RIFIUTI – Ecoreati – Reato di inquinamento ambientale colposo – Condotta “abusiva” idonea ad integrare il delitto di cui all’art. 452-bis cod. pen. – DANNO AMBIENTALE – Concetti di “compromissione” e “deterioramento” – Assenza delle autorizzazioni o autorizzazioni scadute o palesemente illegittime – Art. 256, d.lgs. n. 152/2006 – 231 – Responsabilità amministrativa dell’ente – Profitto del reato e confisca disposta ai sensi dell’art. 19, d.lgs. n. 231/2001- Realizzazione e gestione abusiva di discarica – Qualifica di “End of Waste”, materiale di riporto, sottoprodotto – INQUINAMENTO DEL SUOLO – Requisito della “misurabilità” della compromissione o del danneggiamento – C.d. “significatività” dell’evento delittuoso – CAVE E TORBIERE – Impianto di trattamento e recupero dei materiali da demolizione – Classificazione dei materiali utilizzati per il recupero della cava come rifiuti – Mancanza – Recupero di cava – Artt. 452-quater, 452-quinquies, 452-bis – Art. 256, d.lgs. n. 152/2006 – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Ricorso per Cassazione – Nozione e natura del travisamento della prova – Onere del ricorrente – Principio di “autosufficienza del ricorso” – Doppia conforme – Fattispecie.
Provvedimento: SENTENZA
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 18 Maggio 2023
Numero: 21187
Data di udienza: 15 Febbraio 2023
Presidente: RAMACCI
Estensore: ACETO
Premassima
RIFIUTI – Ecoreati – Reato di inquinamento ambientale colposo – Condotta “abusiva” idonea ad integrare il delitto di cui all’art. 452-bis cod. pen. – DANNO AMBIENTALE – Concetti di “compromissione” e “deterioramento” – Assenza delle autorizzazioni o autorizzazioni scadute o palesemente illegittime – Art. 256, d.lgs. n. 152/2006 – 231 – Responsabilità amministrativa dell’ente – Profitto del reato e confisca disposta ai sensi dell’art. 19, d.lgs. n. 231/2001- Realizzazione e gestione abusiva di discarica – Qualifica di “End of Waste”, materiale di riporto, sottoprodotto – INQUINAMENTO DEL SUOLO – Requisito della “misurabilità” della compromissione o del danneggiamento – C.d. “significatività” dell’evento delittuoso – CAVE E TORBIERE – Impianto di trattamento e recupero dei materiali da demolizione – Classificazione dei materiali utilizzati per il recupero della cava come rifiuti – Mancanza – Recupero di cava – Artt. 452-quater, 452-quinquies, 452-bis – Art. 256, d.lgs. n. 152/2006 – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Ricorso per Cassazione – Nozione e natura del travisamento della prova – Onere del ricorrente – Principio di “autosufficienza del ricorso” – Doppia conforme – Fattispecie.
Massima
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^, 18 maggio 2023 (Ud. 15/02/2023), Sentenza n.21187
RIFIUTI – Ecoreati – Reato di inquinamento ambientale colposo – Condotta “abusiva” idonea ad integrare il delitto di cui all’art. 452-bis cod. pen. – DANNO AMBIENTALE – Concetti di “compromissione” e “deterioramento” – Assenza delle autorizzazioni o autorizzazioni scadute o palesemente illegittime – Art. 256, d.lgs. n. 152/2006 – 231 – Responsabilità amministrativa dell’ente – Profitto del reato e confisca disposta ai sensi dell’art. 19, d.lgs. n. 231/2001- Realizzazione e gestione abusiva di discarica – Qualifica di “End of Waste”, materiale di riporto, sottoprodotto – CAVE E TORBIERE – Impianto di trattamento e recupero dei materiali da demolizione – Classificazione dei materiali utilizzati per il recupero della cava come rifiuti – Mancanza – Recupero di cava – Artt. 452-quater, 452-quinquies, 452-bis – Art. 256, d.lgs. n. 152/2006 – Fattispecie.
In tema di reati ambientali, la condotta “abusiva” idonea ad integrare (non solo) il delitto di cui all’art. 452-bis cod. pen. comprende non soltanto quella svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni, o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali – ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale – ovvero di prescrizioni amministrative. La natura abusiva, peraltro, qualifica la condotta costituendone una modalità tipica che restringe la portata del precetto penale, limitando la rilevanza penale della compromissione e del deterioramento (evento del reato) ai soli casi in cui, appunto, la condotta causante sia “abusiva”. Quanto ai concetti di “compromissione” e “deterioramento”, essi consistono in un’alterazione, significativa e misurabile, della originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, caratterizzata, nel caso della “compromissione”, da una condizione di squilibrio funzionale, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice o dell’ecosistema medesimi e, nel caso del “deterioramento”, da una condizione di squilibrio “strutturale”, connesso al decadimento dello stato o della qualità degli stessi. Deterioramento e compromissione sono concetti diversi dalla “distruzione”; non equivalgono, in ultima analisi, a una condizione di “tendenziale irrimediabilità” che la norma non prevede. Da ciò consegue che non assume rilievo l’eventuale reversibilità del fenomeno inquinante, se non come uno degli elementi di distinzione tra il delitto in esame e quello, più severamente punito, del disastro ambientale di cui all’art. 452-quater cod. pen.. Pur se non irreversibile, il deterioramento o la compromissione evocano l’idea di un risultato raggiunto, di una condotta che ha prodotto il suo effetto dannoso. Da questo punto di vista il deterioramento e la compromissione (quest’ultima intesa come rendere una cosa, in tutto o in parte, inservibile) costituiscono per il legislatore penale evento tipico del delitto di danneggiamento e, in quanto tale, l’idea del “danno” (ancorché non irreversibile) è a loro connaturale. Fattispecie: recupero agronomico-ambientale del fondo cava attuato non con utilizzo esclusivo di terreno vegetale di provenienza della stessa cava (come da progetto), ma anche, con la realizzazione di una discarica. Inoltre, nel caso in esame, non era stata fornita la prova liberatoria dell’adozione ed efficace attuazione di modelli organizzativi e di gestione idonei a prevenire i reati della specie di quello verificatosi, ai sensi dell’art. 6, comma 1, d.P.R. n. 231 del 2001.
RIFIUTI – Reati ambientali – Nozione di deterioramento e compromissione nel reato di “inquinamento ambientale” – Pluralità di singoli atti e valutazione un’unica dell’azione lesiva.
Il deterioramento, in particolare, è configurabile quando la cosa che ne costituisce oggetto sia ridotta in uno stato tale da rendere necessaria, per il ripristino, una attività non agevole ovvero quando la condotta produce una modificazione della cosa altrui che ne diminuisce in modo apprezzabile il valore o ne impedisce anche parzialmente l’uso, così dando luogo alla necessità di un intervento ripristinatorio dell’essenza e della funzionalità della cosa stessa. Mentre, la compromissione, termine indifferentemente utilizzato nel linguaggio giuridico per descrivere un modo di essere o di manifestarsi del deterioramento stesso, coglie del danno non la sua maggiore o minore gravità bensì l’aspetto funzionale perché evoca un concetto di relazione tra l’uomo e i bisogni o gli interessi che la cosa deve soddisfare; deterioramento e compromissione sono le due facce della medesima medaglia, sicché è evidente che l’endiadi utilizzata dal legislatore intende coprire ogni possibile forma di “danneggiamento” – strutturale ovvero funzionale – delle acque, dell’aria, del suolo o del sottosuolo. Il fatto che ai fini del reato di “inquinamento ambientale” non è richiesta la tendenziale irreversibilità del danno comporta che fin quando tale irreversibilità non si verifica le condotte poste in essere successivamente all’iniziale deterioramento o compromissione non costituiscono “post factum” non punibile (nel senso che «le plurime immissioni di sostanze inquinanti nei corsi d’acqua, successive alla prima, non un post factum penalmente irrilevante, ne’ singole ed autonome azioni costituenti altrettanti reati di danneggiamento, bensì singoli atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione. E’ dunque possibile deteriorare e compromettere quel che lo è già, fino a quando la compromissione o il deterioramento diventano irreversibili o comportano una delle conseguenze tipiche previste dal successivo art. 452-quater, cod. pen.; non esistono zone franche intermedie tra i due reati.
INQUINAMENTO DEL SUOLO – Inquinamento ambientale – Requisito della “misurabilità” della compromissione o del danneggiamento – C.d. “significatività” dell’evento delittuoso.
In tema di inquinamento ambientale, il requisito della “misurabilità” della compromissione o del danneggiamento assolve alla funzione di attribuire al fatto una dimensione oggettiva (misurabile, appunto), quello di “significatività” intende escludere dall’area della penale rilevanza gli eventi “non significativi”, quelli, cioè, che hanno determinato sì una compromissione o un deterioramento (ancorché misurabili) di una delle matrici ambientali di cui all’art. 452-bis cod. pen. ma non in modo certo, evidente, chiaro. “Significativo” è sinonimo, secondo la lingua italiana, di considerevole, importante, non indifferente, notevole, ragguardevole, rilevante, ed è il contrario di insignificante, irrilevante, irrisorio, minimo, trascurabile. In questo senso, la “significatività” dell’evento delittuoso (al pari della sua “misurabilità”) proietta il fatto in una dimensione oggettiva certa, indiscutibile, verificabile e misurabile (appunto) oltre ogni ragionevole dubbio, che colloca la condotta dell’inquinamento ambientale nell’area intermedia che va dalla irrilevanza del danno alle dimensioni descritte dall’art. 452-quater cod. pen.. Inoltre, il termine “significativo” denota senz’altro incisività e rilevanza, mentre “misurabile” può dirsi ciò che è quantitativamente apprezzabile o, comunque, oggettivamente rilevabile. L’assenza di espliciti riferimenti a limiti imposti da specifiche disposizioni o a particolari metodiche di analisi consente di escludere l’esistenza di un vincolo assoluto per l’interprete correlato a parametri imposti dalla disciplina di settore, il cui superamento, come è stato da più parti già osservato, non implica necessariamente una situazione di danno o di pericolo per l’ambiente, potendosi peraltro presentare casi in cui, pur in assenza di limiti imposti normativamente, tale situazione sia di macroscopica evidenza o, comunque, concretamente accertabile. Ovviamente, tali parametri rappresentano comunque un utile riferimento nel caso in cui possono fornire, considerando lo scostamento tra gli standard prefissati e la sua ripetitività, un elemento concreto di giudizio circa il fatto che la compromissione o il deterioramento causati siano effettivamente significativi come richiesto dalla legge mentre tale condizione, ovviamente, non può farsi automaticamente derivare dal mero superamento dei limiti.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Ricorso per Cassazione – Limiti di esperibilità – Mancanza o manifesta illogicità della motivazione – Travisamento della prova.
L’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. Pertanto, l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi“, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento. Mentre, la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicché dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, sicché una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità. Infine, il travisamento della prova è configurabile solo quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; il relativo vizio ha natura decisiva solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Ricorso per Cassazione – Nozione e natura del travisamento della prova – Onere del ricorrente – Principio di “autosufficienza del ricorso” – Doppia conforme.
