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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto del lavoro, Diritto processuale civile Numero: 19181 | Data di udienza: 6 Aprile 2022

DIRITTO DEL LAVORO – Licenziamento per giusta causa – Giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato – Licenziamento per giustificato motivo soggettivo – Rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore – Contrattazione collettiva – Giudizio di gravità della condotta – Giudizio di proporzionalità della condotta – Scala valoriale – Art. 23, co. 8 bis del D.L. n. 137/2020 – Art. 2119 c.c. – DIRITTO PROCESSUALE CIVILE – Attività di integrazione del precetto normativo – Sede di legittimità – Sussunzione del fatto concreto – Valutazione di ragionevolezza del giudizio – Limiti. (segnalazione e massima a cura di Gianluca Trenta)


Provvedimento: SENTENZA
Sezione: LAVORO
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 14 Giugno 2022
Numero: 19181
Data di udienza: 6 Aprile 2022
Presidente: RAIMONDI
Estensore: AMENDOLA


Premassima

DIRITTO DEL LAVORO – Licenziamento per giusta causa – Giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato – Licenziamento per giustificato motivo soggettivo – Rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore – Contrattazione collettiva – Giudizio di gravità della condotta – Giudizio di proporzionalità della condotta – Scala valoriale – Art. 23, co. 8 bis del D.L. n. 137/2020 – Art. 2119 c.c. – DIRITTO PROCESSUALE CIVILE – Attività di integrazione del precetto normativo – Sede di legittimità – Sussunzione del fatto concreto – Valutazione di ragionevolezza del giudizio – Limiti. (segnalazione e massima a cura di Gianluca Trenta)



Massima

CORTE DI CASSAZIONE Sez. LAVORO CIVILE, 14 giugno 2022 (Ud. 06/04/2022), Sentenza n.19181

 

 

DIRITTO DEL LAVORO – Licenziamento per giusta causa – Giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato – Licenziamento per giustificato motivo soggettivo – Rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore – Contrattazione collettiva – Giudizio di gravità della condotta – Giudizio di proporzionalità della condotta – Scala valoriale – Art. 23, co. 8 bis del D.L. n. 137/2020 – Art. 2119 c.c..

In tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie. Dalla natura legale della nozione deriva che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore. Inoltre, “la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.”. Nella specie, la Corte territoriale ha preliminarmente scrutinato le previsioni della contrattazione collettiva, escludendo che i fatti, così come ritenuti accertati, fossero previsti dalla stessa come punibili con la massima sanzione espulsiva e poi non ha ravvisato in tutte le circostanze del caso concreto gli estremi della giusta causa di recesso secondo i canoni legali. Su tali presupposti non rientra nella fattispecie di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo l’aver sventolato, in luogo di lavoro, un documento esprimendo disappunto a voce alta circa il fatto che altri dipendenti fossero pagati più di tale soggetto.

DIRITTO PROCESSUALE CIVILE – Attività di integrazione del precetto normativo – Sede di legittimità – Sussunzione del fatto concreto – Valutazione di ragionevolezza del giudizio – Limiti.

L’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c., compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, mentre chi ricorre per cassazione non può limitarsi a contrapporre una ricostruzione e valutazione dei fatti diversa rispetto a quella posta a base della decisione impugnata.

(rigetta il ricorso avverso sentenza n. 376/2019 – CORTE D’APPELLO di GENOVA, dep. 22/07/2019) Pres. RAIMONDI, Rel. AMENDOLA, Ric. Angeli M. E C. S.R.L c. Antola


Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE Sez. LAVORO CIVILE, 14/06/2022 (Ud. 06/04/2022), Sentenza n.19181

SENTENZA

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GUIDO RAIMONDI – Presidente –
Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI – Consigliere –
Dott. GUGLIELMO CINQUE – Consigliere –
Dott. FABRIZIO AMENDOLA – Rel. Consigliere –
Dott. FRANCESCO GIUSEPPE LUIGI CASO – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso 28742-2019 proposto da:

ANGELI M. E C. S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARLO MIRABELLO 17, presso lo studio LEGALE ZARDO, rappresentata e difesa dall’avvocato BRUNO MARSILI;

– ricorrente –

CONTRO

ANTOLA G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 376/2019 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 22/07/2019 R.G.N. 171/2019;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/04/2022 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROBERTO MUCCI visto l’art. 23, comma 8 bis del D.L. 28 ottobre 2020 n. 137, convertito con modificazioni nella legge 18 dicembre 2020 n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Genova, con sentenza del 22 luglio 2019, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato il 19 agosto 2017 dalla Angeli M. & C. srl a Gino Antola con condanna della società a riassumerlo entro il termine di tre giorni, o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli una indennità pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori e spese.

