Principi di diritto e discrezionalità giudiziale (*).
Riccardo Guastini
Nelle pagine che seguono mi propongo
di esaminare in modo sommario i punti di intersezione tra principi di diritto e
discrezionalità giudiziale.
A mio modo di vedere, tali punti di intersezione sono almeno sette:
a) l’identificazione dei (di taluni)
principi: quelli che non sono espressamente pre-qualificati come tali dalla
stessa autorità normativa che li ha formulati;
b) l’interpretazione delle disposizioni che si suppone esprimano principi;
c) la “concretizzazione” dei principi, ossia la loro applicazione a casi
concreti;
d) la costruzione dei (di taluni) principi: quelli inespressi;
e) il bilanciamento dei principi, specie dei principi costituzionali;
f) l’interpretazione (non dei principi stessi, ma) delle disposizioni normative
ad essi circostanti; e finalmente
g) l’elaborazione, da parte della giurisprudenza costituzionale, della categoria
dei principi supremi assolutamente immodificabili, nonché l’identificazione dei
principi supremi stessi.
1. Identificazione dei principi
Taluni principi sono non solo espressamente formulati, ma anche espressamente
identificati come tali dalle stesse autorità normative.
È il caso, tanto per esemplificare, degli artt. 1-12 Cost., che lo stesso
costituente ha voluto qualificare come “Principi fondamentali”; è il caso della
legge n. 382 del 1978, “Norme di principio sulla disciplina militare”, come pure
della legge n. 335 del 1979, “Principi fondamentali e norme di coordinamento in
materia di bilancio e di contabilità delle Regioni”; è il caso, ancora,
dell’art. 1 della legge n. 833 del 1978 (“Istituzione del servizio sanitario
nazionale”), il quale porta in rubrica “I principi”, o dell’art. 22 della legge
n. 93 del 1983 (“Legge-quadro sul pubblico impiego”), il quale porta in rubrica
“Principi in tema di responsabilità, procedure, e sanzioni disciplinari”; e via
esemplificando.
Altri principi, per contro, sono tali in virtù non di una espressa
qualificazione dell’autorità normativa, bensì di una valutazione dell’interprete
. Nel senso che gli interpreti – e segnatamente i giudici – identificano come
principi certe disposizioni normative, in sede appunto di interpretazione, in
assenza di qualunque espressa statuizione del legislatore in tal senso.
Un solo esempio tra mille: una decisione recente della Corte costituzionale
attribuisce lo status di “principio fondamentale”, vincolante per la
legislazione regionale (ai sensi dell’art. 117, 1° comma, Cost.), all’art. 3 bis
del d.l. n. 361 del 1987 (introdotto con legge di conversione n. 441 del 1987),
il quale dispone quanto segue: la Giunta regionale approva i progetti di nuovi
impianti di trattamento e stoccaggio dei rifiuti sulla base delle risultanze di
una apposita conferenza, cui partecipano i responsabili degli uffici regionali
competenti ed i rappresentanti degli enti locali interessati; la conferenza
acquisisce e valuta tutti gli elementi relativi alla compatibilità del progetto
con le esigenze ambientali e territoriali; l’approvazione del progetto
costituisce, se occorre, variante dello strumento urbanistico generale. La
disposizione menzionata – sia detto per inciso – non sembra soddisfare alcuna
delle definizioni di principio che circolano in letteratura.
L’operazione consistente nell’attribuire valore di principio ad una disposizione
che non si auto-qualifica espressamente come tale è frutto di discrezionalità,
per il fatto – in verità scontato – che i tratti caratterizzanti dei principi
(in rapporto alle regole specifiche) sono altamente controversi in letteratura.
Un resoconto esauriente delle diverse dottrine 5 sarebbe fuori luogo: mi limito
a due esempi.
a) Taluni pretendono che il tratto distintivo dei principi, rispetto alle regole
specifiche, sia nella loro peculiare struttura logica. Le regole sarebbero norme
ipotetiche, che connettono precise conseguenze giuridiche a non meno precise
(classi di) fattispecie; i principi, per contro, sarebbero norme incondizionate,
ossia prive di fattispecie, o comunque a fattispecie aperta, sicché il loro
campo di applicazione resterebbe totalmente indeterminato.
b) Altri pretendono che il tratto distintivo dei principi sia non già nel loro
contenuto normativo, ma piuttosto nella peculiare posizione che essi occupano
nell’ordinamento (o in un suo sottosettore). I principi sarebbero norme
fondamentali, caratterizzanti, che conferiscono identità assiologica
all’ordinamento (o ad un suo sottosettore) e offrono giustificazione alle norme
rimanenti (dell’ordinamento nel suo complesso o di quel suo particolare
sottosettore).