Il travisamento della prova consiste, dunque, in un errore percettivo (e non valutativo) della prova stessa tale da minare alle fondamenta il ragionamento del giudice ed il sillogismo che ad esso presiede. In particolare, consiste nell’affermare come esistenti fatti certamente non esistenti ovvero come inesistenti fatti certamente esistenti. Il travisamento rende la motivazione insanabilmente contraddittoria con le premesse fattuali del ragionamento così come illustrate nel provvedimento impugnato, una diversità tale da non reggere all’urto del contro-giudizio logico sulla tenuta del sillogismo. Il vizio è perciò decisivo quando la frattura logica tra la premessa fattuale del ragionamento e la conclusione che ne viene tratta è irreparabile. Sicché, il travisamento della prova sussiste quando emerge che la sua lettura sia affetta da errore “revocatorio”, per omissione, invenzione o falsificazione. In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato). In tal caso è onere del ricorrente, in virtù del principio di “autosufficienza del ricorso”, suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti medesimi (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in sede di appello), dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, a meno che il “fumus” del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso. Non è sufficiente riportare meri stralci di singoli brani di prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell’atto processuale al fine di trarre rafforzamento dall’indebita frantumazione dei contenuti probatori, o, invece, procedere ad allegare in blocco ed indistintamente le trascrizioni degli atti processuali, postulandone la integrale lettura da parte della Suprema Corte. Pertanto, è necessario: a) identificare l’atto processuale omesso o travisato; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato. Infine, poiché il vizio riguarda la ricostruzione del fatto effettuata utilizzando la prova travisata, se l’errore è imputabile al giudice di primo grado la relativa questione deve essere devoluta al giudice dell’appello, pena la sua preclusione nel giudizio di legittimità, non potendo essere dedotto con ricorso per cassazione, in caso di c.d “doppia conforme”, il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il giudice di secondo grado se il travisamento non gli era stato rappresentato, a meno che, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, il giudice di secondo grado abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice.
(dich. inammissibili i ricorsi avverso sentenza del 24/03/2022 – CORTE DI APPELLO DI BRESCIA), Pres. RAMACCI, Rel. ACETO, Ric. Cantamesse ed altri
Allegato
Titolo Completo
CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^, 18/05/2023 (Ud. 15/02/2023), Sentenza n.21187SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli IlL.mi Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
omissis
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 24/03/2022, la Corte di appello di Brescia, pronunciando sugli appelli proposti dai sigg.ri xxx ed xxx, nonché dalla società «Cava di G. C. S.r.l.» avverso la sentenza del 05/03/2020 del GUP del Cremona, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del C. e del G. in ordine al reato di realizzazione e gestione abusiva di discarica di cui agli artt. 110 cod. pen., 256, commi 1 e 3, d.lgs. n. 152 del 2006, rubricato al capo 1), perché estinto per prescrizione, ha conseguentemente ridotto la pena nella misura di un anno e quattro mesi di reclusione ed euro 4.667,00 di multa ciascuno per il residuo reato di inquinamento ambientale colposo di cui agli artt. 110, 452-quinquies, 452-bis, cod. pen., ha concesso a entrambi i doppi benefici, ha ridotto l’importo della confisca disposta ai sensi dell’art. 19, d.lgs. n. 231 del 2001, nei confronti della società «Cava di G. C. S.r.l.» nella misura di euro 691.250, confermando nel resto.
2. Per l’annullamento della sentenza propongono distinti ricorsi gli imputati e la società.
3. xxx e xxx hanno proposto due ricorsi, uno a firma dell’Avv. A.R., l’altro a firma dell’Avv. A. S..
Il ricorso a firma dell’Avv. A.R..
3.1. Con unico motivo viene dedotto il vizio di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine al momento consumativo del reato di inquinamento ambientale con particolare riferimento alle condotte di interramento del materiale antropico nell’area di cava successiva al 29/05/2015.
Richiamati gli argomenti illustrati dalla Corte di appello a sostegno della consumazione del reato in epoca successiva alla sua introduzione nell’ordinamento penale, ed affermata la natura istantanea del reato di cui all’art. 425-bis cod. pen., deducono quanto segue:
– la percezione dei rilievi effettuati dal CT del PM nell’area C in data 14/06/2016, in particolare in ordine alla trincea 2T, è errata perché la relazione del CT afferma che la trincea era già stata riempita e ripristinata;
– si tratta di travisamento decisivo perché ritenere che nell’area C non vi fossero già riempimenti e ripristini antecedenti al sopralluogo del 3-4 settembre 2015 significa, di fatto, considerare tutta l’area C come non coltivata; eliminando la vista della corte non è più possibile trarre alcuna conclusione univoca dalla trincea T15, dal momento che questa, come la trincea 2T, ben potrebbe essere relativa la porzione di area C già completamente coltivata e riempita prima del settembre 2015 (e, sopratutto, prima del 29 maggio 2015);
– la Corte commette una seconda svista, relativa al prelievo del campione S6 effettuato dall’ARPA il 03/09/2015 al fine di recuperare un campione di terreno senz’altro non contaminato, per poterlo confrontare con gli altri campioni prelevati nelle aree A e B già coltivate;
– sbaglia la Corte d’appello nell’utilizzare detto prelievo come proprio “campione di riferimento” per la determinazione del ‘tempus commissi delicti’, posto che la presenza di un campione di terreno autoctono privo di “elementi antropici estranei”, prelevato in una certa data in un’area di cava di 49.000 mq. (di cui 22.000 già coltivati), non significa necessariamente che in quella stessa data tutta l’area di 49.000 mq. sia priva di “elementi antropici estranei”; illogico quindi desumere la protrazione della condotta oltre il mese di settembre dal fatto che il CT avesse rinvenuto materiale antropico in area avanzata della zona C della cava (trincea T15) ad oltre 150 metri di distanza dal punto del prelievo S6 (con conseguente ulteriore travisamento della prova);
– ulteriore travisamento riguarda la relazione del 04/12/2015 dell’ARPA che, diversamente da quanto afferma la Corte di appello, non aveva affatto escluso la possibilità di interramenti anche nell’area B.
In conclusione, la datazione dei fatti in epoca successiva al 29/05/2015 si basa sui seguenti presupposti viziati:
– l’essere tutta l’area C della cava alla data del 3 settembre 2015 priva di interramento di “elementi antropici estranei”, circostanza affermata pretermettendo gli esiti della CT del PM che davano conto di quanto rinvenuto nella trincea 2T (già interamente recuperata);
– l’essere tutta l’area C priva di “elementi antropici estranei” alla data del sopralluogo Arpa-Noe del 3 settembre 2015, circostanza non desumibile dal prelievo del campione “S6” effettuato da Arpa in data 3/9/2015.
Il ricorso a firma dell’Avv. A. S..
3.1. Con il primo motivo deduce la violazione dell’art. 2 cod. pen. e la mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza del reato di cui all’art. 452-bis cod. pen.
Lamenta, in particolare, il malgoverno logico degli elementi di prova utilizzati dalla Corte di appello per affermare la prosecuzione dell’attività in epoca successiva all’entrata in vigore dell’art. 452-bis cod. pen. e lo scollamento delle prove indicate dalla sentenza con quelle presenti agli atti.
3.2. Con il secondo motivo deduce l’erronea qualificazione dei fatti in conseguenza dell’erronea applicazione degli artt. 182, 208 e 256, d.lgs. n. 152 del 2006, delle norme che disciplinano la caratterizzazione e l’uso dei materiali di recupero provenienti e originati dal trattamenti dei rifiuto, e dell’art. 452-bis cod. pen., nonché la mancanza di motivazione in ordine alla classificazione dei materiali utilizzati per il recupero della cava come rifiuti.
Sostiene al riguardo:
– l’utilizzo dei materiali di recupero è consentito dall’art. 21, legge reg. Lombardia, n. 14 dell’8 agosto 1998;
– l’attività è stata soggetta a controllo del Comune e degli altri enti competenti che non hanno mai sollevato problemi;
– l’impianto di trattamento e recupero dei materiali da demolizione era autorizzato e funzionante da un decennio, l’azienda certificata e soggetta al controllo di enti terzi;
– i materiali recuperati dai rifiuti erano utilizzati per recuperi ambientali ma anche della cava, conformemente alle autorizzazioni rilasciate;
– né può utilizzarsi l’argomento della mancanza di documenti previsti per il solo caso di destinazione dei materiali di recupero all’esterno per escluderne l’utilizzo all’interno;
– il CT del PM aveva avuto l’incarico di classificare i rifiuti utilizzati per il recupero della cava, non quello di verificare se tali materiali fossero riconducibili a prodotti recuperati e avessero le caratteristiche di tali prodotti; ciò lo aveva indotto ad analizzare i materiali sulla base di tutte le normative vigenti in campo ambientale e mai di verificare la rispondenza alle norme tecniche che disciplinano il recupero dei materiali da rifiuto;
– lo stesso CT aveva ritenuto l’utilizzabilità del materiale in uscita dall’impianto a fini di recupero ambientale, salvo escludere tale possibilità per la discarica;
– palese l’errore di diritto nel quale è incorsa la Corte di appello che di fatto applica la normativa sulle discariche (d.lgs. n. 36 del 2003) ai recuperi ambientali; tale normativa è stata correttamente presa in considerazione solo era stato necessario verificare se il sito potesse essere destinato a discarica di rifiuti speciali.
Lamenta, inoltre, che la Corte di appello non ha motivato sulle seguenti questioni dedotte in sede di gravame avverso la sentenza di primo grado:
– sulla poca rappresentatività dei campioni effettuati dal CT del PM;
– sull’incertezza del dato relativo al superamento dei limiti rinveniente dall’incertezza della misura (in un contesto nel quale, peraltro, non si spiega come sia possibile che la falda fosse contaminata con materiali non presenti nel terreno);
– sulla possibilità, in base alle norme tecniche previste dalla legislazione nazionale, della presenza di materiali consentiti visibili a occhio nudo ed anche di materiale a granulometria superiore;
– sulla ammissibilità, in base alla legge regionale lombarda, della presenza di materiale di scarico e di risulta e di materiali inerti provenienti da scavi e demolizioni.
In conclusione, la Corte di appello apoditticamente richiama tali presenze estranee, come prova del mancato trattamento del materiale in ingresso all’impianto e supporta tale elemento con il fatto che alcuni campioni evidenziavano un superamento dei limiti sottraendo la questione attinente la effettiva rappresentatività dei campionamenti effettuati. La corte di appello-prosegue-afferma che l’impianto di trattamento e recupero delle macerie di demolizione era gestito in modo tale da non lasciare alcuna traccia documentale dei materiali trattati recuperati e che gli stessi non erano soggetti ad analisi. Vero è che non c’era documentazione attestante l’utilizzo dei materiali recuperati in cava, ma è altrettanto vero che l’impianto di trattamento presente in cava era dotato di registro di carico e scarico rifiuti ricevuti e trattati e che, dedotti quelli in stoccaggio per subire il dovuto trattamento, la differenza era stata ovviamente destinata allo scopo di recuperare la cava. E’ del tutto errata – aggiunge – la affermata mancanza di analisi dei materiali in uscita dall’impianto di trattamento come diversamente si desume dagli allegati 8 alla relazione della dottoressa Jaforte che dimostrano, senza ombra di dubbio, che la società e gli imputati avevano previsto procedure di verifica ed erano soggette alle ispezioni e verifiche annuali della società ICMQ di Milano, trattandosi di società certificata ed arrivano certificato l’aggregato prodotto. Nessun ente intervenuto in azienda, né gli stessi verbalizzanti, conclude, hanno mai evidenziato la mancanza delle dovute analisi sul materiale in uscita dall’impianto.
3.3. Con il terzo motivo deduce la mancanza, l’erronea e contraddittoria motivazione, il travisamento dei fatti e delle prove, la mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza del reato di cui all’art. 452-bis cod. pen.
