 del d. lgs. n. 42/2004.
Di conseguenza, il Tar ha accolto la censura incentrata sulla sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso, qualificando l’indennità qui controversa come sanzione amministrativa, ed argomentando quindi sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1 della l. n. 689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 della l.r. n. 17/1994.
16.2. Quanto ai primi tre profili dell’iter motivazionale seguito dal Tar (precedenti punti a, b e c) il Collegio ne condivide l’approdo e ritiene, di converso, che le censure articolate dalla difesa erariale non meritino condivisione.
16.3. Come emerge dalla verificazione effettuata, e come peraltro si darà conto brevemente alla luce dell’analisi dei testi normativi susseguitesi, ritiene il Collegio che – per quanto paradossale ciò possa sembrare tenuto conto delle peculiari caratteristiche e dell’evidente pregio dell’area geografica in esame – sino al 1985 sull’area dove venne perpetrato l’abuso non insisteva alcun vincolo paesaggistico,e che non possa neppure seguirsi la difesa erariale (primo motivo dell’appello principale) laddove questa sostiene che il vincolo archeologico sussistente potesse “parificarsi” ad un vincolo paesaggistico (o, per dirla altrimenti ricomprendesse profili paesaggistici).
16.4. Detta conclusione si spiega in ragione dell’evoluzione normativa intervenuta in materia e delle circostanze di fatto che sono di seguito illustrate.
L’evoluzione normativa può essere così riassunta:
– a seguito delle attività della Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali della Provincia di Agrigento, il Ministro della pubblica istruzione, con decreto 12.6.1957 “Dichiarazione di notevole interesse pubblico della zona della Valle dei Templi e dei punti di vista della città sulla Valle stessa, siti nell’ambito del comune di Agrigento”, sottopose a tutela paesistica un’ampia zona del territorio comunale;
– a seguito della “frana di Agrigento” venne approvato il d.l. 30.7.1966 n. 590, “Dichiarazione di zona archeologica di interesse nazionale della Valle dei Templi di Agrigento”, convertito in l. 28.9.1966 n. 749;
– a distanza di sola una settimana il Presidente della Regione Siciliana intervenne nella questione emanando il decreto presidenziale 6.8.1966 n. 807 “Dichiarazione di notevole interesse pubblico della zona della Valle dei Templi e dei punti di vista del belvedere del comune di Agrigento”, che sottopose una più ampia zona del territorio comunale a vincolo paesistico;
– in esecuzione l. 28.9.1966 n. 749, di conversione del d.l. 30.7.1966 n. 590, venne emanato dal Ministero della pubblica istruzione di concerto con il Ministero per i lavori pubblici, il decreto 16.5.1968, “Determinazione del perimetro della Valle dei Templi di Agrigento, delle prescrizioni d’uso e dei vincoli di in edificabilità” (c.d. Gui-Mancini) – poi modificato dal decreto 7.10.1971 “Modifiche del decreto ministeriale 16 maggio 1968, concernente la determinazione del perimetro della Valle dei Templi di Agrigento, prescrizioni d’uso e vincoli di in edificabilità” (c.d. Misasi-Lauricella) -, che vincolò e delimitò la Valle dei Templi, definendo e suddividendo l’area vincolata in cinque zone, dalla A alla E, aventi ciascuna specifica prescrizione, oltre ad avere introdotto (la Misasi-Lauricella) il nulla osta della Soprintendenza ai BB.CC.AA. per la realizzazione di infrastrutture urbanistiche;
– in data 17.8.1985 venne pubblicata nella G.U.R.S. la l. 10.8.1985 n. 37 “Nuove norme in materia di controllo dell’ attività urbanistico-edilizia, riordino urbanistico e sanatoria delle opere abusive”, il cui art. 25, “Parco archeologico di Agrigento”, prevedeva al comma 1, che “Entro il 31 ottobre 1985, il Presidente della Regione, di concerto con gli Assessori regionali per i beni culturali e per il territorio e l’ ambiente, sentiti i pareri del Sovrintendente ai beni culturali di Agrigento e del Consiglio regionale per i beni culturali ed ambientali, provvede ad emanare il decreto di delimitazione dei confini del Parco archeologico della Valle dei Templi di Agrigento ed all’ individuazione dei confini delle zone da assoggettare a differenziati vincoli, previo parere della competente Commissione legislativa dell’ Assemblea regionale siciliana”: la delimitazione dei confini del Parco archeologico venne stabilita con il decreto del Presidente della Regione Siciliana 13.6.1991 n. 91 “Delimitazione dei confini del Parco Archeologico della Valle dei Templi di Agrigento” (c.d. Nicolosi), che fece coincidere il confine del Parco archeologico di Agrigento con il confine della zona A – delimitata con l’art. 2 del decreto ministeriale 16.5.1968 (c.d. Gui-Mancini) e poi modificato con decreto ministeriale 7.10.1971 (c.d. Misasi-Lauricella) – e che ampliò anche la zona “B”, includendo Cozzo S. Biagio, Contrada Chimento ed una zona a nord della Contrada Mosè.
16.5. Quanto alle circostanze di fatto, premesso che l’appellata ha dichiarato che il fabbricato è stato realizzato nel 1973/1976 (e tale affermazione è rimasta incontestata) dalla verificazione emerge che:
– rispetto ai vincoli imposti dal decreto ministeriale 12.6.1957 e dal decreto presidenziale n. 807 del 6.8.1966 “il fabbricato de quo non ricade all’interno della zona perimetrata oggetto del vincolo archeologico e paesistico”;
– rispetto al vincolo imposto dal decreto 16.5.1968 e dal decreto 7.10.1971 “il fabbricato de quo ricade all’interno della zona perimetrata quale Zona B”;
– rispetto al vincolo imposto dal decreto del Presidente della Regione Siciliana 13.6.1991 n. 91 “il fabbricato de quo permane all’interno della zona perimetrata quale Zona “B”.
Quindi, in disparte il vincolo paesaggistico di cui alla legge Galasso ed al successivo d. lgs. n. 42/2004, in base alla normativa vigente al tempo della costruzione (1973/76), il manufatto oggetto di controversia era sottoposto a vincolo archeologico in base al decreto 16.5.1968 e al decreto 7.10.1971, così come per il successivo decreto del Presidente della Regione Siciliana 13.6.1991 n. 91.
Di converso deve considerarsi accertato che l’area non era soggetta a vincolo paesaggistico all’epoca della costruzione, in quanto né il decreto del 1968 né il decreto 7.10.1971 lo imponevano.
16.6. Il vincolo paesaggistico è quindi sopravvenuto rispetto alla realizzazione del manufatto per cui è lite.
Così disattesa la tesi proposta principaliter dalla difesa erariale secondo cui nell’area insisteva un vincolo paesaggistico al tempo della commissione dell’abuso, il Collegio deve farsi carico dell’ulteriore prospettazione critica contenuta nel primo motivo dell’appello, secondo cui il vincolo archeologico imposto sull’area avesse una portata effettuale identica ad un vincolo paesaggistico, e/o ricomprendesse quest’ultimo.
Come avvertito nella premessa, anche tale profilo critico non è persuasivo.
Osta, all’accoglimento di tale prospettazione:
a) la diversa natura dei due vincoli presi in considerazione;
b) il dato letterale: d.m. 16.5.1968;
c) in termini assorbenti, il chiaro dettato della sentenza della Corte costituzionale 11.4.1969 n. 74.
Nel periodo storico che ha preceduto e accompagnato la realizzazione dell’immobile abusivo (fra il 1968, anno dell’entrata in vigore del d.m. 16 maggio 1968, e l’anno 1973, di completamento dell’immobile abusivo) l’efficacia del vincolo paesaggistico su bellezze di insieme, nei confronti dei proprietari, possessori o detentori, ha inizio dal momento in cui, ai sensi dell’art. 2, ultimo comma, della l. n. 1497/1939, l’elenco delle località, predisposto dalla Commissione ivi prevista e nel quale è compresa la bellezza di insieme, viene pubblicato nell’albo dei Comuni interessati (Corte cost., 23.7.1997 n. 262).
Il vincolo è apposto attraverso un procedimento tipico, che si conclude con un provvedimento finale costitutivo di obblighi (art. 7 l. n. 1497/1939) a carico dei soggetti “proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, dell’immobile il quale sia stato compreso nei pubblicati elenchi delle località” ed è destinato a venire meno quando l’autorità preposta alla approvazione definitiva rifiuti l’approvazione (anche parzialmente eliminando l’efficacia rispetto a taluni immobili) ovvero intervenga una successiva modifica dell’elenco suddetto.
La Consulta ha sottolineato (per differenza con il sistema introdotto dalla l. n. 431/1985, ora contenuto nel d. lgs. n. 42/2004) che la l. n. 1497/1939 prevede una tutela diretta alla preservazione di cose e località di particolare pregio estetico isolatamente considerate.
L’art. 2-bis del d.l. 30.7.1966, n. 590, convertito, con modificazioni, nella l. 28 settembre 1966, n. 749, che ha dichiarato la Valle dei Templi di Agrigento zona archeologica di interesse nazionale, e il successivo d.m. 16.5.1968 non solo fanno esplicito riferimento al vincolo archeologico ma non incanalano detta qualificazione nell’alveo indicato dalla l. n. 1497/1939, così apponendo un vincolo avente una natura corrispondente a quella dichiarata, appunto archeologica (e non paesaggistica).
Del resto la Corte costituzionale ha affermato che “l’art. 2 bis ha disposto un vincolo su la zona dei Templi (rimettendo all’autorità amministrativa la determinazione del perimetro di essa) in conseguenza di un fatto di eccezionale gravità, qual era stato il movimento franoso del 1966, ed in considerazione del preminente carattere archeologico della zona e dell’interesse generale a impedire ulteriori effetti dannosi di quell’evento” (Corte cost. 11.4.1979 n. 64).
Il d.m. 7.10.1971, successivo a Corte costituzionale n. 74/1969, recante la nuova perimetrazione del sito, non solo non scalfisce la tesi della natura non paesaggistica del vincolo originariamente apposto alla Valle dei Templi, ma ne avalla l’impostazione, laddove, nelle premesse, ravvisa la finalità dell’intervento normativo nella volontà di consentire “le ricerche archeologiche e le opere di restauro, sistemazione e valorizzazione della zona archeologica e dei suoi monumenti, nonchè le opere necessarie alla custodia dei reperti antichi”.
