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Servitù e autonomia privata. Il valore del regolamento privato nella determinazione del contenuto delle servitù (*)
 


Alessandro Natucci
 



I diritti reali sono diritti assoluti e opponibili: possono cioè essere tutelati e fatti valere contro chiunque. Questi caratteri distinguono in modo particolare i diritti reali limitati, efficaci verso qualunque successivo titolare della cosa, anche se acquirente a titolo particolare. E in considerazione di ciò sono diritti tipici, ammessi, in misura più o meno ampia a seconda delle diverse esigenze economiche e sociali, soltanto in forza di legge.


La tipicità dei diritti reali, contrapposta all'atipicità dei diritti di credito, che valgono essenzialmente inter partes, fu propria del diritto romano nel suo sviluppo secolare.


Nell'epoca medioevale, dominata da ordinamenti di tipo feudale, fu sostituita, secondo l'opinione comune, da un sistema di "libera creazione dei diritti reali".


In conseguenza del particolarismo che caratterizzò tale periodo storico, e si trascinò fino all'epoca moderna; per effetto del prevalere della consuetudine quale fonte normativa; a causa infine della connessione, ignota al diritto romano, tra istituti privatistici e funzioni di carattere pubblico, si venne instaurando una molteplicità di figure "reali" nuove e complesse.


La proprietà essenzialmente unitaria del diritto romano venne frazionandosi in più forme di potere sulla cosa, peraltro collegate tra loro secondo un criterio di gerarchia formale; e si dette luogo, nella riflessione dei giuristi, alla teoria del dominio diviso. Sul tronco frammentato della proprietà sorsero e si svilupparono in misura ragguardevole figure di diritti reali, tra le quali possono almeno ricordarsi, per la loro importanza pratica, varie forme di locazione di lunga durata (locatio ad longum tempus), e l'onere reale, paradigma delle prestazioni feudali.


Non sarebbe corretto tuttavia ritenere che nel periodo medieoevale vigesse un sistema di atipicità dei diritti reali. Al posto della legge, rispetto alla quale siamo soliti valutare al giorno d'oggi le espressioni dell'autonomia negoziale, dobbiamo porre infatti la consuetudine: ossia una fonte ben più vicina della legge al potere contrattuale e "normativo" dei privati; e cambiando il metro di valutazione, cambia necessariamente anche il tipo di conseguenze che se ne traggono. È quindi più giusto, secondo noi, parlare di riconoscimento consuetudinario anziché legale dei diritti reali.


È vero però che durante tutto il Medioevo, fino alla Rivoluzione francese, e alla codificazione napoleonica, si assistette ad una fioritura di diritti reali, a confronto della quale ben più povero appare il sistema romano, e così pure il nostro sistema attuale, soprattutto quando si pensi alle figure più tipicamente feudali, come gli oneri reali, designati anche con il nome di servitutes juris germanici.


Il modificarsi dei rapporti economici e sociali, determinato dall'emergere della borghesia dei commerci e dei traffici; l'evoluzione degli ordinamenti giuridici verso forme accentrate di potere; la riflessione filosofica e politica, tendente ad affermare i diritti degli individui e l'eguaglianza dei cittadini di fronte allo stato, causano la caduta dell'antico regime. E favoriscono l'avvento dei codici di stampo liberale, avversi ai "pesi" di carattere reale che gravano la proprietà (soprattutto terriera), ostacolandone lo sfruttamento e la circolazione.


Con il codice Napoleone il principio di tipicità dei diritti reali riebbe pieno vigore, anche se per la verità non vi si trova stabilito espressamente in alcuna disposizione normativa. E in parte per questo motivo, in parte per la forza della tradizione, non pochi giuristi, sia in Francia che in Italia, considerarono ancora possibile dare vita a diritti reali atipici, fondandosi sulla libertà di disposizione del proprietario.


Solo più avanti nel tempo fu chiaramente avvertita l'intima connessione del principio di tipicità rispetto alla struttura dei nuovi ordinamenti, senza che fosse necessaria una specifica previsione legislativa.


Tale principio rappresenta anche oggi (e forse più che nel passato ) un'esigenza fondamentale dell'organizzazione sociale. Perché, se da un lato si sono affermate, più intensamente di prima, esigenze sociali di limitazione e vincolo alla proprietà, non sono certamente venute meno le ragioni di libertà e di uguaglianza, che furono alla base delle Rivoluzioni liberali dell'Ottocento.