Deduce al riguardo:
– nulla la Corte afferma in ordine alla presenza di inquinanti e solfati nelle acque di falda che sono ubiquitari nella pianura padana;
– non è nemmeno chiaro di quale falda si parli ed in particolare di quale profondità;
– né si può semplicisticamente affermare che la presenza di solfati possa essere ricondotta al cartongesso presente nel terreno recuperato senza spiegare perché il terreno naturale presente sotto il materiale recuperato sia esente da solfati;
– apodittica e illogica la risposta fornita al rilievo difensivo che la quota prevista in progetto è solo indicativa, potendo variare sulla base di quanto emerso e deciso nel contraddittorio del procedimento amministrativo.
3.4. Con il quarto motivo solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 425-cod. pen. per contrasto con gli artt. 25, comma secondo, 27 e 111 Cost. in relazione alla indeterminatezza della fattispecie incriminatrice sotto il profilo della natura abusiva della condotta, della portata della condotta stessa (genericamente descritta in termini di “compromissione o deterioramento”) e dell’evento, anch’esso qualificato genericamente dalla sua natura significativa e misurabile.
4. La società «Cava di xxx s.r.l.» propone i seguenti motivi.
4.1. Con i primi quattro motivi deduce questioni comuni a quelle oggetto dei ricorsi del xxx e del xxx.
4.2. Con il quinto motivo, che riguarda il capo 1 della rubrica, deduce l’erronea qualificazione dei fatti, l’erronea applicazione dell’art. 256, commi 1 e 3, d.lgs. n. 152 del 2006, e delle norme collegate che disciplinano la caratterizzazione l’utilizzo dei materiali di recupero provenienti e originati dal trattamento dei rifiuti, l’erronea applicazione dell’art. 452-bis cod. pen., la mancanza di motivazione in ordine alla classificazione materiale dei rifiuti.
Denuncia, in prima istanza, l’intrinseca contraddittorietà dello stesso capo 1 della rubrica che ipotizza la gestione abusiva della discarica ivi meglio indicata mediante attività di recupero che non può essere in alcun modo confusa con quello di smaltimento (trattandosi di attività alternative). Errato, di conseguenza, tentare di far rientrare il concetto di “recupero” in quello di “smaltimento”.
Ma prima ancora, aggiunge, è errato classificare il materiale rinvenuto come rifiuto in assenza di analisi merceologica che ne specificasse la composizione in termini di percentuale di terra, percentuale di materiale litoidi, eventuale percentuale di materiale antropico, necessaria per poter assegnare al materiale rinvenuto la sua corretta qualificazione in termini di rifiuto piuttosto che di “End of Waste”, materiale di riporto, sottoprodotto. La documentazione in atti – afferma – non ha chiarito tali aspetti non avendo fornito la CT del PM, l’unica tenuta in conto dal primo giudice, alcuna risposta in tal senso ed, anzi, essendo state condotte le indagini con modalità contestate dai CT della difesa, poiché le analisi del c.t. del pm, diversamente da quanto previsto dalla Circolare del Ministro dell’Ambiente del 15/07/2005, erano puntuali e non statistiche, condotte su volumi di scala modesti rispetto a quelli richiesti per una corretta valutazione delle ipotesi alternative così da non potersi considerare rappresentative della massa complessiva dei reperti utilizzati per il recupero ambientale. Non può nemmeno escludersi la qualifica del materiale rinvenuto come “materiale di riporto”, ipotesi scartata dal CT del PM in base a valutazioni non condivisibili. Anche in sede di confronti il CT del PM si era limitato a sostenere che il ripristino della cava avrebbe dovuto avvenire con l’utilizzo di materiale autoctono secondo le autorizzazioni ma così ammettendo che, al più, l’illecito ipotizzabile sarebbe stato quello di abbancamento dei rifiuti e non il reato ipotizzato al capo 1.
I consulenti della difesa avevano persino ritenuto la mancanza di elementi necessari ad affermare che nel caso concreto vi sia stato un effettivo superamento dei limiti di controllo per le acque sotterranee. Sbaglia il giudice a ritenere che la qualifica di sottoprodotti avrebbe dovuto essere dimostrata dagli imputati. Inoltre alcuna documentazione era prevista per gli “End of Waste” prodotti con conseguente impossibilità per la difesa di dimostrare l’origine del materiale utilizzato per il recupero dell’area e che, se proveniente dall’impianto interno al sito, non necessitava nemmeno dei DDT. Da tutti gli atti di indagine non emergono elementi utili per dimostrare quando sarebbe iniziata la presunta attività illecito di recupero dell’area da parte dei ricorrenti persone fisiche né a quando è databile l’ultima attività considerata dal giudice illecita e utile a far presumere la cessazione della “permanenza del reato”.
Orbene, in mancanza di prova della cessazione della permanenza del presunto reato iniziato nel 93, si sarebbe imposta una pronuncia assolutoria perché il fatto, consumato prima del 2006, non è previsto dalla legge come reato.
In ogni caso l’ARPA aveva evidenziato che i materiali di recupero rinvenuto provenivano effettivamente dall’impianto che, secondo i CD della difesa, era regolarmente autorizzato, condotto nel rispetto della normativa, oggetto di puntuali verifiche analitiche, merceologiche, come da documentazione allegata alla perizia di cui il gruppo non aveva tenuto conto. Analoghe considerazioni devono essere svolte con riferimento alle modalità di quantificazione dei rifiuti estranei alle MPS e ammessi, ai sensi del DM 05/02/1998, in piccole quantità, perché è tecnicamente impossibile separare completamente le parti estranee.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili.
2. I ricorrenti xxx e xxx erano stati tratti a giudizio per rispondere dei seguenti reati:
1) del reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 256 commi 1 e 3 d.lgs. n. 152 del 2006 e successive modificazioni, per avere, presso la cava sita in Contrada xxx nel territorio del Comune di Grumello Cremonese ed Uniti, in concorso morale e materiale tra loro, entrambi nella qualità di legali rappresentanti della società “Cava di xxx s.r.l.” e, per xxx, anche di “Direttore di cava”, realizzato e comunque gestito, illecitamente e senza autorizzazione, una discarica per rifiuti inerti e non pericolosi, attraverso ripetute operazioni di recupero di ingenti quantitativi di rifiuti (circa 198.000 m3); segnatamente, quali titolari della società “Cava di xxx s.r.l.” (autorizzata a svolgere attività di estrazione di sabbie e ghiaie e di trattamento e recupero di rifiuti inerti e non pericolosi all’interno della cava “Gg16C” del Piano Provinciale Cave “ATEg16” della Provincia di Cremona sita in Contrada “xxx”, nel territorio del Comune di Grumello Cremonese ed Uniti) provvedevano a recuperare sistematicamente rifiuti (quali frammenti di laterizi, materiale bituminoso, materiale fibroso biancastro riconducibile a cartongesso, blocchi in calcestruzzo, frammenti di materiale ceramico, tondini di ferro, frammenti di teli e tubi in PVC e rari blocchi di scorie di fonderia; in generale materiali da demolizione di infrastrutture stradali e di immobili civili e industriali nonché rifiuti provenienti dalle operazioni di trattamento inerti e rifiuti non pericolosi installato nella stessa area di cava) tramite loro interramento, tombamento (anche oltre il limite consentito dalla normativa vigente in materia di discariche e attività estrattiva) e compattazione al terreno nativo, in totale assenza di titolo ed in violazione della normativa vigente in materia di realizzazione e gestione di discariche e attività estrattiva nonché in violazione delle autorizzazioni concesse per l’attività di escavazione e per il trattamento e recupero di rifiuti inerti e non pericolosi. Il fatto è contestato come commesso in Grumello Cremonese ed Uniti, da data prossima e successiva al 28.07.1993 (data della prima autorizzazione all’attività estrattiva) fino al 18.01.2016 (data del sequestro).
2) del reato di cui agli artt. 110, 434 commi primo e secondo cod. pen., perché, in concorso tra loro, nella veste di legali rappresentanti della predetta società e per xxx anche di Direttore di cava, cagionavano un disastro da cui derivava pericolo per la pubblica incolumità; in particolare, per effetto della realizzazione e gestione sine titulo della discarica di cui sopra nonché di un’attività di escavazione oltre il limite massimo di profondità imposto dalla legge e dai titoli autorizzativi, con colpa consistita in negligenza, imprudenza e imperizia nonché nell’inosservanza della normativa in materia di discariche e attività estrattive, cagionavano offesa alla pubblica incolumità consistente nella compromissione del suolo e sottosuolo compresi nell’area di cava “Gg16C” del Piano Provinciale Cave “ATEg16” della Provincia di Cremona, cava sita in Contrada “xxx” presso il Comune di Grumello Cremonese ed Uniti, confinante, al margine inferiore, con una falda acquifera sotterranea destinata all’utenza pubblica (uso potabile e agricolo). Il fatto è contestato come commesso in Grumello Cremonese ed Uniti. da data prossima e successiva al 28.07.1993 (data della prima autorizzazione all’attività estrattiva) fino al 18.01.2016 (data del sequestro).
3) per il reato di cui agli artt. 110, 452 bis cod. pen. perché, in concorso tra loro, nelle loro già indicate qualità, abusivamente cagionavano una compromissione o un deterioramento significativo e misurabile del suolo e del sottosuolo, in particolare, per effetto della gestione sine titulo della discarica, nonché di un’attività di escavazione oltre il limite massimo di profondità imposto dalla legge e dai titoli autorizzativi, cagionavano la compromissione del suolo e del sottosuolo compresi nell’area di cava di cui al capo 2 che precede. Il fatto è contestato come commesso in Grumello Cremonese, dal 29 maggio 2015 al 18 gennaio 2016. La società «Cava di xxx s.r.l.» era stata tratta a giudizio per rispondere del seguente illecito amministrativo rubricato al capo 4:
4) illeciti amministrativi previsti dall’art. 25-undecies commi 1 e 2, d.l.gs. n. 231 del 2001, in relazione ai reati di cui agli artt. 256, commi 1 e 3, d.lgs. n. 156 del 2006, e 452 bis cod. pen., come sopra contestati, da xxx e xxx , entrambi nella veste di legali rappresentanti della CAVA DI GRUMELLO S.r.l., e da xxx altresì nella veste di direttore tecnico, soggetti posti in posizione apicale all’interno della società, nell’interesse o a vantaggio della società medesima. Il fatto è contestato come commesso in Grumello Cremonese ed Uniti, da data prossima e successiva al 28.07.1993 (data della prima autorizzazione all’attività estrattiva) fino al 18.01.2016 (data del sequestro).
3. Il GUP aveva dichiarato xxx e xxx colpevoli del reato di cui all’art. 256, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, loro ascritto al capo 1), nonché del reato di cui all’art. 452-quinquies, comma primo, in relazione all’art. 452-bis cod. pen., così riqualificati i fatti contestati ai capi 2) e 3), e, ritenuto il concorso formale fra gli stessi ed applicata la diminuente per la scelta del rito, li aveva condannati alla pena di anni uno, mesi otto di reclusione ed euro 6.000 di multa ciascuno, oltre al pagamento pro-quota ed in solido delle spese processuali. Aveva dichiarato la società «Cava di xxx s.r.l.» responsabile degli illeciti amministrativi contestati e, con la riduzione di cui all’art. 62, comma 3, d.lgs. n. 231 del 2001, aveva applicato la sanzione amministrativa pecuniaria pari a complessivi euro 80.000. Aveva altresì ordinato la confisca, anche per equivalente, del profitto del reato nella misura di euro 1.708.000,00. Aveva condannato il xxx ed il xxx al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile «Acciaieria Arvedi s.p.a.», da liquidarsi in separato giudizio, con assegnazione di una provvisionale pari ad euro 40.000, e liquidazione delle spese sostenute nel grado. Aveva infine rigettato la domanda di risarcimento dei danni proposta dalla parte civile Comune di Grumello Cremonese.