16.7. Deve quindi concludersi che il vincolo archeologico imposto sull’area non avesse una portata effettuale identica al vincolo paesaggistico e/o non ricomprendesse quest’ultimo, non ricadendo l’immobile nel perimetro del vincolo paesistico.
Pertanto il Collegio è convinto che anche tale prospettazione critica dell’appello principale vada disattesa.
17. La superiore ricostruzione, quindi, è conforme a quella del Tar, in punto di determinazione dell’assetto vincolistico dell’area ove è stato perpetrato l’abuso ed al tempo dello stesso (sul punto anche Cass. pen., III, 4.9.2014 n. 36853).
17.1. Il Tar ha da ciò fatto discendere le conseguenze demolitorie censurate dalla difesa erariale, ritenendo che la sanzione ex art. 167 d. lgs. n. 42/2004 vada ascritta nel novero delle sanzioni amministrative e che il canone della irretroattività desumibile dall’art. 1 l. n. 689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 della l.r. n. 17/1994 impedisca di ritenere legittimo il provvedimento impugnato.
17.2. Tale questione richiede una attenta, seppur sintetica, analisi, per la quale è necessario inquadrare il provvedimento impugnato e l’indennità che ne costituisce l’oggetto.
Come è noto, per lungo tempo la giurisprudenza ha qualificato l’indennità di cui all’art. 15 l. n. 1497/1939 (trasfusa poi nell’art. 164 d. lgs. n. 490/1999, ed oggi nell’art. 167 d. lgs. n. 42/2004) come sanzione amministrativa (Cons. St.: V, 24.4.1980 n. 441; 24.11.1981 nn. 700 e 702; VI, 29.3.1983 n. 162; VI, 4.10.1983 n. 701; VI, 5.8.1985 n. 431; VI, 16.5.1990 n. 242, VI, 31.5.1990 n. 551; VI, 15.4.1993 n. 290; VI, 2.6.2000 n. 3184; VI, 9.10.2000 n. 5386; IV, 12.11.2000 n. 6279; IV, 2.3.2011 n. 1359; V, 26.9.2013 n. 4783; VI, 8.1.2020 n. 130; II, 25.7.2020 n. 4755; CGARS: sez. cons. 16.11.1993 n. 452; sez. giur. 13.3.2014 n. 123; 17.2.2017 n. 58; 23.3.2018 n. 168; 17.5.2018 n. 293; 22.8.2018 n. 484; 29.11.2018 n. 958; 25.3.2019 n. 251, 20.3.2020 n. 198; 1.7.2020 n. 505; 3.7.2020 n. 527; Cass.: sez. un., 18.5.1995 n. 5473; 10.8.1996 n. 7403; 4.4.2000 n. 94; 10.3.2004 n. 4857; 10.3.2005 n. 5214), specificando in alcune occasioni che l’assenza di danno sostanziale al paesaggio non esonera dalla sanzione, essendovi comunque sempre un danno formale per aver edificato senza nulla osta paesaggistico (Cons. St., V, 1.10.1999 n. 1225; VI, 2.6.2000 n. 3184; VI, 9.10.2000 n. 5386; 31.10.2000 n. 5828; IV, 27.10.2003 n. 6632; IV, 12.3.2011 n. 1359; V, 26.9.2013 n. 4783; VI, 8.1.2020 n. 130; II, 27.5.2020 n. 4755).
Nondimeno, nell’ambito degli arresti richiamati, alla qualificazione dell’indennità in discorso quale sanzione amministrativa pecuniaria non è seguita l’integrale applicazione della disciplina sistematica di cui alla l. n. 689/1981 (seppur nei “limiti di compatibilità” scolpiti sub art. 12) rinvenendosi almeno tre punti di frizione: l’irretroattività, il regime della prescrizione e l’intrasmissibilità agli eredi ed aventi causa; la sentenza oggi appellata (come del resto le altre, numerose, rese sia dal medesimo Tar -ed avverso le quali pendono ricorsi in appello presso questo CGA- ma anche da altra qualificata giurisprudenza amministrativa di primo grado e dal Consiglio di Stato)non fa eccezione.
In seno ad essa, infatti:
a) in primis si sostiene tout court l’applicabilità l. n. 689/1981 (in quanto si qualifica il provvedimento impugnato quale sanzione amministrativa);
b) successivamente si applicano le disposizioni della predetta legge in punto di irretroattività (art. 1) e quanto al regime della prescrizione (art 28);
c)infine, se ne ritiene inapplicabile il regime in punto di intrasmissibilità agli eredi (art. 7), nella evidente difficoltà di contrastare approdi pacifici della giurisprudenza amministrativa e penale formatasi sull’ ambulatorietà dell’ordine di demolizione (Cons. St., IV, 12.4.2011 n. 2266; IV, 24.12.2008 n. 6554; nonché Cass., III, 15.7.2020 n. 26334; III, 22.10.2009 n. 48925) e, – si può ipotizzare- nel convincimento che l’affermazione di un simile principio renderebbe il precetto primario facilmente eludibile.
17.3. Il Collegio ritiene, non solo per la segnalata incoerenza intrinseca (che, semmai, è soltanto la “spia” di una ricostruzione complessivamente non appagante: si veda peraltro la uniforme giurisprudenza che esclude, sempre e comunque, l’applicazione dell’art. 14 l. n. 689/1981 alla fattispecie in esame: ex aliis CGARS, sez. giurisdizionale, 23.5.2018 n. 300) e sulla scorta di un più recente e meditato orientamento giurisprudenziale (Cons. St., IV, 31.8.2017 n. 4109; Id., II, 30.10.2020 n. 6678), che l’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d. lgs. n. 42/2004 abbia una funzione riparatoria, essendo funzionale alla cura dell’interesse paesaggistico, e quindi che alla medesima non si applichi la l. n. 689/1981.
17.4. L’art. 167 d. lgs. n. 42/2004 stabilisce, al comma 1, la regola generale per cui la violazione della disciplina paesaggistica contenuta nel Titolo I della Parte terza del codice dei beni culturali e del paesaggio determina per il trasgressore l’obbligo di rimessione in pristino a proprie spese.
Alla regola generale si sottrae la fattispecie di accertamento della compatibilità paesaggistica disciplinata al successivo comma 4, ai sensi del quale l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica nei seguenti casi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001.
A tal fine, in base al successivo comma 5:
– il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dai suddetti interventi presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi;
– l’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni;
– qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione (l’importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima) mentre in caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria.
Il detto comma 5 dell’art. 167 dispone altresì che “la domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell’art. 181 comma 1-quater si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma”, che disciplina, fra l’altro, il pagamento della somma dovuta dal trasgressore.
Ai sensi dell’art. 181 comma 1-quater d. lgs. n. 42/2004 il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 1-ter (che coincidono con i sopra riferiti interventi di cui all’art. 167 comma 4), presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi e l’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni (con disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 167, comma 5).
17.5. Da quanto sopra discende che:
– l’istanza presentata dal proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dai suddetti interventi, avvia un procedimento avente due finalità connesse, essendo volto all’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi e, nel contempo, se il risultato dell’attività di verifica è positivo, alla comminatoria del pagamento della somma di cui al comma 5 del predetto art. 167;
– la soddisfazione dell’interesse pretensivo del privato (a vedere riconosciuta la conformità paesaggistica del manufatto abusivo) porta con sé, quindi, necessariamente, in funzione di contrappeso, la debenza della somma;
– l’obbligo di corrispondere la somma sorge con l’adozione dell’atto favorevole ma non è esigibile fino alla liquidazione dell’ammontare (l’intervallo procedimentale successivo all’accertamento della conformità ambientale è funzionale proprio, e solo, come si vedrà infra, alla quantificazione del dovuto);
– nella prospettiva pubblicistica l’interesse paesaggistico è perseguito superando, innanzitutto, l’alternativa fra, da un lato, incompatibilità paesaggistica e riduzione in pristino (comma 1 dell’art. 167 d. lgs. n. 42/2004) e, dall’altro lato, compatibilità paesaggistica dell’intervento ai sensi del comma 4 dell’art. 167 e debenza della somma di denaro;
– al rigetto della domanda consegue quindi la misura ripristinatoria per eccellenza, riposante nella demolizione (Cons. St., VI, 21.12.2020 n. 8171 e 15.4.1993 n. 290).
