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PROPRIETA’ PRIVATA E REGOLAZIONE PUBBLICA. MATERIALI
PER UNA ANALISI IN PROSPETTIVA STORICA
(*)
 


Guido Alpa, Mario Bessone, Andrea Fusaro

 



1. Le trasformazioni del diritto di proprietà. La proprietà come potere relativo, limitato dal diritto pubblico

Alla fine del diciannovesimo secolo, l’estendersi degli interventi dello Stato nell’economia inducono anche la dottrina privatistica a riconsiderare i caratteri della <proprietà>, tradizionalmente intesi a definire il «dominio assoluto» del privato. Si registra in tal modo un fenomeno che Paolo Grossi denomina di «relativizzazione all’esterno e all’interno del diritto di proprietà».
 

La relativizzazione del modello di proprietà – avverte Grossi – è il modello più interessante dell’analisi paleocivilistica italiana e converrà a seguirla da vicino; ma converrà prima sgombrare i possibili equivoci sulla sua reale portata e sul suo significato. Quando noi parliamo di relativizzazione, intendiamo quel tentativo di costruzione culturale con la quale – tenendo dietro alla propria complessa sensibilità e utilizzando un materiale tecnico-giuridico di varia e spesso risalente derivazione – i paleocivilisti, pur non smantellando e anzi confermando il modello, riescono a elaborare un fascio di proprietà specifiche, che si allontanano sì di parecchio dai caratteri essenziali riconosciuti alla proprietà generica, ma serbano la qualifica formale e il contenuto minimo di proprietà. Seguire queste analisi approderà dunque anche al risultato di consentire l’individuazione di quel contenuto minimo del mio giuridico, che è ancora proprietà ma oltre il quale non è più proprietà.

Esamineremo l’operazione di relativizzazione così come è condotta all’esterno e all’interno del diritto di proprietà, puntualizzando innanzitutto il problema della limitabilità,indi quello della divisibilità: due problemi che, apparentemente distanti, rivelano invece una matrice comune e testimoniano un comune orientamento interpretativo.

Non abbiamo molto da aggiungere a quanto abbiamo detto […] in ordine alla limitabilità.


Il tipo «proprietà» non può essere pensato e costruito che come libero, perché questo esigono precise premesse filosofiche e perché questo vuole lo stesso ordine pubblico, che la Rivoluzione borghese ha edificato sul pilastro della liberazione della proprietà, e quindi sulla libertà del proprietario e sulla libera circolazione dei beni. Ma si aggiunge subito che, come ogni libertà, la proprietà può essere limitata; e tranquillamente si passa a costruire la nomenclatura elementare dei limiti ipotizzabili.

Esemplare nella sua aproblematicità è il Pacifici Mazzoni, il quale, dopo aver fissato i «due caratteri essenziali» della proprietà, di essere «assoluta ed esclusiva», «un potere illimitato, dispotico», prosegue senza cesure insegnando che «l’uno e l’altro carattere può essere modificato da varie cause, cioè dalla legge, dalla incapacità personale del proprietario, da una certa imperfezione del diritto stesso e dalla utilità pubblica».


Qui viene solo fissata una conclusione, né ci si pone neanche il problema della conciliabilità teorica fra una proprietà definita come illimitata e i vari limiti, fra un potere dispotico e le sue «imperfezioni». Il giureconsulto marchigiano ammette che possa essere modificato dalla legge e «da una certa imperfezione dello stesso diritto», ma non tenta nemmeno una motivazione dell’assunto: e la caratterizzazione fatta all’inizio della pagina trova la sua attenuazione a mezzo della pagina stessa, e appare galleggiare sull’intera pagina come enunciazione meramente platonica.

 

Un tentativo di motivazione adeguata stava in quella scissione fra modello astratto e specificazioni concrete avanzato dal Borsari e dal Pescatore, e che era anche un tentativo di andare oltre gli articoli definitori i dei Codici e la stessa disciplina modificata, per recuperare extra Codicem, in un terreno fatto sopratutto da leggi speciali, da costruzioni dottrinali e giudiziali, il tessuto effettivo delle manifestazioni della proprietà.


In Lì il problema della complessità del meccanismo di appropriazione era, sia pure episodicamente, sentito e affrontato come problema teorico, e affiorava la istanza di chiarimento che il Pacifici Mazzoni ignorava o dava per implicitamente acquisita. Sarà su quel piano e portando innanzi quella intuizione che lavorerà chi avrà voglia di approdare allo stesso risultato di composizione soddisfacente della questione teorica; è questo il solco in cui si inalveano le puntualizzazioni più fini econsapevo i nella paleovicilistica italiana dovute a Francesco De Filippis.

Fare qui questo nome ha il significato d’una riesumazione: se infatti di Pacifici Mazzoni, di Borsari, di Ricci, di Galdi si è parlato e si parla, un silenzio pesante, un oblio generale ha sempre circondato l’opera di questo civilista napoletano. Di lui si sa pochissimo; si sa che insegnò Diritto civile all’Università di Napoli, dove non raggiunse i più ambiti traguardi accademici, e che fu deputato di Salerno al Parlamento nazionale; il suo lavoro è tutto o quasi consolidato in un’opera di vasto disegno e di impegno teorico notabile, il Corso completo di diritto civile italiano comparato, la cui prima edizione prende a uscire nel 1867.

Con le sue grosse manchevolezze culturali, con i suoi pleonasmi, con la sua retorica, ha però il pregio, rispetto alle esegesi descrittive imperanti, d’essere un tentativo ambizioso – forse troppo ambizioso per le forze del nostro – di problematizzare, concettualizzare, sistemare la grande materia civilistica. Ne viene fuori un’opera che non è soltanto una significativa testimonianza del barocco giuridico italiano dell’Ottocento ma, nelle più o meno velleitarie ambizioni speculative, anche un filtro più sensibile e uno specchio maggiormente acuto della cultura giuridica civilistica degli anni immediatamente dopo la Codificazione.

Innanzi tutto De Filippis tenta una motivazione del carattere di assolutezza, il che fa già spicco di fronte alla supina accettazione generale del principio: «Il carattere assoluto essenziale alla proprietà deriva dal considerare il potere dominicale nel rapporto tra il subbietto e l’obbietto giuridico. In quel rapporto i due termini sono, da una parte, l’uomo avente ragione di fine, e da un’altra parte la cosa avente ragione di mezzo. Il subbietto, non trovando nella cosa alcun che da rispettare, la invade interamente col suo potere dominante tanto in intensità, quanto in estensione. Un potere senza limiti quanto alla sua intensità raccoglie tutte le possibili facoltà esercitabili sulla cosa. Un potere senza limiti quanto alla sua estensione comprende tutti i lati della cosa. Ecco perché il carattere assoluto della proprietà la fa illimitata nelle facoltà e nella estensione». E aggiunge a proposito della limitabilità: «Però è da riflettere che cotesto carattere assoluto si mantiene e non soffre limitazione alcuna da parte della cosa che niente può opporre di rispettabile al subbietto di diritto; ma di limitazioni ne soffre direttamente dalla legge, non per riguardo alla cosa, ma per una veduta tutta d’interesse sociale e collettivo che vince l’interesse privato, qualunque sia».

 Riprendendo più avanti lo stesso tema, insistendovi, ne esplica meglio il senso: «Nonostante la illimitata potenza attribuita al padrone della cosa, deve necessariamente subire limitazioni e modificazioni quando entra nel suo periodo di manifestazione e di esplicazione, non nel rapporto tra il proprietario e la cosa il quale rimane inalterato, ma nel rapporto tra il proprietario e il pubblico, per un interesse tutto sociale e generale».

AI due testi sono rilevanti. Dimostrano, in primo luogo, quanto sia lontana da De Filippis ogni suggestione oggettivistica. Non è l’utilitas rei, non è la natura della cosa che impone la soluzione limitativa; anzi il giurista napoletano ripete a più riprese che si addiviene a ciò non per riguardo alcuno verso la cosa «che niente può opporre di rispettabile» al soggetto. Le riflessioni di Romagnosi, che partendo da una osservazione ex re era giunto alla divisione del dominio, sono qui completamente estranee. È invece l’impianto rosminiano – tutto teso a separare la dimensione individuale, asociale, della proprietà da quella sociale – che riemerge, come il Borsari.

Illimitatezza e limitatezza non sono caratteri legati alla essenza della stessa proprietà, ma alla diversa natura di diverse proprietà. L’illimitatezza è essenziale a quella proprietà generica, che non è ancora calata nella concretezza dell’esperienza, che è soliquio del soggetto sulla cosa, suo atto d’imperio proiettato su quell’oggetto bruto che è una porzione piccola o grande del mondo dei fenomeni. A questa proprietà – che è più una capacità, una virtù del proprietario, e ha quindi una misura prevalentemente intrasoggettiva anche se un suo capo obbiettivo è collocato nell’esterno – ripugna l’idea del limite, conviene l’idea della dispoticità, perché qui l’uomo proprietario fa, in sostanza, i conti solo con se stesso.

La Ma quando da questo piano sopraordinato, da questa metafisica, caliamo nella «storia», quando entriamo – per dirla col De Filippis – «nel suo periodo di manifestazione e di esplicazione», in cui la proprietà, facendo i conti con gli altri soggetti e diventando rapporto sociale, si muta nel diritto di proprietà, con la acquisizione della socialità si acquisisce anche la nozione del limite: da essenzialmente illimitata, scendendo dall’archetipo alle varie derivazioni concrete, la proprietà si propone come naturalmente limitata.

Si dimostra qui, in questa appartata riflessione del giurista meridionale, la fecondità di quella dialettica fra i diversi piani del dominium, che è un po' il contrassegno teoretico della dottrina giuridica di metà Ottocento. Grazie alla possibilità di giocare appunto su due piani, si realizza una mediazione culturale e si concilia sotto il profilo logico quella che aveva l’intima contraddizione fra illimitatezza e limitatezza. Il modello restava relegato nel paradiso degli archetipi, ma inefficace e quasi devitalizzato, malgrado le riaffermazioni solenni in linea di principio. Il limite era definitivamente recuperato all’effettività della proprietà dalla vita quotidiana, capovolgendo così il significato della definizione assolutizzante.

«Nel concetto della proprietà vedemmo rinchiusi due rapporti: uno tra il proprietario e la cosa, e l’altro tra il medesimo proprietario e i terzi», precisa De Filippis. Si scoprono nettamente i due profili dell’istituto, l’individuale e il sociale, la sua bifrontalità, che sarà tanto valorizzata dalla dottrina successiva della seconda metà del secolo. E sulla scorta delle leggi speciali – che intervengono sempre più numerose dalla costituzione dello Stato unitario – si individua un primo fascio di limitazioni ex lege, concernenti ora la coltivazione del tabacco, lo sfruttamanto di cave torbiere miniere, la gestione del patrimonio boschivo, la tenuta di terreni paludosi.

La consapevolezza che traspare dalle pagine di De Filippis non si ripete nel coro dottrinale, anche se resta acquisita l’idea del limite come aderente all’idea di proprietà «sociale». E questo emerge chiaro, quando si dice che il diritto di proprietà non consiste soltanto nel mio, ma piuttosto nel mio in stretto contatto e interdipendenza col tuo, l’uno e l’altro limitabile a causa del loro convivere; il che vale affermare una precisa nota di socialità, sia pure una socialità tra parti di segno modestissimo. Ed emerge ugualmente, quando si afferma che l’assolutezza è carattere essenziale del diritto di proprietà «unicamente nei rapporti non attinenti né al diritto dei terzi, né all’interesse pubblico».

Accanto al (ed oltre il) dettato dell’art. 436, che prevede limitazioni nascenti da leggi e regolamenti, prende sempre più forma, sotto la palese influenza del Codice austriaco, un limite generico, non precisato in alcuna norma legislativa ma attingente direttamente al diritto naturale, e pertanto costituente un vero e proprio principio generale dell’ordinamento: il diritto dei terzi. Il principio, applicato alla proprietà in misura tale da esorbitare di molto il ristretto campo dei rapporti di vicinato, serve alla dottrina come fonte di indeterminate limitazioni e rende la proprietà intrinsecamente molto più limitata di quanto postulino l’art. 436 e le disposizioni del Codice. Come si è detto, e come è il caso di ripetere, siamo qui oltre l’articolo. Si ha l’impressione che da parte della civilistica più provveduta si stia costruendo l’avvio per una teoria dei limiti della proprietà oltre le angustie della legge, e per una sempre più marcata relativizzazione dell’istituto. I capitoli che seguono confermeranno l’impressione e la renderanno certezza, quando constateremo uscire dal ventre dell’unum dominium le tante proprietà imperfette, che il modello unitario nella sua assolutezza non aveva certamente fatto prevedere, e che il deus ex machina del «diritto dei terzi» permetteva, come vedremo, di realizzare > .

(P. Grossi, Un altro modo di possedere, Milano, 1977, pp. 275-282).


Ma lo schema astratto di proprietà, come «generale e indipendente signoria della persona sulla cosa», elaborato in particolare da Filomusi-Guelfi, continua a essere seguito dalla prevalente dottrina. La teorizzazione di Filomusi- Guelfi ha perciò particolare rilievo.

Che la lezione dei tedeschi sia stata suadente per il giurista abruzzese lo dimostra l’intelaiatura di fondo. «La proprietà si definisce come la generale e indipendente signoria della persona sulla cosa», ed è signoria così totale e indeterminata da essere condannato alla sterilità quel tentativo che volesse identificarla sulla base del suo contenuto positivo; la proprietà è pertanto logicamente «un diritto unico e non composto ». Di conseguenza, il diritto di servitù non è un elemento del dominium, una sua frazione, ma uno ius in re aliena che non partecipa della realtà della proprietà; in quanto signoria particolare, e a contenuto determinato, è anzi della proprietà un perfetto contrapposto.

Si direbbe un complesso di scelte che un neopandettista potrebbe sottoscrivere, ma sarebbe una conclusione troppo spicciativa. Allargando infatti lo sguardo delle scelte specifiche a tutto il discorso filomusiano in cui quelle si collocano e trovano ragione, le vediamo emergere non come valori indiscutibili rispetto a cui di diverso c’è soltanto l’errore e la scorrettezza metodologica, bensì come soluzioni profondamente discusse e discutibili, appoggiate su una interpretazione amplia del messaggio di una civiltà giuridica, e mai fondate sulla esegesi di un solo frammento o di un articolo sparso; soluzioni insomma che il giurista ritiene provate, e probabili, approssimazioni alla verità, e nulla più. Non v’è alcuna traccia di quel manicheismo tanto frequente nei pandettisti e nei loro accoliti, fatto di biasimi, di condanne, di disprezzo. Ogni invenzione teorica, ogni strumento tecnico, è per Filomusi un prodotto storico, pertanto non assolutizzabile, pertanto relativo; anche quello da lui accettato e seguito.

Eccone una buona verifica sul problema della natura giuridica della servitù. Anche se egli è convinto della positiva configurazione di questa come ius in re aliena, la sua tolleranza culturale venata di un solido storicismo non può non dare rilevanza alla tesi avversata, e dimostra liminalmente una totale disponibilità di comprensione: «nel diritto moderno possono essere due i concetti della servitù: o il concetto romano che la considera come uno ius in re aliena, o il concetto medievale, di diritto germanico, che la considera come un diritto frazionario della proprietà, come una pars dominii, come un dominio utile, concetto che si rivela specialmente nell’usufrutto». I due «concetti» partono da una posizione di pari dignità, perché valutati e rispettati come espressioni di tradizioni storiche diverse, perché consolidazioni di esigenze e di idealità che unicamente nella storia traggono la loro legittimazione. Nell’ambito del giuridico – sembra insegnare Filomusi – i valori sono relativi e debbono sempre misurarsi relativamente alle forze storiche di cui sono emanazione.

Nel precedente «Corso» sui diritti reali il maestro romano era stato ancora più esplicito su questo punto, con un approccio singolarissimo: «Questo è il concetto romanista della servitù, ma nella storia del diritto si riscontra un’altro concetto, che è la conseguenza della teoria della proprietà divisa». Se l’interprete, alla fine, propone come seguibile il primo, non è per convinzione inoppugnabile, ma solamente perché schema più congeniale al regime delineato nel Codice.

È notabile che in un corso di diritto positivo, da parte di una insegnante di un diritto positivo, i concetti non subiscano alcuna dogmatizzazione, alcun procedimento isolante. Non la proprietà, la servitù, lo usufrutto, ma tanti precipitati storici in cui si assommano i caratteri proprii delle civiltà produttrici; e il diritto vigente, al fondo dell’imbuto del divenire storico, lungi dall’essere astoricamente isolato e assolutizzato con un’esegesi d’indole pseudologica, è soltanto per il giurista l’assestamento ultimo di una catena ininterrotta di movimenti e di contraccolpi.

Non sorprende allora quella grande virtù che chiamavamo più sopra l’umiltà del giurista Filomusi, né sorprende la sua curiosità intellettuale di comparatista, quel suo relativizzare continuo che sbocca sì in una nozione sicura, in un concetto chiaro e netto, ma insuscettibile di diventare mai oggetto di culto da parte dello scienziato e dello studente; o del richiamo continuo a un processo storico, dove protagonisti non sono i solidi frammenti di quel paradiso di verità indiscutibili che è il Digesto, ma culture diverse col loro vario bagaglio ideale ideologico, tecnico

Posizione preziosa che consentirà a Filomusi un esame disincantato della aborrita teorica del dominio diviso: non di per sé illogica e contraddittoria, come vorrebbero i romanisti che la misurano unicamente coi loro archetipi astratti, ma strumento tecnico contrastante l’indirizzo dell’individualismo possessivo. Per questo forse respingibile, certamente da riceversi con estrema cautela all’interno d’un assetto giuridico dalle fondazioni individualistiche, ma certamente anche né aberrazione né disvalore né Unding.

In un quadro in cui – più che in altri giuristi – si segnala anche un certo recupero della dimensione ideologica, il modello filomusiano d’interpretazione fa pur sempre capo a una comprensione storicistica, in cui si riconosce la probità intellettuale del maestro abruzzese > .

(P. Grossi, Un altro modo di possedere, Milano, 1977, pp. 334-338).


Già verso la fine del secolo scorso, come si diceva, si può individuare una tendenza dottrinale che, pur minoritaria, aveva tentato di elaborare un modello concettuale di proprietà intesa non più come «assoluto dominio», ma piuttosto come potere concesso al privato con molti limiti. Nelle sue lezioni sulla proprietà, Fadda scrive che «la proprietà, come podestà illimitata, è un’utopia non ammessa in alcun sistema giuridico; essa prende forme e manifestazioni peculiari di ogni sistema, quindi non si può parlare di una proprietà in senso astratto, ma di un diritto di proprietà concreto, quale risulta dall’insieme di un determinato sistema. Se nella realtà non sussiste una proprietà illimitata, è inutile che noi ricorriamo a questa concezione astratta, come è sempre inutile, anzi pericoloso, basare costruzioni su concetti che non hanno fondamento nella pratica.

Noi dobbiamo quindi esaminare, alla stregua del singolo sistema giuridico, e delle singole manifestazioni pratiche, come la proprietà si svolga; da questo esame, poi, risalire a un concetto di proprietà che sarà esatto in teoria e vero in pratica sempre relativamente al sistema in questione».

Non si deve tuttavia equivocare sul significato di limite che ricorre nella letteratura del secolo scorso: il limite così inteso è impresso dai poteri pubblici alla proprietà del singolo, al fine di evitare che l'abuso del diritto, o un uso eccessivo, rechi danno ad altri. Non si tratta, in altri termini, di un intervento dello Stato diretto a contenere la rendita, a realizzare una maggiore giustizia sociale, a operare una maggiore eguaglianza: l'intervento dello Stato che pone limiti alla proprietà individuale è inteso come intervento destinato a ricomporre i conflitti tra gli interessi dei privati proprietari.

Prosegue infatti Fadda: «Guardiamo alla proprietà immobiliare. Qui è anche più evidente l'assurdo di una proprietà illimitata; quasi sempre, qui, il godimento dell'uno porta a restrizione dell'altro. Tanto che se volessimo prendere alla lettera la massima che al proprietario è concesso di fare qualsiasi cosa purché non danneggi la proprietà altrui, noi dovremmo ammettere che in tesi generale il proprietario debba impedire che il fumo passi dal proprio nel fondo del vicino. E, via via, in base al concetto dell'illimitatezza, giungeremmo a foggiarci una proprietà insopportabile, incompatibile con la proprietà altrui».

Allo stesso modo, Giuseppe Fragola, in un fortunato libro del 1910 sulla teoria delle limitazioni amministrative al diritto di proprietà, afferma che «il regime amministrativo della proprietà privata ha la finalità di regolarla in guisa da non poter mai costituire un ostacolo all'accesso dei cittadini nelle vie della civiltà. Così è per l'espropriazione, così per i monopoli. Così per il riscatto, così per le servitù e le limitazioni».

Così positivamente inteso il diritto di proprietà, non può porsi menomamente in dubbio la potestà della P.A. nella disposizione della cosa altrui, per ragione di ordine sociale. E dicendo disposizione, intendiamo riferirci a una espressione generale che comprenda qualunque forma d’imperio sulla privata proprietà. La quale, considerata giuridicamente e sociologicamente come promanante della volontà del sovrano, presenta intrinsecamente un contenuto elastico in rapporto alle esigenze della collettività: poiché da un minimum costituito dal semplice temperamento del godimento (limitazioni propriamente dette) attraverso all’ius in re aliena (usi civici, servitù), e sino al maximum costituito dal completo assorbimento del dominio (espropriazione per pubblica utilità, riscatti, monopoli) dà luogo a una scala, per la quale si può svolgere variamente la supremazia dello Stato. È tutta una graduazione del regime amministrativo della proprietà: e il fondamento giuridico, che giustifica le forme diverse dell’imperio statuale, è la consacrazione della prevalenza dell’elemento sociale sull’individuale.

Del carattere di questa potestà gli scrittori si sono occupati soltanto a proposito dell’espropriazione; ma non può dubitarsi che parimenti va detto anche per le altre figure giuridiche menzionate. Per accennare ad alcune teorie soltanto – notiamo che queste d’ordinario si son fatte ispirare da concetti astratti, e punto riflettenti la realtà effettiva delle cose.

