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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto processuale penale, Rifiuti Numero: 46231 | Data di udienza: 14 Novembre 2024

RIFIUTI – Reato di realizzazione o gestione di discarica abusiva – Condotte post delictum – Bonifica o ripristino dello stato dei luoghi – Comportamento successivo non spontaneo di bonifica – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto – Esclusione – Indice-requisito di tenuità dell’offesa – Valutazione del grado dell’offesa – Art. 131-bis – Art. 256, c.3, D. lgs. n. 152/2006 – Art. 444 cod. proc. pen. – Art. 131-bis, 133 cod. pen – Prova indiziaria – Ricorso in Cassazione – Competenza e limiti.

 
 

 

 


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 3^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 16 Dicembre 2024
Numero: 46231
Data di udienza: 14 Novembre 2024
Presidente: RAMACCI
Estensore: SCARCELLA


Premassima

RIFIUTI – Reato di realizzazione o gestione di discarica abusiva – Condotte post delictum – Bonifica o ripristino dello stato dei luoghi – Comportamento successivo non spontaneo di bonifica – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto – Esclusione – Indice-requisito di tenuità dell’offesa – Valutazione del grado dell’offesa – Art. 131-bis – Art. 256, c.3, D. lgs. n. 152/2006 – Art. 444 cod. proc. pen. – Art. 131-bis, 133 cod. pen – Prova indiziaria – Ricorso in Cassazione – Competenza e limiti.

 
 

 

 



Massima

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^, 16 dicembre 2024 (Ud. 14/11/2024), Sentenza n. 46231

RIFIUTI – Reato di realizzazione o gestione di discarica abusiva – Condotte post delictum – Bonifica o ripristino dello stato dei luoghi – Comportamento successivo non spontaneo di bonifica – DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto – Esclusione – Indice-requisito di tenuità dell’offesa – Valutazione del grado dell’offesa – Art. 131-bis – Art. 256, c.3, D. lgs. n. 152/2006 – Art. 444 cod. proc. pen. – Art. 131-bis, 133 cod. pen..

Ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, acquista rilievo, (per effetto della novellazione dell’art. 131-bis cod. pen. ad opera dell’art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150), anche la condotta dell’imputato successiva alla commissione del reato, che, tuttavia, non potrà, di per sé sola, rendere di particolare tenuità un’offesa che tale non era al momento del fatto, potendo essere valorizzata solo nell’ambito del giudizio complessivo sull’entità dell’offesa recata, da effettuarsi alla stregua dei parametri di cui all’art. 133, comma primo, cod. pen.. In sintesi, le condotte post delictum, ove normativamente imposte, anche se antecedenti al momento in cui è intervenuta condanna, in quanto solo anticipatorie di un effetto che sarebbe comunque conseguito ex lege, non rendono di particolare tenuità un’offesa che tale non era al momento della commissione del fatto, escludendo la riconoscibilità dell’art. 131-bis, cod. pen.. Nel caso di specie, non può valorizzarsi il comportamento successivo come idoneo ex se al fine di riconoscere la predetta causa speciale di non punibilità, soprattutto laddove si consideri che la “condotta susseguente” posta in essere dai ricorrenti non può essere valutata come, di per sé, giustificativa del riconoscimento della speciale causa di non punibilità in relazione al reato di realizzazione o gestione di discarica abusiva, sol che si consideri che si tratta di comportamento non certo spontaneo, ma necessitato dalla legge, atteso che è proprio l’art. 256, comma 3, D. lgs. n. 152 del 2006 a stabilire che “Alla sentenza di condanna o alla sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, consegue la confisca dell’area sulla quale è realizzata la discarica abusiva se di proprietà dell’autore o del compartecipe al reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica o di ripristino dello stato dei luoghi”. Dunque, l’aver bonificato l’area e ripristinato lo status quo ante, lungi dall’essere un comportamento valutabile come una condotta costituente una manifestazione di resipiscenza e rimeditazione della gravità del fatto commesso (di cui, si noti, si sarebbe aggravata la permanenza se non fosse intervenuto il controllo da parte del personale operante, disponendo il sequestro dell’area interessata dalla discarica), in realtà, in quanto imposta dalla legge, diviene elemento del tutto neutro che esclude che la stessa sia considerabile come esclusivo e autosufficiente indice-requisito di tenuità dell’offesa, bensì come ulteriore criterio, accanto a tutti quelli contemplati dall’art. 133, comma 1, cod. pen., (ossia la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell’azione; la gravità del danno o del pericolo; l’intensità del dolo o della colpa), che, nell’ambito di un giudizio complessivo e unitario, il giudice è chiamato a valutare per apprezzare il grado dell’offesa.