– diversamente, l’accertamento della compatibilità paesaggistica determina, in ragione del principio di efficienza dell’intero sistema (l’attuale conformità paesaggistica rende recessiva la precedente irregolarità), il superamento della pretesa di assicurare il ripristino dello status quo ante;
– la cura del relativo interesse impone comunque all’Amministrazione di tenere in considerazione l’abuso commesso facendone sopportare il costo (per la collettività, nei termini che si diranno infra) al privato istante attraverso il pagamento di una somma di denaro, quantificata, nei termini di cui al comma 5 dell’art. 167 d. lgs. n. 42/2004, previa perizia di stima, e avente anche una finalità general-preventiva;
– i provvedimenti di accertamento della compatibilità paesaggistica e di condanna al pagamento della somma di denaro, nonché di quantificazione del dovuto, concorrono tutti alla cura del paesaggio e si pongono, fra loro, in una relazione di necessarietà, nel senso che detto interesse pubblico è adeguatamente amministrato solo in quanto siano adottati tutti;
– il collegamento pubblicistico fra le determinazioni dell’Amministrazione (compatibilità paesaggistica, condanna al pagamento di una somma di denaro e quantificazione dell’importo) è reso evidente dalla disposizione che prevede che l’istanza presentata dal privato sia funzionale non solo all’accertamento della compatibilità paesaggistica ma anche alla quantificazione del pagamento della somma di denaro;
– l’obbligo di pagare la somma di denaro deriva dalla legge e diviene attuale con l’accertamento positivo della conformità paesaggistica dell’intervento (che invece, all’accertamento negativo, segue la riduzione in pristino),
– segnatamente l’an della debenza è reso certo al momento della verifica (positiva) di conformità paesaggistica del manufatto; nondimeno, posto che esso non è ancora liquido, non è esigibile fino all’avvenuta determinazione del quantum;
– la quantificazione della somma dovuta è connotata dalla cura dell’interesse paesaggistico essendo effettuata infatti in base a una stima, nel “maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito”;
– a quest’ultima è riconducibile una duplice ratio;
– innanzitutto essa è funzionale alla cura dell’ambiente; in tal senso il parametro di quantificazione prescelto non è avulso dalla necessità di superare la prospettiva ripristinatoria, di per sé rinvenibile nella sola riduzione in pristino, ed è riconducibile alla necessità di calmierare l’esternalità negativa derivante dalla trasgressione paesaggistica, connessa ad un interesse in parte adespota, anche in relazione alla sua connessione con il valore dell’ambiente e delle esigenze di preservarlo alle generazioni future;
– ciò è reso evidente dall’utilizzo delle somme ricavate per “l’esecuzione delle rimessioni in pristino” e per “finalità di salvaguardia nonché per interventi di recupero dei valori paesaggistici e di riqualificazione degli immobili e delle aree degradati o interessati dalle rimessioni in pristino” (comma 6 dell’art. 167 d. lgs. n. 42/2004) e dalla quantificazione della stessa in modo non avulso dalla trasgressione commessa, dal momento che uno dei parametri è costituito dal danno arrecato;
– la precedente normativa infatti, contenuta nell’art. 15 l. n. 1497/1939, nel d.m. 26.9.1997, poi trasfuso nell’art. 164 d. lgs. n. 490/1999, qualificava l’indennità come risarcitoria, così evidenziandone la funzione di compensazione della collettività dell’utilità perduta nel tempo dell’abuso, valorizzando in modo astratto l’oggetto di tutela, l’interesse paesaggistico, cioè considerandolo nel suo valore di scambio;
– in tal senso si può interpretare la recente giurisprudenza del Consiglio di Stato che delinea la condanna pecuniaria in esame come “sanzione riparatoria alternativa” al ripristino dello status quo ante, così non applicando la disciplina contenuta nella l. n. 689/1981 e, in particolare, la norma sulla trasmissibilità agli eredi (Cons. St., VI, 21.12.2020 n. 8171; Id., II, 30.10.2020 n. 6678);
– il ripristino non deve, infatti, intendersi quale riaffermazione della situazione precedente all’abuso (che l’istituto in esame è volto proprio a superare) ma sta a indicare la finalità di risolvere, pro futuro, l’intervenuta turbativa degli interessi, al fine di presidiare questi ultimi (attraverso la debenza di una somma di denaro commisurata alla maggior somma fra il danno prodotto e le connesse conseguenze profittevoli);
– nondimeno la corresponsione della somma di denaro svolge altresì una funzione di deterrenza derivante dall’effetto afflittivo, del quale è indice la terminologia utilizzata dal legislatore, che fa riferimento alla “sanzione”, il criterio normativo di quantificazione, basato sul “maggiore importo” tra il danno arrecato e il profitto conseguito, potenzialmente foriero di una condanna per un importo superiore rispetto al pregiudizio economico prodotto, e la stessa dinamica sottesa all’istituto di cui all’art. 167 d. lgs. n. 42/2004. La tenuta del sistema non può infatti essere messa in pericolo da una sopravvenuta compatibilità ambientale, idonea, in tesi, a far venir meno la precedente trasgressione, pena l’indebolimento del vincolo paesaggistico, la cui violazione potrebbe essere percepita come non decisiva, nella speranza che in futuro venga meno, così eliminando anche le conseguenze della situazione antigiuridica antecedente;
– la portata afflittiva è comunque secondaria, considerata l’irrilevanza, ai fini dell’integrazione dei presupposti di applicazione della condanna pecuniaria, dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa (elemento determinante per qualificare una fattispecie come sanzionatoria secondo l’Ad. plen. 11.9.2020 n. 18) e dal fatto che la condanna pecuniaria non costituisce una conseguenza diretta dell’illecito commesso;
– essa è infatti principalmente il portato di un provvedimento favorevole (l’accertamento della compatibilità ambientale) di cui costituisce il corollario e il contrappeso;
– la funzione della condanna pecuniaria di cui all’art. 167 comma 5 è, quindi, solo parzialmente riconducibile all’afflizione che connota sia il danno punitivo (SS. UU. 5.7.2017 n. 16601 e 6.5.2015 9100), sia la sanzione amministrativa (fattispecie che richiedono entrambe una previsione di legge, ai sensi rispettivamente dell’art. 25 comma 2 Cost e dell’art. 23 Cost., nel caso di specie da rinvenirsi nella norma di legge appena citata);
– nel complesso l’imposizione del pagamento della somma di denaro ha quindi una finalità compensativa del danno prodotto e solo in parte afflittiva;
– il relativo procedimento costituisce una manifestazione tipica di potestà amministrativa, nell’ambito dei quale il cittadino versa in una posizione di interesse legittimo e ciò anche considerando la sua componente afflittiva (secondaria e servente), e diversamente rispetto all’esercizio del solo potere punitivo da parte dell’Amministrazione, nel quale non vi è ponderazione di interessi (Cass., I, 23.6.1987 n. 5489), essendo ricollegato al vincolato accertamento, secondo la procedura di cui alla l. n. 689/1981, del verificarsi concreto della fattispecie legale, cui corrisponde il diritto soggettivo dell’intimato a non subire l’imposizione di prestazioni fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, con conseguente devoluzione delle relative controversie, in assenza di ipotesi di giurisdizione esclusiva, al giudice ordinario (Cons. St., V, 24.1.2019 n. 587);
– dal punto di vista strutturale il procedimento in esame vede una prima fase deputata a verificare la compatibilità paesaggistica (e la connessa, e dovuta, condanna al pagamento della somma di denaro) mentre il successivo intervallo temporale, finalizzato a quantificare l’importo, è meramente servente, essendo necessario per rendere liquido ed esigibile l’importo e quindi effettivo il rimedio (rispetto al precedente abuso) dell’ordine di pagamento;
– al procedimento si applicano i principi dell’attività amministrativa, pur considerandone il (parziale) carattere afflittivo: la l. n. 241 del 1990 offre la regolamentazione di base di qualsiasi procedimento amministrativo che non sia accompagnato da una normativa specifica; la l. n. 689/1981 non può essere applicata al di là della categoria delle sanzioni amministrative pecuniarie (Cons. St., II, 4.6.2020 n. 3548), “non può che tornare a trovare applicazione quello generale di cui alla l. n. 241/1990” (Cons. St., II, 4.6.2020 n. 3548) e, infatti, alle sanzioni pecuniarie sostitutive di una misura ripristinatoria di carattere reale non si applica la l. n. 689/1981 (CGARS, 9.2.2021 n. 95 e Cons. St., VI, 20.10.2016 n. 4400);
– la ragione dell’impostazione è rinvenibile nell’interrelazione reciproca della doppia finalità, che non può andare a nocumento dell’interesse pubblico che il provvedimento mira a tutelare dal momento che – come già detto – prevalgono le istanze di cura di detto interesse (mentre la potestà afflittiva è recessiva) e che in ogni caso entrambe le funzioni assolte di cura del bene paesaggistico leso e di deterrenza, sono comunque destinate da ultimo a tutelare l’interesse della collettività, alla quale, in ultima istanza, è comunque preordinata anche la potestà punitiva dello Stato: “La sanzione in “senso stretto” è irrogata tramite un procedimento diverso da quello previsto dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, che fa capo alla l. n. 689/1981, è garantita dai principi di legalità, personalità e colpevolezza (per quanto mutuati dalla legislazione ordinaria e non dalla Costituzione), è suscettibile di integrale riesame giudiziale (senza, cioè, alcun limite di “merito” amministrativo), laddove alle sanzioni “altre” si applicano i principi dell’attività amministrativa tradizionale (dettate dalla legge generale sul procedimento amministrativo)” (Cons. St., V, 24.1.2019 n. 587).
18. Ciò posto, (con riferimento ai tre “punti di frizione” prima delineati) si osserva che:
a) la questione della prescrizione non viene in rilievo nel presente processo, in quanto il primo Giudice ha respinto la censura e la parte originaria ricorrente non ha appellato incidentalmente detto capo di sentenza (e comunque, sul punto, a soli fini di comprova della coerenza della ricostruzione complessiva patrocinata dal Collegio, si rinvia alla sentenza di questo CGARS n. 95 del 2021, che perviene comunque alla conclusione della prescrizione quinquennale, senza tuttavia fondarla sull’art. 28 l. n. 689/1981);
b) assumono invece rilevanza le tematiche concernenti l’irretroattività del vincolo paesaggistico imposto sull’area (in ordine alla quale si è prima chiarito, in punto di fatto, orientamento del Collegio) e l’intrasmissibilità della sanzione ad eredi ed aventi causa.
Su dette tematiche si sofferma immediatamente di seguito il Collegio.
18.1. Come già rammentato nella parte “in fatto”, con l’unica censura incidentale proposta, l’appellata si è doluta del capo di sentenza reiettivo del motivo articolato in primo grado teso a sostenere l’illegittimità dell’ingiunzione di pagamento in ragione dell’intrasmissibilità dell’obbligo di corrispondere l’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d. lgs. n. 42/2004 (l’attuale proprietaria ha ereditato l’immobile quando l’abuso era già stato compiuto).
18.2. Il motivo non è meritevole di accoglimento.
Per i motivi già esposti non può trovare ingresso nella disciplina dell’istituto l’intrasmissibilità prevista per le sanzioni amministrative pecuniarie dall’art. 7 l. n. 689/1981 (che deriva dalla qualificazione della somma dovuta quale “vera e propria sanzione amministrativa”, così CGARS 10.4.2017 n. 175 e 27.11.2017 n. 520), avendo l’istituto in esame una portata afflittiva solo parziale, così da determinare, come già visto, la non applicazione l. n. 689/1981.
La questione della trasmissibilità agli eredi deve quindi essere affrontata sulla base delle regole generali del procedimento amministrativo.
Il caso si connota per il fatto che inizialmente il proprietario dell’immobile ha deciso di agire al di fuori delle regole pubblicistiche di edificazione commettendo quindi un abuso passibile di conseguenze sfavorevoli a carico del medesimo.