3.1. La Corte d’Appello di Brescia, pronunciando sugli appelli proposti dagli imputati e dalla società, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del xxx e del xxx in ordine al reato di cui al capo 1), perché estinto per prescrizione; ha ridotto, per l’effetto, la pena nella misura di un anno, quattro mesi di reclusione ed euro 4.667,00 di multa ciascuno con riferimento alla residua imputazione di cui al capo 2), come qualificato dal primo giudice. Ha concesso ad entrambi gli imputati i benefici di legge. Ha condannato xxx Ercole e xxx Alessandro alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile Acciaieria Arvedi s.p.a., ha ridotto l’importo della disposta confisca nei confronti della società «Cava di xxx s.r.l.» ad euro 691.250,00; ha confermato nel resto.
4. Il primo Giudice aveva così argomentato.
4.1. Se è vero che la discarica è definita dall’art. 2, d.lgs. n. 36 del 2003, come area adibita a smaltimento di rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo (ciò che, nell’assunto difensivo, bastava ad escludere la sussistenza nel caso concreto della fattispecie di reato ipotizzata, posto che gli imputati avrebbero effettuato ripetute operazioni di recupero rifiuti), nondimeno anche l’attività di recupero del rifiuto (per tale intendendosi l’operazione attraverso cui si permette ai rifiuti di svolgere un ruolo utile sostituendo altri materiali) rientrava pacificamente nella più ampia nozione di smaltimento.
4.2. Per la configurabilità del reato è necessario un accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in una determinata area, trasformata di fatto in deposito con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli degli stessi e dello spazio occupato, essendo del tutto irrilevante la circostanza che manchino attività di trasformazione, recupero o riciclo proprie di una discarica autorizzata.
4.3. Affinché possa parlarsi di realizzazione e/o gestione di discarica abusiva è necessario il deposito, senza alcuna autorizzazione, sul suolo o nel suolo, di materiali qualificabili come rifiuti, per tali intendendosi, secondo il dettato normativo, qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia deciso di disfarsi.
4.4. I materiali rivenuti in ognuna delle trincee effettuate erano stati interrati alla rinfusa a profondità apprezzabile; ciò era ritenuto sintomatico di abbandono definitivo: alla luce della definizione normativa, detti materiali sono pertanto potenzialmente qualificabili come rifiuti.
4.5. Quanto alla possibilità di qualificare alternativamente detti materiali, il GUP osservava che essi non erano inquadrabili né nella categoria dei c.d. sottoprodotti, né nella categoria dei c.d. materiali di riporto di origine antropica.
4.6. Inoltre essi non erano neppure inquadrabili come End of Waste (EoW), come invece sostenuto dai difensori. Sul punto, il GUP osservava come detta qualifica alternativa costituiva una deroga alla nozione di rifiuto, configurando indirettamente una clausola di esclusione della punibilità del reato contestato, e perciò gravava sugli imputati l’onere di provare le condizioni della sua applicabilità. Nel caso concreto, la difesa non aveva dimostrato che, ai fini del recupero ambientale della cava, fossero stati utilizzati proprio i materiali decadenti da quell’impianto di trattamento (o comunque da altro impianto di trattamento), che detto materiale recuperato rispondesse ai requisiti tecnici ed agli standard specifici previsti dalle norme di riferimento, che l’uso di detti materiali non avesse, anche in via meramente potenziale, impatti negativi sull’ambiente e sulla salute umana, essendosi gli imputati limitati ad una mera allegazione sul punto.
4.7. Dalle indagini, infatti, era emerso che i materiali rinvenuti, verosimilmente entrati nell’area di cava in quanto astrattamente destinati a confluire nell’impianto di trattamento, erano stati in realtà interrati tal quali nella porzione di terra oggetto, di volta in volta, di escavazione e successivo ripristino, by-passando l’impianto di trattamento dei rifiuti inerti (che ne avrebbe quanto meno garantito una riduzione volumetrica). Confortava tale conclusione anche il fatto che la procedura stilata dalla società per l’accettazione dei rifiuti provenienti dall’esterno prevedeva la verifica, sia documentale che visiva, delle caratteristiche tipologiche del rifiuto conferito e della sua compatibilità con quanto prescritto nel titolo abilitativo, nonché un’attività di stoccaggio organizzata in modo da impedire la commistione fra rifiuti connotati da caratteristiche tipologiche eterogenee fra loro, sì da assicurare a ciascun tipo di rifiuto la propria ed esclusiva destinazione prevista in sede di autorizzazione.
4.8. Il fatto che i materiali rinvenuti fossero stati interrati alla rinfusa mostrava come dette procedure preliminari all’ingresso dei materiali nell’impianto di trattamento non fossero state osservate, a conferma della conclusione per cui detti materiali non erano affatto transitati dall’impianto. In ogni caso, non vi era alcuna traccia documentale del c.d. ciclo di detti rifiuti, idoneo a garantire che gli stessi, in quanto provenienti dall’impianto di trattamento gestito dalla cava ovvero da altro impianto di trattamento, rispettassero gli standard qualitativi imposti dal T.U. ambiente.
4.9. Detti materiali, quanto meno in parte, non provenivano da un impianto di trattamento, il che escludeva la necessità di verifiche o analisi tese a verificare il rispetto dei suddetti standard qualitativi.
4.10. Provata era la natura di rifiuto dei materiali interrati nel sito oggetto di indagine, nel quale, secondo quanto prescritto negli atti autorizzativi, doveva essere evitato lo scarico, anche abusivo, di materiale inquinante o comunque classificabile come rifiuto e potenzialmente in grado di provocare alterazioni al patrimonio ambientale.
4.11. Quanto al recupero del fondo di cava, il progetto di ripristino ambientale redatto nel marzo 2014, e già il decreto di VIA del 20 agosto 2013, prevedevano che il recupero agronomico-ambientale del fondo cava sarebbe stato attuato con utilizzo esclusivo di terreno vegetale di provenienza della stessa cava.
4.12. In risposta all’obiezione della difesa (secondo cui, poiché il terreno vegetale non sarebbe stato sufficiente al rimodellamento sino ad arrivare alla quota posta quale fondo di cava, doveva ritenersi implicita l’autorizzazione ad utilizzare altro materiale per il recupero, ed in particolare, il materiale decadente dall’impianto di trattamento rifiuti che, tra gli usi consentiti, prevedeva proprio quello finalizzato al recupero ambientale), il Giudice osservava che l’insufficienza del terreno vegetale accantonato e dei limi di lavorazione era circostanza semplicemente allegata, ma non idoneamente provata.
4.13. Si evinceva che la necessità di utilizzare materiale diverso dal terreno vegetale e dai limi di lavorazione per il ripristino ambientale era dipesa, in larga parte, dal fatto che la società aveva scavato oltre i limiti consentiti, con maggiore asportazione di materiale naturale.
4.14. In ogni caso, la società, nonostante l’asserita evidenza di tale dato, non aveva ritenuto, in sede di progetto o di variante, di richiedere l’autorizzazione a provvedere mediante posa del materiale decadente dall’impianto di trattamento di rifiuti edili all’autorità competente, la quale, sulla base di una valutazione di incidenza, avrebbe valutato l’opportunità di un tale intervento e la sua compatibilità con la destinazione d’uso data al sito recuperato.
4.15. L’assenza di questo giudizio di compatibilità portava il primo giudice ad affermare che detti materiali non potevano essere utilizzati per lo specifico recupero ambientale della cava (e in ogni caso non poteva essere utilizzato quel materiale che, per caratteristiche granulometriche e tipologiche, non era certamente transitato per l’impianto di trattamento e per il quale non erano state fornite indicazioni in ordine alla provenienza ed alla conformità ai parametri qualitativi normativamente previsti).
4.16. Disattesa, dunque, la prospettazione difensiva, e confermata la qualificazione come rifiuti dei materiali rinvenuti nel sito, il giudice affermava che il tombamento era avvenuto più volte ed in un apprezzabile lasso di tempo; detta attività aveva altresì determinato un tendenziale degrado dell’area, che attualmente presenta caratteri evidentemente in contrasto con la sua destinazione ad uso coltivo. Erano integrati, allora, gli estremi oggettivi del reato di gestione di discarica senza alcuna autorizzazione.
4.17. Secondo il Giudice, poi, gli imputati avevano agito nella consapevolezza e nella volontà di realizzare una discarica abusiva.
4.18. Infatti: le autorizzazioni amministrative non prevedevano in alcun modo la possibilità di impiegare, per il recupero ambientale della cava, materiale diverso da “terreni vegetali di scarificazione superficiale e rifiuti decadenti dal lavaggio delle sabbie e ghiaie” e vietavano lo scarico, anche abusivo, di materiale inquinante “o comunque classificabile come rifiuto” e potenzialmente in grado di provocare alterazioni al patrimonio ambientale; nei sopralluoghi effettuati in loco, i competenti organi amministrativi, quantomeno a far data dall’anno 2013, avevano riscontrato la presenza di materiale non autoctono e avevano evidenziato la non conformità a quanto prescritto nelle autorizzazioni amministrative; con due ordinanze sindacali (una del 2013, l’altra del 2016) era stata comminata alla società una sanzione amministrativa pecuniaria per la mancata osservanza degli obblighi imposti dalle autorizzazioni ed ordinata (con l’ordinanza del 2016) l’immediata rimozione del materiale non proveniente dalla cava medesima con conseguente smaltimento presso i centri autorizzati (si trattava di materiale che, benché non utilizzabile per il recupero ambientale della cava, era stato stoccato in area destinata al deposito del terreno di alterazione).
4.19. xxx, quale direttore di cava, era presente ai sopralluoghi effettuati; xxx, quale legale rappresentate, aveva inevitabilmente assunto determinazioni in ordine al pagamento/impugnazione delle sanzioni amministrative comminate. Ne discendeva che il fatto che l’attività di interramento di detto materiale fosse comunque proseguita portava il Giudice ad attribuire la condotta ad un comune agito doloso. Del resto, poiché il materiale era stato rivenuto in modo sostanzialmente omogeneo in ognuna delle trincee sparse su tutta l’area di cava ne derivava la conclusione che la realizzazione e la gestione di detta discarica era stata oggetto di una sistematica, dunque consapevole, scelta imprenditoriale, volta a massimizzare le linee di profitto riducendo le voci di spesa, imputabile, a titolo di dolo, in capo a coloro che si erano succeduti nella funzione apicale, posto che detta attività era sostanzialmente proseguita sino a che non era intervenuto il sequestro dell’area. Di qui la condanna per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 256 commi 1 e 3, d.lgs. n. 152 del 2006.
4.20. Il GUP dissentiva poi dalla impostazione accusatoria del PM che aveva ritenuto di ricondurre la medesima condotta (realizzazione e gestione “sine titulo” della discarica, da un lato, ed esercizio dell’attività di escavazione oltre il limite massimo di profondità imposto dalla legge e dai titoli autorizzativi, dall’altro) nell’alveo di due distinte fattispecie: la prima, sussunta negli artt. 449 e 434 cod. pen., per la condotta posta in essere sino al 29 maggio 2015 (data di entrata in vigore della legge n. 68 del 2015 che ha aggiunto al codice penale il Titolo VI-bis in tema di delitti contro l’ambiente), sul presupposto per cui, sino a quella data, in assenza di una normativa ad hoc, le fattispecie di inquinamento ambientale venivano, in via interpretativa, ricondotte al reato di c.d. disastro innominato; la seconda per la condotta posta in essere dopo il 29 maggio 2015, integrante il delitto di cui all’art. 452 bis cod. pen.