Il Romagnosi ammette il principio; ma piuttosto che far capo al necessario rapporto di coordinazione dei diritti del privato con le esigenze della comunanza, parte da un preteso conflitto fra la proprietà del singolo e l’interesse collettivo. Concetto inesatto questo, come ha rilevato lo Scalvanti, poiché «un conflitto sostanziale non può esistere fra la libertà dell’individuo e i fini della sicurezza sociale, poiché, come non v’è libertà di fare ciò, che potrebbe recare nocumento agli altri, nello stesso modo non havvi conflitto fra la proprietà dei singoli e l’interesse pubblico, in quanto la proprietà, nella sua forma giuridica individuale, cessi ipso iure di esistere non appena serva di ostacolo a una esigenza della consociazione. Ammettere l’idea di un conflitto sarebbe lo stesso, che riconoscere la possibilità che il diritto individuale commettesse una usurpazione sui vantaggi comuni dell’opera di pubblica autorità; sarebbe insomma come fare la consacrazione dei privati dominii, nel momento in cui essi diventano elementi di antisocialità». E la collisione nella specie non può avvenire fra due diritti (quello dello Stato e quello del privato), che non hanno identità di qualità.

E non si può neppure consentire con Teofilo Huc, che trova la giustificazione del diritto dello Stato alla espropriazione della proprietà privata nell’esistenza di un certo residuo della proprietà collettiva, costituente il Demanio pubblico, e da cui bisogna argomentare la esistenza in passato del tipo collettivo della proprietà: passata poscia la quale a regime individualistico, fu inteso che il potere pubblico si riservava il diritto di far rientrare – laonde si disse rétrait d’utilité publique – nel patrimonio comune quei beni, che alla collettività riuscissero utili. Tale concetto dell’Huc condiviso dallo Scalvanti, se può essere esatto nel dare la spiegazione storica della evoluzione della proprietà, non è felice nel designare il titolo del rapporto attuale, che regola la potestà statuale. Il regime della proprietà oggi è essenzialmente individuale; un ristabilimento di alcune porzioni di proprietà collettiva nell’interesse comune può, se mai, dare la spiegazione del fatto, ma non il titolo al diritto; quella è l’intenzione dello Stato, ma non la giustificazione del diritto dello Stato. E se pure una tale veduta potesse ammettersi per le espropriazioni – per le quali in vero è stata scritta – non potrebbe applicarsi alle semplici limitazioni, circa le quali per altro il principio ispirativo dovrebbe essere lo stesso.

E come sono destituite di fondamento le teoriche del casus e della vis major, applicate alla espropriazione – le quali vorrebbero sostituire alla cosciente volontà statuale l’elemento estrinseco del fortuito e dell’impreveduto – così egualmente infondata è la sottoposizione del dominio privato a una servitù a favore dello Stato. C'intratterremo più tardi in modo speciale sulla servitù, per riflessi della analogia che ha del nostro studio. Ma intanto ci basti notare che chi dice il diritto dello Stato in ordine alla disposizione dei privati dominii una specie di servitus, gravante su questi, non considera che la servitù costituisce un onere certo e determinato, sopra un fondo determinato, a vantaggio di un altro: mentre nella espropriazione trattasi addirittura di sopprimere una proprietà privata del pubblico interesse; e nelle limitazioni propriamente dette, mancano il fondo dominante e il fondo servente, essendo esse invece sempre dettate nell’interesse dell’intiera collettività.

Il fondamento del regime amministrativo sulla privata proprietà deve, a nostro avviso, fissarsi esclusivamente sulla sovranità dello Stato, la quale si esercita su tutti gl’individui e su tutte le cose esistenti nel territorio. Potremmo dire che è un dominio eminente dello Stato, non nel senso però come nel diritto medioevale s’intendeva. I tempi di mezzo ridussero tutte le istituzioni giuridiche a un concetto privatistico; e il possesso della terra, base del potere politico, era altresì il fondamento del diritto pubblico. Ivi il proprietario aveva della cosa soltanto l’utile dominio, ma il dominio diretto era riservato al sovrano. Epperò il dominium eminens era una conseguenza di quel diritto del sovrano, che si affermava padrone del territorio; e questo a proprio piacimento egli concedeva ai vassalli. Lo Stato barbarico e feudale fino ai tempi nostri non conobbe e non poteva conoscere il concetto di un’azione a vantaggio dell’universalità dei cittadini.

Ma diversa è la concezione dello Stato moderno, che deriva la sua potestà dalla organizzazione della convivenza umana, ai fini del raggiungimento del benessere comune. Di un dominio eminente si parla oggi altresì nel quinto emendamento della Costituzione americana; ed esso è definito il diritto della sovranità di restringere e regolare quei diritti d’indole pubblica (le libertà in generale) spettanti ai cittadini, e restringere e appropriarsi le proprietà individuali per pubblico uso, secondo quanto può essere richiesto dalla sicurezza, dalla necessità, dalla convenienza e dal benessere pubblico. Ma è il dominio eminente in senso assolutamente diverso da quello medioevale. È quella potestà primordiale e inderogabile, che esiste in ogni manifestazione giuridica, da parte dello Stato, e di cui accennammo precedentemente: la determinazione cioè che il sovrano fa della sfera d’influenza del diritto dominicale, all’effetto di assicurare alla collettività il maggiore benessere. Questo fondamento dell’attività d’imperio spettante allo Stato sul privato dominio, riflette tutti gl’istituti giuridici diversi, a cui già abbiamo accennato. Il regime amministrativo della proprietà privata ha la finalità di regolarla in guisa da non poter mai costituire un ostacolo all’accesso dei cittadini nelle vie della civiltà. Così è per l’espropriazione, così per i monopoli, così pel riscatto, così per le servitù e le limitazioni. Ma è chiaro che mentre è comune a tutti tale fondamento, viceversa ognuno degli istituti ha diversa portata, diversi scopi specifici, diverse figure. E sarebbe grave errore volerli confondere insieme. Taluni scrittori, sotto il titolo di limitazione, comprendono anche la espropriazione, come la massima delle restrizioni dominicali. Ma la limitazione è disciplina dell’uso normale della proprietà; la espropriazione invece è la sottrazione coattiva di essa.


Merita anche esame la figura giuridica del monopolio.


La P.A. per l’adempimento delle sue finalità interdice ai cittadini talune attività sulla cosa propria. Finora è avvenuto che i monopoli fossero costituiti esclusivamente per realizzare profitti dell’ente pubblico o per meglio organizzare un pubblico servizio. Ma da alcun tempo cominciamo a osservare come si vadano istituendo monopoli, i quali hanno anche delle finalità di polizia: tendono cioè a evitare pericoli e danni alla collettività sociale. Specialmente nell’ambito dell’attività comunale, noi riscontriamo i monopoli dei macelli pubblici e dell’espurgo dei pozzi neri, i quali mirano a un alto interesse igienico, delle pompe funebri, che tendono a garantire contro la rapacità degli sciacalli speculanti sul dolore. Vedremo in seguito sino a quale punto e con quali forme questi monopoli, con finalità anche di polizia, siano consentiti: ora constatiamo il fatto.

E poiché con l’istituzione di questi, avviene una limitazione alla proprietà privata, occorre chiarire fino a qual punto può dirsi analoga la figura di questa limitazione a quelle di cui abbiamo fatto cenno sin qui.

Il monopolio produce normalmente una limitazione a vantaggio del fisco o per l’immegliamento di un servizio pubblico: produce, a volte, come abbiamo accennato, anche limitazione di polizia. E la prima categoria differisce per fisionomia, per portata e per finalità dalla seconda.

Se la limitazione di polizia è la misura del dominio, all’effetto di non produrre nocumento alla collettività, invece la limitazione fiscale, pur proibendo un certo uso od una certa attività sulla cosa propria, mira ad attribuire un incremento pecuniario all’ente pubblico.

L’una è quindi esplicazione di una attività di difesa, l’altra è invece esplicazione di attività di perfezionamento, in quanto non tende a eliminare un danno, ma contribuisce ad assicurare maggiori entrate allo Stato per la soddisfazione di bisogni collettivi.

Quando la legge vieta al proprietario di accumulare nell’ambito depositi di materie putride od esplodenti, designa la misura consentita al dominio: ché se quel precetto non fosse osservato, la collettività ne risentirebbe nocumento. Ma quando la legge inibisce al proprietario di coltivare la pianta del tabacco oppure glielo consente in misura determinata e con obbligazioni specifiche, qui invece la limitazione, che il proprietario riceve al suo diritto, ha la diversa finalità di assicurare allo Stato l’esercizio di un monopolio, da cui le entrate pubbliche potranno venire impinguate.

Nel corso del presente studio […] parlando di limitazioni, intenderemo riferirci esclusivamente a quelle di polizia > .

(G. Fragola, Teoria delle limitazioni amministrative al diritto di proprietà con speciale riferimento
ai regolamenti comunali, Milano, 1910, pp. 41-45)
 


La scienza del diritto amministrativo allora non aveva però ancora precisati i «limiti ai limiti» del diritto di proprietà; non si era cioè ancora saputo rispondere al quesito: fino a che punto il legislatore e l’autorità amministrativa cui il legislatore ha demandato il compito di introdurre limiti ai poteri dei proprietari, si possono spingere?

Dalle pagine di Fragola emerge che «l’autorità pubblica non è onnipossente e incontrollata», ma non risulta con altrettanta chiarezza quali siano i criteri cui l’attività della P.A. si deve attenere per non sconfinare nell’arbitrio. Continua Fragola:

Certo però l’autorità pubblica non è onnipossente e incontrollata: la sua potestà non è senza confini, e nella esplicazione della sua attività di polizia deve incontrarsi in un punto, oltre il quale si straripa nell’arbitrio. Vi è un limite del limite. Il potere amministrativo, se così non fosse, potrebbe comunque sbizzarirsi sino all’annullamento della proprietà: poiché qualunque più ardito o più imprudente provvedimento può giustificarsi con l’interesse sociale o con l’ordine pubblico, direttamente o indirettamente colpiti. Questa sarebbe una formula troppo vaga: che anzi pei governi «l’ordine pubblico» è diventato una clausola di stile.

Vero è che lo Stato moderno tende e si avvia a diventare Stato giuridico: non è solo la garanzia giurisdizionale che gli dà una tale caratteristica: più che altro, esso deve indirizzare la sua azione entro i confini del giusto e dell’onesto; più che altro, lo Stato moderno deve bandire, nell’esercizio della sua potestà, ogni eccesso arbitrario, qualunque atto che non sia ispirato unicamente e strettamente all’interesse collettivo, qualunque affermazione di volontà che non abbia per iscopo il raggiungimento del benessere comune.

È perciò che non basta fermare una designazione nebulosa del diritto prevalente sul principio di socialità e sulla nozione di Stato; essa prende la sua maggiore e più specifica determinazione giuridica. Ed è questo il problema più grave, che si presenta in ordine alla nostra trattazione: e che pur potendo offrire una soluzione netta nelle sue linee generali, nelle applicazioni poi trova grandissime difficoltà. Come in qualsiasi altra manifestazione giuridica, la coesistenza sociale trova il suo primo fondamento anzitutto nel costume che, consolidatosi, si tramanda con la tradizione, sussidiato dalle sanzioni della religione e della morale: le norme del vivere civile sono pertanto elaborate nella coscienza pubblica, a seconda dei sentimenti, dei bisogni, delle aspirazioni del tempo; e sono queste esigenze, che assunte dal potere sovrano, e assicurate dall’efficacia della coazione esterna, diventano norme giuridiche, il contenuto cioè della legge. La limitazione dominicale perciò va determinata in corrispondenza delle idee prevalenti sul principio di socialità e sulla nozione di Stato; essa prenda la sua precisa configurazione, sotto la propulsione della pubblica opinione, secondo il comune sentire l’intervento dell’amministrazione pubblica nella tutela della vita collettiva.

La contesa fra i difensori dell’autorità – dice il Brunialti – e i teorici del liberalismo economico non si riassume più, nei moderni tempi, in una discussione sui limiti dell’azione individuale e dell’azione sociale, e sulla maggiore o minore giustizia od opportunità di una espansione dell’opera collettiva, il tema intorno al quale disputarono così dottamente tanti illustri scrittori, da H. Spencer a F. Schäffle, da E. De Lavelye a M. Minghetti. Essa si dibatte specialmente fra coloro che riconoscono nello Stato il diritto di mutare col suo intervento i rapporti sociali, per sostituire alla libertà di pochi privilegiati la libertà dell’interesse umano, e coloro per i quali i limiti dell’azione collettiva non sono già tracciati da un supremo principio di moralità e di giustizia, ma esclusivamente dalla struttura organica dello Stato e dagli elementi, onde esso è costituito.

Non occorre ripeter la direttiva seguita in questo studio; poiché già la si è manifestata precedentemente.

In ogni modo, ammesso, anzi constatato l’intervento statuale nella disciplina dei rapporti sociali, sarà ora necessario identificare il punto limite di detta ingerenza. Esaminando il titolo di legittimità dell’azione statuale, nella specie, ne abbiamo già determinata la finalità: e possiamo quindi stabilire in principio che essa può esorbitare dalla prosecuzione degli scopi propostisi. Lo Stato – abbiamo rilevato – con la sua azione di tutela tende a evitare alla comunanza il danno, che a questa può esser prodotto dall’attività dominicale: la polizia perciò può legittimamente esplicarsi in questi confini; ma non oltre, sia pure per scopi egualmente giusti. Quale può dirsi perciò danno sociale?

La comunanza raccoglie, mantiene e perfeziona un patrimonio ideale, composto di una serie di attività, d’interessi, di bisogni, di sentimenti, di aspirazioni. Come a essa ripugnerebbe oggi la soggezione dell’uomo all’uomo, ammessa dalla schiavitù, così non può consentire una qualunque altra lesione, che urti il modo di sentire dominante. Perciò quando la lesione che il singolo produce a questo patrimonio ideale della società di risolvere in un danno effettivo a tutta la comunanza, essa interviene per ristabilire l’armonizzazione fra il pubblico e il privato interesse: oppure in vista della possibilità della prevalenza egoistica, la prevede e ne statuisce la sanzione. Oggi la società persegue intensamente la voluttà della vita: e quali che siano le speculazioni filosofiche sul fine dell’uomo e le disquisizioni chiesastiche sul dispregio della vita terrena, essa aspira tenacemente ad assicurarsi tutti quei maggiori vantaggi che la scienza e la civiltà suggeriscono. A questo scopo convergono tutte le manifestazioni dell’attività umana: ond’è che a seconda dei tempi e dei luoghi troverai, sebbene in modo diverso e diversa quantità, un complesso di esigenze costituenti il comun modo di sentire quello che dicesi l’anima della folla, il senso della pubblica opinione; esigenze di ordine vario, che dal riferimento ai bisogni elementari dell’esistenza vanno alle utilità e sino alle leccornie psichiche più squisite. La società così più vuole che l’esercizio di una professione od industria sia fatta non tanto liberamente da pregiudicare la salute o l’interesse dei cittadini; essa può esigere perciò che i privati assoggettino il loro esercizio a determinare condizioni, intese a prevenire qualunque abuso. Può altresì volere che la libertà di fare una qualche cosa non incespichi nella libertà altrui; può disciplinare le manifestazioni di taluni mestieri, altri regolarne altri vietarne. Nel miraggio della felicità, la società aspira ancora a esigenze estetiche; in un piccolo centro, la modesta comunanza sarà soddisfatta della nettezza pubblica e sarà lieta di avere le sue belle case, dalle facciate bianche prospicenti su di una strada innaffiata e spazzata; in un centro maggiore si sarà più esigenti dell’ornato, e si vorrà che gli edifizi sieno conformi alle disposizioni di un piano edilizio; e nella capitale, ove la vita di progresso corre vertiginosamente verso il bello ideale, si sentirà nel pubblico magari il bisogno di una estetica edilizia maggiore, e si vorrà che i palazzi situati nelle strade importanti sieno fiancheggiati da villette, chiusi da artistiche cancellate di ferro, allietati dal sorriso di un giardino fiorito. Ed il contravvenire a tali esigenze significa porre la vita individuale – come dice lo Stein – in contraddizione con la vita della comunità, e turbarne e incepparne lo svolgimento: significa ledere il sentimento pubblico.

In tutta questa varietà di bisogni sociali, così come si manifestano nelle comunanze locali, si sente tutta la meravigliosa vivacità della vita contemporanea. A proposito del quale, invano si potranno invocare i rancidi criterii del passato. Sarebbe in grave errore chi delle limitazioni dominicali volesse giudicare prendendo a base criterii invariabili nello spazio e nel tempo.

La questione si presenta molto più sensibile e più pressante, a proposito delle limitazioni, per ragione di ornato, delle limitazioni edilizie, quelle che per supreme esigenze di civiltà e progresso, tendono a dare alla comunanza larghe vie aerate e alberate, che alle esigenze igieniche aggiungono ragione ed estetica, che intendono a elevare il livello artistico della collettività. Il fatto che ieri poteva costituire una libera e legittima manifestazione dell’individuo, oggi può essere ritenuto dalla scienza dannoso alla società, o può essere in urto coi principii morali oggi prevalenti o può destare ripugnanza e raccapriccio nel pubblico, o pregiudicare quel complesso di sentimenti universali, da cui la collettività è pervasa. Il non essere turbati in questo patrimonio ideale, che pure ha conseguenze morali, intellettuali e materiali, costituisce il contenuto delle norme di polizia in genere, e per la specie, della polizia della proprietà: una attività perciò negativa, essenzialmente di difesa. Ecco perché – da un punto di vista meramente filosofico – è da affermarsi che l’attività statuale allora solo può intervenire, quando il godimento del proprietario urti il senso del- la collettività sociale, e le produca danno, sia questo materiale o intellettuale, economico od estetico.

È questo il criterio-limite, distintivo dell’azione statuale, in ordine al contenuto delle esigenze collettive da tutelare. Il quale criterio ci vien dettato dallo stesso processo di formazione spontanea del diritto; per cui lo Stato, raccogliendo nella coscienza pubblica le norme elaboratesi per il vivere civile, le fissa e le sanziona nella legge scritta.

Questo però – ripetiamo – va detto da un punto di vista puramente filosofico, sia perché la legge – promulgata che sia – spiega sempre la sua efficacia imperativa (sebbene possa riuscire priva di pratici risultati), sia perché in nessun’altra branca del diritto, come in questa, la norma giuridica, più che nella coazione esterna – elemento soltanto sussidiario – deve trovare la virtù della sua applicazione nel costume, nel consentimento della coscienza pubblica, nell’abito del popolo. Inutilmente, nonostante le disposizioni proibitive e penali, si imporranno le norme d’igiene a un popolo lurido per abitudine. E ciò dimostra come alla legge non possa darsi una funzione trasformatrice della società, quando non sia stata elaborata nell’anima popolare: la legge ha soltanto la funzione di determinare stabilmente quelle norme, che la civiltà ha conquistate alla progrediente umanità.

Noi vedremo altrove come nella legislazione nostra non può esercitarsi un sindacato sulla legge (possa anche essere questa in contrasto coi principii sanciti dalla Costituzione – sindacato costituzionale, come negli Stati Uniti di America – possa pure essere iniqua – sindacato politico, come l’istituto del referendum nella Svizzera). La legge è la legge, e va senz’altro rispettata. Non si può fissare un limite giuridico della legge, poiché questa è la manifestazione più diretta della sovranità: e la sovranità è per se stessa illimitata. La risorsa suprema
contro la legge non potrebbe essere che il diritto di resistenza collettiva, che implica lo stato di risoluzione. Astrattamente però il fin qui detto ci gioverà per determinare se una norma legislativa, che imponga un limite alla libertà e alla proprietà, meriti o meno censura politica.

E sempre mantenendosi nello stesso ordine di idee, la questione può essere guardata da altro aspetto. Bisogna distinguere: 1) la intrinseca giustizia di proteggere con la norma giuridica il contenuto di una esigenza. Per esempio la integrità personale, la salute, la vita degli operai, che prestano la loro opera in industrie pericolose e malsane, sono esigenze acquisite alla società, sì da meritare dalla legge una protezione? A questo quesito ha risposto la legislazione sul lavoro quando, limitando la libertà individuale e dominicale, ha fissato delle norme per garantire quegli interessi sociali.

Chi osserva infatti la legge sulle risaie, sulle industrie zolfifere, sulle miniere, vedrà che il proprietario dovrà – per ragion di sicurezza e di igiene degli operai – adattare e modificare opportunamente le zone in cui si lavora. 2) Secondo quesito: riconosciuto che un tale interesse dev’essere protetto dalla legge, la efficacia della norma giuridica deve rimanere affidata ai soli interessati, oppure, trattandosi d’interesse collettivo, è opportuno l’intervento statuale? È questa l’altra faccia dello stesso problema sull’intrinseca giustizia della limitazione dominicale.

La comunanza infatti sente una quantità infinita di bisogni, ad alcuni dei quali i singoli non possono direttamente e opportunamente con l’opera loro provvedere; ad altri dei quali riesce più facile dare soddisfacimento. Così per es. il procacciarsi il nutrimento è bisogno primordiale ed essenziale negli uomini, ma ciò essi più o meno agevolmente possono fare, esplicando le loro ordinarie attività; la legge riconosce una tale esigenza garantendo la libertà individuale di addirsi a qualsiasi professione o mestiere: un intervento statuale sarebbe per lo meno inutile, perché verrebbe a portare un elemento di coazione e di restrizione di libertà, quando ciò riesce non necessario. Questo, almeno secondo l’attuale stato di cose e il presente modo di sentire collettivo.

Ma pongasi per es. il caso dei tempi di carestia, in cui il pubblico soffre la fame, per la mancanza di generi alimentari, cagionata dalla ingordigia di speculatori monopolizzanti il mercato. Qui ci troviamo di fronte all’identico bisogno dell’intera collettività. Ma siccome i singoli non saranno in grado di rompere la coalizione o non avranno alcun mezzo a loro disposizione per impedire il danno che a ciascuno il fatto produce, allora si ravvisa indispensabile l’azione coattiva dello Stato; e però ne diremo giusto in tal caso l’intervento. Dunque a fermare la giustizia della iniziativa statuale non basta che si tratti d’impedire una lesione alle esigenze della collettività, ma occorre ancora stabilire se l’azione dei singoli nell’evitare il pericolo, se tentata, non riuscirebbe così opportuna e proficua, in confronto della più rapida e più agevole azione dell’autorità.