Nondimeno il legislatore, allorquando ciò avviene (laddove, cioè, il privato non si munisce del titolo abilitante prima dell’intervento edilizio), consente ugualmente il superamento del precedente abuso attraverso la presentazione di una specifica domanda in tal senso, che attesti la conformità dell’intervento alla disciplina del governo del territorio, comprensiva anche della tutela paesaggistica (come si evince dall’art. 33 l. n. 47/1985 e dall’art. 23 l.r. n. 37/1985).
Il rapporto con l’Amministrazione (e l’interesse legittimo che connota la situazione del privato) si instaura con l’avvio del procedimento amministrativo, che pone il privato nella situazione di interesse legittimo ed in seguito al quale si attualizza il potere-dovere dell’Amministrazione di provvedere.
In quel momento è legittimato a presentare la domanda il titolare della situazione di base, nel caso di specie del diritto di proprietà, sul quale insiste l’interesse legittimo.
Se, nel corso del procedimento amministrativo, viene meno il titolare della situazione di base, si ha successione nell’interesse legittimo (da accertare e valutare da parte dell’Amministrazione) in quanto e nei termini in cui la situazione di base sia trasmissibile.
Nel caso di specie si è verificata una successione nella titolarità della proprietà dell’immobile abusivo. Sicché l’erede, se intenzionato a non demolirlo, è tenuto a completare la procedura di sanatoria. Altrimenti, ricadono su di esso, in quanto erede del bene (e soggetto che, in quanto tale, può goderne e disporne), le conseguenze negative dell’abuso commesso. L’ingiunzione de qua, resa a fronte di un’attività edilizia abusiva, si atteggia infatti “come misura reale imposta per ragioni di tutela del territorio, priva di finalità punitive ed efficace contro ogni soggetto che vanti sul bene così realizzato sine titulo un diritto reale o personale di godimento, indipendentemente dall’esser stato, o no, l’autore dell’illecito” (Cons. St., VI, 21.12.2020 n. 8171).
In termini più generali, infatti, il carattere reale della misura riparatoria e la sua precipua compensazione di valori di primario rilievo non vengono alterati nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell’abuso, sempre che questi sia intenzionato a non demolire l’immobile: “il carattere reale dell’abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva” (Ad. plen. 17.10.2017 n. 7 con riferimento all’abuso edilizio).
D’altra parte, l’acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti capo al precedente proprietario, ivi compresa l’abusiva trasformazione, godendo del bene e correlativamente subendo gli effetti del medesimo, pur essendo l’abuso commesso prima del passaggio di proprietà (Cons. St., II, 5.11.2019 n. 7535).
Ne deriva che l’appellante incidentale non può rivendicare l’alterità soggettiva in funzione impeditiva rispetto alla debenza della somma: la giurisprudenza prima richiamata coglie correttamente (quanto all’ordine di demolizione di cui al d.P.R. n. 380 del 2001) l’ambulatorietà del ripristino e l’inefficacia dissuasiva di ogni previsione ripristinatoria ove la stessa potesse essere frustrata dismettendo la titolarità dell’immobile: affermare l’intrasmissibilità della previsione ex art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 sarebbe incoerente sotto il profilo sistematico ed ingiustificabile sotto il profilo logico (il positivo giudizio di compatibilità è condizione per ottenere la sanatoria e quindi per evitare l’emissione dell’ordine di demolizione).
18.3. La censura incidentale postulante l’intrasmissibilità della sanzione ai sensi dell’art. 7 l. n. 689/1981, è quindi infondata, seppure alla stregua di un percorso ricostruttivo in parte diverso rispetto a quello del primo Giudice.
19. Affrontati, e ritenuti infondati, i motivi sopra esaminati (il secondo e subordinato motivo dell’appello principale, l’articolazione del primo motivo dell’appello principale incentrata sulla preesistenza di un vincolo paesaggistico rispetto al momento di commissione dell’abuso e l’unico motivo dell’appello incidentale), non rimane al Collegio che procedere nello scrutinio del primo motivo contenuto nell’appello principale.
19.1. Con detta censura l’appellante ha dedotto che il Tar avrebbe commesso un errore fattuale, non ritenendo che alla data di commissione dell’abuso edilizio per cui è causa l’area sarebbe stata (già) interessata da un vincolo paesaggistico (e non soltanto archeologico), vigente sin dal 1971 (quindi precedente al vincolo introdotto dalla l. n. 431/1985).
19.2. Il Tar ha accolto la censura incentrata sulla sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso argomentando sulla base del canone di irretroattività desumibile dall’art. 1 l. n. 689/1981 e dal comma 3 dell’art. 5 l.r. n. 17/1994.
19.3. L’appellata ha controdedotto alle critiche dell’appellante, sostenendo l’esattezza dell’approdo del Tar (ex art. 1 l. n. 689/1981 ed art. 5 l.r. n. 17/1994) e ribadendo che, sino all’entrata in vigore l. n. 431/1985 (in epoca quindi successiva alla realizzazione dell’abuso), l’area non era interessata da alcun vincolo paesaggistico.
19.4. Il Collegio ritiene, come già illustrato sopra, che fino alla l. n. 431/1985 l’area ove insiste immobile de quo non fosse gravata da alcun vincolo paesaggistico.
19.5. Il caso in esame è quindi connotato da un vincolo paesaggistico sopravvenuto rispetto alla realizzazione del manufatto abusivo (ultimata nel 1973/1976, come si evince dalla domanda di sanatoria).
20. Viene quindi in rilievo il tema, comune, come detto, a numerose altre controversie pendenti presso il CGARS, dell’applicazione dell’art. 1 della l. n. 689/1981 e dell’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994.
20.1. Come già motivato, il Collegio ritiene che l’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d. lgs. n. 42/2004 abbia una funzione riparatoria, essendo funzionale alla cura dell’interesse paesaggistico, e quindi che alla medesima non si applichi la l. n. 689/1981.
Detta qualificazione dell’indennità in parola impone piuttosto di considerare la normativa vigente al momento della pronuncia dell’Amministrazione, in base alla regola generale (non applicabile all’attività sanzionatoria in senso stretto) per cui la pubblica Amministrazione, sulla quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone (Ad. plen. n. 20/1999).
20.2. Declinando la suddetta norma di azione dell’Amministrazione nel settore di interesse l’Adunanza plenaria ha affermato che, in base alla disciplina nazionale (art. 32 della l. n. 47/1985, che fa riferimento ai vincoli paesaggistici, e successivi interventi normativi, di cui all’art. 4 del d.l. n. 146/1985, all’art. 12 del d.l. n. 2/1988, dichiarato costituzionalmente illegittimo da Corte cost. 10.3.1988 n. 302, all’art. 2, comma 43, della l. n. 662/1996 e all’art. 1 l. n. 449/1997) e al diritto vivente formatosi su di essa, “la disposizione di portata generale di cui all’art. 32, primo comma, relativa ai vincoli che appongono limiti all’edificazione, non reca alcuna deroga a questi principi, cosicché essa deve interpretarsi “nel senso che l’obbligo di pronuncia da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione alla esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall’epoca d’introduzione del vincolo. E appare altresì evidente che tale valutazione corrisponde alla esigenza di vagliare l’attuale compatibilità, con il vincolo, dei manufatti realizzati abusivamente” (Ad. plen. n. 20/1999).
La giurisprudenza amministrativa successiva ha seguito la suddetta impostazione (Cons. St., VI, 25.3.2019 n. 1960; 25.1.2019 n. 627 e 22.2.2018 n. 1121; IV, 14.11.2017 n. 5230). E ciò anche in relazione all’indennità connessa all’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica del manufatto abusivo, comunque dovuta a livello nazionale, indipendentemente dalla qualificazione della medesima come sanzionatoria o risarcitoria. In tale ambito, pertanto, non si è ritenuto applicabile l’art. 1 l. n. 689/1981, anche (seppur con le contraddittorietà evidenziate sopra) nei casi in cui l’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d. lgs. n. 42/2004 è stata qualificata come sanzionatoria (con conseguente conferma dell’opzione ermeneutica illustrata sopra che supera le contraddittorietà della più risalente impostazione).
Il consolidarsi di tale orientamento – che il Collegio condivide- si spiega anche in ragione del portato dell’art. 2 comma 46 l. n. 662 del 1996, che esplicita come, in caso di condono, resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio (di cui infra quanto ai rapporti con la normativa regionale) e la giurisprudenza si è conformata (Cons. St., VI, 22.7.2018 n. 4617; Id., II, 2.10.2019 n. 6605).
“Di tale disposizione, entrata in vigore successivamente al provvedimento impugnato in primo grado, la Sezione, conformemente ad un orientamento consolidato di questo Consiglio, ha già avuto modo di rilevare “la natura chiaramente interpretativa”, in quanto la sanzione paesaggistica va fatta risalire alla disciplina di cui alla legge del 1939 e la sua applicazione retroattiva anche alle domande di condono presentate, ai sensi della legge n. 47/1985 in quanto la formula utilizzata (“qualsiasi intervento realizzato abusivamente”) lascia chiaramente intendere che il perimetro applicativo della norma prescinde dall’epoca alla quale risale la presentazione della domanda di condono, venendo invero in considerazione il danno ambientale perpetrato invece che l’assetto procedimentale per il conseguimento della sanatoria urbanistica (…).
La natura interpretativa della norma, quale espressione di un principio di autonomia tra sanatoria edilizia e paesaggistica, comporta l’applicazione anche alla sanatoria presentata, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, nel 1990, trattandosi del medesimo rapporto di autonomia tra procedimento paesaggistico e procedimento edilizio” (Cons. St., II, 30.10.2020 n. 6678).
20.3. In considerazione della disciplina vigente in ambito nazionale, quindi, ad avviso del Collegio:
a) non troverebbe applicazione, per le già esposte ragioni, l’art. 1 della l. n. 689/1981;
b) la controversia andrebbe decisa sulla base della legge vigente al momento della pronuncia dell’Amministrazione, con la conseguenza che, in presenza di un vincolo attuale (nel senso appena detto), l’indennità sarebbe dovuta (e l’appello andrebbe accolto sul punto, con conseguente riforma dell’impugnata decisione ed integrale reiezione del ricorso di primo grado).