4.21. Stante l’identità della condotta contestata, era dirimente verificare il tempo di commissione del fatto-reato: se esso era stato interamente commesso anteriormente al 29 maggio 2015, l’unica disposizione applicabile era l’art. 434 cod. pen., che prevede un trattamento sanzionatorio più favorevole, mentre, se era stato commesso successivamente a tale data, trovava applicazione la nuova disciplina introdotta dalla legge n. 68 del 2015.
4.22. Il tempo di commissione del reato, nel caso di specie, è stato individuato dal GUP nel momento in cui è cessata la condotta (escavazione oltre i limiti consentiti e interramento di rifiuti) che ha messo in moto il meccanismo causale: detta condotta si è di fatto conclusa nel 2016 con il sequestro dell’area, momento sino al quale la cava è stata operativa continuando, pertanto, ad operare con le modalità usualmente impiegate. Alla fattispecie concreta è stato quindi ritenuta applicabile dal GUP la nuova disciplina dei delitti contro l’ambiente introdotta dalla legge n. 68 del 2015, ferma la possibilità di ricorrere alla figura del disastro innominato di cui all’art. 434 cod. pen., in forza della clausola di riserva contenuta nell’art. 452 quater cod. pen.
4.23. Quanto al fatto che la condotta in contestazione avesse o meno cagionato una “alterazione” penalmente rilevante delle matrici ambientali, il GUP osservava che dalle indagini tecniche effettuate era emerso che la società «Cava di xxx s.r.l.» aveva effettuato escavazioni oltre i limiti assentiti e che il recupero dell’area di cava era avvenuto mediante l’interramento di materiale che era da qualificarsi come rifiuto.
4.24. Per ciò che concerne le acque sotterranee e, in particolare, quella prelevata dai pozzi 1 e 62 esterni alla cava e dal punto 1P interno alla cava, la presenza di ferro, arsenico e manganese in quantità superiore alla soglia di contaminazione aveva indotto il GUP a ritenere anomalo quanto riscontrato nel punto 1P, in cui il parametro manganese aveva superato i limiti previsti dalla vigente normativa di un ordine di grandezza, e, di gran lunga, i valori riscontrati nei piezometri esterni alla cava: indizio grave, questo, dell’esistenza di una correlazione di detto superamento con la presenza di rifiuti nelle porzioni più superficiali di terreno.
4.25. Anche riguardo ai terreni ed ai rifiuti, era stata accertata la presenza di valori di concentrazione delle sostanze inquinanti superiori a quelli della soglia di contaminazione per siti ad uso verde pubblico, privato e residenziale (di cui al d.lgs. n. 152 del 2006).
4.26. Il GUP escludeva fossero ravvisabili gli estremi del disastro ambientale di cui all’art. 452 quater cod. pen., non essendovi né un’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema o comunque di un’alterazione la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, né di un’offesa alla pubblica incolumità. Neppure ricorrevano gli estremi del delitto di cui all’art. 434 cod. pen., mentre i fatti erano interamente sussumibili, sotto il profilo oggettivo, nella fattispecie di cui all’art. 452 bis cod. pen., che punisce ogni danneggiamento dell’ambiente che non abbia le caratteristiche connotanti l’evento come disastro ed a prescindere da un pericolo nei confronti di interessi ulteriori.
4.27. Osservava il GUP che «fino a che non si verifichi l’irreversibilità del danno ambientale, le condotte poste in essere successivamente all’iniziale deterioramento o compromissione del bene non costituiscono post factum non punibile ma integrano singoli atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la consumazione del reato». Dunque, indipendentemente dal fatto che l’inquinamento del sito fosse dipeso anche da comportamenti antecedenti all’introduzione nell’ordinamento della fattispecie di reato di cui all’art. 452 bis cod. pen., la prosecuzione della condotta illecita con aggravamento del danno da parte degli imputati nel periodo successivo al 29 maggio 2015 comunque rilevava ai fini della sussistenza di detto reato.
4.28. Nel caso concreto, infatti, il GUP riteneva configurato quanto meno un deterioramento della matrice ambientale causato dall’attività di escavazione oltre i limiti assentiti e dal susseguente illecito tombamento di rifiuti, che hanno portato ad un decadimento qualitativo del sito manifestatosi in una significativa diminuzione del suo valore nonché nell’impossibilità di utilizzarlo (neanche parzialmente) senza una previa attività di bonifica comunque non agevole. A tal fine, il giudice ha dato rilevanza anche all’elemento dimensionale del reato (l’area di cava interessata da detta attività illecita era pari a 226.000 mq) e all’abusività della condotta (poiché posta in essere in assenza delle prescritte autorizzazioni o in violazione di leggi statali o regionali o di prescrizioni amministrative).
4.29. Quanto all’elemento soggettivo, il GUP ha ritenuto che il reato in questione fosse ascrivibile agli imputati a titolo di colpa, poiché, sebbene rispondesse ad una scelta consapevole e volontaria quella di scavare oltre i limiti assentiti e di effettuare il recupero ambientale della cava mediante tombamento di rifiuti, nondimeno non vi erano elementi per dire che in capo agli imputati vi fosse altresì la consapevolezza (o l’accettazione del rischio) di determinare anche un inquinamento ambientale in termini di decadimento qualitativo del suolo e del sottosuolo: sia in ragione della tipologia di materiale interrato, sia in considerazione del fatto che, nel caso concreto, nessun contributo è stato offerto dagli organi deputati al controllo, che si sono nella sostanza limitati a segnalare il fatto che detti materiali non potessero essere utilizzati per il recupero ambientale della cava senza al contempo metterne in evidenza le potenzialità inquinanti e, quindi, diffidare la società dal loro utilizzo imponendo la rimozioni di quelli già tombati.
4.30. Inoltre, tenuto conto della specifica posizione apicale del xxx , la condotta accertata era a lui ascrivibile alla luce della logica imprenditoriale sottesa alla condotta, quale condivisa strategia di guadagno. Da qui la condanna degli imputati in ordine al reato di cui all’art. 452-quinquies comma primo, in relazione all’art. 452-bis cod. pen.
4.31. Per quanto attiene alla posizione della società, il GUP aveva ritenuto sussistenti i requisiti dell’interesse o vantaggio dell’ente poiché la condotta commissiva od omissiva, violativa di regole cautelari (generiche o specifiche), riguardata ex ante, aveva prodotto un beneficio per l’ente, ossia una apprezzabile utilità consistita nel risparmio di spesa da parte dell’ente stesso, legato al tombamento di rifiuti (essendo indiscutibilmente più economico interrare rifiuti invece di trattarli presso l’impianto ed al contempo acquistare materiale idoneo per il recupero ambientale della cava) e nel maggior profitto derivato all’ente dall’escavazione effettuata per una profondità maggiore di quella assentita dagli atti autorizzativi.
4.32. Gli imputati rivestivano funzioni apicali ex art. 5 lett. a), d.lgs. n. 231 del 2001. Ai sensi dell’art. 6, comma 1, ove il reato sia stato commesso da organi apicali, l’ente non risponde qualora provi: l’adozione ed efficace attuazione, prima della commissione del fatto, di modelli organizzativi e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; l’affidamento ad un organismo dell’ente, dotato di autonomi poteri di controllo, del compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli e di curarne l’aggiornamento; la fraudolenta elusione del modello organizzativo da parte degli autori del reato; la sufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui sopra. Osservava il GUP che l’azienda non aveva fornito né allegato detta prova liberatoria, sicché ricorrono i requisiti richiesti dalla normativa per l’affermazione della responsabilità della società stessa.
5. La Corte di appello di Brescia ha osservato che, individuata la data di cessazione della permanenza del reato di cui al capo 1) della rubrica in quella di esecuzione del sequestro dell’area (22/1/2016), la contravvenzione è pacificamente prescritta. Non prescritta è, tuttavia, la responsabilità amministrativa dell’ente alla luce del disposto dell’art. 22, ultimo comma, d.P.R. n. 231 del 2001, sicché la Corte territoriale, sia per la conferma delle statuizioni civili (ex art. 578 cod. proc. pen.), sia per la necessità di valutare i motivi che attengono alla responsabilità amministrativa dell’ente, ha proceduto ad una piena valutazione degli elementi probatori per valutare l’integrazione dei reati da cui originano la responsabilità civile degli imputati e la responsabilità dell’ente.
5.1. Quanto al reato di cui all’art. 452 bis cod. pen., la Corte di appello ha preliminarmente affrontato e risolto la questione, prospettata da tutti i difensori appellanti, della individuazione della data di cessazione delle condotte illecite, in presenza di successione di leggi penali nel tempo. Il discrimine è costituito dall’entrata in vigore della legge n. 68 del 2015, che ha introdotto nel codice penale la fattispecie di cui all’art. 452 bis cod. pen. (inquinamento ambientale). In assenza di prova di condotte di escavazione e di interramento del materiale definito dal primo giudice come “rifiuto” che si siano protratte dopo tale data, non potrebbe, a giudizio dei Giudici distrettuali, considerarsi integrata la nuova fattispecie di reato.
5.2. Alla luce dei fatti, la Corte di appello ha concluso nel senso che la prosecuzione dell’attività di escavazione oltre i limiti e di interramento dei rifiuti è certamente proseguita oltre la data di entrata in vigore della nuova normativa.
5.3. Rigettati, quindi, i motivi spesi dai difensori in ordine all’incertezza della prosecuzione di attività illecita dopo il maggio 2015, la Corte si è pronunciata sui restanti.
5.4. Per ciò che concerne i motivi che investono la materialità dei fatti e la sussunzione di questi nelle ipotesi di reato ritenute in sentenza, sia contravvenzionali che delittuose, la sentenza afferma che essi non colgono nel segno, avendo la Corte di appello condiviso integralmente le valutazioni tecniche del CT del PM e le motivazioni, sempre a detta della Corte, complete ed esaustive della sentenza del primo Giudice.
5.5. In primo luogo, essa ha considerato dato di fatto inoppugnabile che le accertate (e non contestate nella loro materialità) condotte sistematiche ed organizzate della Cava di Grumello s.r.l. fossero vietate da tutte le autorizzazioni rilasciate nel corso del tempo.
5.6. La Corte territoriale, dunque, ha condiviso in toto sia le argomentazioni del consulente tecnico che del primo giudice in ordine al fatto che la società aveva effettuato escavazioni con profondità maggiori di quelle consentite, che avevano reso necessario, per il raggiungimento della quota di copertura, l’impiego di maggior terreno rispetto a quello che sarebbe bastato se vi fosse stata l’osservanza dei limiti di scavo.
5.7. Inoltre, questo problema avrebbe potuto agevolmente essere risolto dalla Cava di Grumello s.r.l. avanzando richiesta di autorizzazione a depositare, sul fondo della cava, sulle scarpate o comunque in quote precise delle aree della cava da recuperare, il materiale proveniente dall’impianto di trattamento e recupero di rifiuti inerti speciali non pericolosi, impianto autorizzato a partire dal 2005 e che già dal 2010 operava in regime ordinario. La ragione per cui, nel corso di ben dieci anni rispetto all’inizio dell’operatività dell’impianto di trattamento al momento del sequestro, a fronte della permanente necessità di materiale ulteriore rispetto a quello naturale e allo sterile per il ripristino delle aree di cava, nessuna domanda a tal fine sia stata presentata non può che rinvenirsi – afferma la Corte di appello – nella consapevolezza che una simile domanda non avrebbe ottenuto esito positivo. In caso, di rilascio, peraltro, siffatte autorizzazioni avrebbero necessariamente contemplato verifiche e analisi sui materiali decadenti dall’impianto e ulteriori costi per la società. Ciò, a parere della Corte di appello, dimostra, da un lato, il disinteresse degli imputati alle problematiche di depauperamento di altri siti e, dall’altro, l’interesse a far sì che si costituisse un circolo estremamente vantaggioso (ma non virtuoso) sotto il profilo economico, tra l’attività di trattamento e recupero di rifiuti speciali non pericolosi e l’attività di recupero della cava.