Si può anzi rilevare che il principio di tipicità può trovare nell'attuale ordinamento italiano una base normativa più  chiara e vincolante di quanto avvenisse in passato. La stessa Costituzione, infatti, all'art. 42, c. 2°, affida alla legge il compito di determinare "i modi di acquisto, di godimento e i limiti" della proprietà. E pone dunque nei riguardi della proprietà una riserva (relativa ) di legge, che impedisce alle fonti normative secondarie 10 di porre limiti e vincoli, se non in base alla legge; nel rispetto cioè del principio di legalità.


Porre dei limiti alla proprietà può significare, infatti, attribuire a soggetti diversi dal proprietario dei diritti reali limitati; e si deve dedurre perciò dal testo costituzionale che la creazione di nuove figure di diritti reali è possibile soltanto per legge, o in base alla legge, ed è certamente sottratta al potere negoziale dei privati.


Ci siamo diffusi piuttosto a lungo sulla tipicità dei diritti reali, non soltanto per l'importanza di tale principio in se stesso, ma anche e soprattutto per la sua rilevanza in materia di servitù.


Questa, infatti, si presta meglio di ogni altro diritto, ad accogliere ed inquadrare in schemi collaudati e tipici le fattispecie che emergono dalla prassi contrattuale e dalla disciplina normativa più recente, come ad esempio nel campo della disciplina urbanistica.


Ciò deriva dall'elasticità di contenuto propria delle servitù, e dalla varia gamma di interessi specifici che è in grado di soddisfare.


A differenza dell'usufrutto, e più che mai dell'enfiteusi o della superficie, che abbracciano nel loro ambito una globalità di usi e di facoltà, le servitù comprendono una o più specifiche facoltà determinate; che possono però avere una durata nel tempo tendenzialmente perpetua, esclusa invece per altre fattispecie, come l'usufrutto, di contenuto generale, ma legate alla persona del titolare, e determinate quindi nella durata.


Gl'interessi soddisfatti dalle servitù sono dunque di carattere specifico; e per la pluralità di scopi cui possono indirizzarsi nella dinamica negoziale, si parla giustamente di atipicità delle servitù. La tipicità dei diritti reali richiede però che siano fissati le note essenziali e tipizzanti della fattispecie astratta.


Tali caratteristiche, ricostruite dall'interprete sulla base degli schemi legislativi, possono risultare sia da norme imperative, sia da norme non (assolutamente) imperative: tali comunque da delineare la fisionomia di una certa figura in modo che non possa essere modificata, se non dando luogo a una disciplina nulla, o (nel caso di norme solo tipizzanti, "relativamente" imperative), a una sostitizione del rapporto reale, inefficace come tale, con un rapporto di carattere obbligatorio.


Nel caso delle servitù i privati sono liberi di costituire fattispecie di qualsiasi contenuto, nei limiti già illustrati della "realità". La servitù deve cioè rappresentare un "peso" imposto al fondo servente, e deve tradursi in un "vantaggio" per il fondo dominante, secondo quanto prevede l'art. 1027 c.c. Il quale costituisce dunque la norma veramente caratterizzante del "tipo" servitù.


La circostanza che il contenuto della servitù (o, per meglio dire, il contegno dovuto dal proprietario del fondo servente) non possa consistere in un facere, come prevede l'art. 1030 c.c., rappresenta una conseguenza già implicita nella "realità" delle servitù. Il vantaggio deve infatti provenire al titolare del fondo dominante, non da un comportamento attivo della persona, ma dalla cosa stessa, dal fondo su cui grava il "peso" della servitù.


Ed è questo, di segno negativo, (servitus in faciendo consistere nequit) l'unico limite riguardante il contenuto delle servitù; mentre l'indicazione positiva dei possibili tipi di "comportamento dovuto": pati, (servitù positive) non facere (servitù negative), ha un semplice valore pratico, o rileva ad altri fini, ad esempio ai fini della prescrizione (art. 1073 c.c.).


Nei limiti dunque dell'utilitas rei le parti sono libere di assegnare qualsiasi contenuto alle servitù "volontarie". Le servitù legali o "coattive" sono invece tipiche; ma la loro tipicità ha valore solo riguardo alla costituzione per sentenza del giudice o per atto amministrativo. Quando le parti siano d'accordo tra loro, i confini posti dalla legge cessano di aver rilievo.