Ora, anzitutto, è abbastanza probabile che quanti aderiscono alla prima dottrina
attribuiscano lo status di principi a disposizioni diverse da quelle che saranno
identificate come principi dagli aderenti alla seconda dottrina.
Inoltre, per i partigiani della prima dottrina, l’identificazione di un
principio è necessariamente frutto di discrezionalità interpretativa (come
vedremo, una stessa disposizione può essere interpretata, alternativamente, sia
come esprimente una regola specifica, sia come esprimente un principio). Per i
partigiani della seconda, l’identificazione di un principio esige un giudizio di
valore intorno alla importanza relativa delle diverse disposizioni che
compongono l’ordinamento. In entrambi i casi, l’identificazione di un principio
in quanto tale (mi riferisco sempre a disposizioni che non siano espressamente
etichettate come principi dalla stessa autorità normativa) involge
discrezionalità.
Conviene osservare, per concludere su questo punto, che l’identificazione dei
principi non è – come taluni potrebbero essere indotti a pensare – un problema
squisitamente teorico-generale o filosofico-giuridico, privo di esiti pratici.
Al contrario: l’identificazione dei principi (come risulta, d’altronde, da
quanto ho detto sopra a proposito di una decisione costituzionale) è problema di
diritto positivo.
Mi astengo dal tentare una ricognizione completa delle norme vigenti che fanno
riferimento ai principi, e che dunque esigono l’identificazione dei principi per
la loro applicazione. Ricorderò soltanto che l’art. 117, 1° comma, Cost. –
autorizzando le Regioni (a statuto ordinario) ad emanare «norme legislative nei
limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato» – impone di
distinguere tra “norme” e “principi fondamentali” 8. D’altro canto, l’art. 3
della legge cost. n. 3 del 1948, Statuto speciale per la Sardegna, l’art. 2
della legge cost. n. 4 del 1948, Statuto speciale per la Valle d’Aosta, nonché
l’art. 4 del d.p.r. n. 670 del 1972, Testo unico delle leggi cost. concernenti
lo Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, esigono che le relative leggi
regionali siano conformi ai «principi dell’ordinamento giuridico dello Stato».
Di «principi ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato»,
quali limiti alla legislazione regionale, parla anche l’art. 17 del r.d.l. n.
455 del 1946, convertito in legge cost. n. 2 del 1948, Statuto della Regione
siciliana.
2. Interpretazione delle disposizioni esprimenti principi
Sotto un diverso profilo, l’identificazione dei principi involge discrezionalità
anche per il fatto che una medesima disposizione normativa può – sovente, se non
sempre – essere interpretata indifferentemente come una regola specifica o come
un principio. Il punto può essere illustrato con un semplice esempio.
L’art. 3, 1° comma, Cost. – «Tutti i cittadini [...] sono eguali davanti alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» – ammette due
interpretazioni.
a) Nella prima interpretazione 9, esso esprime una regola specifica. Grosso modo
la seguente: se una legge distingue tra cittadini secondo il sesso, la razza,
ecc. (fattispecie), allora essa è costituzionalmente illegittima (conseguenza
giuridica).
Per un verso, una regola siffatta non ammette eccezioni: è escluso che una
legge, la quale discrimini secondo il sesso, la razza, ecc., possa mai essere
conforme a costituzione.
Per un altro verso, una regola siffatta ha una fattispecie chiusa: è escluso che
(ai sensi di questa norma) una legge possa essere costituzionalmente illegittima
qualora discrimini per ragioni diverse dal sesso, dalla razza, ecc.
b) Nella seconda interpretazione (quella, peraltro, fatta propria dalla Corte
costituzionale a partire dagli anni sessanta ), la stessa disposizione esprime
un generico principio di eguaglianza, che potrebbe forse essere formulato così:
i casi eguali devono essere trattati in modo eguale, i casi diversi devono
essere trattati in modo diverso.
Per un verso, questo principio ammette eccezioni: non è affatto escluso che una
legge possa essere costituzionalmente legittima pur discriminando tra cittadini,
ad esempio, secondo il sesso (il legislatore deve trattare in modo diverso
situazioni oggettivamente diverse).