È chiaro che, oltre tali criterii-limiti d’indole filosofico-politica, non è possibile più specificamente determinare. Poiché rilevare quali sieno le esigenze collettive da difendere, stabilire quali sieno le limitazioni da fissare a carico del proprietario, e in quali casi, è compito esclusivo della sovranità. Ed il potere della sovranità è illimitato, come è canone fondamentale insegnato dal diritto pubblico.

La sovranità non trova limiti nella determinazione delle regole del vivere civile verso i consociati; essa può stabilire le norme che ritiene le più opportune a disciplinare l’attività degli individui. Nessuno potrà dire mai fino a qual punto il legislatore possa emanare norme giuridiche; nessuno potrà dire mai che una legge sia illegittima; vi sarebbe contraddizione evidente. La legge potrà essere sindacata come iniqua, come ingiusta, come immorale; potrà riuscire praticamente inefficace, sterile, vana; ma essa stessa è il diritto, epperò non può essere contro il diritto. Il contenuto delle limitazioni quindi trova la sua determinazione nel volere della sovranità: e perciò non è sindacabile. Il limite esiste semplicemente nella formazione della legge: è un limite intrinseco.

Così per es. quando la legge sui valori pubblici avrà imposta la limitazione che non si possa fabbricare a una certa distanza dalla strada, si potrà discutere sulla opportunità di tale norma, ma non la si potrà sindacare dal punto di vista giuridico. Del pari, quando il regolamento comunale di polizia urbana avrà fissata una qualunque grave limitazione alla proprietà, avrà posto in essere una norma giuridica, una legge sostanziale, che il magistrato non potrà sindacare.

Il limite del limite a dunque trovasi nella coscienza collettiva, questa indicherà se una esigenza da tutelare vi sia; se questa esigenza meriti di essere protetta a cura di singoli cittadini, per proprio conto, o a cura dell’autorità col potere di polizia. Quando di tale sentire collettivo la autorità pubblica si sarà impadronita, la norma giuridica verrà emanata: e un sindacato sulla norma promulgata non può essere ammissibile > .

(G. Fragola, Teoria delle limitazioni amministrative al diritto di proprietà con speciale
riferimento
ai regolamenti comunali, Milano, 1910, pp. 66-72).



2. L’idea di «funzione sociale» della proprietà nelle elaborazioni del socialismo giuridico

Il processo che conduce alla definizione di una funzione sociale della proprietà inizia già alla fine del secolo, con la trattazione della proprietà proposta dagli esponenti del socialismo giuridico.

Nel 1880 scoppiava la “questione sociale”, causata dall’accellerato ritmo dell’industrializzazione e dell’inurbamento delle masse contadine. Nuove forme di proprietà prendevano il posto di quelle tradizionali; il potere economico cambiava di mano. Un nuovo codice di commercio veniva promulgato nel 1882, e andava a sostituire quello, già vecchio, del 1842 dello Stato sardo, che era stato promulgato nel 1865 insieme al c.c. Prima della fine del secolo vi era chi, di fronte alla palese insufficienza dei modelli tradizionali della “scienza” del diritto a comprendere la nuova realtà, denunziava la “proletarizzazione del diritto civile”, in quanto diritto delle classi meno abbienti, ancora stabilito su forme elementari di economia, e lo contrapponeva al diritto pubblico, in quanto diritto delle situazioni di interessi più complesse e più importanti. Altri tentavano un’azione di recupero, inventando per la proprietà – o meglio per la disciplina della proprietà, dato che non si voleva rinunziare al concetto napoleonico – una terza categoria del diritto; il diritto civile-amministrativo, che doveva servire a rappresentare (e a giustificare) la natura delle limitazioni, imposte, sì, ai proprietari privati, ma in funzione della realizzazione di interessi pubblici» (Costantino). E Gierke, in un discorso del 1889 alla società giuridica di Vienna, e pubblicato con il titolo La missione sociale del diritto privato, affermava che: «Alla proprietà si debbono imporre dei doveri sociali. Dovere di non abusarne, anzitutto; ma, quel che è più, anche il dovere di farne un retto uso. Al concetto romano della proprietà come di un diritto assoluto e illimitato, deve sovrapporsi quello germanico, che ritiene la proprietà come un diritto relativo che contiene in se stesso, e non solo riceve dall’interno, la propria limitazione. La proprietà non ha più da servire unicamente all’interesse egoistico dell’individuo; ma sì bene deve essere ordinata nell’interesse di tutti. Per lo stesso motivo, tutto il diritto immobiliare dovrà radicalmente trasformarsi, in guisa da costituire un sistema speciale, perché le norme che reggono la proprietà degli immobili non possono essere le stesse che governano la proprietà delle cose mobili. Anche qui il criterio deve attingersi all’interesse sociale. Quindi sta bene che si ammetta in principio la libertà d’alienazione; ma nel tempo stesso occorre che si prendano tutte le cautele necessarie, acciocché la proprietà fondiaria non sia esposta al pericolo di venir annientata dai debiti, o di sminuzzarsi soverchiamente. Perché in definitiva è un grande interesse sociale quello che consiglia di assicurare la immanenza della proprietà fondiaria, è un grande interesse politico quello che impone di soccorrere la classe dei contadini, il più forte baluardo, contro le aggressioni esterne e le agitazioni interiori. Grande e piccolo possesso hanno un’altra missione da compiere; per mettersi in grado di esercitarla sarebbero legittimi e da approvarsi anche i fedecommessi familiari!».«E vi ha una folla di minori diritti reali che il legislatore deve proteggere, perché tutti, per quanto piccoli in sé, possono concorrere ad accrescere la ricchezza nazionale; e vi hanno diritti d’obbligazione che esigono una tutela più efficace nell’interesse delle classi lavoratrici, e a cui sarebbe facile concederla solo che, ritornando all’antico concetto germanico, si voglia abbattere la fragile barriera che separa il diritto reale dal diritto d’obbligazione».

In Italia scrittori come Cimbali (La nuova fase del diritto civile nei suoi rapporti economici sociali, 1885) e Gianturco (L’individualismo e il socialismo nel diritto contrattuale, 1891) proclamavano il tramonto dell’individualismo e l’inizio del periodo della socialità. Nel 1917 veniva insediata una commissione per lo studio del problema, che nel progetto definitivo proponeva (art. 18) di definire la proprietà come diritto di godere e disporre in conformità della funzione sociale.

Che cosa significava già allora questo dibattito sulla funzione sociale e come mai si protrasse così a lungo? Qual è il problema che si cercava di risolvere con la «funzione sociale» della proprietà? Naturalmente, come accade in tutti i processi di trasformazione economica, ogni volta che si creano nuovi equilibri non si può fare a meno di porsi il problema della legittimazione di poteri: nella specie bisognava legittimare i poteri di intervento legislativo. A mano a mano che il processo di sviluppo subiva accelerazioni, diventavano sempre più frequenti le ipotesi in cui la legge è chiamata a regolare i rapporti proprietari. Il protagonista del processo di trasformazione sta diventando la legge; la legge appunto è chiamata a strutturare positivamente i poteri del proprietario. Si trattava quindi di legittimare tale intervento specialmente quando esso assume indici di frequenza molto elevati, quando le c.d. leggi speciali si moltiplicano. Su un altro piano, si trattava di dare una legittimazione diversa ai poteri proprietari, cioè un fondamento diverso dell’attribuzione dei poteri al singolo come tale> .

(P. Barcellona, Diritto privato e processo economico, II ed., Napoli, 1975, pp. 175-177)

Anche Biagio Brugi, illustre giurista dell’inizio del secolo, scrive nelle sue Istituzioni di diritto civile, in materia di limitazioni al diritto di proprietà nell’interesse pubblico teorizzando la funzione sociale della proprietà:

< Fu un falso concetto dei filosofi della scuola del diritto naturale che il diritto di proprietà avesse, per sua essenza, carattere illimitato, e che soltanto la legge positiva ne alterasse il tipo. Il diritto di proprietà entra già nell’ordinamento giuridico come potere sottoposto a necessari limiti. I quali, ben guardando, sono piuttosto condizioni di esistenza del dominio della civile società, e stanno logicamente nel concetto e nella rubrica del dominio, come li presenta il c.c. tedesco (parr. 903-924). Inoltre i poteri del proprietario sono coordinati con le disposizioni del codice penale (art. 457; schiamazzi e clamori; art. 491: maltrattamenti di animali, ecc.). Al riguardo poi dei fondi, noi non possiamo certo, con le nostre divisioni, rompere la coesione fisica di essi, spezzare la colonna d’aria sovrastante, alterare totalmente le loro condizioni topografiche (par. 16). Gli stessi Romani ammisero molti limiti del dominio; in particolare, di questo genere cui sta a base la necessità delle cose. Inspirandoci a criteri di sociale utilità, ben diversi dal puro necessario, ci siamo spinti più innanzi dei Romani per il minor rigore odierno dell’interesse individuale. Sarebbero forse sembrati a essi antigiuridici certi limiti del dominio, i quali sono oggi ammessi come del tutto confacenti al nostro ordine giuridico, che pure si basa sulla abolizione di secolari vincoli della terra (par. 35). La nostra definizione legale della proprietà (par. 35) è una forma che può ricevere un contenuto maggiore o minore. Lasciamo qui da parte quelle limitazioni della proprietà, le quali hanno un più evidente carattere di diritto pubblico e riduconsi oggi a imposte e tributi e decime (un onere di carattere speciale è quello del contributo o della tassa per bonificazione, par. 85), (secondo il citato testo unico della relativa legge, artt. 6 e 37) e così quelle inerenti allo stato di guerra (requisizioni, alloggio militare, ecc.). Restano nel diritto civile, che si deve faticosamente completare anche con le leggi amministrative, due fondamentali categorie di limitazioni della proprietà; secondo ché, cioè, costituiscono il rapporto di vicinanza o limitano la proprietà indipendentemente dalla vicinanza.

Sono restrizioni di carattere diverso e vengono a limitare da certi aspetti il diritto stesso o il suo esercizio. Dopoché si tentò a grado a grado di abolire il diritto di tutti gli abitanti di certi territori di trarre alcuni vantaggi dai fondi-privati (pascolo, erbatico, legnatico, ecc.), si ebbe qui la scomparsa di alcune limitazioni della proprietà. Ma restò una grave questione, e non è stata ancora definitivamente decisa: tuttora si cerca il miglior modo di conciliar l’interesse dei comunisti con quello del proprietario che talora fu, in origine, un usurpatore dei diritti loro.

I divieti di alienare, nel diritto civile, hanno perduto la loro massima importanza con la caduta dei fedecommessi (par. 97), che rendevano inalienabili molti beni. Una condizione di non alienare può oggi facilmente cadere fra le illecite: malgrado ciò, come temporanea clausola tende a essere ammessa dalla giurisprudenza. D’altro genere sono le restrizioni delle facoltà di alienare del tutore pei beni del pupillo (296), del marito per il fondo totale (1405). La inalienabilità dei beni demaniali dipende dalla loro «natura» (430); non è una limitazione della proprietà loro. Importante è invece tuttora la limitazione alla libertà delle disposizioni testamentarie (par. 98).

Ma il diritto di proprietà è ormai soggetto, per l’indole stessa dello Stato e del Comune moderno quali istituti con compiti sociali, a una molteplicità di limitazioni a tutela d’interessi fisici, morali, intellettuali dei cittadini, le quali si possono comprendere sotto il nome di limitazioni amministrative. Restringono l’esercizio del diritto di proprietà e fanno anche talora sorgere dei diritti a favore dei proprietari. Più che un quadro completo di sìfatte limitazioni, ricordo, per es., l’obbligo dei proprietari di sottostare a una servitù di passaggio e di appoggio di fili telefonici (t.u. delle leggi sul telefono appr. con r.d. 3.5.1903 con modificazione del 1908); alla servitù di passaggio di correnti elettriche sospese o sotterranee per trasporto d’energia elettrica a scopo industriale; alla servitù di passaggio di ferrovie private (cap. 5 Pr. t.u. delle leggi sulle ferrovie. appr. con r.d. 9.5.1912, n. 1447); alla servitù di passaggio di fili e corde metalliche a scopo di trasporti di materiali, ecc. (l. 13.6.1907, n. 403): l’obbligo di restare nella comunione del pascolo, l’obbligo del proprietario (ormai abolito prima del suo termine di proroga) di tollerare occupazioni temporanee di terre seminative abbandonate (t.u. appr. con r.d. 15.10.1921, n. 2047); le limitazioni alla libertà degli affitti (part. 65 I e); i divieti imposti ai proprietari limitrofi a fortezze e opere di difesa per ragioni militari; i divieti di ogni disboscamento dei terreni soggetti a vincolo forestale; i divieti di coltivazione del tabacco per non danneggiare il monopolio dello Stato; i divieti della coltivazione del riso senza obbedire a certe prescrizioni dell’autorità; i divieti di vario genere derivanti dalla legge sanitaria; quelli che infine possono derivare, senza espropriazione immediata, dai regolamenti edilizi e dai piani regolatori del Comune (126 n. 6, t.u. l.com. E prov.; 111 del relat., reg.; legge sulla espropriazione per causa di P.U. 86-94) e che si raffigurano anche come servitù di uso pubblico, ecc. Di genere affine sono le limitazioni e i divieti introdotti dalla legislazione a tutela del patrimonio artistico e archeologico nazionale.

Oltre il diritto di espropriazione a scopo di salvare le cose mobili o immobili di valore storico, archeologico, paleontologico, artistico (par. 35) e il diritto dello Stato di fare scavi in fondi privati e di profittarne se fatti dal proprietario risulta sancita la inalienabilità di quelle cose quando appartengono allo Stato, al Comune, alla Provincia, o a qualsiasi corpo civile o ecclesiastico. Se tali cose appartengono a privati, non divengono inalienabili anche se siano dichiarate monumento nazionale, ma il diritto del proprietario è soggetto a restrizioni. Quando pur manchi per esse ogni dichiarazione di monumento nazionale si ha l’obbligo di ben custodirle e restaurarle: per ogni demolizione, restauro, rimozione, modificazione, è necessaria l’autorizzazione del Ministero della Pubblica istruzione. Niun proprietario o possessore di quelle cose può trasmettere la proprietà o il possesso senza farne denuncia a quel Ministero; il Governo ha diritto di acquistare la cosa al medesimo prezzo stabilito nel contratto di alienazione, entro il termine di due o al più di quattro mesi. Nel frattempo la vendita del privato si considera fatta sotto condizione risolutiva (par. 21 a). È vietata l’esportazione delle cose indicate dal Regno senza farne denuncia all’ufficio di esportazione cui spetta il giudizio e questa costituisca un danno per il nostro patrimonio artistico, salvo sempre il frutto di acquisto da parte dello Stato. L’espropriazione è sottoposta a una tassa progressiva speciale > .

(B. Brugi, Istituzioni di diritto civile italiano, con speciale riguardo al diritto privato, IV ed., Milano, 1923, pp. 324-25; 336-341).

 Il rapporto dialettico privato-pubblico nella disciplina della proprietà era comunque acquisito da molto tempo. E anche prima della grande guerra un altro illustre giurista, Emanuele Gianturco, poneva a raffronto la proprietà romanistica, intesa come proprietà «assoluta» e la proprietà moderna, limitata dall’interesse pubblico.

Scrive Gianturco:

< Il diritto di proprietà consiste nell’impero assoluto ed esclusivo sulla sostanza di una determinata parte del mondo esteriore. In virtù dell’assolutezza il proprietario può usare e abusare della cosa propria, finché la sua volontà non trovi un limite nelle leggi, oggi di più restrittive del classico dominio assoluto; in virtù dell’esclusività egli ha il diritto di respingere chiunque volesse partecipare al godimento della cosa, specie avvalendosi della facoltà di chiudere il proprio fondo (artt. 442,436). Pur notando l’esagerazione del brocardo: dominus fundi est dominus coeli et inferorum, anche oggidì il proprietario del suolo è pieno proprietario dell’aria soprastante e del sottosuolo, fin dove è possibile esercitare utilmente la propria attività, salve le disposizioni delle leggi sulle miniere (art. 447).

Fra le limitazioni al diritto di proprietà, cui accennavamo più sopra, alcune sono imposte per ragioni di utilità pubblica, per es., l’obbligo di lasciare il marciapiede lungo le rive dei fiumi e canali navigabili; altre per utilità privata, cioè per utilità comune dei fondi vicini (art. 534, l. 20.3.1865, sulle opere pubbliche; l.com e prov. 21.5.1908 e relativi regolamenti). Fra tali limitazioni all’assolutezza o all’esclusività del dominio, ispirante tutte al concetto della socialità, le più notevoli sono: 1) il diritto di espropriazione a causa di utilità pubblica, mediante il pagamento di una giusta indennità (art. 438 c.c.; l. 25.6.1865; l. 18.12.1879; l. 22.6.1913 concernente la requisizione dei quadrupedi e dei veicoli per il Regio Esercito); 2) il diritto di occupare proprietà particolari per creare ospedali, lazzaretti, cimiteri o per qualunque altro servizio sanitario, quando, in caso di malattie infettive epidemiche, ve ne sia la necessità assoluta e urgente (art. 127, t.u. leggi sanitarie 17.8.1907); 3) il diritto che ha il governo di eseguire scavi a scopo archeologico in qualunque punto del territorio dello stato, quando con decreti del ministero della pubblica istruzione ne sia dichiarata la convenienza. Il proprietario del fondo in cui si eseguiscono gli scavi avrà il diritto a un congruo compenso (art. 15 della l. 30.6.1909 sulle antichità e belle arti); 4) l’obbligo fatto a ogni proprietario di dar passaggio per i suoi fondi alle condutture elettriche sospese o sotterranee, che vogliono eseguirsi da chi abbia permanentemente o anche solo temporaneamente il diritto di servirsene per usi industriali (art. 1, l. 7.6.1894); l’obbligo che ha il proprietario di un fondo di lasciar sopra il fondo stesso le gomene di vie funicolari aeree private destinate all’industria (art. 1, l. 13.6.1907); 5) il divieto fatto al proprietario di un muro non comune, contiguo al fondo altrui, di aprirvi luci o finestre senza inferriate e invetriate fisse; altrimenti egli potrebbe spiare i fatti del vicino e cagionargli incomodo col getto delle immondizie o in altre guise (artt. 584, 585 e ss.); 6) l’obbligo del proprietario della sorgente di non divertirne le acque per mero atto ad aemulationem (art. 545); 7) i rapporti di vicinanza, per ragione dei quali è stabilita la comunione forzosa dei muri a fin d’impedire un inutile sciupo di capitali; o fatto obbligo di costituire a determinate distanze dal confine, secondo la qualità dell’opera, perché fra l’uno e l’altro edificio vi sia aria e luce sufficiente, e sia rimosso il pericolo di facili aggressioni (artt. 570, 571 e ss.): è stabilita una certa distanza per le piantagioni, secondo la qualità delle piante, perché esse non assorbiscano con le radici i succhi nutritivi del fondo altrui, né lo danneggino coll’ombra dei rami (art. 579, 580) >.

 (E. Gianturco, Istituzioni di diritto civile italiano, IV ed., Napoli, 1907, pp. 101-103).

L’idea di funzione sociale della proprietà trova poi attenta analisi nelle pagine accorate di Enrico Cimbali.

< L’ordinamento giuridico della proprietà si lega intimamente allo stato e alle condizioni economiche della società. Se in ogni tempo e in ogni luogo, dovunque sono stati uomini sulla terra, si trova sempre una proprietà, che rappresenta il complesso dei beni sottoposti all’impero dell’uomo e necessari alla sua esistenza; questa proprietà però, nei singoli tempi e nei singoli luoghi, ha mutato anche sempre di natura e di forma, mutando i bisogni e lo sviluppo dell’organismo sociale. Le teorie giuridiche s’intrecciano e s’integrano a vicenda colle teorie economiche, per quanto riguarda specialmente l’ordinamento della proprietà; ma le une e le altre non sono poi che risultato ed espressione logica, a un punto, delle necessità sociali dominanti storicamente in un dato tempo e in un dato luogo. L’opera dell’economista e del giurista mira sempre, anche incosciamente, a idealizzare e organizzare il reale, come l’opera del legislatore non mira che a realizzare continuamente l’ideale dai primi escogitato, per incarnarlo via via in quelle istituzioni che crede le più adatte a soddisfare i bisogni effettivi della vita, e a favorirne lo sviluppo progressivo. Ora questi bisogni e queste necessità della vita mutano nel tempo e nello spazio, appunto perché si connettono strettamente al grado di organizzazione della società; grado di organizzazione che, mentre determina da un canto la natura e la quantità dei bisogni rispondenti al suo stato, serve dall’altro a determinare la qualità e la quantità dei mezzi necessari per soddisfarli.

La proprietà, nelle svariate forme del suo ordinamento, adempie precisamente riguardo al corpo sociale quello stesso ufficio che, negli altri esseri viventi, adempiono gli organi di nutrizione. La funzione dell’organo cambia secondo la struttura dell’organismo; ma nessun organismo vivente può trovarsi sfornito dell’organo di nutrizione, perché ciò implica inesorabilmente la impossibilità della vita stessa; né possedere un organo nutritivo disadatto, perché ciò, se non impossibile addirittura, la renderebbe insopportabilmente stentata.

La proprietà dunque, come ogni altro organo di nutrizione negli esseri viventi, costituisce l’apparato produttore, nel quale si raccolgono e si elaborano la materie necessarie al mantenimento del corpo sociale. Ora, qualunque apparato produttore si forma e si modifica costantemente sotto l’azione incessante di una doppia forza: la forza dominatrice dell’organismo, e la forza limitatrice dell’ambiente con cui ha d’uopo di lottare, per attingere i materiali e le sostanze occorrenti alla vita. L’indole e la quantità delle materie e degli agenti naturali utilizzati e che possono utilizzarsi, serve a determinare le modificazioni e gli adattamenti dell’apparato produttore; come d’altra parte, il grado di struttura e di funzionalità dell’apparato produttore, che è parte integrante dell’organismo in generale, serve a determinare la natura e la misura delle conquiste e delle utilizzazioni, che possono farsi sopra i materiali e gli agenti del mondo esteriore.