 

DIRITTO PROCESSUALE PENALE – Prova indiziaria – Ricorso in Cassazione – Competenza e limiti.

In tema di prova indiziaria, infatti, alla Corte di Cassazione compete il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione degli indizi, nonché la verifica della completezza, della correttezza e della logicità del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute per qualificare l’elemento indiziario, ma non, anche, un nuovo accertamento che ripeta l’esperienza conoscitiva del giudice del merito.

(dich. inamm. il ricorso avverso sentenza del 24/01/2024 della CORTE D’APPELLO DI LECCE, sez. dist. Taranto ), Pres. RAMACCI, Est. SCARCELLA, Ric. Nesca

 
 

 

 


Allegato


Titolo Completo

CORTE DI CASSAZIONE PENALE Sez. 3^, 16/12/2024 (Ud. 14/11/2024), Sentenza n. 46231

SENTENZA

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

omissis

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:
Ne. Fr. nata a PULSANO il –/–/—-;
Ne. An. nato a PULSANO il –/–/—-;

avverso la sentenza del 24/01/2024 della CORTE D’APPELLO DI LECCE, sez. dist. Taranto;

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal Consigliere Alessio Scarcella;

letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale LUIGI GIORDANO, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 24 gennaio 2024, la Corte d’appello di Lecce, sez. dist. Taranto confermava la sentenza del tribunale di Taranto del 9 marzo 2023, appellata da Fr. Ne. e An. Ne., che li aveva riconosciuti colpevoli del reato di realizzazione e gestione di una discarica abusiva di rifiuti speciali pericolosi e non, secondo le modalità esecutive e spazio – temporali meglio descritte nell’imputazione, in relazione a fatti contestati come accertati in data 2 gennaio 2019, condannandoli entrambi alla pena condizionalmente sospesa di 8 mesi di arresto ed euro 3.500,00 di ammenda ciascuno, disponendo la confisca dell’area in sequestro, fatti salvi gli obblighi di bonifica o di ripristino dello stato dei luoghi.

2. Avverso tale sentenza hanno proposto separati ricorsi per cassazione Fr. Ne. ed An. Ne. a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, articolando complessivamente due motivi, di cui uno comune ad entrambi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173, disp.att., cod. proc. pen.

2.1. Deducono i ricorrenti, con un motivo comune ad entrambi (motivo unico An. Ne.; secondo motivo di Fr. Ne.), il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 131-bis, cod. pen., riguardante il concetto di permanenza del reato, ed il correlato vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131-bis, cod. pen., relativamente all’omessa valutazione di tutti gli indici criterio riferibili all’intero fatto di reato.

In sintesi, si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la richiesta di applicazione della speciale causa di non punibilità di cui all’articolo 131-bis cod. pen., stante la natura permanente del reato e considerate le quantità dei rifiuti raccolte. I giudici di appello avrebbero, dunque, ritenuto che la permanenza del reato di realizzazione e gestione di discarica abusiva avesse carattere ostativo ai fini dell’applicazione della relativa causa di non punibilità.

La Corte d’appello non avrebbe, tuttavia, considerato che la natura permanente del reato è un elemento del tutto neutro considerando che, come affermato dalle Sezioni Unite Tushaj, l’art. 131-bis cod. pen. si applica ad ogni fattispecie criminosa, in presenza dei presupposti e nel rispetto dei limiti fissati dalla medesima norma. Ricorda la difesa come è ben vero che nei reati permanenti è preclusa l’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto finché la permanenza non sia cessata, ma è altrettanto vero che l’attività di gestione abusiva di una discarica comprende anche la fase post-operativa, con la conseguenza che la permanenza del reato, per quanto qui di interesse difensivo, cessa con la rimozione dei rifiuti o la bonifica dell’area. Sostiene, infatti, la difesa che la permanenza del reato sarebbe cessata con l’effettuazione della bonifica e, ancor prima, con il sequestro, non essendovi alcun dubbio che il ricorrente si sia reso parte diligente nell’eliminare le conseguenze dannose del reato, avendo prima conferito mandato ad una società operante nel settore dei servizi ambientali e dello smaltimento dei rifiuti, ed effettivamente poi provvedendo a ripristinare lo stato dei luoghi effettuando la bonifica, allegando a tal proposito, ai fini dell’autosufficienza del ricorso, la relativa documentazione (relazione di chiusura lavori a firma del titolare della società incaricata dai ricorrenti; piano di intervento con relativo cronoprogramma; intervento di messa in sicurezza e ripristino ambientale su area di proprietà dei ricorrenti). In particolare, dalla relazione di chiusura lavori, in riferimento al ripristino dello stato dei luoghi, si rilevano le attività effettuate e si legge che tutte le attività necessarie al ripristino dello stato dei luoghi sarebbero state effettuate.