Per un altro verso, questo principio ha una fattispecie aperta: non è affatto
escluso che una legge possa essere costituzionalmente illegittima perché
discrimina secondo criteri diversi dal sesso, dalla razza, ecc. (il legislatore
deve trattare in modo eguale situazioni oggettivamente eguali).
Si osservi che non solo è ovviamente discrezionale la scelta tra la prima e la
seconda interpretazione, ma – inoltre – la scelta della seconda ha l’effetto di
conferire ulteriore potere discrezionale all’organo dell’applicazione (nella
specie: il giudice costituzionale).
3. Concretizzazione dei principi
L’art. 12, 2° comma, disp. prel. c.c. dispone: «Se una controversia non può
essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che
regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si
decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato».
Le controversie che non possono essere decise con una “precisa disposizione”,
ossia con una norma espressa, configurano altrettante lacune del diritto. I
principi sono dunque richiamati dalla disposizione ora menzionata quali
strumenti di integrazione del diritto in presenza di lacune (ad essi il giudice
è autorizzato a fare ricorso dopo avere inutilmente esperito l’argomento
analogico).
Tuttavia, i principi non sono per sé idonei ad offrire la soluzione di
specifiche controversie: per lo più essi richiedono, come si usa dire,
“concretizzazione”.
Facciamo un esempio per chiarire la questione. Supponiamo di convenire che,
malgrado le apparenze, il cosiddetto “danno biologico” non costituisca un danno
non-patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c., e che pertanto il codice civile
non detti disciplina alcuna intorno alla risarcibilità del danno biologico. Se
ne può concludere che il codice civile presenti una lacuna. Come colmarla? Si
può ritenere che la lacuna debba essere colmata facendo ricorso al principio di
tutela della salute (art. 32 Cost.).
Ma è evidente che tale principio non è per sé sufficiente a risolvere alcuna
controversia in materia, poiché nulla dice intorno alla risarcibilità del danno
biologico. Si può usare il principio in questione per risolvere una controversia
in materia di danno biologico, solo a condizione di ricavare da esso una norma
particolare (implicita), idonea, essa sì, a colmare la lacuna e a regolare la
fattispecie di cui si cerca la disciplina.
La costruzione di questa norma specifica costituisce appunto “concretizzazione”
del principio. Ma, d’altra parte, non vi è norma specifica che possa essere
ricavata da un principio con un ragionamento deduttivo, e pertanto stringente,
senza l’aggiunta di ulteriori premesse. La scelta delle premesse è frutto di
discrezionalità.
4. La costruzione dei principi inespressi
Sono principi espressi quelli che sono esplicitamente formulati in una apposita
disposizione costituzionale o legislativa, dalla quale possono essere ricavati
(come qualsiasi altra norma) mediante interpretazione.
Ad esempio – fermo restando che la questione se una data disposizione esprima un
principio o una regola specifica è talora opinabile – possono considerarsi
principi espressi nel nostro ordinamento: il principio di eguaglianza (art. 3,
1° comma, Cost.); il principio di irretroattività della legge penale (art. 25,
2° comma, Cost.); il principio “neminem laedere” (art. 2043 c.c.); il principio
cosiddetto di stretta interpretazione della legge penale (art. 1 c.p. e art. 14
disp. prel. c.c.); il principio di legalità nella giurisdizione (art. 101, 2°
comma, Cost.); e via enumerando.
Per contro, sono principi inespressi quelli privi di disposizione 12, ossia non
esplicitamente formulati in alcuna disposizione costituzionale o legislativa, ma
elaborati o “costruiti” dagli interpreti. S’intende che gli interpreti, allorché
formulano un principio inespresso, non si atteggiano a legislatori, ma assumono
che tale principio sia implicito, latente, nel discorso delle fonti 13.
Ad esempio, sono principi inespressi del nostro ordinamento: il principio di
tutela dell’affidamento, il principio dispositivo nel processo civile, il
principio di conservazione dei documenti normativi, il principio della
separazione dei poteri, (forse) il principio di legalità nell’amministrazione, i
cosiddetti principi dell’ordine pubblico, il principio cosiddetto del “favor” in
diritto del lavoro, e via enumerando.
I principi inespressi sono frutto non di interpretazione (cioè di ascrizione di
senso a specifici testi normativi, ma) di integrazione del diritto ad opera
degli interpreti. Essi sono desunti dagli operatori giuridici: ora da singole
norme, ora da insiemi più o meno vasti di norme, ora dall’ordinamento giuridico
nel suo complesso.