Sta in ciò la causa e la storia della proprietà, la quale, in corrispondenza perfetta con le evoluzioni progressive dell’organismo sociale, ha posseduto sempre una forma e un contenuto mutabili secondo il mutare dei bisogni di esso; mentre d’altro canto non ha lasciato mai di provvedere nel modo più adatto e più rispondente, con mezzi sufficientemente opportuni, alla conservazione e allo sviluppo migliore della convivenza sociale. Ed oramai, dopo il risultato brillante di studi recenti e accurati, fatti sulle istituzioni dei vari popoli, nonché sulle istituzioni dello stesso popolo nei vari tempi, può dirsi entrato nella coscienza generale il concetto che la proprietà, lungi dal presentare una forma invariabile, si è venuta invece man mano esplicando sotto forme diverse in perfetto accordo colle esigenze della civiltà. Ma non ancora si è dimostrato, e nemmeno, per quanto io sappia, tentato dimostrare – forse perché troppo recenti e non abbastanza maturi sono gli studi sociologici sotto il nuovo aspetto positivo, da poterne fare applicazioni a problema sì vasto e interessante – lo sviluppo successivamente e perennemente parallelo del diritto di proprietà e del grado di organizzazione della società, per guisa da considerare quella come il vero apparecchio e la vera funzione nutritiva di questa; apparecchio e funzione che, necessari sempre perché inerenti alla vita e all’assistenza stessa dell’organismo sociale, sono cangiati poi e cangeranno gradatamente anche sempre, nella misura graduale in cui cangia la struttura e il valore fisiologico di esso. E sarebbe veramente utile, tanto per provare, in tema così vasto e fecondo, l’attitudine delle nuove dottrine a studiare e risolvere i problemi della vita sociale.

L’immensa potenza e le immense applicazioni ricevute nel mondo moderno dal capitale, colle macchine, la grande industria, le società anonime, il credito, le banche; e il risveglio, non meno potente, avveratosi nel seno delle classi lavoratrici che ogni giorno più, mediante le associazioni e le coalizioni, nonché mediante la partecipazione, sempre più diretta ed efficace, all’esercizio dei poteri politici dello Stato, acquistando la coscienza dei propri diritti, aumentano le pretensioni e l’ardire; rendono senza dubbio inevitabile un nuovo assetto, o almeno una riforma sostanziale nell’ordinamento della proprietà. Donde l’origine della così detta questione sociale; la quale, se ha esistito sempre in ogni tempo, perché in ogni tempo vi sono state classi sociali da redimere ha cambiato, però, anche sempre di forma e di valore come sono cambiate la cause, la forma e la estensione delle sofferenze, onde si mostrano travagliate talune classi di fronte ad altre.

La quistione sociale, qualunque sia la forma che suole assumere, rappresenta sempre uno stato di perturbazione e di squilibrio nell’organismo della società, causato dal sorgere di nuovi organi che non trovano ancora una funzione corrispondente alla forza di cui dispongono, e dal funzionare di altri organi, già prima esistenti, oltre i giusti confini cui sono per loro ufficio chiamati. E ciò, o perché questi ultimi, nella mancanza di organi speciali adatti, abituati ad adempiere provvisoriamente talune funzioni estranee alla loro natura, intendono poscia conservarle a ogni costo, malgrado il costituirsi degli organi legittimi cui naturalmente quelle date funzioni competono; o per la tendenza naturale, che è negli organi forti, a invadere e usurpare le funzioni di altri organi meno possenti. Potrà essere formulata e interpretata variamente, secondo la varietà delle scuole e degli interessi cui si obbedisce, ma una quistione sociale, fuori dubbio, esiste ai giorni nostri; quistione sociale che è causa ed effetto, risultato ed espressione a un punto del malcontento, della diffidenza, dell’odio reciproco, della lotta implacabile fervente tra la classe operaia e la classe capitalista.

Non è certo ufficio del legislatore, specie in materia di codificazione, scegliere arditamente fra gli opposti sistemi e dottrine di riforme sociali, che si contendono il campo; per instaurare di getto un ordinamento della proprietà che, rompendo bruscamente le tradizioni del passato, venisse a creare nuove cause di sconvolgimento, nell’atto che si studia di far cessare quelle già esistenti. E non è anche ufficio nostro – poiché questo studio ha per base sempre la legislazione positiva, comunque miri a invocare delle provvide riforme in tutte quelle istituzioni che non rispondono più delle esigenze mutate dei tempi – entrare nel campo vertiginoso della quistione sociale. Ma pur lasciando integra per ora la base fondamentale, su cui poggiano gli ordinamenti civili vigenti riguardo alla proprietà, finché la scienza non avrà pronunziato la sua parola decisiva intorno a sì vasto e delicato problema; è debito frattanto del giurista indicare, e del legislatore, colmare quelle lacune che la esperienza e le necessità della vita imperiosamente reclamano. Ed è debito del legislatore altresì far larga e benintesa applicazione di un principio che, ora sconosciuto completamente ora timidamente ammesso in casi estremi fin oggi, è pur destinato a infondere un soffio animatore di vita, senza punto negarlo, al diritto di proprietà; giacché, mentre riesce a incarnare un alto concetto di giustizia sociale da un canto, si porge dall’altro fecondo di utili risultamenti nella pratica > .

(E. Cimbali, La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali, Torino, 1885, pp. 173-177).

L’evoluzione del modello di proprietà «assoluta» è ormai matura alla fine del secolo scorso. La crisi della proprietà «borghese», codificata all’inizio del secolo, può essere ricostruita con queste pagine di Paolo Grossi:

< Un osservatore superficiale che si appaghi delle enunciazioni sonore avrebbe diritto di credere che il secolo IX costituisca un completo e perfetto rovesciamento delle conclusioni, dei valori, delle certezze circolanti nel diritto comune e nel vecchio regime sul tema della proprietà e dei diritti reali. Ai margini iniziali dell’itinerario ottocentesco, quasi a inaugurare il secolo nascente, la voce robusta di Antonio Federico Thibaut e la definizione autorevole del legislatore napoleonico sembravano confermare questa convinzione: a un anno soltanto dallo scoccare del secolo, l’invettiva acre e demolitrice del giureconsulto sassone contro la dottrina del dominio diviso relegava, con aperta irrisione, in nome della nuova scienza libera da pregiudizi e immune da errori, quella articolazione fondamentale del sistema medievale dei diritti reali nel novero infamante degli Undinge e comunque bel lontano dagli armoniosi Begriffe strutturanti lo eigentliches wahres Eigentum; all’interno di un maestoso impianto normativo, l’art. 544 del Code civil; isolatamente considerato, sembrava per suo conto identificarsi con un messaggio tutto proteso ad assolutizzare imperiosamente i poteri dell’unus dominus nell’unum dominium.

È davvero segno che anche sul piano del diritto si sta decisamente voltando pagina? Che anche il legislatore e il giurista traducono, nel territorio delle sistemazioni tecniche che loro particolarmente compete, le conclusioni socio-politiche dell’individualismo settecentesco e della Rivoluzione? Una risposta semplicemente affermativa rischierebbe di collocarsi nel vuoto e vieto luogo comune di coloro che hanno disegnato le linee del diritto codificato facendosi strumento e fondamento soltanto delle proposizioni programmatiche, con l’attenzione ancora tutta presa dalle clamorose premesse d’indole filosofico-politica, senza aggiungervi un controllo e una verifica al vaglio delle scelte tecnico-giuridiche, ossia della costruzione tecnica di certi istituti.

Non sarà invece mai abbastanza rapido che, almeno per quanto attiene al campo della proprietà e degli altri  diritti reali, il terreno storico della prima metà dell’Ottocento (e di buona parte della seconda) è, quasi ovunque in Europa, un singolare spazio di transizione e, in quanto tale, gremito di contraddizioni, incoerenze, misoneismi, inespressi o velatamente espressi ma straordinariamente pervicaci nella loro capacità di resistenza.

Il mondo dei diritti reali con le sue soluzioni storiche è, nell’ambito del giuridico, quello meno legato al quotidiano, all’effimero, al transeunte: anche se strettamente connesso alla rappresentazione ideologica del rapporto fra uomo e beni – e, conseguentemente, al variare di quelle rappresentazioni – tende come proiezione di aspirazioni e interessi gelosissimi, a mettere radici più d’ogni altro nel linguaggio e nel costume, a calare profondamente nel patrimonio culturale, a diventare parte essenziale di quel patrimonio; inevitabilmente, tende però anche a persistere al di là dei limiti storici del regime politico e dell’ideologia che lo hanno generato e sorretto, a permanere – in una estrema varietà di percezioni che vanno dal consapevole all’inconscio – ben fitto nella coscienza del giurista riaffiorando prepotente quando meno uno se lo aspetti.

È questo il risultato – forse sorprendente ma indubbio – che consegue lo storico del diritto che guardi al tessuto costruttivo con cui i giuristi e, in parte, anche i legislatori hanno sistemato per una larga zona dell’Ottocento, anche a molta distanza dalle Dichiarazioni francesi e dal Code civil, la «logica» della proprietà e dei cosiddetti diritti reali su cosa altrui, hanno cioè strutturato un sistema di situazioni reali. È agevole constatare che, in fatto di proprietà, l’Ottocento tarda a costruire un modello teorico che rappresenti una risposta tecnico-giuridica coerente al modello socio-politico perfezionato e assestato, passo a passo, dall’umanesimo in poi. Ai primi del secolo XIX il modello socio-politico della proprietà – espressione genuina del cosiddetto individualismo possessivo – è perfettamente compiuto: filtrato e decantato nei mille rivoli della riflessione giusnaturalista, irrobustito nelle lotte politiche, reso efficace dalle ormai riposate conquiste della borghesia, assurge alla lucidità di vero e proprio modello teorico; e le Carte dei diritti lo prendono in consegna e lo certificano.

Ma si tratta pur sempre di un modello etico-politico e sociologico: si tratta pur sempre e soltanto di una premessa per il modello tecnico-giuridico. Ai giuristi spetta, ancora ai primi dell’Ottocento, l’officio di trapiantare quel modello dal mondo generico delle latissime cornici culturali nel quadro specifico e inequivoco della cultura e delle tecniche del diritto positivo; ed è un compito, per buona parte, intatto. Gli interpreti precedenti lo avevano sostanzialmente eluso, irretiti nelle maglie di un discorso giuridico retrodatato ma ancora applicato nella prassi: ne è un esempio la testimonianza di quei giuristi del cosiddetto «diritto nazionale» (come Pufendorf), in cui la distinzione fra dominio e dominio utile permane e permane come segno indubbiamente di intima contraddizione anche se non di «ein höchst lächerliches und sinnloses Verfahren», come vorrebbe sprezzante Thibaut; ne è un esempio Pothier, che alle soglie dei Codici, ci ripropone la teorica del dominio diviso, anche se ormai tutta spostata a favore dell’utilizzatore come proprietario sostanziale della cosa. La dottrina ottocentesca – pur col presupposto di ferme premesse filosofiche e politiche, pur col presupposto d’una legislazione che revoca tracce chiare degli indirizzi economici e politici circolanti, pur col bagaglio di incrinature e di consapevolezze presenti Oltralpe nella stessa riflessione giuridica sei-settecentesca – non risponderà pienamente a questo compito, e si trascinerà per buona parte del secolo in un rimasticamento di vecchie impostazioni legate al modello medievale di proprietà, condite con le nuove certezze, in un quadro sistematico non privo di contraddizioni e di incoerenze. Conclusione questa – è appena il caso di aggiungerlo – che ricomprende la civilistica italiana post-unitaria (e addirittura taluni filoni di essa sino a fine Ottocento), ossia l’oggetto del presente contributo.

La dottrina giuridica ottocentesca – e tra essa, dunque, anche quella italiana – dimostra di non avere né la capacità né le possibilità per strutturare un modello giuridico combaciante perfettamente con quello filosofico-politico, per chiarire e fissare a livello del diritto il problema proprietà, così come era stato chiarito e fissato nei programmi politologici e sociologici; dimostra di essere ipotecata da quel complesso rilevantissimo di scelte che, in fatto di rapporti fra uomo e beni, la esperienza medievale aveva compiuto.

Il modello filosofico chiedeva al giurista la costruzione di una proprietà rigorosamente individuale, pensata come situazione al massimo grado indipendente e piena, il più possibile «assolutizzata» (tanto per adoperare una nozione che correrà usuale per molti dei Codici ottocenteschi), il più possibile monolitica, il più possibile stabile. E premeva sul giurista per orientarlo in due direzioni tecniche ben precisate: da un lato, costruzione della proprietà come situazione qualitativamente diversa, intrinsecamente diversa, dal restante fascio dei diritti reali; dall’altro, e conseguentemente, separazione concettuale fra quella e questi, con la tendenza marcata a fare anzi di quella e di questi una sorta di dati antitetici, in un vero e proprio rapporto d’opposizione di carattere squisitamente logico.

Il ceto dei giuristi non rispose all’appello: certamente non sul piano della riflessione scientifica, ma nemmeno interamente sul piano della legislazione, su cui le incertezze dottrinali ebbero il loro peso.

A questa mancata risposta, alla difficoltà di formazione del nuovo modello tecnico- giuridico, alla presenza di condizionamenti pesanti sulla riflessione giuridica in tema di proprietà, è dedicato questo saggio; che è incentrato, com’è chiaro sin nel titolo, sulla civilistica italiana dopo la realizzazione dell’unità politica e legislativa, ma anche non potrà pretermettere uno sguardo più ampio sia a certi presupposti che si maturano in precedenza e che costituiscono, a nostro avviso, strumenti ed elementi indispensabili di comprensione, sia alla generale condizione di altre riflessioni europee concomitanti (in modo particolare, quella tedesca), per la loro incidenza sui civilisti di casa nostra.

In questa linea interpretativa e da questo angolo d’osservazione or ora precisato, cercheremo di analizzare una testimonianza scientifica fino a oggi esaminata e utilizzata in modo decisamente antistorico, fraintesa nel suo volto culturale, e ormai collocata tra le anticaglie da rigattiere della nostra storia giuridica recente. Non è una testimonianza di robusti costruttori, il cui messaggio abbia una sua durevolezza attraverso il tempo; è una dottrina, al contrario, la cui validità è tutta sul piano storico-giuridico, perché specchio fedele e puntuale della grossa crisi di assestamento che la jurisprudentia subisce nel trapasso dell’antico regime al diritto codificato. Solo se si valuterà questa riflessione alla luce di un lungo, profondo travaglio interno alla cultura giuridica ottocentesca; solo se la collocheremo al mezzo della frizione tra schemi conoscitivi risalenti ormai calati nella coscienza dell’operatore giuridico ed esigenze nuove e innovatrici, noi potremmo autenticamente storicizzarla  e anche valorizzarla. Con le sue incoerenze e le sue contradditorietà essa è impegnata, talora inconsciamente e talora lucidamente, in una non trascurabile opera di mediazione. Nella realizzazione di quest’opera è sopratutto il suo momento positivo, il suo apporto storico, giacché vi si utilizzeranno accanto ai normali strumenti artigianali del giurista tutti i ricorsi culturali – per vero modesti – che erano offerti dalla speculazione filosofica italiana.

Valgono infine due precisazioni a indicare con chiarezza i limiti del nostro discorso. La prima concerne l’angolo d’osservazione. Infatti non si intende guardare, nelle pagine che seguono, a tutto il cospicuo materiale relativo alla disciplina della proprietà e degli altri diritti reali. Quel che ci interessa è il problema della costruzione di un modello tecnico-giuridico di proprietà, il peso e l’incidenza di modelli precedenti, le difficoltà e le resistenze, le tentazioni culturali in tutta quest’opera formativa. Da un punto di vista di rigorosa conoscenza giuridica, si guarderà pertanto sopratutto al procedimento sistematore del giurista, scandito in due dimensioni strettamente connesse: l’analisi strutturale dell’istituto proprietà e, in primo luogo, il tentativo di identificazione di quel contenuto minimo sufficiente a qualificare una determinata situazione soggettiva come proprietà; l’analisi confinativa dell’istituto nei suoi nessi e nelle sue differenziazioni con istituti vicini, in particolare la costruzione logica della proprietà operata sulla base d’una assimilazione o d’una separazione concettuale con quelli che poi si sarebbero usualmente chiamati diritti reali limitati. Ne scaturirà netta, nella sua ispirazione di fondo, l’immagine del modello tecnico prescelto.

La seconda precisazione riguarda il terreno storico che si assume a oggetto dell’indagine. Quando si dice che la ricerca verterà sulla riflessione giuridica post-unitaria, si fornisce infatti una indicazione di per sé assai vaga, essendo chiaro solo il riferimento iniziale, che fa capo all’unità politica del Regno e all’unificazione legislativa maturantisi, l’una dopo l’altra, nel giro di pochi anni. Mentre non è agevolmente isolabile un riferimento finale: se, nel primo decennio dopo l’Unità, la dottrina mostra una sua generale compattezza, successivamente, anche per il diffondersi d’un appello teorico profondamente rinnovato che la matura Pandettistica finalmente riesce a costruire, il panorama si fa più variegato, e cominciano a correre paralleli sino agli ultimi anni del secolo due filoni di analisi, che si contrappongono nelle loro fonti di ispirazione e nel loro archetipo fondante. All’incirca il transito del secolo potrebbe essere assunto correttamente quale capo estremo del nostro discorso; e non già perché rappresenti una data in sé significativa per la storia della scienza giuridica italiana, ma perché ivi, concretamente, accanto al filone innovatore, la vecchia corrente post-unitaria ha le sue manifestazioni estreme, e già pervase da una crisi sottile: il corso senese sulle servitù, dettato da Paolo Emilio Bensa nel 1889, è esemplare di quanto ora si constatava, e confirmativo della legittimità d’un simile confine temporale.

Infine, una annotazione terminologica: la dizione di «civilistica post-unitaria», pur con le precisazioni temporali ora offerte, rischia di mantenere all’interno della ricerca una sua eccessiva vaghezza, proponendosi formalmente come dizione comprensiva anche di quel filone innovatore che ha origine con alcune testimonianze in anni risalenti – gli anni Settanta – che appartengono, di fatto, al periodo successivo alla Unità. Per togliere ogni equivoco, per comodo d’intelligenza, qualificheremo d’ora in avanti come paleocivilistica italiana la grande corrente dottrinale che è particolarmente espressiva del periodo post-unitario e che è in questo prevalente, quella cui è dedicata la parte centrale del nostro lavoro. Chiameremo neocivilistica il filone innovatore che, anche se inizia a prosperare contemporaneamente all’opera dei paleocivilisti, ha però uno sviluppo che lo porterà ben oltre i termini temporali dell’Ottocento. Il riferimento «post-unitario» resterà invece nella intitolazione generale, proprio perché il lavoro, accanto all’indagine centrale, serba un’ultima parte destinata ad accennare al sorgere del nuovo orientamento in polemica con le conclusioni consolidate dei paleocivilisti.

L’itinerario che la scienza italiana del diritto civile percorre dalla metà alla fine del secolo XIX è sopratutto un gioco di motivazioni, di propulsioni, di resistenze, che si originano all’interno della stessa cultura giuridica e che denunciano l’autonomia delle forze culturali sollecitanti il movimento, la varietà, la complessità degli approcci conoscitivi del giurista; una varietà e una complessità che mal comprenderebbe chi, non rispettando le venature autonome della scientia juris volesse a ogni costo vincolare le avventure intellettuali dei giuristi ad assestamenti strutturali, eventi politici, coscienza ideologica, e non cercasse di cogliere certe palesi dissonanze usando una tastiera interpretativa senza preclusioni, con una disponibilità piena a identificare – accanto ai tradimenti e alle mistificazioni dell’operatore giuridico – i suoi momenti di autonomia come uomo di cultura e cioè come ricercatore della propria verità > .

(P. Grossi, Un altro modo di possedere, Milano, 1977, pp. 201-207).


3. La legislazione di guerra

Gli eventi bellici che scuotono dalle fondamenta la società europea nel primo ventennio del secolo comportano notevoli mutamenti anche nella disciplina della proprietà privata. Si moltiplicano infatti gli interventi resi necessari dalla economia di guerra: per compiere approvvigionamenti, per l’acquisizione di beni alimentari e industriali, per migliorare e incrementare la produzione delle terre incolte o solo marginalmente coltivate, per agevolare le condizioni dei congiunti dei militari al fronte, con il blocco dei fitti e la proroga dei contratti di locazione di immobili urbani, e per realizzare altri fini consimili, il legislatore provvede alla introduzione di un numero amplissimo di provvedimenti che limitano notevolmente i poteri dei privati.

La legislazione di guerra è il punto di avvio di una nuova teoria dei poteri privati in materia di proprietà, elaborata con particolare rilievo da Filippo. Vassalli.

< Nella legislazione di questi anni – scriveva in quegli anni l’illustre giurista – le esigenze più vive degli approvvigionamenti, e alimentari e industriali, hanno determinato una serie di provvedimenti per intensificare la produzione agraria e la produzione mineraria, per tutelare il patrimonio zootecnico, per regolare l’uso di altri beni privati in relazione a certe utilità generali che lo Stato ha richiamato alla sua diretta tutela.

Col decreto 4.10.1917, n. 1614, lo Stato interviene ad assicurare direttamente la coltivazione delle terre seminative abbandonate, limitatamente alle province del mezzogiorno e delle isole.

La legge francese del 6.10.1916 aveva proceduto energicamente nella medesima direzione: l’autorità amministrativa invita il proprietario o esercente la gestione agricola a mettere a coltura il fondo; se non ottiene congrue giustificazioni entro quindici giorni, procede alla requisizione e affida il fondo a un comitato comunale di esercizio agricolo.