20.4. Senonché, pur essendosi esclusa l’applicabilità dell’art. 1 l. n. 689/1981, ai fini della compiuta disamina della tematica della irretroattività occorre adesso confrontarsi con un’ulteriore disposizione normativa di matrice regionale.
Nella Regione Siciliana viene in evidenza l’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994, recante “norma di interpretazione autentica” dell’ art. 23 comma 10 della l.r.10 agosto 1985, n. 37, che nel testo “sopravvissuto” alla sentenza della Corte costituzionale 8.2.2006 n. 39 (che dichiarò costituzionalmente illegittimo l’art. 17, comma 11, l.r. 16.4.2003 n. 4) dispone che “il nulla osta dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all’ultimazione dell’opera abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell’autore dell’abuso edilizio”.
Viene in particolare in evidenza l’ultimo periodo di detta disposizione, che inibisce l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo sopravvenuto.
20.5. Il Collegio, prima di affrontare il tema della costituzionalità di detta disposizione, ritiene utile premettere di ritenere vigente la medesima (sulla scia di CGARS, sezioni riunite, 12.5.2021, n. 149; Id., sezioni riunite, 12.5.2021 n. 147; Id., e sezioni riunite 10.5.2021 n. 354) in una duplice prospettiva.
20.6. Quanto al primo profilo, si rileva che – secondo gli insegnamenti del Giudice delle leggi – il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate non opera in via generale ed automatica in quanto esso produce come effetto il ritorno in vigore di disposizioni da tempo soppresse, con conseguenze imprevedibili per lo stesso legislatore e per le autorità chiamate a interpretare e applicare tali norme, con ricadute negative in termini di certezza del diritto, che esprime un principio essenziale per il sistema delle fonti (Corte cost. 24.1.2012 n. 13) ed alla tenuta del sistema giuridico, in quanto espressione delle esigenze di sicura conoscibilità delle norme che compongono l’ordinamento.
Esso può pertanto essere ammesso in ipotesi tipiche e molto limitate.
La Corte costituzionale ha ritenuto di poter parlare di reviviscenza nell’ipotesi di annullamento di norma espressamente abrogatrice da parte del giudice costituzionale, che viene individuata come caso a sé (Corte cost. 24.1.2012 n. 13).
Nel caso di specie l’art. 17 comma 11 l.r. n. 4 del 2003 (“Il parere dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione o autorizzazione edilizia in sanatoria, solo nel caso in cui il vincolo sia stato posto antecedentemente alla realizzazione dell’opera abusiva”) ha sostituito l’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994 (“il nulla osta dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all’ultimazione dell’opera abusiva”), offrendo, dell’art. 23 l.r. n. 35 del 1987, un’interpretazione opposta. Sicché di fatto ha abrogato l’interpretazione contenuta nell’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994 nella sua originaria formulazione.
L’inoperatività della reviviscenza renderebbe priva di effetti la pronuncia di incostituzionalità. Fra le due interpretazioni possibili (il vincolo sopravvenuto comporta comunque la necessità di chiedere il nulla osta paesaggistico in caso di abuso, oppure il vincolo paesaggistico sopravvenuto inibisce il potere dell’autorità paesaggistica), avrebbe continuato ad essere applicata la regola dettata dalla disposizione costituzionalmente illegittima: è la stessa Corte costituzionale a rendere conto, nella sentenza n. 39 del 2006, della concezione opposta e inconciliabile recata dalla due disposizioni di legge che si sono succedute (in particolare la seconda, quella dichiarata costituzionalmente illegittima, avrebbe un “significato addirittura opposto a quello che in precedenza si era già determinato come autentico”).
Non potendosi ammettere tale evenienza (cioè che la disposizione costituzionalmente illegittima continui a produrre effetti) non può che ritenersi che, dichiarata costituzionalmente illegittima la sostituzione, riviva la norma che è stata sostituita, posto che il meccanismo sostitutivo evidenzia come non sia venuta meno l’esigenza di normare la specifica materia.
Né depone in senso contrario, nel caso di specie, la circostanza che la norma sostituita e quella che la sostituisce costituiscono, entrambe, disposizioni di interpretazione autentica (così la richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 39 del 2006), sicché la regola ermeneutica successiva (e costituzionalmente illegittima) ha prescelto il parametro legislativo opposto rispetto a quello precedente, ma non ha fatto venir meno l’esigenza interpretativa.
Il Collegio ritiene pertanto che sia tuttora in vigore la norma contenuta nell’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994 nella formulazione precedente alla sostituzione operata dall’art. 17 comma 11 l.r. n. 4 del 2003, anche in considerazione del fatto che l’eventuale non conformità a Costituzione di detta disposizione non si riverbera sul meccanismo della reviviscenza, determinando piuttosto l’illegittimità costituzionale di esso (se riportato in vita dalla precedente declaratoria di illegittimità costituzionale).
Si aggiunge che nell’occasione di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 2006 non è stato valutato l’ultimo periodo dell’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994 (“nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell’autore dell’abuso edilizio”) nella formulazione precedente alla sostituzione operata dall’art. 17 comma 11 l.r. n. 4/2003, neppure laddove si afferma (comunque in riferimento a un orientamento giurisprudenziale risalente) che l’interpretazione autentica dell’art. 23 comma 10 della l.r. n. 37/1985, fornita dallo stesso legislatore regionale con l’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994, ha contribuito al consolidarsi a livello regionale di una interpretazione analoga a quella in uso a livello nazionale rispetto all’art. 32 della legge statale n. 47/1985, specie dopo l’intervento dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 22.7.1999 n. 20.
Sicché si ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte costituzionale proprio in relazione a quella proposizione, anche in ragione di quel principio di certezza del diritto (funzionale a rendere conoscibile la norma a tutti gli operatori del diritto, anche all’autorità amministrativa e al privato) cui è preordinato l’orientamento della Corte sulla reviviscenza.
20.7. In secondo luogo, il Collegio ritiene che l’art. 2 comma 46 l. n. 662/1996 (cui la giurisprudenza ha peraltro attribuito portata interpretativa: così il già richiamato arresto, Cons. St., II, 30.10.2020 n. 6678), che esplicita che in caso di condono edilizio resta dovuta l’indennità per danno al paesaggio (“Per le opere eseguite in aree sottoposte al vincolo di cui alla l. 29 giugno 1939, n. 1497, e al d.l. 27 giugno 1985, n. 312, convertito, con modificazioni, dalla l. 8 agosto 1985, n. 431, il versamento dell’oblazione non esime dall’applicazione dell’indennità risarcitoria prevista dall’articolo 15 della citata legge n. 1497/1939”), non abbia abrogato la disposizione regionale del 1994. Ciò in quanto, in ambito di competenza legislativa esclusiva devoluta ad una regione a statuto speciale (come è nella specie) ed in presenza di legge regionale, la successiva legge statale (incompatibile) non supporta, fatta salva l’ipotesi del rinvio dinamico, il sistema della successione delle leggi nel tempo nel senso di ritenere implicitamente abrogata la legge precedente il cui contenuto sia incompatibile con il disposto della fonte primaria successiva: osta la competenza legislativa esclusiva della Regione Sicilia (di cui infra) che impone di valutare non solo l’incompatibilità ma anche la portata della successiva norma statale in termini di norma nazionale di grande riforma, richiedendo la pronuncia sul punto della Corte costituzionale.
Mentre l’ordinamento italiano devolve il primo profilo (relativo all’incompatibilità) al giudizio diffuso degli operatori del diritto che si trovino ad applicarla, non avviene così rispetto al secondo profilo di valutazione (appartenenza o meno della norma statale alla categoria delle norme di grande riforma), devoluto, anche in ragione della complessità che lo connota, alla Corte costituzionale, anche nella prospettiva della certezza del diritto. Del resto “i due istituti giuridici dell’abrogazione e della illegittimità costituzionale delle leggi non sono identici fra loro, si muovono su piani diversi, con effetti diversi e con competenze diverse. Il campo dell’abrogazione inoltre è più ristretto, in confronto di quello della illegittimità costituzionale, e i requisiti richiesti perché si abbia abrogazione per incompatibilità secondo i principi generali sono assai più limitati di quelli che possano consentire la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge” (Corte cost. 14.6.1956 n. 1).
Il rapporto fra l’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994 e l’art. 2 comma 46 l. n. 662 del 1996, non trovando soluzione nelle regole che governano la successione delle leggi nel tempo, è quindi ricompreso nella questione di legittimità costituzionale che si pone alla Corte costituzionale.
21. Ritenuto quanto sopra, il Collegio intende porre la questione di legittimità costituzionale sull’art. 5 comma 3 della l.r. n. 17/1994, con specifico riferimento all’ultimo periodo di detta disposizione, che inibisce l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in caso di vincolo sopravvenuto (“il nulla osta dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all’ultimazione dell’opera abusiva. Tuttavia, nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell’autore dell’abuso edilizio”).
21.1. La questione è rilevante in ragione di quanto a più riprese considerato ed in quanto, in costanza della norma regionale suddetta (e pur essendo il Collegio persuaso che non trovi applicazione il disposto di cui all’art. 1 l. n. 689/1981) nel caso di specie dovrebbe confermarsi la pronuncia di primo grado che ha annullato l’ingiunzione di pagamento dell’indennità, atteso che il vincolo paesaggistico è stato apposto dopo la realizzazione della costruzione abusiva.
Laddove, invece, la norma venga meno in seguito a pronuncia di incostituzionalità (ovvero anche, semplicemente, laddove si ritenesse, difformemente da quanto ipotizzato dal questo Giudice, che la predetta disposizione non sia più in vigore in quanto implicitamente abrogata) il Collegio dovrebbe determinarsi in senso opposto, riformando la sentenza di primo grado.
Non può poi sottacersi la particolare rilevanza che assume la questione per questo CGARS (oltre che per l’Amministrazione siciliana e i cittadini che afferiscono al relativo territorio), atteso che il presente giudizio è uno dei circa ottanta attualmente pendenti innanzi a questo Consiglio di Giustizia Amministrativa ed aventi ad oggetto immobili edificati abusivamente nell’area della Valle dei Templi in Agrigento nella medesima area.