Si desume un principio da una singola norma ogniqualvolta si ipotizza una ratio,
cioè uno scopo che la norma è diretta a perseguire, o un valore da cui la norma
è giustificata. Ma sono principi elaborati a partire da una singola norma anche,
ad esempio, il principio cosiddetto di ragionevolezza o non-arbitrarietà della
legislazione (che la Corte costituzionale desume dall’art. 3, 1° comma, Cost.),
il principio di libertà delle forme negoziali (che la dottrina prevalente ricava
dall’art. 1325 c.c.), ecc.
Sono desunti da una molteplicità di norme, ad esempio, il principio di tutela
dell’affidamento e il principio dispositivo nel processo civile. L’uno è
ricavato dalle disposizioni sull’errore quale causa di annullamento del
contratto (art. 1428 c.c.), dalle disposizioni sugli effetti della simulazione
rispetto ai terzi ed ai creditori (artt. 1415 e 1416 c.c.), dalle disposizioni
che limitano la opponibilità a terzi della modificazione o revoca della procura
(art. 1396 c.c.), ecc. L’altro è ricavato dagli artt. 2907, 1° comma, e 2697 c.c.,
dagli artt. 99 e seguenti c.p.c., dalla disciplina della transazione (artt. 1965
e seguenti c.c.), ecc.
Secondo alcuni, sono principi impliciti nell’ordinamento giuridico complessivo,
ad esempio, la cosiddetta “norma generale esclusiva” (o principio di libertà:
tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso), il principio di certezza
del diritto, il principio di conservazione dei documenti normativi.
Orbene, si può ipotizzare che siano in uso, nella nostra cultura giuridica,
almeno tre diverse tecniche di costruzione dei principi.
a) Una prima tecnica di costruzione consiste nella “induzione” di norme generali
– mediante astrazione, generalizzazione, o universalizzazione che dir si voglia
– a partire da norme particolari. Si tratta di un procedimento altamente (e, del
resto, notoriamente) discrezionale 14.
Poniamo che la norma particolare, N, da cui si prendono le mosse, connetta la
conseguenza giuridica Z ad una fattispecie complessa, F, che si realizza quando
si presentano congiuntamente le circostanze A, B, e C. La struttura della norma
N sarà pertanto: A e B e C, allora Z”. Orbene, la costruzione del principio
consiste in questo: in primo luogo, si distinguono, entro gli elementi (A, B, e
C) che caratterizzano la fattispecie F, le componenti essenziali da quelle
accidentali 15; in secondo luogo, si costruisce una fattispecie F1 che non
comprende le componenti accidentali (ed è per ciò stesso più generale di F); in
terzo luogo, si formula il principio che connette la medesima conseguenza
giuridica Z alla fattispecie F1. Il passaggio chiave di questa operazione è,
naturalmente, il primo: la distinzione – del tutto discrezionale – tra le
componenti accidentali, da cui si farà astrazione, e le componenti essenziali,
che entreranno invece a comporre la fattispecie del principio. Il principio,
ricavato per universalizzazione, avrà un contenuto diverso a seconda che, nel
costruirlo, si faccia astrazione solo dalla componente A (“Se B e C, allora Z”),
oppure solo da B (“Se A e C, allora Z”), oppure solo da C (“Se A e B, allora
Z”), oppure ancora da A e B (“Se C, allora Z”), o invece da A e C (“Se B, allora
Z”), o piuttosto da B e C (“Se A, allora Z”).
b) Una seconda tecnica di costruzione consiste nell’avanzare congetture intorno
alle ragioni – agli scopi, alle intenzioni, ai valori – del legislatore. È ciò
che si fa ogniqualvolta si desume da una norma (o da un complesso di norme) la
sua ratio.
Siffatte congetture intorno alle ragioni del legislatore sono ovviamente
discrezionali. È raro che una norma risponda ad uno scopo univoco e ben
definito. Ogni risultato che una norma (se osservata e/o applicata) è idonea a
produrre può essere assunto a ragion d’essere di quella norma. Se una data norma
è idonea a produrre congiuntamente due risultati distinti, R1 ed R2, si può
sostenere che ratio della norma sia, indifferentemente, la realizzazione di R1
come pure la realizzazione di R2.
c) Una terza tecnica di costruzione consiste: per un verso, nell’elaborare una
norma implicita che si suppone strumentale all’attuazione di un principio
(previamente riconosciuto come tale); e, per un altro verso, nell’elevare poi al
rango di principio la norma implicita così costruita.