2. La Corte, esaminando la contestazione disciplinare del 29 giugno 2017, ha ritenuto che le condotte addebitate all’Antola consistessero: “nell’avere sottratto un documento riservato previo ingresso in un ufficio privato dell’azienda; nell’avere sventolato tale documento ai colleghi diffondendo notizie non veritiere in merito; nell’avere degenerato in urla e biasimi diffondendo malumore e stupore”.

La Corte, quindi, valutando il materiale istruttorio ha considerato accertato che i fatti contestati rispetto alla prima condotta addebitata non potessero ritenersi provati; quanto alla seconda condotta, ha rilevato che lo “sventolamento” del documento risultava effettivamente provato, “ma che la diffusione di notizie non veritiera è smentita dalle stesse difese della società”; infine, ha ritenuto provato che Antola avesse espresso “disappunto a voce alta circa il fatto che altri dipendenti fossero pagati più di lui”, ma ha considerato che la pronuncia di frasi ingiuriose non potesse ritenersi compresa nella contestazione originaria; in ogni caso, anche ammettendo che la contestazione “degenerava in urli e biasimi” fosse “idonea a comprendere le ingiurie indicate dalla società con la memoria di costituzione del primo quadro grado di giudizio”, la Corte ha considerato che “i fatti come giudizialmente accertati” erano sicuramente meno gravi di quelli contestati.

Procedendo alla verifica del “se i fatti contestati, nella misura in cui sono stati accertati, possa integrare gli estremi della giusta causa” di licenziamento, la Corte genovese ha esaminato la contrattazione collettiva di riferimento (CCNL metalmeccanici artigiani), argomentando che, secondo detta disciplina, tra le possibili cause di licenziamento disciplinare non è previsto sia “sufficiente che si verifichi un diverbio litigioso, ma occorre che questo sia seguito da vie di fatto e che comporti nocumento o turbativa al normale esercizio dell’attività aziendale”; ha evidenziato che, “da un lato, le condotte disciplinarmente rilevanti poste in essere dall’odierno reclamante non sono state espressamente contemplate dalle parti sociali tra le mancanze che giustificano il licenziamento; dall’altro, esse appaiono oggettivamente meno gravi rispetto alle ipotesi espressamente considerate a tale fine”; ha sottolineato che “il licenziamento è stato irrogato a fronte di un singolo episodio consistito, sostanzialmente, nelle intemperanze verbali conseguenti alla scoperta di essere trattato in modo deteriore rispetto agli altri dipendenti; episodio che non ha determinato nessuna ulteriore conseguenza non essendo sfociato in vie di fatto, né avendo causato un qualsivoglia danno alla società”.

Pertanto, secondo la Corte di Appello, “tenuto conto delle particolari circostanze che hanno determinato la reazione del lavoratore, del grado di affidamento richiesto dalle mansioni da lui svolte e, soprattutto, del fatto che il rapporto lavorativo si è svolto in modo regolare per circa sette anni senza dar luogo all’irrogazione di sanzioni disciplinari, il licenziamento deve ritenersi sproporzionato e, dunque, illegittimo in quanto carente della giusta causa.

Non ravvisando, dal punto di vista della tutela, i presupposti per la tutela reale di cui all’art. 18 della l. n. 300 del 1970, la Corte ha applicato la tutela prevista dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente società con 3 motivi; non ha svolto attività difensiva l’intimato.

4. In prossimità dell’udienza pubblica del 6 aprile 2022 il P.G. ha comunicato, ai sensi dell’art. 23, comma 8 bis, d.l. n. 137 del 2020, inserito nella l. di conv. n. 176 del 2020, le sue conclusioni di rigetto del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., a mente dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., deducendo che la Corte territoriale non avrebbe “adeguatamente giustificato il proprio convincimento sulla reale portata dell’episodio, ritenuta erroneamente minima, e per avere omesso di considerare un profilo decisivo dell’addebito accertato, ossia che l’intrinseca gravità dell’imputazione derivasse non solo dal danno della sottrazione del bene, bensì dalla particolare delicatezza del documento sottratto e dal conseguente particolare disvalore insito nell’illecito contestato, desumibile da circostanze rilevanti sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo”; a sostegno si invocano testimonianze da considerare “attendibili e genuine”:

Il motivo è inammissibile.