Quanto all’attività di bonifica, nella relazione tecnica illustrativa dell’intervento svolto si legge chiaramente che, a seguito dei controlli e dei rapporti di prova, non si riscontrerebbe il superamento delle concentrazioni di soglia di contaminazione del terreno ai sensi del Testo unico ambientale, allegando, sempre ai fini dell’autosufficienza del ricorso, sia la relazione di chiusura lavori che il rapporto di prova. Avrebbe pertanto errato il Giudice d’appello nel considerare come elemento ostativo all’applicazione della speciale causa di non punibilità la permanenza del reato, oramai cessata. A tal proposito, ricorda la difesa del ricorrente, come il novellato richiamo inserito dalla cosiddetta riforma Cartabia avente ad oggetto la condotta susseguente al reato fornisce nuove possibili chiavi di lettura dell’esimente, consentendo la valorizzazione del comportamento successivo al fatto: nel caso di specie, non vi sarebbe alcun dubbio che il ricorrente, predisponendo la bonifica dell’area, abbia dimostrato di aver effettuato una revisione critica postuma del fatto commesso. Proprio applicando la giurisprudenza di legittimità formatasi successivamente all’entrata in vigore della novella di cui all’articolo 131-bis cod.pen., sostiene la difesa come, nel giudizio di bilanciamento, la Corte d’appello avrebbe dovuto effettuare, contemperando gli interessi, quali l’entità del danno e la compressione del bene tutelato dalla norma violata, un’equilibrata valutazione di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, ivi comprese quelle sulla valutazione del grado di pericolosità presunta e non solo di quelle che attengono alla entità dell’aggressione del bene giuridico protetto, proprio perché non esiste un’offesa tenue o grave in chiave archetipica.

Infine, i giudici d’appello avrebbero tralasciato di considerare un dato rilevante che andrebbe a gradare l’entità del disvalore del comportamento, ossia la natura dei rifiuti, atteso che, proprio nella relazione di chiusura lavori di ripristino dei luoghi e di bonifica, si osserva come i campioni di rifiuto presi in esame vengono tutti classificati come rifiuti speciali “non pericolosi”. Conclusivamente, avrebbe errato la Corte d’appello quando, nel rigettare la richiesta di applicazione dell’articolo 131-bis cod. pen., avrebbe omesso di motivare relativamente al dato indice della natura non pericolosa dei rifiuti.

2.2. Deduce la ricorrente Fr. Ne., con un primo motivo ad essa personale, il vizio di violazione di legge in relazione alla non corretta applicazione degli artt. 110, cod. pen., 192, comma 2, e 533, comma 1, cod. proc. pen. e correlato vizio di motivazione.

In sintesi, si premette che la sentenza di appello ha ritenuto infondato il primo motivo di impugnazione proposto dalla imputata, avente ad oggetto la mancanza e, comunque, la insufficienza della prova della sua partecipazione alla commissione del reato nella sua qualità di proprietaria del terreno oggetto di discarica abusiva, in concorso ai sensi dell’articolo 110 del Codice penale con il fratello An. Ne.. Le doglianze svolte in appello evidenziavano la unificazione immotivata delle condotte dei due imputati, con correlato vizio motivazionale in ordine alla prova del contributo partecipativo dell’attuale ricorrente. La sentenza sarebbe censurabile per aver confermato la condanna sulla scorta di argomentazioni congetturali ed apodittiche e con errata interpretazione dei criteri previsti dalla disciplina in tema di concorso di persone nel reato, nonché in relazione ai criteri di valutazione della prova indiziaria e, comunque, per aver ritenuto la colpevolezza della ricorrente pur in presenza di un più che ragionevole dubbio.

Osserva la difesa come la conferma della responsabilità penale della ricorrente, secondo i giudici d’appello, derivava dalla sua consapevolezza della destinazione illecita del fondo, desumibile da alcune circostanze (rapporto di stretta parentela tra i fratelli; conferimento dell’area e dell’abitazione al fratello coimputato; visibilità dei rifiuti dall’esterno dell’area ceduta in uso al fratello). Quanto al legame di parentela, secondo la difesa, si tratterebbe di un elemento del tutto neutro in quanto la circostanza che la ricorrente fosse la sorella del coimputato An. Ne. non ne faceva automaticamente desumere che i due fratelli avessero un rapporto di frequentazione regolare od assidua tale da ritenere ragionevolmente che la ricorrente fosse a conoscenza dei fatti del fratello.