È appena il caso di osservare: anzitutto, che non tutte le norme che sono
condizioni necessarie di attuazione di un principio possono considerarsi per ciò
solo valide; e inoltre che le norme in questione, quando anche siano valide, non
necessariamente costituiscono principi.
5. Il bilanciamento dei principi costituzionali
Può accadere (in verità accade sovente) che due principi – proprio come succede
alle norme – entrino in conflitto. Anzi, alcuni ritengono sia addirittura un
tratto definitorio dei principi l’essere ciascuno di essi in conflitto con
altri: sicché, data una fattispecie cui sia applicabile un principio P1, vi è
sempre almeno un altro principio P2 egualmente applicabile alla medesima
fattispecie e incompatibile con P1. Incompatibile, nel senso che l’applicazione
di P2 avrebbe esiti diversi dall’applicazione di P1.
Ora, i conflitti tra principi – esempio paradigmatico: i conflitti tra principi
costituzionali (cui è circoscritto il discorso che segue) – presentano
generalmente (non sempre, e comunque non necessariamente) tre caratteristiche,
che meritano di essere segnalate.
a) In primo luogo, i conflitti tra principi – in particolare: tra principi
costituzionali – sono antinomie tra norme coeve e pari-ordinate nella gerarchia
delle fonti.
b) In secondo luogo, i conflitti tra principi sono per lo più antinomie “in
concreto”. Il punto richiede qualche parola di spiegazione.
Si ha un’antinomia “in astratto” (o necessaria) ogniqualvolta due norme
connettono conseguenze giuridiche incompatibili a fattispecie astratte, ossia a
classi di fattispecie (concrete), che si sovrappongono (in tutto o in parte)
concettualmente. Sicché l’antinomia può essere identificata già in sede di
interpretazione testuale, “in astratto”, senza cioè che occorra rappresentarsi
una fattispecie concreta. Se ad esempio una prima norma vieta l’aborto ed una
seconda norma permette l’aborto terapeutico, l’antinomia può essere riconosciuta
“in astratto”, indipendentemente da ogni fattispecie concreta, dal momento che
la classe degli aborti terapeutici è concettualmente inclusa nella classe degli
aborti senza specificazioni.
Per contro, si ha un’antinomia “in concreto” (o contingente) allorché – in sede
di applicazione – due norme connettono conseguenze giuridiche incompatibili ad
una medesima fattispecie concreta. Ciò accade ogniqualvolta una fattispecie
concreta (o una sotto-classe di fattispecie concrete) ricada simultaneamente in
due classi di fattispecie diverse e concettualmente irrelate per le quali il
diritto statuisca conseguenze giuridiche incompatibili. Sicché l’antinomia può
essere identificata solo in sede di applicazione delle norme ad un caso concreto
(al quale, appunto, per avventura siano applicabili entrambe). Immaginiamo che
una prima norma disponga “I cittadini devono pagare le imposte”, ed una seconda
norma disponga “Nessuna imposta è dovuta dai disoccupati”. Le fattispecie
astratte cui le due norme si riferiscono – rispettivamente “cittadini” e
“disoccupati” – sono concettualmente irrelate: che di fatto vi siano, o non vi
siano, cittadini disoccupati è contingente. Pertanto, il conflitto tra le due
norme in questione non è necessario: nessuna antinomia si presenta finché si
tratta di decidere se l’obbligo tributario gravi – poniamo – su cittadini
occupati o su stranieri e apolidi disoccupati. Ma un’antinomia si presenta
ogniqualvolta sia in discussione l’obbligo tributario di un cittadino
disoccupato. Ciò accade per la banalissima ragione che – pur essendo diverse le
due fattispecie astratte – vi sono fattispecie concrete che ricadono nel campo
di applicazione di entrambe le norme: i cittadini disoccupati appartengono sia
alla classe dei cittadini, sia a quella dei disoccupati. Nessuna antinomia si
presenterebbe se, di fatto, la classe dei cittadini disoccupati fosse vuota,
cioè se non vi fossero cittadini disoccupati. Se così possiamo dire, le
antinomie in astratto dipendono dalla struttura concettuale del linguaggio
legislativo, mentre le antinomie in concreto dipendono dalla struttura del
mondo.
c) In terzo luogo, i conflitti tra principi sono per lo più antinomie del tipo
eventuale o, secondo la terminologia di A. Ross, “parziale-parziale” . Anche in
questo caso, qualche precisazione pare opportuna.