5.8. Tra l’altro, sempre per la Corte di appello, la contiguità spaziale tra impianto di trattamento e cava, consentiva agli imputati di sottrarsi ad ogni controllo sul materiale che effettivamente era in uscita dall’impianto di trattamento e recupero e sulla conformità per il reimpiego; la fuoriuscita dal sito di materiale che avrebbe dovuto essere trattato richiedeva infatti quantomeno documenti di trasporto e implicava rischi di controlli su strada, evitati dall’inglobamento dell’impianto di trattamento nell’area di cava. Non è un caso, infatti, che la difesa assuma di non poter dimostrare che i materiali depositati in cava siano stati trattati nell’impianto, perché, non accedendo i materiali da aree esterne a quella dell’impianto, non erano necessari i normali documenti richiesti dalla normativa ambientale in materia: la mancata dimostrazione di questo punto fondamentale, secondo la Corte territoriale giustifica, di per sé, la conclusione dell’infondatezza di tutte le argomentazioni difensive aventi ad oggetto la contestazione che il materiale rinvenuto sia “rifiuto”.
5.9. Tutto quanto sopra dà conto di come gli imputati fossero consapevoli dell’irregolarità di tali comportamenti e, non essendo documentato che il materiale di cui si è detto sia qualificabile quale “End of Waste”, ha indotto la Corte di appello a ritenere corretta la qualificazione in termini di “rifiuto”, operata dal Giudice di prime cure, dei materiali di cui il detentore della Cava di Grumello si era disfatto interrandoli illegittimamente nel sottosuolo: la ritenuta correttezza della sentenza impugnata, ha consentito, dunque, di ritenere provata la materialità del fatto contestato sub 1) e la sua riconduzione alla fattispecie di gestione di una discarica abusiva, il che comporta, pur in presenza di prescrizione del reato, la conferma delle statuizioni civili relative a detto capo.
5.10. Quanto ai motivi che investivano la condanna per il reato di cui all’art. 452 bis cod. pen., la Corte di appello ha ritenuto di non sollevare la questione di legittimità costituzionale per indeterminatezza della fattispecie e violazione degli artt. 25 comma secondo, 27 e 111 Cost., in quanto già la Corte di Cassazione in più occasioni aveva ritenuto la manifesta infondatezza della questione.
5.11. Esaminando altri motivi, già si è rilevato come la Corte di appello abbia condiviso le argomentazioni del primo giudice in ordine all’effettuazione di escavazioni oltre i limiti assentiti dalle varie autorizzazioni. Le argomentazioni spese dalla Corte di appello con riferimento alla condanna per la contravvenzione di cui al n. 1), ha giustificato il rigetto dell’appello anche con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato di inquinamento ambientale e ciò a fronte della dimensione del fenomeno accertato, sia con riferimento all’ambito spaziale, sia alla durata dello stesso, sia ai quantitativi di rifiuti sepolti nell’area.
5.12. Per ciò che riguarda invece l’esame del motivo che investiva esclusivamente la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato in capo al xxx (oggetto esclusivo dell’impugnazione presentata dall’Avv. xxx con il quinto motivo), la Corte di appello ha osservato che la dimensione del fenomeno, la reiterazione nel tempo delle condotte, gli interventi di diversi enti con i quali il xxx necessariamente si interfacciava, stante la sua posizione di legale rappresentante, il fatto che la Cava di Grumello gestisse anche l’impianto di trattamento (circostanza che ha comportato, a partire dal 2005, l’ingresso di quantità di materiali da recuperare rilevantissime, vedendone uscire assai poche, visto che 198.000 metri cubi di materiale sono stati sotterrati nell’area) non consentono di dare alcun credito all’ipotesi alternativa secondo cui una siffatta gestione sarebbe da ricondurre esclusivamente al xxx nella totale ignoranza del legale responsabile della società che, come tale, non poteva ignorare che i profitti derivassero dalla vendita della sabbia estratta dalla cava e dalla ricezione del materiale nell’impianto, senza alcun ricavo per la vendita dei materiali in uscita. Circostanze, queste, che indubbiamente rendevano evidente al legale rappresentante la problematica del conteggio e delle differenze tra materiale in entrata e in uscita. Il primo Giudice aveva ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 452 bis cod. pen. e, sotto il profilo soggettivo, la mera colpa. Colpa che, nel caso di specie, per la Corte territoriale sussiste anche in capo al xxx, in base alle considerazioni sopra riportate.
5.13. Quanto al trattamento sanzionatorio, la questione posta alla Corte di appello investiva esclusivamente la condanna degli imputati per il reato di inquinamento ambientale (essendo prescritto quello di discarica abusiva). Anche per il Giudice dell’impugnazione, gli imputati non sono meritevoli delle attenuanti generiche, per via della gravità e della reiterazione (nell’arco di un decennio) delle loro condotte. Ha trovato invece accoglimento, in assenza di pericolo di ulteriore commissione di reati, la richiesta di applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena nei confronti di entrambi, valorizzato il dato della loro incensuratezza nonché quello dell’età, per il xxx , e, per il xxx, quello della cessazione della condotta (seppur grazie agli atti di sequestro, nel gennaio 2016) insieme con il venir meno della sua qualità di legale rappresentante della società.
5.14. Infondato è stato ritenuto il settimo motivo di appello, comune agli imputati, essendo evidente il danno riportato dalla parte civile, quantomeno per le condotte illecite poste in essere dopo che la stessa era divenuta proprietaria dell’area. E proprio la precarietà economica degli imputati e della s.r.l. (il cui esercizio è cessato dal 2017) giustificano, nell’ottica della Corte territoriale, la condanna al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva (che al momento della pronuncia ancora non risultava versata).
5.15. Da ultimo, circa l’appello presentato nell’interesse dell’ente, la Corte di appello ha ritenuto non operante nei suoi confronti la prescrizione per il reato sub 1), ai sensi dell’art. 22, d.P.R. n. 231 del 2001.
Parimenti infondati, per la Corte territoriale sono il secondo ed il terzo motivo di appello, per le stesse ragioni poste a sostegno del rigetto dell’appello presentato dagli imputati. Infondato è inoltre il quarto motivo di impugnazione dell’ente che investe specificamente la configurabilità della responsabilità amministrativa dell’ente, che la difesa contestava evidenziando le lacune investigative nell’operato della polizia giudiziaria: a detta della Corte di appello, correttamente il primo Giudice ha osservato che non era stata fornita la prova liberatoria dell’adozione ed efficace attuazione di modelli organizzativi e di gestione idonei a prevenire i reati della specie di quello verificatosi, ai sensi dell’art. 6, comma 1, d.P.R. n. 231 del 2001. La Corte di appello ha quindi ritenuto che non vi fossero ragioni per la rideterminazione della sanzione amministrativa ma ha rideterminato l’entità della confisca osservando che, premesso che già il primo Giudice aveva correttamente ritenuto profitto del reato esclusivamente quello conseguito dalla maggiore escavazione delle sabbie rispetto alle profondità assentite, occorresse fare riferimento alle pagine 404 ss. della consulenza tecnica del PM con la conseguenza che l’importo della confisca, disposto ai sensi dell’art. 19, d.P.R. n. 231 del 2001, dovesse essere ridotto ad euro 691.250.
6. Tanto premesso, prima di esaminare i singoli ricorsi, il Collegio ritiene opportuno richiamare l’insegnamento costante secondo il quale:
a) l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944 – 01);
b) l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794);
c) la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicché dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205621), sicché una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano a una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità (Sez. U, n. 30 del 27/09/1995, Mannino, Rv. 202903);
d) il travisamento della prova è configurabile solo quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; il relativo vizio ha natura decisiva solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499).
6.1. Il travisamento della prova consiste, dunque, in un errore percettivo (e non valutativo) della prova stessa tale da minare alle fondamenta il ragionamento del giudice ed il sillogismo che ad esso presiede. In particolare, consiste nell’affermare come esistenti fatti certamente non esistenti ovvero come inesistenti fatti certamente esistenti. Il travisamento rende la motivazione insanabilmente contraddittoria con le premesse fattuali del ragionamento così come illustrate nel provvedimento impugnato, una diversità tale da non reggere all’urto del contro-giudizio logico sulla tenuta del sillogismo. Il vizio è perciò decisivo quando la frattura logica tra la premessa fattuale del ragionamento e la conclusione che ne viene tratta è irreparabile. Come ribadito da Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, n.m. sul punto, il travisamento della prova sussiste quando emerge che la sua lettura sia affetta da errore “revocatorio”, per omissione, invenzione o falsificazione. In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato).
6.2. In tal caso è onere del ricorrente, in virtù del principio di “autosufficienza del ricorso”, suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti medesimi (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in sede di appello), dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto, a meno che il “fumus” del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (Sez. 2, n. 20677 dell’11/04/2017, Schioppo, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bregamotti, Rv. 265053; Sez. F. n. 37368 del 13/09/2007, Torino, Rv. 237302).
6.3. Non è sufficiente riportare meri stralci di singoli brani di prove dichiarative, estrapolati dal complessivo contenuto dell’atto processuale al fine di trarre rafforzamento dall’indebita frantumazione dei contenuti probatori, o, invece, procedere ad allegare in blocco ed indistintamente le trascrizioni degli atti processuali, postulandone la integrale lettura da parte della Suprema Corte (Sez. 1, n. 23308 del 18/11/2014, Savasta, Rv. 263601; Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, Sisti, Rv. 260994, secondo cui la condizione della specifica indicazione degli “altri atti del processo”, con riferimento ai quali, l’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità, può essere soddisfatta nei modi più diversi (quali, ad esempio, l’integrale riproduzione dell’atto nel testo del ricorso, l’allegazione in copia, l’individuazione precisa dell’atto nel fascicolo processuale di merito), purché detti modi siano comunque tali da non costringere la Corte di cassazione ad una lettura totale degli atti, dandosi luogo altrimenti ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto degli artt. 581, comma primo, lett. c), e 591 cod. proc. pen.).
6.4. E’ necessario, pertanto: a) identificare l’atto processuale omesso o travisato; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Damiano, Rv. 249035).
3.2. Il principio di autosufficienza del ricorso trova applicazione anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 165-bis disp. att. cod. proc. pen., introdotto dall’art. 7, comma 1, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, che si traduce nell’onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato ove a ciò egli non abbia provveduto nei modi sopra indicati (Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, Rv. 280419 – 01; Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019, Rv. 276432 – 01).
6.5. Inoltre, poiché il vizio riguarda la ricostruzione del fatto effettuata utilizzando la prova travisata, se l’errore è imputabile al giudice di primo grado la relativa questione deve essere devoluta al giudice dell’appello, pena la sua preclusione nel giudizio di legittimità, non potendo essere dedotto con ricorso per cassazione, in caso di c.d “doppia conforme”, il vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il giudice di secondo grado se il travisamento non gli era stato rappresentato (Sez. U, Dessimone, cit.; Sez. 5, n. 48703 del 24/09/2014, Biondetti, Rv. 261438; Sez. 6, n. 5146 del 2014, cit.), a meno che, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, il giudice di secondo grado abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (nel qual caso il vizio può essere eccepito in sede di legittimità, Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, Capuzzi, Rv. 258438).