La requisizione ha un regime particolare, in questi casi, che talora l’accosta a un’espropriazione: il proprietario, per es., non ha diritto al fitto, se l’esercizio ha dato un deficit: è un socio coatto della gestione. Simili principi sono entrati nella legislazione colla guerra, e limitatamente alla sua durata, è vero. Ma si può pensare che, una volta entrati e attuati, ne usciranno, quando il bisogno economico a cui si propongono di provvedere sussiste così in pace come in guerra, e ormai è varcata la barriera politica che poteva rattenere dall’attuare simili fini con simili rivolgimenti dell’ordinamento giuridico?

Cresciuti sono i limiti di diritto pubblico alla proprietà privata, i quali già costituivano una categoria dogmaticamente ben determinata; importanti, per la tutela che ne deriva di tutta una cospicua produzione agricola, i decreti 6.8.1916, n. 1029 sul taglio degli olivi e 21.2.1918, n. 360 contro l’abbattimento degli olivi. La legislazione in materia di combustibili fossili ha iniziato risolutamente un regime che sottrae al diritto dei privati i beni del sottosuolo: sia disponendo larghe espropriazioni e mirando a costituire un patrimonio minerario dello Stato, da esercitarsi direttamente o a mezzo di ditte private, sia – e questo è l’aspetto più caratteristico della nuova legislazione – ammettendo l’amministrazione ad accordare la facoltà di coltivare la miniera a chi, a suo giudizio insindacabile, abbia i requisiti e i mezzi necessari all’esercizio dell’intrapresa, quando i proprietari dei fondi, nei quali il giacimento fu scoperto, non domandino licenza di coltivarlo o non inizino i lavori nei termini stabiliti. In questa legislazione mineraria si tocca anche uno dei principi che parvero fondamentali nell’ordinamento civilistico della proprietà, la libertà indefinita di divisione dei fondi e del patrimonio: si dispone infatti che nei casi di divisione ereditaria i lavori di coltivazione devono essere sottoposti a unica direzione. Ancora una volta è sottratta alla giurisdizione ordinaria la cognizione di tutte le controversie relative, molte delle quali formalmente si svolgono fra privati (determinazione dell’entità e delle conseguenze dei danni, degli indennizzi e compensi, e delle spese, dei canoni), per il fine amministrativo che si vuole attuato e preservato anche in codesti rapporti.

Non insisto sulle leggi che pongono sotto il controllo del governo la produzione, la lavorazione, il commercio di una quantità di generi (carta, zolfi, cotone, lana, seta, pelli, combustibili vegetali, ecc.), perché ritengo che possano non sopravvivere di molto alla durata della guerra: ma costituiscono esse pure tipiche forme d’intervento dello Stato nello sfruttamento diretto della proprietà privata. Più importanti sono i decreti che toccano i trasporti marittimi. Lo Stato ha posto sotto il suo controllo tutta la marina mercantile, si può anzi dire che abbia richiamato a sé l’esercizio dei traffici marittimi, che attua valendosi del naviglio privato, requisito o controllato. Ma il regime attuale, in questo campo, può anche preludere a un esercizio statuale dei servizi marittimi, almeno dei grandi trasporti. Domani potrebbe avvenire ugualmente per i trasporti aerei. Sarebbe un errore: il monopolio statuale (totale o parziale) si presenta strutturalmente predeterminato, e quindi necessario od opportuno, «solo quando gli organismi economici abbiano raggiunto un congruo stadio di sviluppo e un limite di variabili». Questo non è per ora il caso della marina mercantile, tanto meno dell’aviazione.

Un’altra direttiva della legislazione di guerra, attuata per ora più all’estero che presso di noi, è di rendere obbligatori i consorzi fra esercenti di date industrie: in generale questi consorzi sono assoggettati a una sorveglianza dello Stato, il quale può far valere le proprie direttive nella condotta tecnica, industriale e commerciale dell’azienda. È nota l’organizzazione dei sindacati obbligatori costituiti in Germania: per le industrie del cemento, delle scarpe e del cuoio, dei mattoni, della grafite, in vari rami dell’industria tessile, pei panifici, la birra, i saponi, la navigazione interna. È stata creata una speciale «Commissione permanente per la concentrazione delle industrie », che è incaricata di studiare le condizioni delle aziende singole nelle varie branche d’industria, per sopprimere quelle che si dimostrano poco produttive, riunendo le altre in sindacati.

 

L’esempio germanico è stato seguito in Austria, dove ha incontrato però vivaci opposizioni ed è rimasto applicato a poche industrie. In Francia s’invoca il consorzio obbligatorio di tutte le società dedicate alla fabbricazione delle materie coloranti; non è mancato chi nel dopo guerra, come il sen. Cornet, ha propugnato tutto un programma di accentramento economico ch’è addirittura il pendant del programma del dott. Rathenau, il quale, come si sa, ha presieduto a tutto l’ordinamento dell’economia di guerra in Germania. Da noi il decreto 24.1.1918, n. 284 dà facoltà al Commissario generale dei combustibili di rendere obbligatoria la costituzione di consorzi fra esercenti miniere limitrofe oppure l’unificazione delle gestioni, l’uso in comune dei mezzi d’impianto, di trasporto, ecc.

 

Non è prevista una particolare partecipazione statuale al consorzio, poiché l’ingerenza dello Stato nella produzione dei combustibili si esercita già in larga misura per le altre vie. Forse una delle più imponenti manifestazioni dello spirito che anima la nuova legislazione s’è avuta, proprio nel campo in cui ora discorriamo, col d.l. 20.11.1916 n. 1664 sulla derivazione delle acque pubbliche. Il Bonomi sintetizzò lo scopo della riforma nella «nazionalizzazione delle forze idriche»; ma la formula è vaga dal punto di vista economico e da quello giuridico.

Lo scopo e i mezzi sono detti con bella evidenza in un articolo di un valoroso tecnico, l’ing. Civita: «Si mira allo Stato, saldamente organizzato sia dal lato tecnico che industriale, subentrato a tutti gli attuali esercenti imprese elettriche, in possesso gratuito o quasi di tutte le derivazioni di acqua e di tutti gl’impianti elettrici che da esse prendono vita e la diffondono per ogni dove fornendo luce, forza e calore. Lo Stato, proprietario di tutto questo patrimonio, e non soltanto delle acque, realizzerà allora tutte le aspirazioni del socialismo, poiché esso diverrà per forza di cose e per la natura e la difesa del suo monopolio il supremo arbitro della vita di tutte le altre industrie e di conseguenza di tutta la vita della Nazione. Quindi codificazione unica avente lo scopo di dirimere e sopprimere ogni diritto privato e preesistente che si frapponga alla realizzazione della maggiore e migliore utilizzazione delle acque, esame delle concessioni in concorrenza fra di loro per prescegliere quella che possa assicurare il più utile e più grande impianto idroelettrico, debbono considerarsi nello spirito del decreto come mezzi per raggiungere il più vasto fine che esso si propone; quello della creazione di un gigantesco patrimonio idroelettrico, che potrà ascendere a parecchi miliardi di lire, attuato attraverso al temporaneo libero svolgimento delle industrie e a spese dei privati, che dopo averne temporaneamente goduto, dovranno cederlo gratuitamente, o quasi, allo Stato».

Questo colossale monopolio statuale, che si profila, delle forze idrauliche si conterrà poi nei limiti – che possono a molti sembrar plausibili – dello Stato proprietario delle acque già canalizzate e pronte per precipitare nelle turbine, dello Stato costruttore di bacini allo scopo di integrare gli impianti elettrici, di bonificare, di irrigare, di modificare vantaggiosamente la configurazione delle regioni, risanandole o arricchendole, si estenderà alla proprietà e all’esercizio delle grandi centrali elettriche e delle linee maestri di collegamento fra esse, oppure ci si spingerà a una statizzazione di tutte le industrie elettriche? Più facile sarebbe, in quest’ultimo caso, la degenerazione del monopolio in senso fiscale: la quale lascerebbe intravedere poi la conseguenza di altri monopoli, dei carboni, degli olii minerali e vegetali, del gas e di qualsiasi altro combustibile e sostanza illuminante con la quale si potrebbe produrre luce, forza e calore in concorrenza con l’elettricità di Stato > .


(F. Vassalli, Della legislazione di guerra e dei nuovi confini del diritto privato, in Riv. dir.
comm., 1919, I, pp. 1 ss.).



La nuova legislazione incide anche i poteri del privato nella definizione del contenuto dei contratti, e nel tipo di operazioni economiche ammesse dallo Stato: si dispone infatti la nazionalizzazione di talune fonti di energia, si introduce il monopolio delle importazioni, si introducono restrizioni in materia di vendita e di commercio di beni alimentari (tesseramento, razionamento), si circoscrive la autonomia negoziale nel settore delle locazioni. Accanto alla proprietà assoluta declina anche il dogma della autonomia contrattuale: i giuristi commentano questi fenomeni in termini di «nuovi confini del diritto privato».

< Abbiamo visto, considerando le precedenti riforme attinenti al diritto di proprietà, come lo Stato abbia assunto la cura della produzione rispetto a una quantità di generi. Insieme ha monopolizzato le importazioni, e con ciò ha organizzato come pubblici servizi queste attività, che costituivano prima materia del commercio privato. Ma non è tanto in ciò l’innovazione che c’interessa: codesti nuovi compiti statuali riducono e assottigliano bensì la possibilità di date attività private, ma non riducono la sfera d’impero di date norme giuridiche: a quel modo che le espropriazioni riducono i beni soggetti alla privata proprietà, ma non limitano o eliminano l’impero delle norme del c.c. sulla proprietà. Ciò che dà luogo a rapporti di particolare interesse giuridico è, piuttosto, la prosecuzione degli approvvigionamenti nel compito di distribuzione ai privati. Codesta distribuzione era anch’essa un compito del privato commercio: si operava, tipicamente e prevalentemente, con la compravendita. Ora, per alcune derrate di più largo o generale consumo, s’è introdotto il tesseramento. Che cosa implica, dal punto di vista giuridico il tesseramento ? Implica che quel negozio giuridico che si compie tra il fornaio e il consumatore, tra il rivenditore di zucchero e il consumatore non è più in tutto o per tutto la compravendita dei codici di diritto privato.

Un elemento nuovo s’introduce nel negozio, che diviene preminente data la soppressa libertà di contrattazione sul quanto, e anche ormai sul prezzo e sul quando, sul dove, sul come: l’interesse a ottenere la razione. Questo praticamente è il contenuto della volontà del compratore. Ora codesto interesse come si fa valere? E se assume i caratteri di un diritto, verso chi compete? Non verso il negoziante; si risponde subito, anche in caso di prenotazione. Il negoziante è estraneo al rapporto creato col rilascio della tessera; il negoziante, in ipotesi, neppure ha posto in essere un’offerta al pubblico, perché il genere non è a sua disposizione. La vendita dei generi tesserati s’è dunque evidentemente mutata in una prestazione della P.A.: è un pubblico servizio gerito per mezzo dei privati commercianti. Se questo pubblico servizio ammetta da parte dei singoli un diritto subiettivo, o solo un interesse in una delle varie gradazioni, mi par difficile risolvere.

Ammesso anche un diritto, questo sarebbe sempre di natura pubblicistica, mai contrattuale come quelli insorgenti dal contratto di compravendita, e avrebbe le corrispondenti sanzioni proprie del diritto pubblico.

Non posso abbandonare il campo dei rapporti patrimoniali senza rilevare che un tipo speciale di diritto, che non è più diritto privato, vuoi di credito o vuoi di proprietà, si accenna a costituire con le leggi che attribuiscono indennità per la riparazione dei danni di guerra. Già la formula del decreto 8.6.1918, n. 780, con cui il diritto al risarcimento si riconosceva «al fine di restaurare la ricchezza nazionale e la piena efficienza produttiva delle provincie invase» lasciava intravedere quella limitazione che s’è tradotta nella disposizione dell’art. 12 del progetto di legge Polacco: «Il diritto al risarcimento (per la distruzione dei beni mobili e immobili) si acquista quando il danneggiato abbia assunto, nelle forme che saranno stabilite dal regolamento, obbligo di provvedere alla rimessione in pristino, surrogazione o ripartizione del bene distrutto o deteriorato».

«L’inadempimento di questo obbligo, ove non sia determinato da giusti motivi, priva il danneggiato del diritto di pretendere ogni indennità […], e lo obbliga a restituire quanto avesse già percepito».

S’era già osservato, a riguardo del progetto approvato dalla Camera francese, il quale rendeva obbligatorio il reimpiego dell’indennità in caso di danni ai beni immobili, che esso distruggeva il concetto tradizionale del diritto di proprietà, che rendeva lo Stato arbitro di ogni intrapresa individuale. Il Senato francese rese facoltativo il reimpiego. Se da noi prevarrà il sistema tradotto nel progetto Polacco avremo veramente costituito un nuovo rapporto pubblicistico, in cui il privato indennizzato si presenta come quasi una longa manus dell’amministrazione > .

(Vassalli, Della legislazione di guerra e dei nuovi confini del diritto privato, cit., pp. 10 ss.).


5. La funzione sociale nei testi costituzionali. La Costituzione di Weimar

Nel lungo cammino verso il superamento del modello di proprietà dei codici dell’Ottocento ha avuto notevole rilievo, per ragioni politiche e culturali, la disciplina assegnata alla proprietà dalla Costituzione di Weimar, così denominata perché l’Assemblea Nazionale tedesca, nel febbraio del 1919, terminata la prima guerra mondiale e nell’incertezza causata in Germania dallo sconvolgimento della compagine sociale determinato dagli eventi bellici e dalla grave crisi apertasi in quel periodo, era stata convocata a Weimar, città più tranquilla rispetto alla tormentata situazione di Berlino. La guerra aveva provocato la caduta dell’impero guglielmino, una impressionante svalutazione del marco, con laceranti fenomeni di disoccupazione: le incertezze di quel periodo sono state illustrate in modo assai efficace dalle crude rappresentazioni di Bertoldt Brecht e dalle immagini di Otto Dix e George Grosz.

La Costituzione, che doveva dare un nuovo assetto alla Repubblica nascente, si segnala sia per la modernità della sua logica, sia per la incisività delle sue disposizioni. Così ricostruisce quella vicenda Erich Eyck, nel suo libro sulla Repubblica di Weimar:

< Il progetto di Costituzione del Reich fu discusso, nella redazione approvata dalla commissione, dall’Assemblea Nazionale in seduta plenaria in seconda e terza lettura nel corso del mese di luglio. Esso fu approvato con i 262 voti della coalizione dei partiti repubblicani, socialisti maggioritari, centro e democratici. Contro si ebbero soltanto 75 voti; in questa occasione la destra dei tedesco-nazionali e del partito popolare tedesco coincise con la sinistra degli indipendenti. Chi considerava questi dati poteva pensare che la Costituzione di Weimar poggiasse su basi solide. Il Presidente del Reich firmò la Costituzione l’11 agosto, data che doveva essere celebrata annualmente in tutto il Reich come il giorno della Costituzione.

Naturalmente nel corso delle discussioni il progetto di Preuss dovette subire qualche emendamento. Ma rimase inalterata la sua idea fondamentale, ossia la creazione di uno Stato di diritto liberal-democratico retto da un governo parlamentare. Il modo in cui venne realizzato questo principio fondamentale ha destato sin dall’inizio parecchie preoccupazioni e oggi che l’intero edificio è in rovina la critica è naturalmente molto più forte e vivace.

Che il fondamento della repubblica tedesca dovesse essere democratico, risultava naturale sia per la situazione politica che per lo sviluppo storico. Il suffragio universale e uguale per l’elezione del Reichstag esisteva ormai da mezzo secolo, da quando Bismarck nel 1866 lo fece valere come carta decisiva nel gioco con l’Austria. Per quanto Bismarck stesso fosse poco soddisfatto delle conseguenze a lunga scadenza della sua manovra, tuttavia il suffragio universale era così saldamente penetrato nella coscienza civile del popolo tedesco che neppure il più estremista reazionario pensava seriamente alla sua soppressione.

 

Ma lo spirito dei tempi chiedeva adesso, e non soltanto in Germania, più di quanto non avesse dato lo stesso suffragio universale di Bismarck. Un movimento femminista, forse meno profondamente sentito che rumoroso, chiedeva la parificazione politica per le donne del popolo tedesco, e il servizio prestato in guerra dai giovani sembrava giustificare l’abbassamento del limite di età dei venticinque anni, finora vigente per il diritto di voto. Delle due richieste, in conformità del programma dei socialdemocratici, fu tenuto il massimo conto. Chi avesse compiuto il ventesimo anno di età diveniva elettore, sia che fosse di sesso maschile che femminile.

 

La guerra è un grande fattore di parificazione, e sotto l’impressione di quattro anni di guerra terribilmente duri, che avevano esercitato su ognuno la pressione più cruda, nessuno osava porre in tutta la sua serietà la questione preliminare, se l’intelligenza e l’interesse per la vita politica fossero davvero tanto generalmente diffusi nel popolo tedesco e giunti a una maturità tale da far sembrare opportuna ed esente da pericoli una così vasta estensione del diritto di voto.

 

Preuss ammonì almeno di non fissare il limite di età nella Costituzione, e di rimetterlo alla legge elettorale, che avrebbe potuto essere modificata a seconda delle esperienze. Ad un socialdemocratico indipendente, il quale ne aveva proposto l’inclusione nella Costituzione, egli ribatté: «Il dottor Cohn ha fatto uso della regola di saggezza pratica che consiglia di battere il ferro finché è caldo. Forse nel volgere del tempo diventerà ancora più caldo – questo voi non poteto saperlo – forse anche si raffredderà».

 

Ma non doveva passare molto tempo, perché almeno i più intelligenti e responsabili socialdemocratici si accorgessero di essersi lasciati trascinare troppo dalle loro teorie. «Noi, – scriveva Wolfgang Heine a Carl Severing alla fine del 1932, – non siamo riusciti a creare una vita realmente democratica, ossia, come intendo io, nella quale il popolo si sentisse compatto, unito da tradizioni di comune vita spirituale e materiale, nella quale il popolo si sentisse esso stesso lo Stato. So che il compito era difficile, poiché il vecchio regime aveva distrutto tutte le premesse per una tale opera.

 

Ma mi sembra però anche che il proletariato non fosse ancora maturo per questa coscienza democratica, e certamente nella Costituzione del Reich noi abbiamo affrontato questi compiti in modo troppo teorico e astratto». Severing non soltanto è esplicitamente d’accordo, ma aggiunge:«Il diritto di voto per i giovani e per le donne poteva rappresentare un ulteriore arricchimento dello spirito dello Stato democratico in uno Stato di antica tradizione democratica. Nel 1919 queste innovazioni non hanno operato in senso educativo, ma hanno provocato disorientamento ».

 

Le donne tedesche non hanno in ogni caso mostrato di considerare il suffragio elettorale attivo e passivo come un bene prezioso, per il quale valesse la pena di impegnare tutte le proprie forze, e tanto meno di essere grate alla Repubblica di Weimar per questo regalo. Infatti milioni di donne votarono con entusiasmo per Hitler, che le voleva escludere dalla vita politica.

La Costituzione assegnava adesso a questa ipertrofica massa di elettori il compito di scegliere alle elezioni per il Reichstag, non persone ma partiti, poiché questa è infatti la conseguenza del sistema proporzionale, sopratutto nella forma pura dello scrutinio di lista previsto dalla legge elettorale del 27.4.1920 vigente per tutto il Reich. Motivo dominante ne era l’eguaglianza, tutti i voti, cioè, dovevano avere lo stesso valore, indipendentemente dal luogo nel quale avveniva la votazione. Ciò che sotto l’impero era diventato sempre più impossibile, poiché la ripartizione delle circoscrizioni elettorali del 1869, e rispettivamente del 1871, era rimasta inalterata nonostante l’aumento di popolazione nel frattempo avvenuto e nonostante la promessa contenuta nella legge elettorale del 1869. È comprensibilissimo perciò che i politici, i quali si erano sempre trovati di fronte, e spesso avevano combattuto questa ingiustizia, cercassero di impedire che essa si ripetesse, e allo scopo era in realtà idoneo un sistema basato sul principio: un deputato per ogni 60.000 voti. Nello stesso senso agiva un motivo concernente i partiti, ossia la preoccupazione dei partiti minori di essere schiacciati dai partiti di massa; essi vedevano sopratutto il pericolo che tutte le circoscrizioni elettorali delle grandi città sarebbero finite senza via di scampo in mano o alla socialdemocrazia o al centro.

Ma tutto ciò non poteva annullare la preoccupazione decisiva, espressa durante i lavori della commissione proprio da Friedrich Naumann, e questa volta contro Preuss. «Il sistema parlamentare e la proporzionale si escludono a vicenda». «Il sistema proporzionale non è in complesso idoneo al consolidamento del governo». Egli previde con assoluta certezza il frazionamento dei partiti al quale doveva necessariamente condurre, e in Germania ha realmente condotto, il sistema proporzionale, e con la stessa esattezza vide che nel regime parlamentare la formazione del governo presuppone dei grandi partiti che si possano avvicendare nel governo. Il sistema bipartitico inglese e americano era inattuabile in Germania per ragioni storiche e religiose. Tuttavia anche in Germania sarebbe stata possibile la formazione di pochi grandi partiti, se sotto la spinta dell’esperienza si fosse arrivati a capire che l’appartenenza a un partito non presuppone l’accordo completo su tutte le quistione politiche, economiche, culturali e sociali, ma che i partiti devono essere lo strumento del compromesso interno tra coloro i quali sono fondamentalmente d’accordo nelle grandi quistioni del giorno, o, secondo l’espressione di Meinecke, «un primo centro di raccolta e di filtraggio delle confuse aspirazioni popolari, una prima sintesi degli interessi contrastanti, fondata sul terreno di comuni ideali politici ».

(E. Eyck, Storia della Repubblica di Weimar, Torino, 1966, pp. 71-72).