Talvolta, due norme, N1 e N2, dispongono conseguenze giuridiche incompatibili
per due classi di fattispecie che si sovrappongono interamente, sicché ogni
fattispecie concreta che ricada nel campo di applicazione di N1 ricade altresì
nel campo di applicazione di N2. Questo tipo di antinomia è detta assoluta (o “totale-totale”).
Se ad esempio una norma qualifica lecito ed un’altra qualifica illecito il
divorzio, l’antinomia sarà del tipo assoluto.
Altre volte, la classe di fattispecie disciplinata da una delle due norme, N1, è
interamente inclusa nella (costituisce una sottoclasse della) classe di
fattispecie disciplinata incompatibilmente dall’altra, N2, sicché vi sono
fattispecie che ricadono solo nel campo di applicazione di N2, e fattispecie che
ricadono anche nel campo di applicazione di N1: il conflitto nasce soltanto in
relazione a queste ultime. Questo tipo di antinomia è detta unilaterale (o “totale-parziale”).
Se ad esempio una norma qualifica illecito l’aborto ed un’altra qualifica lecito
l’aborto terapeutico, l’antinomia sarà del tipo unilaterale.
Altre volte ancora, le due norme, N1 e N2, disciplinano classi di fattispecie
che si sovrappongono solo parzialmente. Sicché vi sono fattispecie disciplinate
solo da N1, fattispecie disciplinate solo da N2, e fattispecie disciplinate da
entrambe le norme: il conflitto nasce soltanto in relazione a queste ultime.
Questo tipo di antinomia è detta eventuale (o “parziale-parziale”). Se ad
esempio una norma N1 impone un tributo ai produttori di vini rossi, una seconda
norma N2 attribuisce la “denominazione d’origine controllata” a certi vini
bianchi e rossi, ed una terza N3 esenta dal tributo i produttori di vini a
denominazione d’origine controllata, l’antinomia tra N1 e N3 – o, se si
preferisce, tra N1 e il combinato disposto di N2 e N3 – sarà del tipo eventuale.
Ecco dunque che i conflitti tra principi – o almeno quelli tra principi
costituzionali – non possono essere risolti con le stesse tecniche abitualmente
usate per risolvere conflitti tra norme. Non è applicabile il criterio lex
superior derogat inferiori, poiché si sta parlando di norme pari-ordinate nella
gerarchia delle fonti. Neppure è applicabile il criterio lex posterior derogat
priori, poiché i principi coinvolti sono (almeno nel caso dei principi
costituzionali) statuiti da un medesimo documento normativo, e dunque coevi. Non
si può applicare, infine, il criterio lex specialis derogat generali, perché –
quando si tratti di un’antinomia del tipo eventuale – non vi è tra le classi di
fattispecie disciplinate dai due principi un rapporto di genere a specie.
La tecnica appropriata – e comunque quella effettivamente usata, specie da parte
dei tribunali costituzionali – per risolvere conflitti di questo tipo è quella
che va sotto il nome di “bilanciamento” (o ponderazione).
Il bilanciamento di principi consiste nell’istituire tra i due principi
confliggenti una gerarchia assiologica mobile.
i) Una gerarchia assiologica è una relazione di valore istituita (non dalle
fonti stesse, ma) dall’interprete: per l’appunto, mediante un soggettivo
giudizio di valore . Istituire una gerarchia assiologica consiste nel
l’accordare ad uno dei due principi confliggenti un maggior “peso”, ossia un
maggior valore, rispetto all’altro. Il principio dotato di maggior valore
prevale, nel senso che è applicato; il principio assiologicamente inferiore
soccombe – non nel senso che risulti invalido o abrogato, ma – nel senso che
viene accantonato.
Si badi: in questo contesto, “bilanciare” non significa contemperare,
conciliare, o alcunché del genere: non significa cioè trovare un punto di
equilibrio, una soluzione “mediana”, che tenga conto di entrambi i principi in
conflitto, e che – in qualche modo – li applichi o li sacrifichi parzialmente
entrambi . Il bilanciamento consiste piuttosto nel sacrificare o scartare un
principio, applicando l’altro.
ii) Una gerarchia mobile, d’altro canto, è una relazione di valore instabile,
mutevole, che vale per il caso concreto, ma che potrebbe invertirsi in relazione
ad un caso concreto diverso.