Con la conseguenza che, se nell'atto costitutivo sia stata prevista, in relazione ad una fattispecie, il cui contenuto generico (o meglio il nomen juris) sia già previsto dalla legge (ad esempio la servitù di passaggio), una disciplina diversa da quella legale, le parti avranno posto in essere una servitù "volontaria" o atipica. In altri termini, le servitù costituite volontariamente non sono "legali" o coattive, ma volontarie, con la concreta fisionomia loro impressa dalle parti contraenti.


Abbiamo già considerato alcune tra le ipotesi praticamente più importanti in cui viene in rilievo il principio di tipicità: si tratta delle servitù industriali (e aziendali), dove appare particolarmente delicata l'identificazione dell'utilità fondiaria.


Altre ipotesi possono essere considerate: ad esempio le cc.dd. servitù irregolari: figure dai contorni non ben definiti, ma che, secondo l'origine storica, risalente a Giustiniano , consisterebbero in diritti speciali di utilizzazione di un fondo altrui, con carattere di realità, attribuiti al proprietario di un fondo in quanto tale; e destinati dunque a cessare con il venir meno della proprietà del fondo in capo al titolare della pretesa servitù.


Se ne discuteva in passato (vigente il codice del '65) soprattutto a proposito dei diritti di caccia o di pesca su un fondo altrui; e il problema della loro ammissibilità veniva risolto prevalentemente in senso negativo.


La questione si pone negli stessi termini anche riguardo al codice attuale.


L'inammissibilità delle servitù irregolari deriva non tanto dalla circostanza che l'utilità sia rivolta alla persona piuttosto che al fondo; quanto invece dalla determinazione della persona che dovrà godere della servitù: ciò che esclude l'ambulatorietà attiva, e dunque la predialità del diritto.


Queste forme speciali di godimento del fondo altrui potrebbero rappresentare altrettanti diritti di usufrutto (o di uso) limitati nel contenuto. Ma la loro validità, sotto quest'aspetto, è controversa. Si è ammessa infatti la possibilità dei cc.dd. diritti di uso limitato; precisandosi però che ciò potrebbe aver luogo soltanto quando il fondo sia in grado di procurare esclusivamente una specifica utilità.


Si può essere d'accordo in astratto con tale opinione; ma è piuttosto difficile, per non dire impossibile, che un fondo possa dare di fatto solo una specifica utilità. Senza contare poi che, in tal caso, la specificazione dell'uso sarebbe del tutto pleonastica, risolvendosi nell'attribuzione delle facoltà generali di godimento, commisurate al caso concreto.


Altre ipotesi significative in cui viene in rilievo l'autonomia dei privati si presentano frequentemente nel campo dell'urbanistica, come già si è avuto occasione di ricordare.


Un caso particolarmente istruttivo a questo proposito è dato dal c.d. trasferimento di cubatura, che si ha quando il proprietario di un certo fondo consente al proprietario di un altro fondo (generalmente vicino), situato nella medesima zona urbanistica, di "sfruttare" la "volumetria" edificabile che gli compete secondo le prescrizioni del Comune.


In questa fattispecie gli interessi privati dei proprietari s'intrecciano strettamente con quelli pubblici che fanno capo al Comune; in modo non molto diverso da quanto avviene, ad esempio, nel campo delle distanze nelle costruzioni (art. 873 ss. c.c.).


L'interesse pubblico (alla salubrità dell'aria, all'ordine e all'estetica nelle costruzioni, ecc.) esige che sia osservata una distanza minima tra edifici (di tre metri secondo l'art. 873). Per la realizzazione di tale interesse è di regola indifferente il rispetto, da parte dei proprietari finitimi, di una certa distanza dal confine.


Ed è di regola indifferente, secondo il sistema del codice, l'equità o meno della distribuzione tra i privati del sacrificio, consistente nell'impossibilità di edificare sul proprio allo scopo si osservare la distanza prescritta.


Allo stesso modo, nel trasferimento di volumetria, è di regola indifferente per il Comune il problema della distribuzione del sacrificio "edificatorio" tra i privati. Ciò che conta è invece il risultato complessivo di rispetto dei volumi occupati in rapporto alla superficie disponibile, nell'ambito delle singole zone del territorio comunale.


E come i proprietari, nel loro privato interesse, possono costituire delle servitù rispetto alle distanze legali, così, a nostro avviso, possono dar luogo a servitù riguardo ai volumi edificabili. D'altra parte questa, che potrebbe chiamarsi servitus amplius non aedificandi, non differisce sostanzialmente dalla servitù di non sopraelevare (altius non tollendi), o da una possibile, e più radicale, servitù di non costruire.