6.6. Ne consegue che: a) il vizio di motivazione non può essere utilizzato per spingere l’indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento impugnato, nemmeno quando ciò sia strumentale a una diversa ricomposizione del quadro probatorio che, secondo gli auspici del ricorrente, possa condurre il fatto fuori dalla fattispecie incriminatrice applicata; b) l’esame può avere ad oggetto direttamente la prova quando se ne deduce il travisamento, purché l’atto processuale che la incorpora sia allegato al ricorso (o ne sia integralmente trascritto il contenuto) e possa scardinare la logica del provvedimento creando una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali; c) la natura manifesta della illogicità della motivazione del provvedimento impugnato costituisce un limite al sindacato di legittimità che impedisce alla Corte di cassazione di sostituire la propria logica a quella del giudice di merito e di avallare, dunque, ricostruzioni alternative del medesimo fatto, ancorché altrettanto ragionevoli; d) non è consentito, in caso di cd. “doppia conforme”, eccepire il travisamento della prova mediante la pura e semplice riproposizione delle medesime questioni fattuali già devolute in appello sopratutto quando, come nel caso di specie, la censura riguardi il medesimo compendio probatorio non avendo la Corte territoriale attinto a prove diverse da quelle scrutinate in primo grado.
6.7. Non è dunque consentito, in sede di legittimità, proporre un’interlocuzione diretta con la Suprema Corte in ordine al contenuto delle prove già ampiamente scrutinate in sede di merito sollecitandone l’esame e proponendole quale criterio di valutazione della illogicità manifesta della motivazione; in questo modo si sollecita la Corte di cassazione a sovrapporre la propria valutazione a quella dei Giudici di merito laddove, come detto, ciò non è consentito, nemmeno quando venga eccepito il travisamento della prova. Il travisamento non costituisce il mezzo per valutare nel merito la prova, bensì lo strumento – come detto – per saggiare la tenuta della motivazione alla luce della sua coerenza logica con i fatti sulla base dei quali si fonda il ragionamento.
I ricorsi di Ercole Grisi e xxx
7. I ricorsi del Grisi e del xxx sono inammissibili perché si avvalgono di non consentite deduzioni fattuali volte a scardinare il ragionamento della Corte di appello spingendo il sindacato della Corte di cassazione oltre i limiti ad essa consentiti in assenza di travisamenti di sorta nemmeno correttamente decotti. Tutti i motivi attingono a piene mani al materiale istruttorio dando per scontata la possibilità della Corte di cassazione di accedere agli atti del fascicolo del dibattimento, di leggerne il contenuto e di saggiare la tenuta logica del ragionamento del giudice di merito, operazione, come detto, non consentita in questa sede ove ciò che rileva non è quel che il giudice avrebbe potuto decidere (fatto ricostruibile in base alle prova assunte), ma come ha deciso (fatto ricostruito così come risulta dal testo della motivazione).
7.1. I ricorsi, salvo il quarto motivo di quello a firma dell’Avv. xxx, pongono solo questioni di fatto, non diritto. Le dedotte violazioni di legge si traducono, in realtà, in un malgoverno della prova non della norma sostanziale presupponendo, le argomentazioni difensive, la diversità del fatto descritto in sentenza rispetto a quello ritenuto dai ricorrenti.
7.2. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato.
7.3. La Corte di cassazione ha già dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 452-bis cod. pen. per contrasto con gli artt. 25 Cost. e 7 CEDU sotto il profilo della sufficiente determinatezza della fattispecie, in quanto le espressioni utilizzate per descrivere il fatto vietato sono sufficientemente univoche, sia per quanto riguarda gli eventi che rimandano ad un fatto di danneggiamento e per i quali la specificazione che devono essere “significativi” e “misurabili” esclude che vi rientrino quelli che non incidono apprezzabilmente sul bene protetto, sia per quanto attiene all’oggetto della condotta precisamente descritto ai nn. 1) e 2) della norma incriminatrice (Sez. 3, n. 9736 del 30/01/2020, Forchetta, Rv. 278405 – 01).
7.4. Va qui ribadito, in termini generali, che non sussiste affatto il dedotto deficit di tipicità della fattispecie penale.
7.5. In primo luogo, costituisce approdo da tempo consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione che, in tema di reati ambientali, la condotta “abusiva” idonea ad integrare (non solo) il delitto di cui all’art. 452-bis cod. pen. comprende non soltanto quella svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni, o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali – ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale – ovvero di prescrizioni amministrative (Sez. 3, n. 46170 del 21/09/2016, Simonelli, Rv. 268060-01; Sez. 3, n. 15865 del 31/01/2017, Rizzo, Rv. 269491 – 01; Sez. 3, n. 28732 del 27/04/2018, Melillo, Rv. 273565 – 01). La natura abusiva, peraltro, qualifica la condotta costituendone una modalità tipica che restringe la portata del precetto penale, limitando la rilevanza penale della compromissione e del deterioramento (evento del reato) ai soli casi in cui, appunto, la condotta causante sia “abusiva”. Come già spiegato in motivazione da Sez. 3, Simonelli, «[p]are dunque opportuno ricordare, in relazione al requisito dell’abusività della condotta (richiesto anche da altre disposizioni penali), che con riferimento al delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, originariamente sanzionato dall’art. 53-bis del d.lgs. 22/97 ed, attualmente, dall’art. 260 del d.lgs. 152\06, si è recentemente ricordato (Sez. 3, n. 21030 del 10/3/2015, Furfaro ed altri, non massimata) che sussiste il carattere abusivo dell’attività organizzata di gestione dei rifiuti – idoneo ad integrare il delitto – qualora essa si svolga continuativamente nell’inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni, il che si verifica non solo allorché tali autorizzazioni manchino del tutto (cosiddetta attività clandestina), ma anche quando esse siano scadute o palesemente illegittime e comunque non commisurate al tipo di rifiuti ricevuti, aventi diversa natura rispetto a quelli autorizzati. La sentenza, nella quale vengono escluse violazioni dei principi costituzionali rispetto ad eventuali incertezze interpretative connesse, tra l’altro, alla portata del termine «abusivamente», segue ad altre, in parte citate, nelle quali si è giunti alle medesime conclusioni (Sez. 3, n. 18669 del 8/1/2015, Gattuso, non massimata; Sez. 3, n. 44449 del 15/10/2013, Ghidoli, Rv. 258326; Sez. 3, n. 19018 del 20/12/2012 (dep. 2013), Accarino e altri, Rv. 255395; Sez. 3, n. 46189 del 14/7/2011, Passariello e altri, Rv. 251592; Sez. 3 n. 40845 del 23/9/2010, Del Prete ed altri, non massimata ed altre prec. conf.). Tali principi sono senz’altro utilizzabili anche in relazione al delitto in esame, rispetto al quale deve peraltro rilevarsi come la dottrina abbia, con argomentazioni pienamente condivisibili, richiamato i contenuti della direttiva 2008/99/CE e riconosciuto un concetto ampio di condotta «abusiva», comprensivo non soltanto di quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali, ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale, ma anche di prescrizioni amministrative».
7.6. E’ utile ricordare che la citata Sez. 3, Furfaro, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’allora art. 53-bis, d.lgs. n. 22 del 1997 (oggi art. 452-quaterdecies cod. pen.), questione posta in relazione sia all’indeterminatezza del concetto di “ingente quantità di rifiuti” che a quello della natura abusiva della condotta, si era posta nel solco di altre pronunce che, con riferimento al concetto di “ingente quantità”, erano pervenute al medesimo risultato (Sez. 3, n. 358 del 20/11/2007, dep. 2008, Putrone, Rv. 238558 – 01; Sez. 3, n. 47918 del 12/11/2003, Rosafio). Con riferimento, invece, alla “abusività” della condotta, Sez. 3, Furfaro, ricordava che «[n]emmeno appaiono prospettabili violazioni dei principi costituzionali in relazione alle dedotte incertezze interpretative connesse alla portata del termine “abusivamente”, o alle attività continuative e organizzate, o in ordine all’elemento soggettivo del reato. Si tratta di questioni sulle quali questa Corte ha oramai assunto un indirizzo sostanzialmente univoco nell’ambito della ordinaria funzione interpretativa. In merito al requisito della abusività della condotta, l’interpretazione prevalente ritiene che sussiste il carattere abusivo dell’attività organizzata di gestione dei rifiuti – idoneo ad integrare il delitto – qualora essa si svolga continuativamente nell’inosservanza delle prescrizioni delle autorizzazioni, il che si verifica non solo allorché tali autorizzazioni manchino del tutto (cosiddetta attività clandestina), ma anche quando esse siano scadute o palesemente illegittime e comunque non commisurate al tipo di rifiuti ricevuti, aventi diversa natura rispetto a quelli autorizzati. Più recentemente, si è affermato che “In tema di traffico illecito di rifiuti, il requisito dell’abusività della gestione deve essere interpretato in stretta connessione con gli altri elementi tipici della fattispecie, quali la reiterazione della condotta illecita e il dolo specifico d’ingiusto profitto. Ne consegue che la mancanza delle autorizzazioni non costituisce requisito determinante per la configurazione del delitto che, da un lato, può sussistere anche quando la concreta gestione dei rifiuti risulti totalmente difforme dall’attività autorizzata; dall’altro, può risultare insussistente, quando la carenza dell’autorizzazione assuma rilievo puramente formale e non sia causalmente collegata agli altri elementi costitutivi del traffico” (Sez. 3, 15.10.2013, n. 44449, Ghidoli, Rv. 258326)».
7.7. Non è dunque affatto vero che il legislatore, con il termine “abusivamente”, ha inteso «colpire e sanzionare solo attività e volontà specificamente dissimulate ovvero condotte volutamente in occulto» (così nel ricorso, ove si sottolinea che nel caso in esame manca qualsiasi profilo di occultamento della condotta). E’ piuttosto vero che il legislatore ha attinto al diritto vivente assegnando al termine in questione il significato che da lungo tempo la giurisprudenza di legittimità gli aveva già attribuito, sì da non determinare alcuna frizione con il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie. Nè si comprende (anche sotto il profilo della rilevanza della questione) in che modo l’ampliamento del concetto di “abusivamente” all’interpretazione preesistente al delitto di nuova fattura possa determinare problemi di coordinamento con l’art. 257, d.lgs. n. 152 del 2006.
7.8. Quanto ai concetti di “compromissione” e “deterioramento”, essi consistono in un’alterazione, significativa e misurabile, della originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema, caratterizzata, nel caso della “compromissione”, da una condizione di squilibrio funzionale, incidente sui processi naturali correlati alla specificità della matrice o dell’ecosistema medesimi e, nel caso del “deterioramento”, da una condizione di squilibrio “strutturale”, connesso al decadimento dello stato o della qualità degli stessi. (Sez. 3, n. 46170 del 2016, Simonelli, cit.).