Per istituire questa relazione gerarchica, infatti, il giudice non soppesa il
valore dei due principi in astratto e una volta per tutte, ma valuta invece il
possibile impatto della loro applicazione al caso concreto. Se l’esito che, nel
caso concreto, avrebbe l’applicazione del principio P1 pare a lui più giusto (o
meno ingiusto) dell’esito che avrebbe invece l’applicazione del principio P2,
allora il principio P2 sarà, nel caso concreto, accantonato, mentre il principio
P1 sarà, nel caso concreto, applicato.
Ma “nel caso concreto”, si badi. Non è per nulla escluso che, in un caso
diverso, sia l’applicazione di P2 ad avere esiti sentiti come più giusti (o meno
ingiusti) dell’applicazione di P1, e che pertanto la relazione gerarchica sia
invertita, applicando P1 e accantonando P2. In questo senso, dunque, trattasi di
gerarchia mobile: se anche in un caso si è attribuito maggior peso o valore a
P1, nulla impedisce che in un caso diverso si attribuisca maggior peso o valore
a P2.
Per conseguenza, il conflitto non è risolto stabilmente, una volta per tutte,
facendo senz’altro prevalere uno dei due principi confliggenti sul l’altro; ogni
soluzione del conflitto vale solo per il caso concreto, e resta pertanto
imprevedibile la soluzione dello stesso conflitto in casi futuri.
È palese credo che questa operazione involge una duplice discrezionalità. È
discrezionale l’operazione consistente nell’istituire una gerarchia di valore
tra i principi coinvolti, ed è egualmente discrezionale l’operazione consistente
nel cambiare il valore relativo di tali principi in relazione ai diversi casi
concreti.
6. L’interpretazione orientata ai principi
I principi influiscono sull’interpretazione delle rimanenti disposizioni (quelle
che principi non sono) distogliendo i giudici dall’interpretazione letterale –
la più certa e prevedibile – e propiziando un’interpretazione adeguatrice.
L’interpretazione adeguatrice è una specie del genere interpretazione
sistematica ed è uno strumento per prevenire o evitare antinomie 25. Poniamo che
una disposizione ammetta due confliggenti interpretazioni, S1 e S2, tali che S1
sia conforme ad un principio e S2 sia invece in contrasto con quel principio.
Ebbene, se la disposizione in questione fosse intesa nel senso S2, sarebbe
fatale l’insorgere di un’antinomia. Ma l’antinomia è evitata, se si intende
invece tale disposizione nel senso S1. Quest’ultima è appunto l’interpretazione
adeguatrice.
Così, ad esempio, se una disposizione di legge ammette due confliggenti
interpretazioni, tali che la prima sia conforme ad un principio costituzionale,
mentre la seconda è in contrasto con esso, si fa interpretazione adeguatrice
scegliendo la prima interpretazione e respingendo la seconda.
Costituiscono altrettanti esempi paradigmatici di interpretazione adeguatrice
tutte le sentenze cosiddette “interpretative” della Corte costituzionale: sia le
sentenze interpretative di accoglimento (la Corte evita di dichiarare
costituzionalmente illegittima una disposizione nella sua interezza, e si limita
a dichiarare illegittima una delle sue possibili interpretazioni), sia – ancor
più chiaramente – le sentenze interpretative di rigetto (la Corte evita di
dichiarare costituzionalmente illegittima una disposizione, interpretandola in
modo tale che sia conforme a costituzione) .
Ma si incontrano buoni esempi di interpretazione adeguatrice anche in tutte
quelle ordinanze in cui l’uno o l’altro giudice comune respinge una eccezione di
illegittimità costituzionale, adducendo che la questione è manifestamente
infondata giacché la disposizione sospetta di incostituzionalità è suscettibile
di una interpretazione conforme a costituzione.
L’interpretazione adeguatrice – almeno ogniqualvolta non sia conforme al senso
comune delle parole e/o all’intenzione del legislatore – è frutto di una scelta
discrezionale: altamente discutibile, peraltro, sia sotto il profilo della
legalità, sia sotto quello della opportunità politica. Quel che è certo è che un
dovere giudiziale di fare interpretazione adeguatrice, adombrato da molte
pronunce giurisprudenziali e da alcuni giuristi, non sussiste.