22. Sembra evidente che l’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994 (nello stabilire che l’art. 23 comma 10 l.r. n. 37/1985, debba essere interpretato nel senso che “il nulla osta dell’autorità preposta alla gestione del vincolo è richiesto, ai fini della concessione in sanatoria, anche quando il vincolo sia stato apposto successivamente all’ultimazione dell’opera abusiva”, dispone che “nel caso di vincolo apposto successivamente, è esclusa l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie, discendenti dalle norme disciplinanti lo stesso, a carico dell’autore dell’abuso edilizio”) sia volto a impedire che dall’abuso derivino effetti negativi sul proprietario dell’immobile allorquando il vincolo paesaggistico è successivo alla realizzazione dell’abuso (e sembra altresì evidente che, in questa chiave di lettura, tale esenzione ricomprenderebbe anche eredi ed aventi causa, chè altrimenti ci si troverebbe al cospetto di una illogicità incomprensibile: l’autore dell’ abuso verrebbe “privilegiato” rispetto all’avente causa di questi).
La voluntas legis regionale non pare, in tale prospettiva, attribuire un ruolo decisivo all’uso del termine “sanzione”, ritenendosi piuttosto che essa voglia impedire l’esborso di denaro, indipendentemente dalla qualificazione di quest’ultimo.
Il termine sanzione delinea la conseguenza di carattere patrimoniale derivante dall’aver realizzato un’opera abusiva ed è coerente con la qualificazione attribuita all’epoca all’indennità in discorso.
In tal senso si ritiene che la possibilità di esperire un’interpretazione costituzionalmente orientata, che, valorizzando l’utilizzo del termine “sanzione”, ritenga non applicabile all’indennità di cui all’art. 167comma 5 del d. lgs. n. 42/2004 la norma regionale contenuta nell’art. 5 comma 3 della l.r. n. 17/1994, non sia percorribile: osta il principio della certezza del diritto. Il profilo emerge con evidenza se si considera la già richiamata circostanza relativa all’attuale pendenza di ottanta giudizi di contenuto analogo presso questo CGARS, così risaltando la rilevanza che assume il connotato della certezza del diritto non solo per l’organo giurisdizionale ma altresì per l’Amministrazione siciliana e gli abitanti del relativo territorio.
Invero, a tacere del fatto che, se si interpretasse in tal senso la disposizione regionale, si determinerebbe un’ipotesi di norma inutiliter data, si aggiunge che l’art. 5 l.r., per come è stato costantemente applicato, intende riferirsi, laddove utilizza il termine “sanzione”, proprio all’indennità per danno al paesaggio
Si ritiene pertanto che la disposizione regionale della cui legittimità costituzionale si dubita sia riferita all’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d. lgs. n. 42/2004 (indipendentemente dalla qualificazione di detta indennità sulla quale ci si è prima soffermati, laddove si ritiene di avere chiarito le ragioni per le quali il Collegio non la ricompresa nella categoria delle sanzioni amministrative pecuniarie normate dalla l. n. 689/1981).
Nondimeno il Collegio, pur ritenendo che detta qualificazione non abbia un rilievo così determinante in punto di valutazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, ancorata alla diversità di disciplina con la normativa statale in punto di abuso paesaggistico (nei termini illustrati infra), come si dirà, non ignora che la qualificazione dell’indennità in parola in termini di sanzione amministrativa pecuniaria non è indifferente per il Giudice ad quem, come si avrà modo di illustrare nel paragrafo 23.
22.1. Premesso ciò, la valutazione della non manifesta infondatezza si articola innanzitutto nel senso che l’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994, nella formulazione ritenuta vigente, viola la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi degli artt. 9 e 117 comma 2, lett. s) della Costituzione, in quanto determina una lesione diretta dei beni culturali e paesaggistici tutelati, con la conseguente grave diminuzione del livello di tutela garantito nell’intero territorio nazionale. La predetta norma regionale interseca la disciplina sulla protezione del paesaggio (in quanto provvede a delineare le conseguenze dell’abuso anche paesaggistico), normativa che, a sua volta, rispecchia la natura unitaria del valore primario e assoluto dell’ambiente, di esclusiva spettanza statale ai sensi dell’art 117 comma 2 lett. s) della Costituzione.
Ciò in quanto:
– ai sensi dell’art. 9 comma 2, Cost. la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico della Nazione;
– l’art. 117 comma 2 lett. s), Cost. attribuisce alla Stato la competenza legislativa esclusiva nella materia della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali;
– l’art. 14 comma 1 lett. n), dello Statuto speciale della Regione Sicilia, approvato con r.d.l. 15 maggio 1946 n. 455 e successive modificazioni e integrazioni, riconosce una potestà legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle antichità e delle opere artistiche.
In merito alla materia del paesaggio si rileva che:
– l’art. 9 Cost. (la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) ha costituito, in combinato disposto con gli artt. 2 e 32 Cost., l’asse portante per il riconoscimento del diritto primario a godere di un ambientale salubre, e ciò attraverso la lettura effettuata dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 210 e n. 641 del 1987, poi consacrato nel 2001, con la riforma del titolo V della Costituzione, attraverso i rinvii espressi ad ambiente ed ecosistema introdotti dall’art. 117, secondo comma, lett. s);
– la nozione di paesaggio di cui all’art. 9 Cost. ha così assunto una connotazione che partecipa sia dell’esigenza di cura di singoli beni, quindi dei valori storici, culturali ed estetici del territorio, sia quella di non pretermettere l’interesse alla tutela dell’ambiente, sia quell’attenzione alla materia dell’urbanistica (Corte cost. 21.4.2021 n. 74 e 17.4.2015 n. 64);
– specularmente l’ampia nozione di ambiente, così come è stata ricostruita specie dopo il 2001, ha una morfologia complessa, capace di ricomprendere non solo la tutela di interessi fisico-naturalistici, ma anche i beni culturali e del paesaggio idonei a contraddistinguere in modo originale, peculiare e irripetibile un certo ambito geografico e territoriale (Corte cost. 30.3.2018 n. 66, punto 2.2. del Considerato in diritto).
Detto ciò in punto di norme costituzionali di interesse nella presente controversia si rileva conseguentemente, in relazione alle soggettività coinvolte dalle suddette attribuzioni, che:
– la tutela del paesaggio non si identifica con una materia in senso stretto, dovendosi piuttosto intendere come un valore costituzionalmente protetto, integrante una materia trasversale (Corte cost. 17.4.2017 n. 77), sulla quale lo Stato esercita, in ragione della portata ascensionale della sussidiarietà, istanze unitarie che trascendono l’ambito regionale (Corte cost. 1.10.2003 n. 303);
– in molteplici occasioni, codesta Corte ha affermato che la conservazione ambientale e paesaggistica spetta, in base all’art. 117 comma 2 lett. s) Cost., alla cura esclusiva dello Stato (Corte cost. 23.7.2018 n. 172);
– l’attribuzione allo Stato della competenza esclusiva di tale materia-obiettivo non implica una preclusione assoluta all’intervento regionale, purché questo sia volto all’implementazione del valore ambientale e all’innalzamento dei suoi livelli di tutela (sentenza 23.7.2019 n. 172, punto 6.2. del Considerato in diritto e sentenza n. 178/18, punto 2.1. del Considerato in diritto; nello stesso senso sentenza Corte cost. 17.4.2017 n. 77, 16.7.2014, 24.10.2013 n. 246, 20.6.2013 n. 145, 26.2.2010 n. 67, 18.4.2008 n. 104 e 14.11.2007 n. 378);
– alle regioni non è consentito modificare gli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, “senza che ciò sia giustificato da più stringenti ragioni di tutela” (Corte cost. 21.4.2021 n. 74);
– fra gli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale, che alle regioni non è consentito modificare, deve essere annoverata l’autorizzazione paesaggistica (Corte cost. 21.4.2021 n. 74).
Con specifico riferimento alle competenze legislative delle regioni a statuto speciale, la giurisprudenza costituzionale ha sottolineato che il legislatore statale, tramite l’emanazione delle norme di grande riforma economico-sociale, “conserva il potere – anche relativamente al titolo competenziale legislativo “nella materia ‘tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali’, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, […] di vincolare la potestà legislativa primaria delle regioni a statuto speciale” (sentenza n. 238/2013, punto 2.2. del Considerato in diritto).
Specularmente la Regione Siciliana, con specifico riferimento alla competenza legislativa esclusiva attribuitale dallo Statuto speciale in materia di paesaggio e di urbanistica, deve rispettare, oltre che, in generale, i precetti costituzionali, anche le “norme di grande riforma economico-sociale” poste dallo Stato nell’esercizio delle proprie competenze legislative (Corte cost. 8.11.2017 n. 232 con riferimento alla disciplina dell’accertamento di conformità).
A ciò si aggiunge che la definizione dell’ambiente quale materia trasversale porta con sé consente l’attivazione, da parte dello Stato, istanze unitarie che trascendono l’ambito regionale in ragione della portata ascensionale della sussidiarietà, (Corte cost. 1.10.2003 n. 303).
In ragione di quanto sopra si rileva che:
– la l. n. 431 del 1995 è stata qualificata in termini di legge di grande riforma (Corte cost. 27.6.1986 n. 151), così come il d. lgs. n. 42/2004 (Corte cost. 29.10.2009 n. 272): il codice dei beni culturali “detta le coordinate fondamentali della pianificazione paesaggistica affidata congiuntamente allo Stato e alle regioni” (sentenza n. 66/18, punto 2.4. del Considerato in diritto), in coerenza con i principi delineati supra in tema di protezione del paesaggio e di tutela dell’ambiente e della valenza della disciplina statale diretta a proteggere l’ambiente e il paesaggio quale limite alla competenza legislativa in materia anche delle regioni a statuto speciale;
– tale qualificazione discende dal fatto che il codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d. lgs. n. 42/2004 impatta in modo diretto sul valore primario e assoluto del paesaggio (“il paesaggio va, cioè, rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali” (così la sentenza 5.5.2006 n. 182), così come richiamato dall’art. 9 Cost. e dall’art. 117 comma 2 lett. s) Cost., e ne delinea un nuovo assetto, improntato a integrità e globalità, implicante una riconsiderazione del territorio nella prospettiva estetica e culturale, intesa in senso dinamico;
– l’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d. lgs. n. 42/2004, sulla quale è intervenuto l’art. 2 comma 46 l. n. 662 del 1996 nei termini sopra delineati, risulta, -in ragione della funzione riparatoria rispetto all’esternalità negativa prodotta con l’abuso e in funzione general-preventiva, di dissuasione-, direttamente connessa al valore primario e assoluto che il d. lgs. n. 42/2004 attribuisce al paesaggio.