Tale elemento, dunque, spiegherebbe in maniera logica il perché l’attuale ricorrente avesse ceduto l’immobile e il fondo di cui era proprietaria a titolo gratuito, conferendolo al fratello affinché vi abitasse. Che tale abitazione avesse un fondo di pertinenza utilizzato dal fratello per attività illecita non costituirebbe un indizio idoneo a sostenere il sospetto che la ricorrente fosse consapevole dell’utilizzo che il congiunto ne avrebbe fatto. Il conferimento dell’immobile in uso al fratello avrebbe comportato come logica conseguenza che quest’ultima ne avesse perso il possesso, l’uso e la disponibilità. I giudici non avrebbero tenuto conto che il terreno in questione era recintato e chiuso con un cancello, la cui chiave di accesso era nella disponibilità esclusiva del fratello della ricorrente, il che implicava che quest’ultima non potesse avervi accesso in via autonoma, e di conseguenza non potesse rendersi conto di eventuali attività illecite poste in essere su tale area. L’unico accenno fatto con riguardo all’area in cui è avvenuto l’illecito sarebbe viziato dalla conclusione che entrambi i coimputati ne avessero la disponibilità, intendendo come tale quella di accedervi e farne uso: al contrario, proprio la cessione dell’immobile al congiunto piuttosto che a un terzo estraneo alla famiglia consentirebbe di affermare che la ricorrente non solo si fosse spogliata del suo utilizzo, ma che ben poteva disinteressarsene contando sulla fiducia che la stessa riponeva nel suo familiare.

Anche l’ulteriore circostanza secondo la quale i rifiuti erano visibili dall’esterno dell’area assumerebbe una valenza neutra, ove non supportata dalla prova certa, o anche dalla ragionevole probabilità prossima alla certezza, che la ricorrente fosse risultata frequentatrice anche solo occasionale dei luoghi limitrofi all’abitazione ceduta in comodato al fratello, o anche dell’immobile stesso, e che si fosse avveduta dell’accumulo dei rifiuti prima dell’avvenuto sopralluogo effettuato dalle forze dell’ordine, unica occasione in cui la stessa è stata presente per essere stata appositamente convocata: solo in tale occasione la ricorrente risulterebbe essere infatti venuta a conoscenza dell’illecito accertato al momento dell’accesso degli operatori.

L’eventuale visibilità dei rifiuti dall’esterno dell’area occupata dagli stessi rimaneva un fatto oggettivo che non poteva porsi in relazione alla condotta della ricorrente laddove, invece, i giudici avrebbero apoditticamente presunto che quest’ultima avesse avuto occasioni di visita presso l’immobile durante il periodo di commissione dell’illecito. In realtà, da una fotografia allegata al ricorso in base al principio di autosufficienza, non sarebbe immediatamente percepibile un accatastamento di rifiuti, quanto piuttosto una mera situazione di fatiscenza di strutture esistenti sul fondo costituite da una copertura realizzata con apposizione di un telone a sostegno in legno, evidentemente di vecchia edificazione, che danno la percezione di un riparo improvvisato per materiali e non certamente di un accumulo di rifiuti.

I giudici, quindi, avrebbero travisato i predetti elementi indiziari affermando la responsabilità a titolo di concorso della ricorrente fondandola sulla apodittica asserzione che quest’ultima, in base a tali elementi indiziari, non potesse ignorare la destinazione illecita impressa dal fratello al fondo da lei ceduto in uso. Tale vizio sarebbe ancora più evidente laddove si consideri che i giudici d’appello avrebbero congetturato la consapevolezza della ricorrente in riferimento all’illecito compiuto dal fratello dal fatto che la stessa, avendo messo a disposizione del fratello l’area poi occupata dai rifiuti, gli avrebbe fornito il luogo per il suo esercizio, ricavando dunque dal fatto noto, rappresentato dal conferimento del terreno, il fatto ignoto, mai provato, che la stessa fosse consapevole già dall’inizio dell’attività illecita che sarebbe stata ivi effettuata, anzi presupponendo in modo del tutto apodittico che la stessa avesse prestato il consenso alla condotta criminosa del fratello: in sostanza, la responsabilità della ricorrente risiedeva nella congettura del “non poteva non sapere” della destinazione illecita che il fratello avrebbe dato al terreno.