Intanto, nell’interpretare la legge, i giudici non hanno altro obbligo se non
quello di attribuire ad essa il senso «fatto palese dal significato proprio
[ossia: comune] delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione
del legislatore» (art. 12, 1° comma, disp. prel. c.c.). Sicché l’interpretazione
adeguatrice, lungi dall’essere doverosa, è anzi giustificata solo quando si
accorda con il significato comune delle parole o con l’intenzione del
legislatore: il che non sempre è il caso (la presunzione, su cui talora si regge
l’interpretazione adeguatrice, che il legislatore sia rispettoso della
costituzione, e non intenda violarla, non ha alcun fondamento).
Soprattutto, è lecito sostenere che, di fronte ad una disposizione di legge che
ammetta anche una sola interpretazione difforme dalla costituzione, il giudice –
lungi dall’avere l’obbligo di fare interpretazione adeguatrice – abbia anzi
l’obbligo di sollevare questione di legittimità costituzionale di fronte alla
Corte. Ciò per la semplice ragione che, evidentemente, non può dirsi
«manifestamente infondata» (art. 1, legge cost. n. 1 del 1948; art. 23, 2°
comma, legge n. 87 del 1953) una questione di legittimità costituzionale sopra
una disposizione suscettibile di esprimere anche una sola norma in contrasto con
la costituzione.
Sotto il profilo della opportunità politica, è anche lecito ritenere che
l’interpretazione adeguatrice (specie se compiuta dai giudici comuni, ma anche
se compiuta dalla Corte costituzionale con decisioni “interpretative di
rigetto”) non solo non sia doverosa, ma sia inoltre dannosa. Tale tecnica
interpretativa, infatti, non sortisce altro esito se non quello di conservare in
vita disposizioni legali che possono esprimere norme incostituzionali, e la cui
interpretazione conforme a costituzione da parte della generalità dei giudici
non può dirsi assicurata.
7. I principi costituzionali supremi
Secondo giurisprudenza ormai consolidata della Corte costituzionale, «è da
condividere l’assunto della sussistenza di una gerarchia fra norme e norme della
stessa Costituzione, rispetto alla quale è individuabile (come del resto in ogni
corpo di disposizioni ordinate in sistema) un ordine che conduce a conferire
preminenza ad alcune di esse rispetto ad altre» 29.
In particolare, secondo la Corte, vi sono in costituzione taluni principi –
detti «principi supremi dell’ordinamento costituzionale» – che hanno una
«valenza superiore» rispetto alle rimanenti norme di rango costituzionale . Per
conseguenza, i principi in questione non sono in alcun modo suscettibili di
revisione costituzionale.
È bene sottolineare che, secondo quanto ammette la stessa Corte, tali principi
non sono «espressamente menzionati [nel testo costituzionale] tra quelli non
assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale». In altre parole, la
dottrina dei principi costituzionali supremi si risolve nella costruzione di un
limite alla revisione costituzionale totalmente inespresso, e anzi privo di
qualunque base testuale. Trattasi dunque di un caso evidente di creazione
giurisprudenziale di diritto (costituzionale).
Il fondamento di tale dottrina, infatti, si rinviene non in una qualsivoglia
disposizione costituzionale, bensì in una arbitraria costruzione dogmatica
(tacitamente fatta propria dalla Corte), secondo la quale:
a) una costituzione non è un semplice insieme di norme, ma una totalità coesa di
principi e valori;
b) il criterio di identità di ogni costituzione giace appunto nei principi e
valori che la contraddistinguono;
c) il mutamento di siffatti principi costituisce pertanto non banale revisione
costituzionale, ma genuina instaurazione di una nuova costituzione;
d) dunque la revisione costituzionale non può spingersi fino a modificare i
principi e valori caratterizzanti dell’ordinamento (senza tramutarsi in
instaurazione costituzionale).
D’altro canto, la dottrina dei principi supremi sortisce l’effetto di conferire
potere discrezionale ulteriore alla Corte ogniqualvolta si presenti
concretamente l’occasione di identificare i principi supremi che si suppongono
immodificabili (con l’esito di giudicare eventualmente incostituzionale una
legge di revisione che fosse in contrasto con essi o pretendesse di alterarli) .
(*) Già comparse anche
altrove con corredo di riferimenti bibliografici, queste pagine sono adesso
comprese nel volume antologico AA.VV.,Interpretazione e diritto
giurisprudenziale. Regole, modelli, metodi, Casa editrice Giappichelli,Torino
2002,pp.349