23. A fronte di ciò:
– la disciplina sul condono edilizio è organicamente regolamentata in ambito nazionale prevedendo che l’accertamento postumo (nei termini evidenziati sopra, nei paragrafi 17.3., 17.4. e 17.5.) della compatibilità paesaggistica sia accompagnato dal pagamento dell’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d. lgs. n. 42/2004;
– è stato già illustrato, come il pagamento della somma di denaro connessa all’accertamento della compatibilità paesaggistica costituisca un tratto fondamentale dell’istituto a livello di disciplina nazionale;
– come si è rilevato sopra, l’indennità connessa all’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica del manufatto abusivo è dovuta in ambito nazionale, anche se il vincolo paesaggistico è sopravvenuto rispetto alla realizzazione dell’abuso (e ciò indipendentemente dalla qualificazione della medesima come sanzionatoria o risarcitoria);
– ciò in ragione, da un lato, della richiamata Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e, dall’altro lato, dell’art. 2 comma 46 l. n. 662 del 1996 (cui la giurisprudenza, come già illustrato, ha peraltro attribuito una portata interpretativa), che esplicita come, in caso di condono, resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio;
– l’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994, nel prevedere che la sanzione amministrativa pecuniaria non sia irrogabile nel caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico rispetto alla commissione dell’abuso, si discosta dalla disciplina nazionale sopra illustrata lasciando “scoperto” il periodo precedente nel quale l’abuso è stato commesso ma l’accertamento di compatibilità non è ancora avvenuto;
– in tal senso viene assicurata sul territorio siciliano una tutela meno elevata del valore ambiente e paesaggio rispetto a quella garantita sul rimanente territorio nazionale,
– in ambito siciliano, infatti, la conformità attuale alla disciplina paesaggistica consente di superare il precedente abuso senza ulteriori conseguenze negative, sicché viene meno il disvalore ambientale e paesaggistico connesso a quest’ultimo, parificando la posizione di chi non ha commesso abuso alla posizione di chi lo ha commesso ma ha ottenuto l’accertamento positivo di conformità di cui all’art. 167 d. lgs. n. 42/2004 solo dopo averlo realizzato;
– così non avviene, come si è già visto, sul rimanente territorio nazionale, dove la tutela del paesaggio è presidiata a livello general-preventivo anche attraverso il pagamento di un’indennità a copertura delle conseguenze pregiudizievoli dell’abuso commesso;
– tale ultimo aspetto assume una particolare rilevanza nell’ambito dell’istituto di cui all’art. 167 d. lgs. n. 42/2004 (come sopra già illustrato), delineando un procedimento avente due prospettive, quella del superamento di una situazione di non conformità formale alla disciplina paesaggistica in seguito all’accertamento della compatibilità sostanziale del manufatto (questo a presidio di un principio di efficienza e di scarsità delle risorse che accomuna l’intero ordinamento giuridico e non solo la prospettiva pubblicistica) e il contrappeso del pagamento di un’indennità in funzione general-preventiva a presidio del rispetto ex ante delle regole poste a tutela del paesaggio attraverso il pagamento dell’indennità (chè altrimenti viene meno la cogenza delle medesime, con conseguente intaccamento del valore fondamentale dell’ambiente e del paesaggio);
– si è illustrato sopra come il procedimento e la posizione dell’Amministrazione sul punto si giustifichi e trovi le ragioni del proprio canone di azione solo nel bilanciamento fra i due aspetti sopra delineati e come non possa esservi l’uno, senza l’altro.
L’art. 5 comma 3 ultimo periodo l.r. n. 17/1994, nella formulazione che si ritiene attualmente vigente (come sopra illustrato), laddove non consente l’irrogazione dell’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d. lgs. n. 42/2004 in caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico, contrasta, eccedendo dalle competenze attribuite alla Regione Siciliana dall’art. 14 lett. n) dello Statuto in materia di tutela del paesaggio e di conservazione delle antichità e delle opere artistiche, con le norme di grande riforma economico-sociale contenute nell’art. 167 del d. lgs. n. 42/2004, con conseguente violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lett. s), Cost. Ciò in quanto comporta una significativa alterazione del meccanismo delineato dal legislatore statale per la tutela dei beni culturali e paesaggistici, così come interpretato, da un lato, dalla richiamata Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e, dall’altro lato, dall’art. 2 comma 46 l. n. 662 del 1996 (cui la giurisprudenza, come già illustrato, ha peraltro attribuito una portata interpretativa), che esplicita come, in caso di condono, resti dovuta l’indennità per danno al paesaggio anche in caso di vincolo sopravvenuto: non è consentito alla Regione Siciliana adottare una disciplina difforme da quella contenuta dalla normativa nazionale di riferimento che assicura il pagamento dell’indennità di cui all’art. 167 d. lgs. n. 42/2004.
23.1. Il Collegio solleva altresì questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 comma 3 ultimo periodo l.r. n. 17/1994, nella ridetta formulazione che si ritiene attualmente vigente, laddove non consente l’irrogazione dell’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d. lgs. n. 42/2004 in caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico, in relazione ai parametri di cui agli artt. 3 e 97 Cost. Ciò, in quanto la norma censurata consente di eliminare qualsiasi conseguenza pecuniaria negativa in caso di accertamento postumo della compatibilità paesaggistica. Altrettanto non avviene invece sul restante territorio nazionale, pur a fronte della medesima situazione di fatto e di un livello di tutela del paesaggio che non può essere difforme (almeno verso il basso, essendo, come già visto, consentito alle Regioni unicamente di innalzare lo standard di tutela).
Nel meccanismo disegnato dalla norma regionale della cui costituzionalità il Collegio dubita, la regolarizzazione del fatto lesivo per il paesaggio (certamente sussistente al momento della delibazione dell’amministrazione sulla domanda di condono) avviene senza alcuna conseguenza pregiudizievole per il suo autore.
Dal che la considerazione che la disciplina qui censurata possa indebolire l’efficacia deterrente del sistema delineato dall’art. 167 del d. lgs. n. 42/2004, così come interpretato dall’Adunanza plenaria n. 20 del 1999 e dall’art. 2 comma 46 della l. n. 662 del 1996, con conseguente incentivazione a tenere il comportamento, confidando nella possibilità di un adempimento successivo, in grado di superare l’illecito paesaggistico commesso: così vanificando l’efficacia deterrente dell’istituto, con conseguente irragionevolezza intrinseca della disciplina e connesso pregiudizio al buon andamento della pubblica amministrazione.
Né giustifica la diversità di trattamento del danno al paesaggio sul territorio siciliano la prospettiva di un rapporto tra pubblica amministrazione e consociati imperniato su uno schema dialogico-collaborativo anziché oppositivo, che si tradurrebbe nell’imposizione di un obbligo di “avvertire” il privato circa la necessità di conformarsi al precetto, che imporrebbe la previa imposizione del vincolo paesaggistico sull’area oggetto di abuso rispetto alla realizzazione di questo.
L’argomentazione infatti non spiega la diversità della disciplina siciliana, in quanto un’argomentazione analoga potrebbe articolarsi anche in relazione al rimanente territorio nazionale.
A ciò si aggiunge, in senso inverso, che il valore del paesaggio giustifica piuttosto, per i motivi sopra esposti, l’impostazione opposta.
Non sfugge, tra l’altro, che in riferimento all’ambito del diritto penale la possibilità di riservare maggiore spazio a meccanismi di riduzione o addirittura di esclusione della pena, a fronte di condotte riparatorie delle conseguenze del reato da parte del suo autore, è stata esplorata recentemente anche dal legislatore statale con l’introduzione del nuovo art. 162-ter del codice penale ad opera l. 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario), che prevede per l’appunto l’estinzione dei delitti procedibili a querela soggetta a remissione – senza alcuna residua sanzione per il trasgressore – quando, anche in assenza di remissione della querela da parte della persona offesa, questi abbia riparato interamente il danno cagionato dal reato ed eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose di esso entro l’apertura del dibattimento di primo grado.
Nondimeno nel caso di specie il meccanismo introdotto dal legislatore regionale con l’art. 5 comma 3 della l.r. n. 17/1994 non assicura la riparazione del danno in quanto la regolarizzazione della posizione del soggetto istante ai sensi dell’art. 167 comma 5 del d. lgs. n. 42/2004 avviene prescindendo dalla valutazione del pregiudizio arrecato al bene ambiente, che, anzi, tale omissione costituisce l’effetto precipuo della norma regionale sospettata di illegittimità costituzionale. E ciò è ancora più rilevante in quanto l’interesse pubblico al paesaggio presenta le caratteristiche dell’interesse almeno in parte adespota, potenzialmente incidente sulle generazioni future, e le cui violazioni determinano esternalità negative difficilmente apprezzabili (di talché anche la particolare modalità di quantificazione dell’indennità di cui all’art. 167 comma 5).
Non può quindi ritenersi, in uno con la Corte costituzionale, che ha ritenuto che l’introduzione del nuovo art. 162-ter del codice penale corrisponda a legittime opzioni di politica criminale o di politica sanzionatoria (18 gennaio 2021 n. 5), che la scelta operata dal legislatore regionale con l’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994 non trasmodi nella manifesta irragionevolezza o non si traduca in un evidente pregiudizio al principio del buon andamento dell’amministrazione
L’art. 5 comma 3 della l.r. n. 17/1994, eccedendo dalle competenze statutarie della Regione autonoma della Sicilia di cui all’art..14, comma 1, lettera n) e quindi essendo privo di giustificazione, viola quindi anche gli artt. 3 e 97 della Costituzione.
23.2. Da ultimo, per completezza espositiva, sarà consentita una considerazione. Si è già chiarito che l’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d. lgs. n. 42/2004 non riveste, per il Collegio, i connotati della sanzione amministrativa in ragione delle considerazioni sopra illustrate.
Nondimeno, se anche si ritenesse di attribuire detta qualificazione all’indennità in parola, questo CGARS ritiene che la norma censurata non si presti a una interpretazione adeguatrice, che ne determini la sussumibilità nell’ambito della categoria delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali.