Diversamente, sostiene la difesa della ricorrente, i predetti elementi, quand’anche considerati indizianti, non sarebbero connaturati né da gravità né da precisione né da concordanza, e comunque non eliminerebbero affatto una diversa e logica ricostruzione più adeguata e coerente ai dati processuali della condotta tenuta dalla ricorrente, né si opporrebbero, con elevato grado di probabilità, a un univoco ragionamento che fornisca plausibilità alle conclusioni di accertamento di responsabilità penale della ricorrente. Del tutto congetturale e apodittico, peraltro, rimarrebbe il giudizio dei giudici d’appello fondato sull’ipotesi che la ricorrente, nel momento in cui conferiva il terreno al fratello, era da ritenersi consenziente all’utilizzo illecito che il congiunto ne avrebbe fatto. Diversamente, si osserva, nessun accenno è dato riscontrare in termini di valutazione del contributo causale della ricorrente nell’illecito perpetrato dal fratello, nemmeno nella prima sentenza che avrebbe del tutto dimenticato di affrontare il tema dell’accertamento individuale di responsabilità della ricorrente, preferendo immotivatamente unificare le condotte dei due imputati, laddove invece, secondo la giurisprudenza di questa Corte richiamata in ricorso, è pur sempre necessario accertare l’apporto di contributi attivi o passivi al reato oggetto di volontà comune. Il conferimento del terreno non poteva mai ritenersi prova del contributo attivo offerto dalla ricorrente se non supportato dalla prova della cooperazione colposa della stessa, ossia di ulteriori elementi dimostrativi della sua consapevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, di aver conferito e anche mantenuto il terreno al fine di collaborare al disegno criminoso del fratello. L’eventuale apporto partecipativo della ricorrente si sarebbe peraltro realizzato in modo omissivo, e dunque in termini di concorso morale, e la relativa condotta tollerante della Ne. all’attività illecita compiuta dal fratello, comunque avrebbe presupposto una motivazione dell’accertamento probatorio in ordine alla sua consapevolezza dell’illecito, già in tempo anteriore all’accertamento e al sequestro dell’area.

I giudici di appello avrebbero invece congetturato una tolleranza consapevole della ricorrente all’illecito compiuto dal fratello. La giurisprudenza richiamata dalla Corte d’appello risulterebbe, inoltre, inconferente rispetto al caso in esame, laddove implicitamente riferisce l’attività illecita del concorrente nel reato in questione a un preciso obbligo giuridico di evitare l’evento: sotto tale profilo, la decisione sarebbe inficiata da un evidente vizio di violazione di legge in quanto fonda sulla ricorrente una posizione di garanzia basata sui doveri volti alla prevenzione di eventi pregiudizievoli, del tutto inesistente nel caso di specie, come più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte richiamata in ricorso. In definitiva, dunque, i giudici di appello avrebbero erroneamente posto in capo alla ricorrente una posizione di garanzia tale da ritenerla obbligata ad attivarsi per impedire l’illecito, e che pertanto la sua inerzia, anche laddove fosse ritenuta consapevolmente tollerante dell’altrui illecito, non sarebbe stata sufficiente per confermarne la responsabilità penale quale concorrente nel reato: e tanto in difetto di qualsivoglia elemento contrario che indicasse che la ricorrente ricoprisse ruoli e uffici che la obbligavano ad attivarsi per scongiurare pericoli di danno ambientale nel contesto di un’attività di discarica di rifiuti, non essendo affatto risultato che l’imputata avesse mai effettuato attività imprenditoriale di gestione di discarica, che fosse proprietaria di strutture e mezzi realizzati al trasporto e movimentazione di rifiuti o che ricoprisse ruoli dirigenziali pubblici.

In conclusione, la condotta della ricorrente, secondo la difesa, avrebbe tutt’al più assunto i connotati di una condotta connivente ove effettivamente consapevole dell’altrui illecito, che non poteva assumere però rilevanza penale in termini concorsuali ai fini dell’affermazione di responsabilità per il reato alla stessa contestato.

3. Con requisitoria scritta del 28 ottobre 2024, il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto il rigetto dei ricorsi.

3.1. Quanto al motivo comune, relativo alla mancata applicazione della speciale causa di non punibilità del fatto ex art. 131-bis, cod. pen., il PG lo ha ritenuto infondato.