7.9. Al riguardo, escluso, in particolare, ogni accostamento alle corrispondenti definizioni di “inquinamento ambientale” e di “deterioramento significativo e misurabile” fornite dal d.lgs. n. 152 del 2006 ad uso e consumo esclusivo delle norme in detto Testo Unico contenute, Sez. 3, Simonelli, ha spiegato che «l’indicazione dei due termini con la congiunzione disgiuntiva “o” svolge una funzione di collegamento [tra di essi] – autonomamente considerati dal legislatore, in alternativa tra loro – poiché indicano fenomeni sostanzialmente equivalenti negli effetti, in quanto si risolvono entrambi in una alterazione, ossia in una modifica dell’originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema caratterizzata, nel caso della “compromissione”, in una condizione di rischio o pericolo che potrebbe definirsi di “squilibrio funzionale”, perché incidente sui normali processi naturali correlati alla specificità della matrice ambientale o dell’ecosistema ed, in quello del deterioramento, come “squilibrio strutturale”, caratterizzato da un decadimento di stato o di qualità di questi ultimi. Da ciò consegue che non assume rilievo l’eventuale reversibilità del fenomeno inquinante, se non come uno degli elementi di distinzione tra il delitto in esame e quello, più severamente punito, del disastro ambientale di cui all’art. 452-quater cod. pen.».
7.10. Deterioramento e compromissione sono concetti diversi dalla “distruzione”; non equivalgono, in ultima analisi, a «una condizione di “tendenziale irrimediabilità” che (…) la norma non prevede».
7.11. Quanto alla natura “significativa” e “misurabile” che qualifica il deterioramento ovvero la compromissione, la sentenza ha ulteriormente precisato che, ferma la loro funzione selettiva di condotte di maggior rilievo, «il termine “significativo” denota senz’altro incisività e rilevanza, mentre “misurabile” può dirsi ciò che è quantitativamente apprezzabile o, comunque, oggettivamente rilevabile. L’assenza di espliciti riferimenti a limiti imposti da specifiche disposizioni o a particolari metodiche di analisi consente di escludere l’esistenza di un vincolo assoluto per l’interprete correlato a parametri imposti dalla disciplina di settore, il cui superamento, come è stato da più parti già osservato, non implica necessariamente una situazione di danno o di pericolo per l’ambiente, potendosi peraltro presentare casi in cui, pur in assenza di limiti imposti normativamente, tale situazione sia di macroscopica evidenza o, comunque, concretamente accertabile. Ovviamente, tali parametri rappresentano comunque un utile riferimento nel caso in cui possono fornire, considerando lo scostamento tra gli standard prefissati e la sua ripetitività, un elemento concreto di giudizio circa il fatto che la compromissione o il deterioramento causati siano effettivamente significativi come richiesto dalla legge mentre tale condizione, ovviamente, non può farsi automaticamente derivare dal mero superamento dei limiti».
7.12. Si deve qui precisare che il reato in questione è senza alcun dubbio un reato di danno, causalmente orientato.
7.13. Pur se non irreversibile, il deterioramento o la compromissione evocano l’idea di un risultato raggiunto, di una condotta che ha prodotto il suo effetto dannoso. Da questo punto di vista il deterioramento e la compromissione (quest’ultima intesa come rendere una cosa, in tutto o in parte, inservibile) costituiscono per il legislatore penale evento tipico del delitto di danneggiamento e, in quanto tale, l’idea del “danno” (ancorché non irreversibile) è a loro connaturale.
7.14. Il deterioramento, in particolare, è configurabile quando la cosa che ne costituisce oggetto sia ridotta in uno stato tale da rendere necessaria, per il ripristino, una attività non agevole (Sez. 2, n. 20930 del 22/02/2012, Di Leo, Rv. 252823) ovvero quando la condotta produce una modificazione della cosa altrui che ne diminuisce in modo apprezzabile il valore o ne impedisce anche parzialmente l’uso, così dando luogo alla necessità di un intervento ripristinatorio dell’essenza e della funzionalità della cosa stessa (Sez. 2, n. 28793 del 16/06/2005, Cazzulo, Rv. 232006; Sez. 5, n. 38574 del 21/05/2014, Ellero, Rv. 262220).
7.15. Non a caso la giurisprudenza di questa Corte, maturata sin da epoca antecedente alla legge n. 319 del 1976 (cd. legge “Merli”, la prima che introdusse una disciplina organica e penalmente sanzionata in materia di scarichi di acque reflue), aveva già ampiamente attinto al reato di cui all’art. 635, cod. pen., per attrarre alla sua fattispecie quei casi in cui un corso d’acqua fosse durevolmente deteriorato in modo da ridurne l’utilizzazione in conformità alla sua destinazione (così Sez. 2, n. 12383 del 28/04/1975, Fratini, Rv. 131583, in un caso di scarichi industriali apportatori di intorbidamento delle acque del fiume Arno, di distruzione di microrganismi, quali microflora e microfauna, plancton animale e vegetale, di alterazione morfologica e termica e di fenomeni analoghi; nello stesso senso Sez. 2, n. 5802 del 15/11/1979, Frigerio, Rv. 145222 in un caso di inquinamento del fiume Lambro; Sez. 6, n. 8465 del 21/06/1985, Puccini, in ipotesi di inquinamento del fiume Arno determinato dalla disattivazione del depuratore; di rilievo il principio affermato da Sez. 2, n. 7201 del 16/01/1984, Corsini, Rv. 165490, secondo cui l’art. 26 della legge 10 maggio 1976 n. 319 aveva abrogato soltanto le norme che puniscono l’inquinamento collegabile direttamente o indirettamente agli scarichi ma detta abrogazione non si estendeva alle norme che puniscono il danneggiamento che, pur tutelando anche le acque dall’inquinamento, hanno una diversa e più ampia oggettività giuridica). Sulla scia di tale indirizzo giurisprudenziale, più recentemente, Sez. 4, n. 9343 del 21/10/2010, Valentini, Rv. 249808, in un caso di illecito smaltimento di rifiuti di una discarica in un fiume, che ne aveva cagionato il deterioramento, rendendolo per lungo tempo inidoneo all’irrigazione dei campi ed all’abbeveraggio degli animali, ha ribadito che si ha «deterioramento», che integra il reato di danneggiamento, tutte le volte in cui una cosa venga resa inservibile, anche solo temporaneamente, all’uso cui è destinata, non rilevando, ai fini dell’integrazione della fattispecie, la possibilità di reversione del danno, anche se tale reversione avvenga non per opera dell’uomo, ma per la capacità della cosa di riacquistare la sua funzionalità nel tempo (cfr. altresì, Sez. 3, n. 15460 del 10/02/2016, Ingegneri, Rv. 267823 che, sul principio per il quale ai fini della configurabilità del reato di danneggiamento mediante deterioramento è necessario che la capacità della cosa di soddisfare i bisogni umani o l’idoneità della stessa di rispettare la sua naturale destinazione risulti ridotta, con compromissione della relativa funzionalità, ha ritenuto integrato il reato a seguito dell’intorbidamento delle acque e dell’alterazione delle correnti marine determinato dallo sversamento di sabbia, quale conseguenza della realizzazione di un’isola artificiale).
7.16. La compromissione, termine, come visto, indifferentemente utilizzato nel linguaggio giuridico per descrivere un modo di essere o di manifestarsi del deterioramento stesso, coglie del danno non la sua maggiore o minore gravità bensì l’aspetto funzionale perché evoca un concetto di relazione tra l’uomo e i bisogni o gli interessi che la cosa deve soddisfare; deterioramento e compromissione sono le due facce della medesima medaglia, sicché è evidente che l’endiadi utilizzata dal legislatore intende coprire ogni possibile forma di “danneggiamento” – strutturale ovvero funzionale – delle acque, dell’aria, del suolo o del sottosuolo.
7.17. Il fatto che ai fini del reato di “inquinamento ambientale” non è richiesta la tendenziale irreversibilità del danno comporta che fin quando tale irreversibilità non si verifica le condotte poste in essere successivamente all’iniziale deterioramento o compromissione non costituiscono “post factum” non punibile (nel senso che «le plurime immissioni di sostanze inquinanti nei corsi d’acqua, successive alla prima, non un post factum penalmente irrilevante, ne’ singole ed autonome azioni costituenti altrettanti reati di danneggiamento, bensì singoli atti di un’unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione», Sez. 4, n. 9343 del 2010, cit.).
7.18. E’ dunque possibile deteriorare e compromettere quel che lo è già, fino a quando la compromissione o il deterioramento diventano irreversibili o comportano una delle conseguenze tipiche previste dal successivo art. 452-quater, cod. pen.; non esistono zone franche intermedie tra i due reati.
7.19. I ricorrenti sollecitano l’attenzione sulla tenuta costituzionale, sul piano del rispetto dei principi di tassatività e determinatezza della fattispecie, della qualificazione come “significativo” e “misurabile” dell’evento dal quale la legge fa dipendere l’esistenza del reato di cui all’art. 452-bis cod. pen. Non è sufficiente, ai fini della sussistenza del delitto di inquinamento ambientale, che l’autore cagioni uno dei due eventi alternativamente previsti: è altresì necessario che tale evento sia “significativo” e “misurabile”. Premesso che il requisito della “misurabilità” della compromissione o del danneggiamento assolve alla funzione di attribuire al fatto una dimensione oggettiva (misurabile, appunto), quello di “significatività” intende escludere dall’area della penale rilevanza gli eventi “non significativi”, quelli, cioè, che hanno determinato sì una compromissione o un deterioramento (ancorché misurabili) di una delle matrici ambientali di cui all’art. 452-bis cod. pen. ma non in modo certo, evidente, chiaro. “Significativo” è sinonimo, secondo la lingua italiana, di considerevole, importante, non indifferente, notevole, ragguardevole, rilevante, ed è il contrario di insignificante, irrilevante, irrisorio, minimo, trascurabile. In questo senso, la “significatività” dell’evento delittuoso (al pari della sua “misurabilità”) proietta il fatto in una dimensione oggettiva certa, indiscutibile, verificabile e misurabile (appunto) oltre ogni ragionevole dubbio, che colloca la condotta dell’inquinamento ambientale nell’area intermedia che va dalla irrilevanza del danno alle dimensioni descritte dall’art. 452-quater cod. pen.
7.20. La funzione assolta dai concetti di significatività e misurabilità è quella dunque di elevare il grado di offensività dell’evento delittuoso, espungendo dall’area della penale rilevanza quelli che tali non sono o che non lo sono in modo “considerevole, importante, non indifferente, notevole, ragguardevole, rilevante”. Eliminare il requisito della significatività e misurabilità dell’evento determinerebbe l’allargamento dell’ambito di applicabilità della fattispecie penale anche a condotte che producono un danneggiamento o una compromissione insignificante, irrilevante, irrisoria, minima, trascurabile, privandola proprio di quel requisito di maggiore offensività che giustifica una sanzione certamente non lieve.
7.21. L’invocata pronuncia di incostituzionalità della norma in parte qua determinerebbe, paradossalmente, un effetto peggiorativo non ammesso dal Giudice delle leggi.
7.22. La questione posta è perciò irrilevante (oltre che, come detto, manifestamente infondata). Premesso che, come detto, i ricorsi sono inammissibili perché deducono questioni di fatto, la significativa e misurabile compromissione del suolo e del sottosuolo (non delle falde acquifere) cagionata dalla condotta degli imputati è questione assodata, che non può essere rimessa in discussione, essendo derivata dalla abusiva movimentazione di 198.000 metri cubi di rifiuti.
Il ricorso di Cava di xxx s.r.l.
8. A non diversi rilievi si espone il ricorso della società che si avvale anch’esso, in ogni suo aspetto, di continui riferimenti al materiale probatorio del quale non viene nemmeno dedotto il travisamento (e di certo non nei corretti termini sopra evidenziati).
9. Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa dei ricorrenti (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 3.000,00 ciascuno.
Segue la condanna dei ricorrenti, persone fisiche, al pagamento delle spese processuali sostenute nel grado dalla parte civile «Acciaieria Arvedi S.p.a.», liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Condanna inoltre gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel grado dalla parte civile che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 15/02/2023.