E questo è il suo giudizio sulle norme della Costituzione:

< Questo per quanto riguarda le disposizioni della Costituzione sull’organizzazione dello Stato, disposizioni che è necessario conoscere per l’intelligenza della storia della Repubblica. Nella seconda parte la Costituzione proclamava e regolava i «Diritti e doveri fondamentali dei tedeschi», ed era in gran parte opera della commissione per la Costituzione, che andò molto più in là del progetto governativo. Preuss si era limitato a fissare pochi articoli, i quali ripetevano in sostanza i principîi liberali di libertà del XIX secolo; dopo le amare esperienze della Paulskirche, egli temeva che una maggiore precisazione di questi principi e la loro dettagliata discussione potesse fare andare per le lunghe un lavoro così urgente. Naumann sostenne invece con decisione che il popolo tedesco doveva fissare chiaramente nella Costituzione i principi fondamentali che dovevano ispirare in futuro la sua politica. Perciò non riteneva più sufficiente la ripetizione delle vecchie istanze liberali, ma pensava piuttosto a «una specie di conciliazione tra capitalismo e socialismo».

 

Il suo tentativo di definire questi principi fondamentali con formule popolari ed efficaci non poteva certo essere approvato dalla commissione, per il solo fatto che gli difettava troppo la sottigliezza concettuale dei giuristi e che formulava con stile lapidario principi così generali dei quali in pratica non si sarebbe potuto fare niente. Perciò il comitato eccedette in senso inverso. Tutti i partiti e le categorie professionali di una certa influenza cercarono di includere tra i diritti fondamentali ciò che stava loro particolarmente a cuore. Si ebbe così un miscuglio che non fu né omogeneo né chiaro.

 

Durante la discussione in seno alla commissione il deputato Koch disse: «Non si sa mai se i diritti fondamentali creano diritto positivo o sono principi direttivi per la legislazione futura o in genere soltanto espressione di concezioni politiche e sociali».

 

Alla fine la Costituzione conteneva disposizioni di tutti e tre questi tipi. Ma poi la scienza costituzionalistica tedesca «positivizzò» i diritti fondamentali, ossia cercò di dedurre da queste regole di diritto positivo, diritti soggettivi, che la legislazione del Reich e dei Länder erano vincolati a rispettare. Si eresse così un «argine protettivo di guarentigie che ostacolava la libertà di movimento della legislazione», spesso senza considerare abbastanza la situazione di emergenza nella quale si trovava il Reich. I diritti fondamentali aprirono la via anche a una specie di parlamento economico, il Consiglio dell’economia del Reich (art. 165, co. 3° e 4°). È degno di nota, dal punto di vista della storia costituzionale, che vecchie idee di Bismarck si siano incontrate qui con nuove teorie comuniste. L’art. 65 può essere considerato la trasposizione e la traduzione politica snaturata dell’idea dei Consigli nella democrazia tedesca. Una delle sue conseguenze pratiche fu il Consiglio dell’economia del Reich, nel quale dovevano essere «rappresentate tutte le principali categorie professionali in conformità alla loro importanza economica e sociale» (3° co.). La sua competenza doveva esplicarsi nell’esame consultivo dei progetti di legge in materia di politica sociale ed economica preparati dal governo, ma il Consiglio aveva anche il diritto di presentare esso stesso progetti del genere. In pratica esercitò soltanto l’attività consultiva, sulla base di una ordinanza del 4.5.1920, che creò un Consiglio provvisorio dell’economia del Reich. E in questo senso ebbe benefici risultati. Ma le altre maggiori speranze che si nutrivano da diverse parti andarono deluse. Infatti il Consiglio dell’economia del Reich non si sviluppò né come un parlamento professionale in concorrenza con quello politico, né come organismo centrale di un sistema di consigli, né come strumento per il superamento dei conflitti di classe > .

(Eyck, Storia della Repubblica di Weimar, Torino, 1966, pp. 80-81).

Anche se non si esaminano partitamente le singole disposizioni della Costituzione di Weimar, si può percepire la modernità della sua impronta considerando semplicemente che nel preambolo si pone a obiettivo della nuova Repubblica il perseguimento di azioni finalizzate al «progresso sociale», si disciplinano le nazionalizzazioni (artt. 98, 97), si prevedono norme a tutela della famiglia (artt. 119-122), si tutela il lavoro (artt. 157-160), si dispongono consistenti forme di assicurazione sociale «per prevenire le conseguenze economiche della vecchiaia, delle malattie, degli incidenti della vita» (art. 161). Nei rapporti economici si sancisce il principio della libertà contrattuale, con il divieto dell’usura (art. 152). Sopratutto, si assegna una nuova disciplina alla proprietà privata in generale, e alla proprietà agraria in particolare.

Art. 151. L’ordinamento della vita economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo. In questi limiti è da tutelare la libertà economica dei singoli. La costrizione legale è da ammettere solo per la reintegrazione del diritto violato, e per soddisfare esigenze preminenti di pubblico interesse. La libertà di commercio e di industria è garantita nei limiti disposti con leggi del Reich.


Art. 152. I rapporti economici sono regolati dal principio della libertà contrattuale in conformità alle disposizioni della legge. L’usura è proibita. Gli atti giuridici immorali sono nulli.


Art. 153. La proprietà è garantita dalla Costituzione. Il suo contenuto e i suoi limiti sono fissati dalla legge.
L’espropriazione può avvenire solo se consentita dalla legge e nell’interesse collettivo. Salvo che la legge del Reich non disponga altrimenti, deve essere corrisposto all’espropriato un congruo indennizzo. Le controversie sorte circa l’ammontare del medesimo devono essere sottoposte al giudice ordinario, a meno che la legge del Reich non disponga altrimenti. Le espropriazioni da parte del Reich di beni dei Länder, dei comuni e delle associazioni di pubblica utilità sono possibili solo dietro indennità. La proprietà obbliga. Il suo uso, oltre che al privato, deve essere rivolto al bene comune.

Art. 154. Il diritto di successione viene garantito in conformità alle norme del diritto civile.
La partecipazione dello Stato ai beni ereditari è regolata dalla legge.


Art. 155. La ripartizione e utilizzazione delle terre sono controllate con lo scopo di impedire gli abusi e di assicurare a ogni tedesco un’abitazione sana, e a tutte le famiglie tedesche, specie a quelle numerose, una casa e un patrimonio familiare corrispondenti ai loro bisogni. La legislazione sui beni di famiglia dovrà avere particolare considerazione per gli antichi combattenti. Le proprietà fondiarie possono essere espropriate quando ciò sia reso necessario per soddisfare il bisogno di abitazione, o per promuovere la colonizzazione interna, il dissodamento delle terre incolte, e lo sviluppo dell’agricoltura. I fedecommessi sono soppressi.

La coltivazione e utilizzazione della terra sono un dovere che i proprietari assumono di fronte alla collettività. L’aumento di valore dei terreni, che non derivi da un impiego di lavoro o di capitali sulla terra, deve essere rivolto a vantaggio della collettività.

Tutte le ricchezze del suolo e le forze della natura economicamente utilizzabili sono da porre sotto la sorveglianza dello Stato, secondo le disposizioni della legge. Art. 156. Il Reich può, con riserva di indennizzo e per via legislativa, trasferire in proprietà collettiva, con applicazione analogica delle norme vigenti per l’espropriazione, le imprese economiche private suscettibili di socializzazione. Il Reich, i Länder e i Comuni possono partecipare all’amministrazione di imprese e associazioni economiche, o assicurarsi una influenza efficace sulle loro amministrazioni.

Inoltre il Reich può disporre con legge, nel caso di urgente necessità, e per il vantaggio della pubblica economia, la riunione e gestione autonoma di imprese e associazioni  economiche con lo scopo di assicurare la collaborazione dei fattori della produzione, nonché la compartecipazione all’amministrazione dei datori e prestatori di lavoro, e di disciplinare secondo i principi di un’economia socializzata la produzione, la fabbricazione, la distribuzione, la utilizzazione, l’ammontare dei prezzi, e altresì l’importazione ed esportazione dei beni economici.

Le cooperative di produzione e di commercio e le loro unioni, su loro richiesta e con riguardo alla loro costituzione e natura, possono essere comprese nella gestione collettivizzata.

Nella Costituzione di Weimar, la formula della funzione sociale, espressa in termini di «obblighi» imposti ai proprietari proprio in ragione della loro proprietà, acquista un valore più incisivo di quello delle elaborazioni dei giuristi di ispirazione socialista. Ed è notevole non solo l’uso del termine funzione sociale, ma anche un’altra disposizione della Costituzione di Weimar, l’art. 153 co. 3°, per cui – come sottolinea Rodolfo Sacco – deve essere rivolto a vantaggio della collettività «l’aumento di valore dei terreni che non derivi da un impiego di lavoro o di capitali sulla terra»: viene così «idealmente scorporato dalle altre attribuzioni del proprietario l’acquisizione dell’aumento di valore del bene, non dovuto a fatto del proprietario o di altro privato».

Particolare rilievo ha, nel concetto di funzione sociale che emerge dalla Costituzione di Weimar, l’accostamento «diritto di proprietà – obbligo connesso a quel diritto».

Scrive Pietro Rescigno in pagine che sono di grande rilievo:

< Nella breve stagione di Weimar la dichiarazione costituzionale dell’art. 153 – la proprietà che «obbliga» e che è «servizio» per il bene comune – finì per perdere ogni valore quando, e fu opinione prevalente, nell’art. 153 si ravvisò una disposizione che vincolava il cittadino soltanto sul piano morale, al giudice si indirizzava come regola interpretativa, per il legislatore valeva come principio programmatico. Una lettura così prudente, che adeguava la norma alle esigenze del rinascente capitalismo tedesco, non evitò alla formula della «funzione sociale», quando venne proposta in Italia, l’accusa di un vizio incancellabile d’origine, per aver trovato asilo nella Costituzione socialista, anzi «socialistoide» per usare le parole del critico, della Germania di Weimar.

Certamente la formula della «funzione sociale» ha avuto un curioso destino, se si pensi che, tenuta in sospetto di tradire una segreta e palese ispirazione socialista, fu invece ripudiata, dopo un breve periodo di innegabile simpatia, dalla dottrina del mondo socialista, e in primo luogo da quella sovietica. Vi furono ragioni contingenti che portarono, in un ristretto arco di tempo, dall’accettazione della formula come capace di rimuovere la tradizione liberal-borghese dei diritti soggettivi, al rifiuto, motivato dalla scoperta del carattere meramente sociologico della formula, e sopratutto dalla denuncia della «ipocrisia» che essa mirava a consumare nel diritto della società capitalistica.

Le ragioni contingenti furono l’adesione fervidamente ingenua prestata a Léon Duguit e alla sua idea dei diritti-funzioni (e quindi della proprietà che merita e ottiene tutela finché venga esercitata a vantaggio della generalità) e, al termine della parabola, il giudizio negativo espresso da Duguit, in sede di teoria del diritto costituzionale, sui risultati della Rivoluzione socialista. Allora si scoprì, nel concetto di diritto-funzione e nell’idea di sostituire il «codice dei gruppi» al codice degli individui della tradizione borghese, non solo l’origine idealistica (poiché, parlando di diritto funzione, si integrava nella struttura e nella definizione del diritto soggettivo un elemento di contraddizione, qual è il dovere da esplicare nell’interesse della collettività), ma altresì l’annuncio di soluzioni corporative, autoritarie e paternalistiche.


La critica cattolica, sempre convinta della necessità di affidare la «funzione» alla coscienza morale, censurava dal canto suo la formula tecnico-giuridica della «funzione sociale », perché essa avrebbe svuotato d’ogni valore e di ogni merito la carità privata […]. Conviene in proposito soffermarsi non sulla formula della «funzione sociale», ma piuttosto sull’altra, accolta dalle Costituzioni tedesche del primo e del secondo dopoguerra, della «proprietà che obbliga» e diviene «servizio per il bene comune».

 

La dizione della Carta di Weimar e del vigente Grundgesetz della Repubblica federale, meglio che l’espressione usata dal nostro costituente, sembra infatti rompere con la violenza il principio della estraneità degli obblighi alla struttura del diritto soggettivo. E si è già detto come sullo schema della proprietà fu costruito il concetto di diritto soggettivo, poiché nella proprietà più che in ogni altro diritto sembrava realizzarsi quella libertà e signoria del volere che piega i beni al servizio della persona e dagli altri soggetti (o, se si vuole, dalla norma statale rivolta alla generalità) pretende solo l’astensione da ogni ingerenza.

La dottrina del diritto soggettivo ha conosciuto radicali revisioni, e al processo non è estranea la vicenda politico-sociale della proprietà. Così si è dubitato che abbia una qualche utilità di «obbligazione» negativa di tutti i soggetti diversi dal proprietario (una obbligazione ubiquitaria, come sol dirsi) e quindi che abbia senso il discorrere di rapporto giuridico a proposito della proprietà. Altri invece, pur muovendo dalla stessa constatazione – esser privo di pratica rilevanza affermare un’obbligazione che graverebbe su tutti i soggetti diversi dal proprietario, e starebbe a fronte della pretesa di lui – ha finito poi per concludere in una singolare esaltazione della proprietà. E difatti, per trovare un fondamento alla tutela aquiliana del credito, ha creduto di dovere indicare in ogni diritto, assoluto o relativo che sia, un aspetto, quello della pertinenza (o della proprietà, come chiaramente si dice), che reclama e positivamente ottiene tutela erga omnes.

Il ripensamento critico non ha solamente portato a rifiutare i concetti di obbligazione e di rapporto giuridico nella struttura della situazione reale. Quando si è posto l’accento delle nozioni di diritto soggettivo e di rapporto giuridico sull’esigenza della cooperazione altrui per la soddisfazione dell’interesse protetto, si è giunti a negare alla proprietà e ai diritti reali la natura di diritto soggettivo: risultato in larga misura dovuto ad atteggiamento polemico, a reazione contro l’esasperato normativismo che negava al credito la qualità di diritto soggettivo, poiché l’essenza del diritto soggettivo veniva fatta risiedere nella possibilità di soddisfare l’interesse senza la mediazione d’altri.

Nel riscoprire l’esigenza della cooperazione, si può esser dunque tentati di espellere la proprietà dalla categoria dei diritti soggettivi: risultato veramente singolare se si consideri che il nostro istituto fu a un tempo la ragione politica e il modello concettuale della categoria. Ma più frequente si avverte la sollecitazione a prendere l’altra via, che mantiene ferma la nozione della proprietà in termini di assolutezza ed esclusività del potere, e tuttavia riesce a collocare il dovere nella struttura della situazione reale (che è poi la maniera di dare un senso concreto a formule legislative come quella dell’art. 832).

La componente del dovere, integrata nella struttura della situazione reale, scopre il momento comunitario dell’esperienza del soggetto e dell’ordinamento. In una visione più timida si ritiene che nel sistema ancora convivano, nel segno di una notevole ambiguità e mutevolezza di confini, una proprietà-sostanza e una proprietà-funzione, delle quali la prima incontrerebbe il limite tradizionale dei diritti dei terzi e del buon costume, la seconda invece esigerebbe dal proprietario il concreto perseguimento di interessi socialmente apprezzabili. Si ha l’impressione di ritrovare, nella particolare materia, quel criterio di distinzione che nel regime dell’autonomia negoziale privata segnerebbe, secondo l’avviso di una dottrina autorevole, il criterio discriminante tra il potere dei privati che si avvalgono dei «tipi» previsti dalla legge e il potere dei privati che concludano contratti «che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare» (artt. 1322, cpv., 1343).

Certamente riesce più agevole ricondurre il dovere nell’ambito della situazione reale quando si consideri non già la proprietà, ma la disciplina dei diritti reali limitati. E qui può trascurarsi il problema della legittimità di quella unitaria categoria dei diritti reali, che colloca accanto alla proprietà i diritti su cosa altrui. Le ragioni politiche per le quali nacque e si è conservato l’equivoco concettuale sono sufficientemente note; riprenderle e svilupparle, come pur sarebbe desiderabile, ci porterebbe fuori dei limiti del tema. Qui, come si diceva, basterà, ed è assai utile, riflettere sul rilievo e la portata che il dovere assume in talune situazioni reali diverse dalla proprietà.


Gli schemi dei iura in re aliena sono serviti, da un lato, a convalidare i risultati della riflessione critica attorno alla pretesa obbligazione negativa universale, che dovrebbe collocarsi di fronte al potere del titolare nelle figure dei diritti reali. La costruzione, come fu ricordato, appare oggi – a un più attento giudizio critico – del tutto inutile: eccessiva, sovrabbondante nel pretendere di costruire una trama fittissima di rapporti che correrebbero tra il soggetto del diritto e l’intera umanità; angusta e ristretta, quando si tratti di iura in re aliena, nell’apprezzare la particolare relazione che si istituisce tra proprietario e titolare del diritto reale limitato > .

(P. Rescigno, Per uno studio sulla proprietà, in Riv. dir. civ., 1972, I, pp. 40-46).


7. Verso una nuova definizione di proprietà. L’interventismo corporativo e la codificazione del 1942

Nel primo dopoguerra italiano, e poi negli anni del corporativismo, si moltiplicano gli interventi dello Stato nei rapporti economici, e quindi nel settore della proprietà privata. Il modello ottocentesco di proprietà vede definitivamente il suo tramonto. Alla volontà del proprietario – volontà che Windscheid considerava decisiva nella disciplina della proprietà – «si sostituisce – avverte Vassalli – in misura più o meno ampia, rispetto a uno o più de’ rapporti della cosa, la volontà di poteri pubblici, sia per assicurare l’attuazione di fini che non s’identificano necessariamente con quelli individuali del proprietario, sia per attuare forme di protezione le quali costituiscono pur sempre una riduzione o una limitazione della autonomia privata».

Gli interventi riguardano: la proprietà agraria, con le leggi sulle bonifiche e sulla riforma agraria; la proprietà edilizia, con la legislazione speciale relativa alla edificazione nei territori coloniali; la proprietà di miniere, di foreste, di fonti di energia; la proprietà dei beni culturali, cioè di cose di interesse storico e artistico e molti altri settori. Si delinea in tal modo un divario profondo tra la definizione dei poteri del proprietario del codice del 1865, e la realtà del momento, che vede invece ormai delinearsi molti modelli autonomi e differenziati di proprietà, con molteplici vincoli a carico dei privati.

Anche nelle discussioni che precedettero la compilazione del c.c., poi promulgato nel 1942, si pone la questione se fosse opportuno codificare una norma sulla funzione sociale della proprietà. D’altra parte lo stesso Mussolini in Senato, il 13.1.1934, aveva tenuto una allocuzione sostenendo che «l’economia corporativa rispetta il principio della proprietà privata. La proprietà privata completa la personalità umana: è un diritto e, se è un diritto, è anche un dovere. Tanto che noi pensiamo che la proprietà debba essere intesa in funzione sociale; non quindi la proprietà passiva, ma la proprietà attiva, che non si limita a godere dei frutti della ricchezza, ma li sviluppa, li aumenta, li moltiplica».

È agevole rilevare però come l’idea corporativa di funzione sociale – che comunque non fu codificata poi nel c.c. – fosse assai diversa da quella che era stata accolta nella Costituzione di Weimar: là l’espressione «funzione sociale» significava che lo Stato ha il potere di intervenire, incidendo anche in modo consistente nella proprietà dei privati, per realizzare interessi della collettività. Qui invece si lasciava all’individuo il compito di adeguarsi spontaneamente alle richieste della collettività, realizzando – insieme con l’interesse proprio – anche quello della società.

Osserva poi Rescigno che «il tentativo di esprimere nei termini della funzione sociale» la concezione corporativa fascista della proprietà e dell’iniziativa economica privata fallì, per la decisa opposizione dei giuristi (che ne dichiaravano possibile l’uso, come semplice modo di esprimersi riassuntivamente, da parte del politico, dell’economista, dello studioso dei problemi sociali, «magari» del giudice). Inutile, se con essa voleva dichiararsi conforme all’interesse collettivo il riconoscimento della proprietà privata, la formula si presentava eversiva, e contrastante con l’intero sistema, se si intendeva consentire, alla stregua della funzione sociale, una valutazione dell’esercizio del diritto.

Contro l’introduzione della nozione di funzione sociale della proprietà nel nuovo c.c., si era espressa gran parte della dottrina, negli anni immediatamente anteriori al 1942. Nel corso di un convegno organizzato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova, sul tema «La proprietà nel progetto di riforma di un secondo libro del nuovo Codice civile» si era appunto discusso della nozione di limite della proprietà e di funzione sociale; e si era concluso che «la funzione sociale della proprietà […] è tutta fuori del diritto». In altri termini «proprietà privata e funzione sociale […] sono termini contraddittori, com’è contraddittoria la nozione […] della proprietà quale signoria e al tempo stesso strumento, in senso giuridico, dell’interesse generale».

Così riassumeva i risultati del convegno Francesco Santoro Passarelli:

< A chi scrive questa nota, l’ampia trattazione, che del tema del nuovo assetto della proprietà è stata fatta nel convegno, ha servito per saggiare convinzioni già da tempo manifestate. I risultati più importanti del convegno sono, a suo giudizio, i seguenti. La questione del limite (in senso lato) dell’interesse generale riguarda principalmente i beni produttivi e rispetto a questi non soltanto il diritto di proprietà, ma ogni diritto, reale o personale, il cui soggetto ha titolo a gestire e a far fruttare il bene. In un duplice senso è quindi inesatto il riferimento del limite al diritto di proprietà. La considerazione del limite esige non un diverso regolamento del diritto di proprietà, ma una nuova classificazione fondamentale dei beni privati, quelli capaci di utilità individuale e di utilità generale, fra i quali vengono in prima linea quelli produttivi, la cui disciplina non può prescindere dall’organizzazione in azienda od impresa, e quelli capaci soltanto di utilità individuale. La rilevanza dell’interesse generale si manifesterà riguardo ai beni della prima categoria, s’intende diversamente a seconda della struttura dei diritti soggettivi sugli stessi, non riguardo ai beni della seconda categoria. Una classificazione fondamentale dei beni, corrispondente alla diversa valutazione economico-sociale degli stessi in un determinato momento storico, è reperibile in ogni ordinamento giuridico, mutando il criterio concreto cui la classificazione s’ispira.