L'analogia rispetto a queste figure regge però fino ad un certo punto: infatti l'utilità per il titolare del fondo dominante non è data solo da un non fare da parte del vicino, ma dipende anche e soprattutto da un fare del Comune, che rilascia la concessione edilizia. Quale che sia l'opinione che si abbia circa l'appartenenza dello jus aedificandi, mediante il trasferimento di cubatura si ha in sostanza un'attribuzione di facoltà, rimessa in ogni caso alla decisione del Comune.


Il trasferimento di volumetria risulterebbe perciò privo di qualsiasi utilità, se una tale ipotesi non fosse prevista dal Comune stesso nella propria normativa; o se l'accordo tra privati non fosse recepito dal Comune al momento del rilascio della concessione.


Ciò non toglie però che, nel rapporto tra proprietari, il trasferimento di cubatura possa essere considerato, e vada normalmente considerato, come una servitù, con tutto ciò che ne consegue: l'opponibilità ai terzi e la necessità della trascrizione per risolvere eventuali conflitti tra terzi acquirenti.


Si deve osservare, a tale proposito, che non è "terzo acquirente" il Comune; il quale, di fronte ad una servitù, trascritta oppure no, sarà sempre libero di rilasciare o meno la concessione, se la possibilità del trasferimento di cubatura non sia prevista dalla normativa comunale; ma vi sarà invece tenuto nel caso contrario.


L'utilità, o meglio la necessità, della trascrizione si rivela comunque nei rapporti tra privati, soprattutto quando la concessione sia stata rilasciata, ma la costruzione non ancora effettuata; o nel caso in cui la volumetria "ceduta" sia stata sfruttata solo in parte, o, infine, quando l'edificio sia stato demolito o distrutto.


All'esercizio delle servitù il codice dedica un apposito capo: le norme relative disciplinano, più precisamente, "l'estensione e l'esercizio" delle servitù.


Per "estensione" della servitù (legale o volontaria), deve intendersi, secondo gli artt. 1063 e ss., non già il tipo di servitù, o la sua particolare utilitas; ma il complesso delle facoltà e dei poteri attribuiti in concreto al titolare (e, d'altra parte, i doveri che fanno carico al proprietario del fondo dominante). In breve, estensione della servitù significa ampiezza del suo contenuto, quale risulta dal titolo costitutivo.


È possibile, ad esempio, che il contratto che ha dato vita ad una servitù di passaggio non abbia previsto con precisione la larghezza della strada o del sentiero su cui il passaggio verrà esercitato; o che le parti, nel costituire una servitù di somministrazione d'acqua, non abbiano determinato con esattezza la quantità d'acqua da somministrare.


Purché l'oggetto del contratto sia almeno determinabile (art. 1349 c.c.), la servitù è, in entrambi i casi, validamente costituita; ma l'esatta estensione (non maggiore né minore di quanto richieda il suo esercizio: cfr. art. 1064, c. 1°) viene stabilita dalla legge in via suppletiva o integrativa mediante le norme previste nel capo V.


Tale è il significato dell'art. 1063 c.c., il quale non presuppone affatto un "ampliamento" di facoltà, ma soltanto la loro concreta determinazione.


La disciplina dell'estensione delle servitù, e così pure delle modalità d'esercizio, è affidata in primo luogo al titolo costitutivo. Le disposizioni stabilite dalla legge in questa sede sono, infatti, generalmente dispositive; non sono tali la norma che disciplina l'abbandono liberatorio (art. 1070 c.c.) e, secondo l'opinione prevalente, anche le disposizioni che prevedono il "trasferimento" della servitù (art. 1068 c.c.).


Il "titolo", cui si riferisce l'art. 1063 c.c., riguarda in primo luogo l'atto negoziale (contratto o testamento), che ha dato vita alle servitù.


Il significato della disposizione va tuttavia esteso, come conferma del resto il successivo art. 1065, al possesso in virtù del quale, per usucapione o per destinazione del padre di famiglia, è sorta la servitù.


Il possesso infatti, anche se non può considerarsi manifestazione dell'autonomia negoziale, è pur sempre riconducibile a un "potere" del soggetto e all'espressione della sua volontà (continua ).

(*) Queste pagine sono parte di capitolo di una più ampia monografia ( Paolo Gallo e Alessandro Natucci, Beni ,proprietà e diritti reali ) corredata dei riferimenti bibliografici e giurisprudenziali che qui si sono omessi .