Ed infatti, l’esclusione della causa di non punibilità risulterebbe compiutamente motivata in maniera conforme alle indicazioni offerte dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, rammenta il PG che l’applicabilità deve essere valutata alla luce di una considerazione complessiva della vicenda fattuale, che tenga conto perciò di tutti gli elementi, sia positivi che negativi, capaci di incidere sull’entità del danno al bene giuridico tutelato. Va inoltre sottolineato che “Ai fini dell’applicabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità dell’offesa dev’essere effettuato con riferimento ai criteri di cui all’art. 133, comma primo, cod. pen., ma non è necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti.” (Sez. 7, n. 10481 del 19/01/2022 Cc. Rv. 283044 – 0). Infine “In tema di “particolare tenuità del fatto”, la motivazione può risultare anche implicitamente dall’argomentazione con la quale il giudice d’appello, per valutare la congruità del trattamento sanzionatorio irrogato dal giudice di primo grado, abbia considerato gli indici di gravità oggettiva del reato e il grado di colpevolezza dell’imputato, alla stregua dell’art. 133 cod. pen.” (Sez. 4, n. 27595 del 11/05/2022 Rv. 283420 – 01). Nel caso di specie, l’esclusione appare per il PG compiutamente giustificata alla luce delle diffuse considerazioni contenute in tutta la parte motivazionale, da cui emerge la rilevante gravità dei fatti contestati e delle condotte tenute. Così le osservazioni: sull’estensione dell’area; sul quantitativo “incalcolabile” dei rifiuti (anche speciali) accatastati; sulla loro eterogeneità; sulla non occasionalità delle condotte; sulla definitività della raccolta. In aggiunta a tali elementi, viene inoltre richiamata la natura permanente del reato accertato, atteso che “In tema di reati permanenti, è preclusa l’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto finché la permanenza non sia cessata, in ragione della perdurante compressione del bene giuridico per effetto della condotta delittuosa (In applicazione del principio, la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza impugnata per difetto di motivazione sull’applicabilità dell’art. 131 bis cod. pen., nonostante la pronuncia avesse espresso una valutazione di “modestia oggettiva del fatto” di cui era stata accertata la cessazione della permanenza: Sez. 3, n. 30383 del 30/03/2016 Ud., Rv. 267589 – 01)”. Deve però segnalarsi che, al momento della condanna, era già intervenuta la bonifica dei luoghi, seppur attinente agli obblighi di rispristino dello status quo ante, determinandosi così la cessazione dell’offesa al bene giuridico tutelato. Anche però a fronte dell’eventuale venir meno di tale considerazione, bisogna però dare atto della perdurante tenuta della valutazione giudiziale alla luce dei molteplici elementi richiamati nel provvedimento.

3.2. Quanto al motivo proposto dalla ricorrente Fr. Ne. sulla sua responsabilità concorsuale, lo stesso è ritenuto parimenti infondato. La valutazione giudiziale appare infatti immune dai vizi lamentati. In particolare, gli elementi richiamati, ritenuti decisivi, sono stati oggetto di un’analisi dapprima individuale e poi complessiva come prescritto dalla giurisprudenza di legittimità sul ragionamento inferenziale. Vanno peraltro sottolineati i limiti entro cui è ammissibile un sindacato in questa sede sulla valutazione probatoria in quanto la censura pare orientata a sollecitare un nuovo giudizio nel merito, come tale inammissibile. Dev’essere infatti fermamente ribadito che “In tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito” (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020 Ud. (dep. 11/02/2021) Rv. 280601 – 01). Ancora “Non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti” (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017 Ud. (dep. 13/11/2017) Rv. 271623 – 01). L’unico spazio quindi per l’intervento della Suprema Corte è rappresentato dal vizio motivazionale nel ragionamento giuridico seguito dal giudice nella valutazione del compendio probatorio. Tale circostanza non appare però ricorrere nell’ipotesi di specie in quanto il provvedimento impugnato è in grado di soddisfare lo standard richiesto. Il giudice a quo, come detto, ha richiamato il rapporto parentale, il conferimento del fondo e dell’immobile al fratello e l’immediata visibilità dei rifiuti, esprimendosi in maniera logica sul loro pregnante significato. In particolare, ha confutato in maniera condivisibile l’asserita ignoranza della ricorrente sulla destinazione d’uso dell’area, sottolineando invece la sua tolleranza e sostanziale consenso all’attività che permettono di fondare il rimprovero penalistico.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi, trattati cartolarmente in assenza di richiesta di discussione orale, sono inammissibili.