Ma ciò che si deve tenere per fermo è che il limite dell’interesse generale – anche se si tratti di una serie di limiti – per essere compatibile col diritto di proprietà dev’es- sere concreto ed esterno: soccorre allora l’elasticità del diritto. Con lo stesso è invece incompatibile un limite interno e generico, come riuscirebbe a essere quello, stabilito dall’art. 18 del progetto […]: la conservazione del diritto di proprietà e più generalmente del diritto soggettivo privato è puramente illusoria. Ciò va detto senza ambagi, perché è palese l’inconsapevolezza con la quale i compilatori del progetto, introducendo quella formula, hanno minato l’arcaica impalcatura inopportunatamente mantenuta nell’ordinamento dei beni.

Bisogna ammettere che anche vari discorsi del convegno sono stati dominati dalla stessa incertezza sul significato della funzione sociale del diritto di proprietà. Col richiamo, fatto da molti, alla affermazione della funzione sociale della proprietà, che si trova già in autorevoli e non recenti scrittori, si è dimostrato di confondere due cose ben diverse. Nel senso in cui la formula è adoperata da questi scrittori, si parla di una funzione sociale della proprietà per dire che l’ordinamento attribuisce al singolo questa sfera di libertà o, se così si vuole, di sovranità, perché il legislatore ritiene tale attribuzione conforme all’interesse collettivo. È quanto dice con altre parole la dichiarazione settima della Carta del lavoro, proclamando che «lo Stato corporativo considera l’iniziativa privata nel campo della produzione come lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della Nazione». La funzione sociale della proprietà, in questo senso, è tutta fuori del diritto. Adesso invece, se con una norma giuridica si vuol fare dell’esercizio della proprietà una funzione sociale, ciò suppone – com’è stato argutamente rilevato – che non si crede più all’utilità sociale della proprietà come tale. Ma proprietà privata e funzione sociale, nel secondo senso, sono termini contraddittori, com’è contraddittoria la nozione, che abbiamo sentita autorevolmente sostenuta nel convegno, della proprietà quale signoria e al tempo stesso strumento, in senso giuridico, dell’interesse generale.

S’introduca, dunque, se si crede corrispondente ai nuovi bisogni, il principio della funzione sociale, ma sia ben chiaro, che così è abolito il diritto di proprietà e in genere il diritto soggettivo privato, il cui esercizio si voglia trasformare in tale funzione. A dubitare dell’opportunità del nuovo principio concorrono, tuttavia, varie considerazioni:
1) che esso non serve per la repressione degli atti emulativi, i quali, concernendo un rapporto fra privati, debbono essere positivamente vietati in base al criterio della mancanza d’interesse apprezzabile per l’agente e del pregiudizio per il terzo;

2) che anche lo sviamento nello sfruttamento dei beni produttivi, del resto in pratica raro, consistente nella mera inerzia può essere direttamente represso con l’introduzione di un limite speciale prudentemente regolato (cfr. lo stesso art. 19 del progetto);

3) che una gestione socialmente utile di tali beni può di volta in volta, a seconda delle mutevoli esigenze, essere positivamente e specificamente imposta ai titolari grazie specialmente al congegno elastico, di cui disponiamo, della disciplina corporativa della produzione > .

(F. Santoro Passarelli, Risultati di un convegno giuridico interuniversitario sul tema della
proprietà, in Riv. dir. civ., 1942, pp. 270-272)

Nella definizione di proprietà del nuovo Codice civile – o meglio, dei poteridel proprietario – la formula contenente  espressione di funzione sociale della proprietà fu soppressa. Recita infatti l’art. 832 c.c. «il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico». Questo il modo di intendere la norma da parte del legislatore, come risulta dalla Relazione al Re.

R.R. n. 1. A misura che si è proceduto nella riforma del codice, si sono delineati sempre più nettamente i caratteri della nuova nostra legislazione generale, che sempre maggiormente e più profondamente si adegua ai principi e agli istituti fondamentali elaborati dalla Rivoluzione e dalla legislazione fascista nel primo ventennio di vita. L’opera di riforma dei codici poté apparire, allorché ne fu iniziata la preparazione, ispirata a criterii prevalentemente tecnici. La finalità di adeguare i codici alle nuove esigenze della Nazione non mancò, certo, quando la riforma fu disposta con la l. 30.12.1923, II, n. 2814, e quando successivamente venne ampliato il campo della riforma stessa con la legge del 24.12.1925, n. 2260. Ma in quel tempo la nuova organizzazione nazionale non aveva avuto ancora il suo pieno sviluppo, né la precisa configurazione che ha conseguito successivamente. Poteva quindi sembrare allora come prevalente nella riforma lo scopo di migliorare tecnicamente il contenuto delle disposizioni dei vecchi codici, ritenendosi che la Rivoluzione fosse bensì destinata a trasformare l’ordinamento costituzionale dello Stato e la legislazione del diritto pubblico, ma solo indiretta influenza potesse esercitare sulle norme di diritto privato contenute nei codici. Ma oggi, dopo che la l. 3.4.1926, n. 563 ha posto le basi della organizzazione sindacale e corporativa della Nazione, dopo che la Carta del lavoro ha fissato i principi etici, politici, economici e sociali che investono non soltanto il campo della produzione e del lavoro, ma più generalmente la vita stessa della società nazionale, oggi che l’ordinamento corporativo, avuto il suo assetto, svolge la sua attività e dalla regolamentazione collettiva del lavoro è passato a quella dei rapporti economici, oggi che il nuovo ordine dato dal Fascismo si riverbera profondamente su tutti i rami della nostra legislazione, la nuova codificazione deve rispondere a criteri profondamente diversi da quelli che hanno ispirato i vecchi codici.

R.R. n. 2. La trasformazione operata nel campo politico non poteva infatti non ripercuotersi su quello giuridico, poiché fra diritto e politica vi è un nesso indissolubile, a torto disconosciuto da certa dottrina la quale crede di poter stabilire una netta separazione fra la sfera del diritto e le altre sfere di rapporti sociali extragiuridici, riducendo così la scienza giuridica a una pura tecnica, di carattere formale, avulsa quasi da quello che è il contenuto sostanziale delle singole norme e sopratutto dalle finalità etiche e sociali che esse sono destinate a realizzare. La realtà delle cose dimostra che il diritto non può essere isolato da alcuno degli altri fenomeni della vita collettiva, perché si trova con questi in un nesso non solo genetico, ma funzionale. Il diritto non è astrazione né fine a se stesso, ma è il mezzo necessario per il raggiungimento degli scopi verso i quali tende la comunità nazionale. Deve perciò essere permeato di tutte le idealità politiche che sorreggono la società nazionale in un determinato momento storico. Ogni struttura politica esige il suo diritto: la scienza del diritto è chiamata a realizzare con logica coerenza le soluzioni additate dalla politica legislativa, senza che a ciò possano fare ostacolo aprioristici dogmi giuridici che non sono immutabili ed eterni, ma si trasformano e si adeguano secondo il mutare della realtà giuridica su cui sono formati. Siffatta esigenza di ordine giuridico è ancora più forte nello Stato fascista. Propulso da tutte le forze vitali della Nazione, non può seguire nella sua opera legislativa direttive diverse da quelle che costituiscono la sua ragion d’essere storica e politica.

 

R.R. n. 3. La riforma dei codici nelle sue fasi più recenti andò quindi sviluppandosi in più larghi confini e allo scopo particolare, che in origine pareva prevalente, di aggiornamento e perfezionamento tecnico della nostra legislazione si sovrappose quello di adeguare i nostri codici ai nuovi principi etici, politici, sociali, economici dei quali è suprema sintesi la Carta del lavoro. Nei primi due libri del nuovo codice relativi al diritto di famiglia e a quello delle successioni, la penetrazione dei principi contenuti nella Carta del lavoro non poteva essere che indiretta. Diretto si è manifestato il nesso fra la Carta del lavoro e il c.c. quando il legislatore è passato all’esame e alla riforma degli istituti giuridici che regolano i rapporti patrimoniali e, primo fra essi, al relativo alla proprietà. In questo libro e in quelli che seguono e completano l’intero c.c., la penetrazione dei principî della Carta del lavoro è stata vasta e profonda, perché il nuovo ordinamento dato alla economia della Nazione doveva necessariamente riflettersi sulla disciplina dei rapporti economici regolati dal codice. La Carta del lavoro domina quindi completamente la disciplina del nuovo codice e informa di sé le sue disposizioni. La connessione tra il nuovo codice e la Carta del lavoro ha indotto a determinare con la l. 30.1.1941-XIX, n. 14, il valore giuridico della Carta del lavoro, eliminando le molte dispute che in proposito si agitavano, e a darvi collocazione in via provvisoria, in capo al libro del codice sulla proprietà che inizia la serie di quelli che regolano i rapporti economici, e poi, definitivamente, quando sarà effettuato il coordinamento fra i vari libri, all’inizio del codice, come premessa di questo.

R.R. n. 4. Non è, certo, il caso di soffermarsi qui a esporre, in modo particolareggiato, le trasformazioni che i vari istituti disciplinati nei diversi libri del codice vengono a subire sotto l’azione vivificatrice dei principi della Carta del lavoro. Basterà rilevare che tali principi non solo danno un orientamento diverso agli istituti tradizionali del diritto privato, ma concorsero a determinare il piano stesso della nuova codificazione, facendo superare anzitutto la distinzione tra diritto civile e diritto commerciale. L’inquadramento totalitario delle attività economiche nell’ordinamento corporativo dello Stato ha infatti soppressa quella particolare posizione di autonomia giuridica che aveva l’attività commerciale; gli istituti che si consideravano propri di questa diventano oggi istituti generali a tutta l’economia organizzata, abbia questa per oggetto attività di produzione industriale o attività di scambio o anche attività agricola.

R.R. n. 5. Gli stati professionali e l’impresa trovano così nel nuovo codice una propria disciplina generale, mentre il lavoro non è più regolato come oggetto di uno dei tanti contratti speciali. Esso invece è collocato nell’ordinamento dell’impresa economica quale fattore essenziale di collaborazione, secondo la definizione della Dichiarazione VII della Carta del lavoro; dalle disposizioni del nuovo codice emerge infatti la persona del lavoratore, soggetto di diritto.

R.R. n. 6. I principi della suprema autorità dello Stato, della subordinazione dell’interesse dei singoli agli interessi superiori della Nazione, della giustizia sociale, costituenti la base dell’ordinamento corporativo, si riflettono sugli istituti del codice, da quello della proprietà a quello dell’autonomia contrattuale, portando dovunque nelle norme particolari quel senso di solidarietà sociale, che non contrappone fra loro, ma unisce e coordina i vari interessi individuali per il raggiungimento dei fini superiori della Nazione. Muta così lo spirito che anima la disciplina del codice e mutano le basi stesse dell’ordinamento giuridico. Non è più l’individuo principio e fine di questo ordinamento. Non è più la salvaguardia degli interessi meramente individuali compito precipuo della legislazione; né lo Stato ha soltanto, come nelle legislazioni anteriori, una funzione di polizia. Nella nuova legislazione domina l’autorità dello Stato, organismo presente e operante, con propria volontà e con proprie finalità, che trascendono il limite breve della vita dei singoli, per rappresentare la coscienza immanente della Nazione. A queste finalità di superiore interesse deve essere subordinata l’attività dell’individuo.

R.R. n. 7. La Rivoluzione francese, nel distruggere tutti i gruppi intermedi fra l’individuo e lo Stato, fece scomparire le ultime vestigia dell’ordinamento dei mestieri e delle arti, che pure fu nel passato una forza e una gloria del nostro Paese, dove le Corporazioni medioevali seppero dare potenza e floridezza ai nostri Comuni. L’ordinamento corporativo dello Stato fascista ha ripreso lo spirito sano degli antichi aggruppamenti di interessi omogenei, che stabilisce quel senso di solidarietà, il quale, mediante il coordinamento degli interessi di ognuno, converge gli sforzi di tutti al conseguimento del comune vantaggio. Il nostro ordinamento corporativo non rappresenta più l’organizzazione dell’economia cittadina contro quella rurale e non ha quindi l’antico carattere di particolarismo, ma abbraccia totalitariamente l’economia della Nazione. Inoltre la forza che deriva dai raggruppamenti, che nei Comuni fu spesso rivolta contro lo Stato, usurpandone attributi di sovranità, oggi è forza a vantaggio dello Stato, perché agli Stati deboli di quel tempo è sostituita la struttura di uno Stato forte, quale non fu mai. L’ordinamento corporativo odierno è dominato dal concetto dell’«unità morale politica ed economica» della Nazione «che si realizza integralmente nello Stato». Tutte le organizzazioni sono nello Stato e sono elementi dello Stato. Questo ordinamento corporativo non è pensabile fuori dello Stato e tanto meno contro di esso.

R.R. n. 8. L’ordinamento della nostra economia attraverso le Corporazioni create dalla forza politica dello Stato e in esso solidamente inquadrate rispetta le iniziative private, ma l’individuo non è più un atomo disperso: la sua attività è coordinata e associata a quella degli altri e tutti sono subordinati all’interesse dello Stato. Ciò non implica né oppressioni né diminuzione della personalità umana, ma è potenziamento e valorizzazione di questa. Soltanto le ideologie a cui si ispirò la Rivoluzione francese pretesero di staccare l’individuo dall’organismo sociale nel quale vive e opera. Esse fecero dell’interesse privato e dell’interesse pubblico due campi diversi e opposti, spesso inconciliabili tra loro, e parlarono di diritti individuali naturali, e la tutela che la legge presta all’interesse del singolo non è tutela di un interesse egoistico, ma è tutela diretta o indiretta dell’interesse nazionale. Non vi è dunque contrasto, ma armonia fra l’interesse privato e l’interesse pubblico. Lo sviluppo della personalità individuale è assolutamente necessario per lo sviluppo della Nazione e la forza e la potenza dello Stato si ripercuotono sulla floridezza e sul benessere dell’individuo.

R.R. n. 9. Il nuovo orientamento della nostra legislazione ha portato tra l’altro ad accentuare nella disciplina degli istituti il loro profilo pubblicistico. La distinzione tradizionale fra diritto pubblico e diritto privato è, per sua natura, di quelle il cui significato è soggetto a mutare secondo la evoluzione della struttura sociale e politica e la varia sensibilità della coscienza pubblica. La linea di confine è, quindi, mobile, storicamente condizionata e variabile. Materie che in un’epoca storica sono considerate d’interesse meramente privato possono in altra epoca assurgere a parte integrante della struttura politica. Spostamenti possono avvenire sia nel senso di accentuare la separazione fra diritto pubblico e privato, sia viceversa nel senso di provocarne un accostamento.

 

La Rivoluzione francese, abbattendo le impalcature dei vecchi regimi e sopprimendo senza discernimento gli anelli intermedi fra Stato e singoli, portò a esaltare con l’individualismo liberale la libertà privata dell’«individuo » e l’indipendenza del diritto privato dal pubblico. Nel senso opposto, di una connessione sempre più stretta fra diritto pubblico e privato, doveva necessariamente operare la nostra rivoluzione.

R.R. n. 10. I principi affermati nella Carta del lavoro portano all’inserzione sempre più notevole di elementi pubblicistici nella disciplina dei rapporti di diritto privato. Taluni di questi sono stati addirittura spostati dal piano del diritto privato a quello del diritto pubblico. Il principio della giustizia fra le classi sociali e gli interessi preminenti della produzione nazionale hanno determinato la disciplina dei rapporti collettivi di lavoro, la tutela giudiziale delle categorie interessate, le funzioni di assistenza e di previdenza e costruito il diritto corporativo come nuova branca del diritto pubblico, destinata ad abbracciare come norme in prevalenza inderogabili una larga zona del diritto privato. L’esigenza di subordinare all’interesse pubblico gli interessi particolari dei singoli e di attuare un’armonica coordinazione fra loro, ha posto in rilievo gli aspetti pubblicistici degli istituti del diritto civile e orientato la proprietà e l’autonomia privata verso la solidarietà corporativa, sottoponendo così rapporti eminentemente privatistici a una disciplina ispirata all’interesse pubblico, che sempre predomina nel nuovo codice.

R.R. n. 11. Tra le nozioni giuridiche di carattere generale, che hanno subito una radicale trasformazione, vi è quella di ordine pubblico che, come è noto, è di importanza fondamentale poiché rappresenta il complesso delle norme d’interesse sociale che esigono incondizionata osservanza, non derogabili dalla volontà privata. La nozione di ordine pubblico è di contenuto elastico e variabile secondo i diversi ordinamenti e deve quindi adeguarsi all’evolversi della coscienza sociale e ai mutamenti del regime politico ed economico. Si comprende facilmente come la concezione fascista dell’ordine pubblico differisca essenzialmente da quella che se ne ebbe nel passato. La nozione liberale dell’ordine pubblico è puramente statica e negativa. Ordine pubblico è in sostanza stato di tranquillità e di sicurezza pubblica contrapposto allo stato di disordine e di turbolenza. Esso finisce con l’identificarsi nell’ossequio meramente formale della legge, inteso in modo del tutto estrinseco.

R.R. n. 12. Correlativamente al mutamento della nozione stessa dello Stato è mutata la nuova concezione di ordine pubblico. Questo assume carattere positivo e dinamico. L’ordine pubblico, nella nuova concezione, mantiene in perenne efficacia la nuova struttura politica della società nazionale e assicura durevolmente allo Stato la possibilità di adempiere tutte le sue complesse funzioni, contro le quali non può ammettersi che vi siano interessi o comportamenti contrastanti dei singoli. Non basta che, nell’ambito di tutte le attività riconosciute dall’ordinamento giuridico, ciascuno non turbi la sfera di azione degli altri, ma occorre che svolga le sue energie produttive secondo l’indirizzo unitario richiesto nell’interesse della Nazione. Nel campo delle attività economiche, in particolare, il contenuto positivo del concetto di ordine pubblico è dato dall’ordinamento corporativo. La posizione che tutti coloro i quali partecipano alla produzione nazionale assumono nella organizzazione corporativa dello Stato importa particolari doveri e impone a ciascuno obblighi in ordine alla produzione, la quale non va considerata come interesse esclusivamente individuale, ma come fonte di utilità generale. La disciplina corporativa si riflette in tutti i campi della vita sociale ed esige stretti vincoli di collaborazione e di solidarietà fra tutti coloro che sono partecipi della vita comune per il raggiungimento dell’interesse generale. L’ordine corporativo è così parte viva e integrante dell’ordine pubblico; e, per così dire, la parte operante di questo, che mantiene la solidarietà fra i singoli nel processo totalitario della produzione e ne integra il collegamento nel corpo sociale, per assicurare il soddisfacimento dei bisogni etici e sociali della vita pubblica.


R.R. n. 13. Il nuovo codice conserva l’antica sua denominazione di c.c. Questa denominazione non ha affatto per noi quell’erroneo significato che a essa venne attribuito, in relazione al codice nato dalla Rivoluzione francese, della quale atto fondamentale era stata la dichiarazione dei diritti del cittadino. c.c. non significa codice del cittadino, inteso questo come le ideologie e la dottrina della Rivoluzione francese lo raffigurarono, vale a dire come titolare di diritti innati, intangibili e inalienabili, quasi di sovranità privata contrapposta alla sovranità dello Stato, considerato come semplice somma dei cittadini.


Una simile concezione dell’individuo, di per sé atomo staccato dal complesso nazionale, è derivazione della dottrina del giusnaturalismo, frutto di un movimento di pensiero le cui origini non si trovano nella storia del pensiero italiano. Il conseguente livellamento, antistorico e antisociale, di tutti i valori umani, che scompaiono sotto l’incolore comune denominatore del cittadino, contrasta troppo con lo spirito della nostra razza, formato dalle grandi tradizioni del forte e potente Stato romano e dalla disciplina gerarchica della Chiesa cattolica romana, la quale dallo Stato e dall’Impero romano ereditò l’organizzazione. Il senso del dovere e il sacrificio di ogni egoismo furono le basi di tale organizzazione.


La nostra dottrina contrappone alla figura del citoyen della Rivoluzione francese quella concreta ed emergente del produttore, della persona che partecipa attivamente con la propria azione individuale all’azione comune di sempre maggiore aumento della potenza della potenza e del benessere della Nazione, che è la potenza e il benessere di tutti. Ciò che determina la posizione giuridica della persona è la posizione che essa assume nelle organizzazioni politiche ed economiche e il vincolo organico che congiunge fra loro i componenti della comunità nazionale giuridicamente organizzata per i fini superiori agli interessi dei singoli. Allorché noi diciamo c.c., il nostro pensiero si riporta alla nozione romana del civis, membro attivo della comunità politica di Roma, con la sua posizione ben definita rispetto alla famiglia e alla civitas. Questa nozione del civis non ha nulla di comune con quella del citoyen della Rivoluzione francese. La denominazione del nostro codice non vuole quindi significare che esso è il codice che disciplina i diritti innati del cittadino, quasi in contrapposto ai diritti dello Stato, e tanto meno vuol significare codice della borghesia, cioè dei cittadini delle classi medie (concetto anche questo derivante dalla Rivoluzione francese) come talvolta si disse del codice francese. Per noi c.c. significa soltanto codice che comprende il diritto civile, nel significato che esso ebbe originariamente in Roma, secondo la definizione data da Gaio nelle sue Istituzioni (1,1): ius proprium civitatis. È il diritto proprio della civitas romana, come le mura e gli dei, nati con essa o a essa pervenuti dai popoli che le hanno dato origine, diritto non confondibile con quello di ogni altra civitas. Questo concetto originario dov’è necessariamente scolorirsi più tardi, quando quello che era il diritto esclusivo dei cives romani membri della civitas, divenne diritto generale di tutti i sudditi dell’impero di Roma, qualunque fosse la stirpe da cui derivavano. La denominazione «Codice civile» significa quindi, per noi, codice del popolo italiano, proprio di esso, e sta a denotare innanzi tutto il carattere prettamente nazionale del diritto del popolo italiano. È il diritto della nostra razza: quel diritto che, sorto in Roma, quando questa era ancora la civitas, resse poi tutti i sudditi dell’Impero romano e, attraverso i secoli dell’evo medio, rielaborato sapientemente dalle nostre fiorenti università, fari luminosi di scienza, e adattato dall’esperienza dei nostri giuristi pratici, poté adeguarsi alle esigenze dei tempi nuovi, e giungere fino a noi sempre vivo e attivo, capace di regolare i rapporti della vita sociale nelle più diverse condizioni di tempo e di civiltà.