Esso denuncia sotto la veste formale dell’errore di diritto ciò che è un diverso apprezzamento di merito in ordine alla gravità dei fatti contestati, peraltro proponendo una diversa ricostruzione della vicenda storica come conclamato dal riferimento alle deposizioni testimoniali, non suscettibili di riesame in questa sede di legittimità.

Invero l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c., compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – non può essere censurata in sede di legittimità se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza del giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale, ed in virtù di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, mentre chi ricorre per cassazione non può limitarsi a contrapporre una ricostruzione e valutazione dei fatti diversa rispetto a quella posta a base della decisione impugnata (v., per tutte, Cass. n. 13534 del 2019; più di recente, Cass. n. 12789 del 2022).

2. Col secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2016 e 2109 c.c., dell’art. 7 l. n. 300 del 1970, “in relazione all’art. 360 n. 3 e n. 4 c.p.c.”; si critica la Corte territoriale per avere ritenuto che le frasi ingiuriose non fossero state oggetto di contestazione e che i biasimi manifestati dall’Antola fossero da valutare come “critiche all’operato dell’azienda”, senza considerare che, nella specie, erano state espresse “con modalità esorbitanti l’obbligo di correttezza formale dei toni e dei contenuti”.

Anche tali censure non sono meritevoli di accoglimento.

La prima è inammissibile per difetto di decisiva rilevanza, atteso che – come riportato nello storico della lite – la Corte territoriale ha anche motivato superando la questione del difetto di contestazione rispetto ai fatti posti, poi, a fondamento del licenziamento.

Per quanto riguarda la seconda critica essa non si confronta con la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte di Appello ha esplicitamente considerato che il lavoratore aveva “espresso i propri ‘biasimi’ senza il rispetto dei limiti di continenza utilizzando espressioni ingiuriose, e non vi è dubbio – continua la Corte – che tale condotta integri gli estremi di un illecito disciplinare”. Pur tuttavia, i giudici liguri hanno poi verificato se tale illecito meritasse la massima sanzione espulsiva e, considerando una serie di elementi (le particolari circostanze che avevano determinato la reazione del lavoratore, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni da lui svolte e, soprattutto, la mancanza di sanzioni disciplinari per circa sette anni), ha ritenuto il licenziamento sproporzionato.

Sicché la censura nella sostanza si traduce in una critica al giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato compiuto dalla Corte territoriale, ma, come questa Corte insegna da tempo risalente, detto giudizio è devoluto al giudice di merito (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003), per cui tale apprezzamento è censurabile in sede di legittimità oramai nei soli ristretti limiti in cui può essere suscettibile di sindacato in questa sede il difetto di motivazione (cfr. Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014).

3. Per analoghe ragioni deve essere respinto anche il terzo motivo di ricorso con cui si deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2109 c.c., oltre che degli artt. 139 e 146 CCNL Metalmeccanici Artigiani; da un lato si invoca il principio per il quale “la giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo”; dall’altro si eccepisce che “i fatti contestati sono quindi sussumibili” nell’ambito delle previsioni della contrattazione collettiva che puniscono l’illecito considerato con il licenziamento; nella sostanza si sostiene che “la massima sanzione appare giustificata e proporzionata”.

Invero, la sentenza impugnata è conforme al principio secondo cui “in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie” (da ultimo, Cass. n. 33811 del 2021). Infatti, dalla natura legale della nozione deriva che l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi abbia valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento, o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass. n. 2830 del 2016; Cass. n. 4060 del 2011; Cass. n. 5372 del 2004; v. pure Cass. n. 27004 del 2018; Cass. n. 13412 del 2020). Inoltre, “la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.” (tra molte: Cass. n. 17321 del 2020; Cass. n. 16784 del 2020).

Nella specie, la Corte territoriale ha preliminarmente scrutinato le previsioni della contrattazione collettiva, escludendo che i fatti, così come ritenuti accertati, fossero previsti dalla stessa come punibili con la massima sanzione espulsiva e poi non ha ravvisato in tutte le circostanze del caso concreto gli estremi della giusta causa di recesso secondo i canoni legali.

Pertanto, il percorso seguito dai giudici d’appello è metodologicamente corretto secondo i princìpi espressi da questa Corte e le censure del motivo in esame non enucleano un errore di diritto, bensì palesano un apprezzamento circa la gravità degli addebiti secondo una valutazione diversa da quella operata dai giudici del merito ai quali compete, invocando, in tal modo, un sindacato che esorbita dai poteri di questo giudice di legittimità.

4. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto; nulla per le spese in difetto di attività difensiva dell’intimato.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 6 aprile 2022.

 

 

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