2. Il congiunto motivo di ricorso è manifestamente infondato.

2.1. Ed invero, la Corte d’appello ha escluso la possibilità di riconoscere ai ricorrenti la speciale causa di non punibilità valorizzando segnatamente la natura permanente del reato e le quantità di rifiuti raccolte. Il fatto che emerge dalla descrizione della vicenda processuale non può essere considerato di particolare tenuità. Ed infatti, dalla descrizione dei luoghi risulta la sostanziale eterogeneità dei rifiuti, la presenza di rifiuti speciali anche pericolosi (in ciò destituendosi di fondamento quanto asserito nel ricorso secondo cui si sarebbe trattato solo di rifiuti non pericolosi, posto che la descrizione fattane dagli operanti rende ragione della presenza di rifiuti sicuramente pericolosi quali, a titolo di esemplificativo, i condizionatori ed i televisori, che, come è noto, costituiscono rifiuti speciali pericolosi, rientranti nei RAEE, soggetti a particolari regole per la raccolta, il trattamento e lo smaltimento, ad esempio per la presenza di gas refrigeranti), il loro consistente quantitativo, definito “incalcolabile” in sentenza, le modalità del loro accatastamento “alla rinfusa”, l’estensione ragguardevole dell’area da essi occupata pari a circa 1000 mq., costituiscono tutti elementi che rendono evidente l’impossibilità di considerare il fatto come di particolare tenuità.

2.2. Né, peraltro, rileva la circostanza che i contravventori avessero provveduto alla bonifica dello stato dei luoghi a mezzo ditta specializzata. È sufficiente, a tal fine, evidenziare come tale elemento di per sé, anche considerando la novella “Cartabia” che ha inserito, tra gli elementi valutativi, la condotta susseguente al reato, non assume valenza dirimente al fine di un eventuale riconoscimento dell’art. 131-bis, cod. pen. È stato, infatti, già affermato da questa Corte che ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, acquista rilievo, per effetto della novellazione dell’art. 131-bis cod. pen. ad opera dell’art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, anche la condotta dell’imputato successiva alla commissione del reato, che, tuttavia, non potrà, di per sé sola, rendere di particolare tenuità un’offesa che tale non era al momento del fatto, potendo essere valorizzata solo nell’ambito del giudizio complessivo sull’entità dell’offesa recata, da effettuarsi alla stregua dei parametri di cui all’art. 133, comma primo, cod. pen. (Sez. 3, n. 18029 del 04/04/2023, Rv. 284497 – 01). E, nel caso di specie, non può certo valorizzarsi il comportamento successivo come idoneo ex se al fine di riconoscere la predetta causa speciale di non punibilità, soprattutto laddove si consideri che la “condotta susseguente” posta in essere dai ricorrenti non può essere valutata come, di per sé, giustificativa del riconoscimento della speciale causa di non punibilità in relazione al reato di realizzazione o gestione di discarica abusiva, sol che si consideri che si tratta di comportamento non certo spontaneo, ma necessitato dalla legge, atteso che è proprio l’art. 256, comma 3, D. lgs. n. 152 del 2006 a stabilire che “Alla sentenza di condanna o alla sentenza emessa ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, consegue la confisca dell’area sulla quale è realizzata la discarica abusiva se di proprietà dell’autore o del compartecipe al reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica o di ripristino dello stato dei luoghi”.

Dunque, l’aver bonificato l’area e ripristinato lo status quo ante, lungi dall’essere un comportamento valutabile come una condotta costituente una manifestazione di resipiscenza e rimeditazione della gravità del fatto commesso (di cui, si noti, si sarebbe aggravata la permanenza se non fosse intervenuto il controllo da parte del personale operante, disponendo il sequestro dell’area interessata dalla discarica), in realtà, in quanto imposta dalla legge, diviene elemento del tutto neutro che esclude che la stessa sia considerabile come esclusivo e autosufficiente indice-requisito di tenuità dell’offesa, bensì come ulteriore criterio, accanto a tutti quelli contemplati dall’art. 133, comma 1, cod. pen., (ossia la natura, la specie, i mezzi, l’oggetto, il tempo, il luogo e ogni altra modalità dell’azione; la gravità del danno o del pericolo; l’intensità del dolo o della colpa), che, nell’ambito di un giudizio complessivo e unitario, il giudice è chiamato a valutare per apprezzare il grado dell’offesa.

2.3. Può dunque affermarsi il principio di diritto secondo cui “Le condotte post delictum, ove normativamente imposte, anche se antecedenti al momento in cui è intervenuta condanna, in quanto solo anticipatorie di un effetto che sarebbe comunque conseguito ex lege, non rendono di particolare tenuità un’offesa che tale non era al momento della commissione del fatto, escludendo la riconoscibilità dell’art. 131-bis, cod. pen.”.