Detta indennità infatti si situa nell’ambito di una fattispecie (quella di cui all’art. 167 comma 5 d. lgs. n. 42/2004) favorevole per il privato istante in quanto consente il superamento di un precedente illecito. Sicché l’analisi concreta delle finalità perseguite (già sopra illustrata ai paragrafi 17.3., 17.4. e 17.5.) rende recessiva, sulla base dei parametri Engel, la finalità punitiva rispetto a quella preventiva, nel senso che l’indennità costituisce una misura a tutela del paesaggio, che consente di superare l’illecito commesso, alla quale risultano estranei gli aspetti meramente afflittivi della pena (potendosi al più rinvenire delle secondarie finalità di deterrenza).
La tecnica di quantificazione, peraltro, basata sul binomio danno arrecato-profitto conseguito, osta a ritenere particolarmente elevato il grado di afflittività in quanto la misura del dovuto non trova giustificazione nella necessità di assicurare l’effetto punitivo ma nel tentativo di rimediare a un danno arrecato.
Nella determinazione dell’indennità non si ha infatti riguardo all’elemento soggettivo del fatto, né all’opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione e neppure alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche, parametri che il legislatore ha individuato al fine di assicurare la finalità punitiva (art. 11 della l. n. 689/1981).
Detto ciò in punto di non annoverabilità dell’indennità controversa nell’ambito delle sanzioni amministrative sostanzialmente penali, questo CGARS ritiene che la riconducibilità della stessa alla categoria delle sanzioni amministrative (sussumibilità comunque avversata da questo CGARS, come sopra illustrato) non consentirebbe comunque di superare le questioni di legittimità costituzionale in ragione dei principi della conoscibilità del precetto e la prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie (Corte cost. 29.5.2019 n. 134).
In altre parole, questo CGARS ritiene che non possa essere utilizzato, in funzione paralizzante rispetto alla questione di legittimità costituzionale della norma censurata, il rilievo che essa (laddove non consente di irrogare la “sanzione” nel caso di sopravvenienza del vincolo paesaggistico) sarebbe giustificata dalla necessità di allineare la fattispecie alla regola generale di conoscibilità del precetto la cui violazione determina la conseguenza sanzionatoria.
Piuttosto, l’ordinamento suppone (e impone) che colui che realizza un illecito edilizio si assuma la responsabilità delle conseguenze negative che dalla condotta derivano nel corso del tempo, fino a che la posizione del medesimo non risulta nuovamente conforme all’ordinamento giuridico (secondo il canone del versari in re illicita): il precetto da conoscere anticipatamente non è rappresentato dal singolo vincolo paesaggistico ma dal fatto che la realizzazione del manufatto deve avvenire nel rispetto delle regole di settore, pena, quanto meno, il pagamento di un’indennità.
Il settore non risulta esposto né al rischio che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri, l’autorità amministrativa o il giudice assuma[no] un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l’illecito, né al rischio di violare la libera autodeterminazione individuale, dal momento che consente al destinatario della norma di apprezzare le conseguenze giuridiche della propria condotta (così non realizzandosi le situazioni che rappresentano la ratio dei principi della conoscibilità del precetto e della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, così (Corte cost. 29.5.2019 n. 134).
La disposizione di portata generale di cui all’art. 32 l. n. 47/1985 rende infatti rilevanti i vincoli di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, di tutela del patrimonio storico artistico e di tutela della salute che appongono limiti all’edificazione ai fini dell’accertamento di conformità in sanatoria: è la legge che impone quindi una corrispondenza stretta fra il vincolo edilizio e i suddetti vincoli, ritenendoli connessi quanto agli interessi pubblici coinvolti e inestricabilmente compromessi dalla concreta realizzazione illecita del manufatto.
L’Adunanza plenaria ha ritenuto che detta disposizione non rechi alcuna deroga al principio di legalità in quanto “è la legge che attribuisce la funzione e ne definisce le modalità di esercizio, anche attraverso la definizione dei limiti entro i quali possono ricevere attenzione gli altri interessi, pubblici e privati, con i quali l’esercizio della funzione interferisce” e che “la pubblica Amministrazione, sulla quale a norma dell’art. 97 Cost. incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone” (n. 20 del 1999).
Sicché, una volta che la cura dell’interesse paesaggistico, in uno con la cura degli altri interessi coinvolti nell’operazione, sia così realizzata dall’Amministrazione preposta, questa è tenuta a valutare anche i vincoli sopravvenuti rispetto alla costruzione, fino al momento della propria decisione. Senonché tale incombenza (di considerare anche i vincoli sopravvenuti) non trova ragion d’essere in un comportamento della parte pubblica, essendo piuttosto ascrivibile al fatto che in precedenza il privato abbia agito in assenza di titolo, non consentendo così la verifica di quanto edificato.
Pertanto, se sanzione vi è, essa svolge la funzione di punire il trasgressore non, in via diretta, per avere violato il vincolo paesaggistico, ma per non essersi premunito del titolo edificatorio, esponendolo alle conseguenze negative che nel corso del tempo quella condotta produce, fino al momento in cui il privato non ritiene di porre fine alle conseguenze antigiuridiche della stessa, presentando la domanda di cui all’art. 167 d. lgs. n. 42/2004 e l’Amministrazione si pronunci sulla stessa.
Non si pone quindi un tema di conoscibilità del precetto, potendosi al più porre una questione di prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie, che questo CGARS ritiene superabile in ragione del fatto che gli interessi coinvolti, oltre a quello strettamente edificatorio, sono indicati nell’art. 32 e così sono prevedibili le conseguenze che derivano dalla violazione di detti interessi: l’unico elemento di aleatorietà attiene alla mancanza di sicurezza in ordine al fatto che l’area interessata dall’illecito sia nel corso del tempo sottoposta (o meno) a vincolo.
Detta aleatorietà, peraltro, è contenuta dalla predeterminazione della tipologia di vincoli e di conseguenze che ne derivano, da un lato, e, dall’altro lato, dal fatto che dipende proprio dal soggetto “punito” la possibilità di ridurre, se non azzerare, detta aleatorietà presentando l’istanza di compatibilità (paesaggistica, per quanto interessa nella presente controversia).
24. Detto ciò in funzione delle questioni di legittimità sollevate, proprio per quanto si è in ultimo esposto nel precedente paragrafo questo CGARS non ritiene di porre ulteriori questioni in relazione specificamente all’eventuale qualificazione (avversata dal Collegio, come sopra illustrato) dell’indennità di cui all’art. 167 comma 5 d. lgs. n. 42/2004 in termini di sanzione amministrativa dal momento che la giurisprudenza costituzionale ritiene che “la competenza sanzionatoria amministrativa non è in grado di autonomizzarsi come materia a sé, ma accede alle materie sostanziali” (Corte cost. 7.6.2018 n. 121), così assorbendosi nelle questioni di costituzionalità già poste, dovendosi rilevare che le denunciate problematiche in punto di depotenziamento della tutela del paesaggio manterrebbero in simile ipotesi inalterata consistenza (Corte cost., 17.11.2020 n. 240, seppur con riferimento a Regione a Statuto ordinario).
25. Tanto premesso, richiamando quanto sopra osservato in punto di rilevanza della medesima e riassunto al paragrafo 21 (in costanza della norma regionale suddetta nel caso di specie dovrebbe confermarsi la pronuncia di primo grado che ha annullato l’ingiunzione di pagamento dell’indennità, atteso che il vincolo paesaggistico è stato apposto dopo la realizzazione della costruzione abusiva, mentre, laddove, invece, la norma venga meno in seguito a pronuncia di incostituzionalità il Collegio dovrebbe determinarsi in senso opposto, riformando la sentenza di primo grado), in punto di non manifesta infondatezza (in ragione della nozione di norma di grande riforma economico sociale, che la Regione Siciliana è tenuta a rispettare pur essendo titolare di una competenza legislativa esclusiva in materia di paesaggio, e della irragionevole disparità di trattamento), ed in punto di impossibilità di interpretazione adeguatrice della norma, il CGARS solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994, per contrasto con gli artt. 9 e 117 comma 2, lett. s), 3 e 97 della Costituzione ai sensi dell’art. 23 comma 2 l. 11 marzo 1953 n. 87, ritenendola rilevante.
Il processo deve, pertanto, essere sospeso ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 79 e 80 c.p.a. e 295 c.p.c., con trasmissione immediata degli atti alla Corte costituzionale.
Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese è riservata alla decisione definitiva.
P.Q.M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, parzialmente e non definitivamente pronunciando:
– respinge il secondo motivo dell’appello principale;
– respinge l’articolazione del primo motivo dell’appello principale volta a sostenere che al tempo dell’abuso sussistesse nell’area un vincolo paesaggistico, ovvero che il vincolo archeologico ivi sussistente fosse equiparabile ad un vincolo paesaggistico;
– respinge l’unico motivo dell’appello incidentale;
– visto l’art. 23 l. 11 marzo 1953 n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 comma 3 l.r. n. 17/1994 in relazione agli artt. 3, 9, 97 e 117 comma 2 lett. s) della Costituzione, nei sensi di cui in motivazione;
– sospende il presente giudizio ai sensi dell’art. 79 comma 1 c.p.a.;
– dispone, a cura della Segreteria del Tribunale amministrativo, l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
– rinvia ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese di lite all’esito del giudizio incidentale promosso con la presente ordinanza.
Ordina che la presente ordinanza sia notificata, a cura della Segreteria del Tribunale amministrativo, a tutte le parti in causa, e che sia comunicata al Presidente della Regione Siciliana, all’Assemblea regionale siciliana, al Presidente del Consiglio dei ministri, al Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della Camera dei deputati.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso dal C.G.A.R.S. con sede in Palermo nella camera di consiglio del giorno 5 maggio 2021, tenutasi da remoto e in modalità telematica e con la contemporanea e continua presenza dei magistrati:
Fabio Taormina, Presidente
Raffaele Prosperi, Consigliere
Sara Raffaella Molinaro, Consigliere, Estensore
Maria Immordino, Consigliere
Antonino Caleca, Consigliere
L’ESTENSORE
Sara Raffaella Molinaro
IL PRESIDENTE
Fabio Taormina
IL SEGRETARIO