3. Anche il primo motivo di ricorso, personale a Fr. Ne., è manifestamente infondato.

3.1. Il Collegio condivide le considerazioni espresse sul punto dalla Procura Generale di questa Corte, secondo cui gli elementi richiamati, ritenuti decisivi, sono stati oggetto da parte dei giudici di merito di un’analisi dapprima individuale e poi complessiva come prescritto dalla giurisprudenza di legittimità sul ragionamento inferenziale.

3.2. In tema di prova indiziaria, infatti, alla Corte di Cassazione compete il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione degli indizi, nonché la verifica della completezza, della correttezza e della logicità del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute per qualificare l’elemento indiziario, ma non, anche, un nuovo accertamento che ripeta l’esperienza conoscitiva del giudice del merito (Sez. 5, n. 602 del 14/11/2013, dep. 2014, Rv. 258677 – 01), come invece viene richiesto con il motivo di ricorso proposto.

3.3. Vanno peraltro sottolineati i limiti entro cui è ammissibile un sindacato in questa sede sulla valutazione probatoria in quanto la censura è orientata a sollecitare un nuovo giudizio nel merito, come tale inammissibile. Dev’essere infatti ribadito che in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito” (Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601– 01) e che non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, Rv. 271623 – 01).

3.4. L’unico spazio quindi per l’intervento della Suprema Corte, come ricorda il PG, è rappresentato dal vizio motivazionale nel ragionamento giuridico seguito dal giudice nella valutazione del compendio probatorio.

3.5. Tale circostanza non ricorre all’evidenza nell’ipotesi di specie in quanto il provvedimento impugnato è in grado di soddisfare lo standard richiesto. Il giudice a quo, come detto, ha richiamato il rapporto parentale, il conferimento del fondo e dell’immobile al fratello e l’immediata visibilità dei rifiuti, esprimendosi in maniera logica sul loro pregnante significato. In particolare, ha confutato in maniera condivisibile, e con valutazione immune dai vizi logico – giuridici oggetto di censura, l’asserita ignoranza della ricorrente sulla destinazione d’uso dell’area, sottolineando invece la sua tolleranza e sostanziale consenso all’attività che permettono di fondare il rimprovero penalistico. Nella specie, proprio i rapporti di stretta parentela esistenti tra la ricorrente (proprietaria del fondo e dell’immobile) ed il fratello, la circostanza che anche dall’esterno fosse visibile la raccolta di rifiuti accatastati nei pressi dell’immobile adibito ad abitazione (non potendo certo ritenersi travisato il contenuto della fotografia cui si riferisce il collegio di merito in motivazione) ed occupato dal fratello della ricorrente, sono tutte circostanze che, come affermato in sentenza, portano ad escludere che la ricorrente ignorasse la destinazione impressa dal fratello a parte dell’area di sua proprietà, avendo la stessa consentito che sul detto fondo il fratello esercitasse l’attività di realizzazione e gestione di discarica abusiva, così concorrendo nel reato oggetto di volontà comune, avendo fornito il luogo per il suo esercizio, dunque ponendo in essere una condizione indispensabile dell’illecito, rafforzando nel fratello tale volontà, fondata sul consenso della proprietaria.

3.6. Del resto, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, nel concorso di persona punibile nel fatto della realizzazione e gestione abusiva di una discarica di rifiuti speciali, sia pericolosi che non pericolosi, da parte di altri è richiesto, invece, un contributo partecipativo – morale o materiale – alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell’evento illecito.

3.7. Nel reato contravvenzionale, qual è quello in esame, l’agente risponde della sua azione, sia essa dolosa o colposa, purché la medesima sia cosciente e volontaria. Detti requisiti sussistono nell’ipotesi che il reo autorizzi altra persona all’uso di cosa propria che, per le sue caratteristiche e natura, non può che essere adoperata, se non per lo scopo inerente alle medesime. In tal caso il cosciente e volontario consenso dato dall’agente al terzo per l’unico uso possibile della cosa propria implica l’adesione al comportamento illecito che della medesima farà la persona autorizzata, con ogni conseguenza in ordine al concorso nel reato da costei commesso (Sez. 1, n. 3822 del 03/03/1994, Rv. 196988 – 01). Dunque, il fatto di aver “tollerato” che il fratello utilizzasse il fondo di sua proprietà utilizzandolo per finalità non consentite cessa di essere una connivenza non punibile, divenendo un vero e proprio concorso nell’illecito posto in essere da quest’ultimo.

4. I ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende, non potendosi escludere profili di colpa nella proposizione dei ricorsi.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso, il 14/11/2024

 

 

 
 

 

 

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