Una simile concezione dell’individuo, di per sé atomo staccato dal complesso nazionale, è derivazione della dottrina del giusnaturalismo, frutto di un movimento di pensiero le cui origini non si trovano nella storia del pensiero italiano. Il conseguente livellamento, antistorico e antisociale, di tutti i valori umani, che scompaiono sotto l’incolore comune denominatore del cittadino, contrasta troppo con lo spirito della nostra razza, formato dalle grandi tradizioni del forte e potente Stato romano e dalla disciplina gerarchica della Chiesa cattolica romana, la quale dallo Stato e dall’Impero romano ereditò l’organizzazione. Il senso del dovere e il sacrificio di ogni egoismo furono le basi di tale organizzazione.

La nostra dottrina contrappone alla figura del citoyen della Rivoluzione francese quella concreta ed emergente del produttore, della persona che partecipa attivamente con la propria azione individuale all’azione comune di sempre maggiore aumento della potenza della potenza e del benessere della Nazione, che è la potenza e il benessere di tutti. Ciò che determina la posizione giuridica della persona è la posizione che essa assume nelle organizzazioni politiche ed economiche e il vincolo organico che congiunge fra loro i componenti della comunità nazionale giuridicamente organizzata per i fini superiori agli interessi dei singoli.

Allorché noi diciamo c.c., il nostro pensiero si riporta alla nozione romana del civis, membro attivo della comunità politica di Roma, con la sua posizione ben definita rispetto alla famiglia e alla civitas. Questa nozione del civis non ha nulla di comune con quella del citoyen della Rivoluzione francese. La denominazione del nostro codice non vuole quindi significare che esso è il codice che disciplina i diritti innati del cittadino, quasi in contrapposto ai diritti dello Stato, e tanto meno vuol significare codice della borghesia, cioè dei cittadini delle classi medie (concetto anche questo derivante dalla Rivoluzione francese) come talvolta si disse del codice francese.

Per noi c.c. significa soltanto codice che comprende il diritto civile, nel significato che esso ebbe originariamente in Roma, secondo la definizione data da Gaio nelle sue Istituzioni (1,1): ius proprium civitatis. È il diritto proprio della civitas romana, come le mura e gli dei, nati con essa o a essa pervenuti dai popoli che le hanno dato origine, diritto non confondibile con quello di ogni altra civitas. Questo concetto originario dov’è necessariamente scolorirsi più tardi, quando quello che era il diritto esclusivo dei cives romani membri della civitas, divenne diritto generale di tutti i sudditi dell’impero di Roma, qualunque fosse la stirpe da cui derivavano.

La denominazione «Codice civile» significa quindi, per noi, codice del popolo italiano, proprio di esso, e sta a denotare innanzi tutto il carattere prettamente nazionale del diritto del popolo italiano. È il diritto della nostra razza: quel diritto che, sorto in Roma, quando questa era ancora la civitas, resse poi tutti i sudditi dell’Impero romano e, attraverso i secoli dell’evo medio, rielaborato sapientemente dalle nostre fiorenti università, fari luminosi di scienza, e adattato dall’esperienza dei nostri giuristi pratici, poté adeguarsi alle esigenze dei tempi nuovi, e giungere fino a noi sempre vivo e attivo, capace di regolare i rapporti della vita sociale nelle più diverse condizioni di tempo e di civiltà.
 
R.R. n. 14. La denominazione data al codice riafferma quindi la nostra millenaria ininterrotta tradizione, romana e italiana, e riporta alle sue origini romane il diritto del nostro popolo. La riaffermazione della romanità del nostro diritto non significa immutabilità o cristallizzazione di esso. Il diritto romano ha dimostrato nel corso dei secoli e nella sua applicazione ai più diversi Paesi una tale forza di adattamento, che nessun progresso della vita civile è stato mai ostacolato da esso.

Le fonti del diritto romano sono state oggetto di elaborazione più volte secolare; le varie generazioni hanno potuto interpretarle secondo le proprie esigenze ideali, secondo le proprie concezioni e il proprio genio creatore. La tradizione giuridica era, e deve essere, interpretata alla luce di una idea. Nella stessa universalità del diritto romano la dottrina della Rivoluzione francese credette di vedere la base di quel preteso diritto naturale, su cui fecero leva per distruggerli tutti i gruppi e le organizzazioni particolari.

Ma né il diritto romano del Codice napoleonico né il diritto romano della scuola pandettistica tedesca del secolo passato, possono essere il diritto del popolo italiano del secolo ventesimo. Il nostro diritto, quale noi lo sentiamo e lo intendiamo, è il diritto dello Stato romano, gerarchico e autoritario, diritto del buon senso umano e perciò universale, illuminato e ravvisato dai principi fondamentali della nostra Rivoluzione, dei quali è sintesi la Carta del lavoro, che viene perciò collocata in capo al codice.

R.R. n. 15. La denominazione «Codice civile», oltre che il carattere nazionale del nostro diritto, indica inoltre quale è il contenuto del codice. Anche questo contenuto rimane nella sua tradizionale integrità. La ripartizione del diritto civile – secondo la tradizione romanistica – in diritto della famiglia, delle successioni, della proprietà e delle obbligazioni, resta ferma, poiché queste quattro parti sono organicamente collegate fra di loro, in quanto costituiscono una unità, che sarebbe dannoso infrangere. Se il codice deve essere il codice del popolo italiano, è necessario che esso regoli tutti i rapporti della vita comune dei suoi componenti. Famiglia, successione, proprietà, obbligazioni costituiscono istituti fondamentali della vita comune. Lo stretto collegamento tra la famiglia e la successione è evidente, perché la successione ha per base stessa la famiglia, e di questa rappresenta la continuità, che la morte non rompe.

R.R. n. 16. Meno evidente può apparire a taluno la connessione profonda tra la famiglia e la successione, da un lato, e la proprietà e le obbligazioni dall’altro. Qui può sembrare che si tratti di rapporti posti su piani diversi: rapporti di natura personale, e rapporti economici. Indubbiamente non vi è identità assoluta tra famiglia ed economia. Ma l’ordinamento della famiglia non è costituito soltanto da rapporti puramente personali. Vi è anche una base economica su cui la famiglia si fonda. Vi sono rapporti economici fra i componenti stessi della famiglia. Vi è il dolore di mantenimento reciproco. Beni, attività di lavoro sono necessari alla vita della famiglia, non meno che i legami di affetto. La famiglia è un organismo etico-economico. Economia e famiglia possono essere considerate distinte, ma costituiscono necessariamente due aspetti di un mondo medesimo: gli strumenti propri dell’economia, proprietà e contratti, che la legge disciplina, sono gli strumenti dell’economia familiare.

R.R. n. 14. La denominazione data al codice riafferma quindi la nostra millenaria ininterrotta tradizione, romana e italiana, e riporta alle sue origini romane il diritto del nostro popolo.

La riaffermazione della romanità del nostro diritto non significa immutabilità o cristallizzazione di esso. Il diritto romano ha dimostrato nel corso dei secoli e nella sua applicazione ai più diversi Paesi una tale forza di adattamento, che nessun progresso della vita civile è stato mai ostacolato da esso.

Le fonti del diritto romano sono state oggetto di elaborazione più volte secolare; le varie generazioni hanno potuto interpretarle secondo le proprie esigenze ideali, secondo le proprie concezioni e il proprio genio creatore. La tradizione giuridica era, e deve essere, interpretata alla luce di una idea. Nella stessa universalità del diritto romano la dottrina della Rivoluzione francese credette di vedere la base di quel preteso diritto naturale, su cui fecero leva per distruggerli tutti i gruppi e le organizzazioni particolari.

Ma né il diritto romano del Codice napoleonico né il diritto romano della scuola pandettistica tedesca del secolo passato, possono essere il diritto del popolo italiano del secolo ventesimo. Il nostro diritto, quale noi lo sentiamo e lo intendiamo, è il diritto dello Stato romano, gerarchico e autoritario, diritto del buon senso umano e perciò universale, illuminato e ravvisato dai principi fondamentali della nostra Rivoluzione, dei quali è sintesi la Carta del lavoro, che viene perciò collocata in capo al codice.

R.R. n. 15. La denominazione «Codice civile», oltre che il carattere nazionale del nostro diritto, indica inoltre quale è il contenuto del codice. Anche questo contenuto rimane nella sua tradizionale integrità. La ripartizione del diritto civile – secondo la tradizione romanistica – in diritto della famiglia, delle successioni, della proprietà e delle obbligazioni, resta ferma, poiché queste quattro parti sono organicamente collegate fra di loro, in quanto costituiscono una unità, che sarebbe dannoso infrangere. Se il codice deve essere il codice del popolo italiano, è necessario che esso regoli tutti i rapporti della vita comune dei suoi componenti. Famiglia, successione, proprietà, obbligazioni costituiscono istituti fondamentali della vita comune. Lo stretto collegamento tra la famiglia e la successione è evidente, perché la successione ha per base stessa la famiglia, e di questa rappresenta la continuità, che la morte non rompe.

R.R. n. 16. Meno evidente può apparire a taluno la connessione profonda tra la famiglia e la successione, da un lato, e la proprietà e le obbligazioni dall’altro. Qui può sembrare che si tratti di rapporti posti su piani diversi: rapporti di natura personale, e rapporti economici. Indubbiamente non vi è identità assoluta tra famiglia ed economia. Ma l’ordinamento della famiglia non è costituito soltanto da rapporti puramente personali. Vi è anche una base economica su cui la famiglia si fonda. Vi sono rapporti economici fra i componenti stessi della famiglia. Vi è il dolore di mantenimento reciproco. Beni, attività di lavoro sono necessari alla vita della famiglia, non meno che i legami di affetto. La famiglia è un organismo etico-economico. Economia e famiglia possono essere considerate distinte, ma costituiscono necessariamente due aspetti di un mondo medesimo: gli strumenti propri dell’economia, proprietà e contratti, che la legge disciplina, sono gli strumenti dell’economia familiare. Deve quindi rimanere integra l’unità della legge che regola i rapporti personali ed economici della vita quotidiana, che sono rapporti comuni a tutti i componenti della società nazionale.

D’altra parte, la ragione stessa sociale e politica della proprietà è fondata essenzialmente sull’ordinamento familiare. La proprietà è complemento della personalità umana, e come tale si collega al diritto delle persone; ha la sua molla precisamente negli affetti familiari che spingono al risparmio necessario alla vita della Nazione, e si collega perciò alla famiglia essendo ereditariamente trasmissibile, rappresenta la perennità di questa cellula indispensabile alla organizzazione dello Stato che bene fu detto essere sintesi non di individui, ma di famiglie. Infine è la base dell’ordinamento economico e quindi fa parte anche di quello che spesso si qualifica oggi come diritto dell’economia.

R.R. n. 17. A queste quattro parti fondamentali, che tradizionalmente costituiscono il diritto civile e che non possono essere scisse senza rompere l’unità della legge regolatrice dei rapporti della vita del popolo, il nuovo codice ne aggiunge una quinta che rispecchia più notevolmente le caratteristiche proprie della civiltà del nostro secolo, che è la civiltà del lavoro. Come si è già accennato, il lavoro della nuova codificazione non è più considerato quasi merce, oggetto di uno dei tanti contratti speciali. Esso diventa il fulcro di tutto il nostro diritto con la sua caratteristica di dovere civile. L’elemento dell’attività lavorativa entra perfino nella configurazione del diritto di proprietà, dell’esercizio del quale il titolare è responsabile verso lo Stato. Ma il lavoro, in tutte le sue forme, organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali, trova la propria disciplina di ampio respiro in un nuovo libro del Codice civile, nel libro dell’impresa e del lavoro, che costituirà il libro dell’attività operosa del nostro popolo, dominando nell’ordine corporativo tutto il capo dei rapporti patrimoniali.

Più vasta che nel passato è quindi la materia regolata dal nuovo codice, che, superata la separazione fra diritto civile e diritto commerciale, riunisce in una disciplina unitaria tutti i rapporti economici della vita del popolo, con risalto speciale ai rapporti a cui dà vita il lavoro, con la sua disciplina corporativa. Anche sotto questo profilo bene si addice al nuovo codice la sua denominazione di Codice civile.

I teorici dell’ordine corporativo avevano però insistito sul nuovo volto assegnato alla proprietà privata dalla legislazione fascista, e in particolare sulla «funzione sociale» che essa acquista anche nella nuova codificazione (in quel periodo in fase progettuale). Scrive Angelo Nattini, nel 1934, che «lo spirito informatore della nuova legislazione è stato sopratutto affermato dalla Carta del lavoro là dove dichiara che la produzione, e quindi la proprietà, è funzione di interesse nazionale con la conseguenza che l’organizzatore dell’impresa, e quindi il proprietario, è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato».

E lo stesso Nattini, per illustrare come la funzione sociale della proprietà non soffochi i poteri del proprietario, richiama un famoso discorso di Mussolini, ripreso nella voce Fascismo dell’Enciclopedia Italiana, ove si dice che «lo Stato fascista organizza la Nazione, ma lascia poi agli individui margini sufficienti: esso ha limitato le libertà inutili o nocive e ha conservato quelle essenziali». L’autore quindi conclude che «la proprietà, come ogni altro diritto, dovrà avere quelle limitazioni che sono richieste perché essa adempia alla sua funzione sociale ma, fermo ciò, essa è pure un diritto e cioè una manifestazione di potere del suo titolare».

In Italia il Fascismo elaborò e attuò un complesso di principi politici e giuridici che reagisce sul sistema del diritto privato, di cui il codice è la maggiore espressione, in tre modi, e cioè: con un’opera di restrizione dei principi del codice, col riconoscimento e la disciplina di una sfera di rapporti superiori e quindi sovrapposti a quelli disciplinati dal codice, e infine con la negazione di principi accolti dal codice. L’azione restrittiva si è esercitata sulla proprietà. Anche il diritto romano e il c.c. conoscono le limitazioni a tale diritto e l’affermazione contraria, che talvolta ancora si sente ripetere, è un errore volgare, però tali restrizioni sono andate via via aumentando, e, al carattere negativo, hanno aggiunto il carattere positivo.

 

Infatti mentre il c.c. impone alla proprietà restrizioni che consistono in divieti al proprietario di fare, e cioè in obblighi di pura astensione, si sono create di recente, a carico del proprietario, anche limitazioni positive e cioè obblighi di fare; basta ricordare a questo proposito le leggi sulle bonifiche, sulle trasformazioni fondiarie, sulle foreste e bacini montani e sul riordinamento degli usi civici.

Ma lo spirito informatore della nuova legislazione è stato sopratutto affermato dalla Carta del lavoro là dove dichiara che la produzione, e quindi la proprietà, è funzione di interesse nazionale con la conseguenza che l’organizzatore dell’impresa, e quindi il proprietario, è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato. Diretta applicazione di tale principio è l’art. 499 del nuovo codice penale che, col concorso di particolari circostanze, punisce, come delitto contro l’economia pubblica, l’atto del proprietario, il quale, distruggendo materie e prodotti agricoli e industriali propri ovvero propri mezzi di produzione, cagiona grave nocumento alla produzione nazionale o fa venir meno in misura notevole mezzi di comune consumo. Ma, partendo da questa verità evidente e benefica, che la proprietà sia anche una funzione sociale, non si può, a mio avviso, giungere a negare nella proprietà la nozione di diritto per sostituirvi unicamente quella di funzione.

E ciò per il motivo che se il solo concetto di funzione sociale si applica sul serio, si deve arrivare necessariamente a sopprimere la nozione del diritto. Ed a questo estremo è giunto qualche recente scrittore che ha sostenuto la identificazione tra società e individuo e ha concepito quest’ultimo come organo dello Stato. Ma con ciò si enuncia il comunismo integrale.

Tali idee sono, in fondo, un derivato della dottrina sostenuta, or sono diversi lustri, con strenuo vigore e con potenza suggestiva, da un alto intelletto, Leone Duguit, che tanta influenza ha esercitato sugli scrittori posteriori.

Egli ha cominciato col negare l’esistenza dell’individuo come valore che si afferma e si impone per riconoscere nell’individuo soltanto il soggetto passivo della legge la quale potrà metterlo, a seconda dei casi, in una situazione di vantaggio o di svantaggio.

Conseguentemente a tale principio il Duguit ha negato la nozione del diritto soggettivo e precipuamente il concetto di proprietà – diritto per sostituirvi unicamente il concetto della funzione sociale. L’uomo non ha diritti, la collettività non ne ha del pari, ma ogni individuo ha una certa funzione da compiere e perciò tutti gli atti che egli farà contrariamente alla sua funzione saranno socialmente repressi, mentre tutti gli atti ch’egli farà in armonia con la sua funzione, e cioè per compiere la funzione stessa, saranno socialmente protetti.

Procedendo con impeccabile conseguenzialità, il nostro autore nega la distinzione due volte millenaria tra diritto pubblico e privato, il concetto di sovranità come volontà dello Stato quale ente superiore agli individui, e a questi concetti, biasimati come metafisici, sostituisce il concetto di servizio pubblico; lo Stato non sarebbe più l’Ente sovrano che comanda, ma bensì un gruppo di individui che detengono una forza che devono impiegare a creare e amministrare i servizi pubblici.

Adunque il Duguit non decapita soltanto l’individuo, ma pure lo Stato, poiché lo riduce a un complesso di servizi pubblici e ne nega la sovranità, il ius imperii, nozione che, secondo il Duguit, sarebbe nel diritto pubblico ciò che è la concezione romanistica della proprietà nel diritto privato.

Ma questa dottrina sovversiva e materialista è contraria al Fascismo. Il Fascismo, come ben disse il Panunzio, è un grande fatto storico di conservazione rivoluzionaria, esso conserva, rafforza e riavvalora lo Stato e con ciò opera una restaurazione politica, mentre rivoluzionariamente innova e instaura l’ordine etico e giuridico del lavoro e della produzione.

Ma permane, tanto in diritto pubblico quanto in diritto privato, il concetto d’individuo; basta ricordare che tra i principi della Carta del lavoro, documento che segna la via alla legislazione del Regime e all’interpretazione della legge, v’è quello per cui gli obiettivi della produzione si riassumono nel benessere dei singoli e nello svolgimento della potenza nazionale, quello per cui lo Stato Corporativo considera l’iniziativa privata come lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della produzione e infine quello per cui l’intervento dello Stato nella produzione ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata.

Dunque, non soppressione dell’individuo, ma subordinazione dello stesso ai fini dello Stato. E la subordinazione, essendo un rapporto, implica l’esistenza dei due termini.

La proprietà, come ogni altro diritto, dovrà avere quelle limitazioni che sono richieste perché essa adempia alla sua funzione sociale, ma, fermo ciò, essa è pure un diritto e cioè una manifestazione di potere del suo titolare >

(A. Nattini, Riflessioni generali sulla nuova codificazione, in Riv. dir. civ., 1934, pp. 157- 159).

È appunto seguendo questo disegno che si interpretano le norme del Lib. (prima II, poi) III della proprietà. Ma mentre nelle pagine della «Relazione al Re» si illustrano con diffusa analisi i principi corporativi cui si ispirerebbe la disciplina nuova della proprietà, codificati dagli artt. 38 ss., le norme del codice nel loro complesso non modificano sostanzialmente il modello e il concetto di proprietà che il fascismo aveva ereditato dal passato.

R.C.R., p. 16 – Nella compilazione del titolo relativo alla proprietà, la Commissione non ha mancato di tener presente la dichiarazione VII della Carta del lavoro, che «considera l’iniziativa privata nel campo della produzione come lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della Nazione» e ha ritenuto che la proprietà, quale base solida ed elemento propulsore della detta iniziativa, debba trovare nel c.c. la sua più sicura tutela.

Il progetto, pertanto, ha avuto cura di eliminare o di modificare le disposizioni che più non rispondono alle moderne esigenze della convivenza sociale, dell’agricoltura, dell’edilizia e delle industrie, e altre ne ha aggiunte in relazione alla funzione sociale che è assegnata in Regime Fascista alla proprietà.

R.R., n. 20. La proprietà, che dà la denominazione a questo libro del codice, ne costituisce anche la parte centrale e assorbente. E precisamente in questa parte è più palese l’influenza dei nuovi principi che ispirano la nostra legislazione, per modo che l’istituto attraverso la nuova disciplina viene ad assumere base e contenuto alquanto diversi da quelli che aveva nel passato.

Sono infatti le Dichiarazioni della Carta del lavoro che danno nuova base all’istituto fondamentale della proprietà, le cui origini si confondono quasi con le origini dell’umanità, e che stende le sue radici, come già si osservò, nell’ordinamento stesso della famiglia, che il Fascismo vuole forte e fiorente, perché la sua forza e la sua floridezza sono forza e floridezza dello Stato.

Vi sono indubbiamente degenerazioni del concetto di proprietà, le quali devono essere condannate e impedite, ma la condanna degli accessi e delle degenerazioni non è condanna dell’istituto. Di questo la dottrina individualistica fece quasi il simbolo della sovranità privata come contrapposta a quella dello Stato. La proprietà era annoverata fra i pretesi diritti naturali dell’individuo e nella famosa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, inclusa nelle costituzioni dell’epoca della Rivoluzione francese, fu solennemente indicata come fondamentale e imprescrittibile diritto, accanto all’eguaglianza e alla libertà. La proprietà fu, anzi, detta base stessa di tutte le altre libertà individuali: libertà di contratto, libertà di testamento, ecc.

Da queste premesse doveva necessariamente derivare la nozione, almeno teorica, della più illimitata libertà del proprietario di disporre delle proprie cose, libertà che non poteva essere vincolata o ristretta, senza sopraffazione dell’individuo. Il diritto di proprietà fu costruito come il più esteso, il più assoluto, il più pieno dei diritti, comprendente facoltà non suscettibili di limitazioni, se non di quel tanto che fosse necessario per consentire agli altri l’esercizio di eguali diritti. Erano in sostanza soltanto i rapporti di vicinanza che potevano giustificare qualche limitazione, di carattere puramente esterno, che non importava perciò restrizione al contenuto interno illimitato del diritto.

Naturalmente questa concezione teorica non poteva avere nella pratica attuazione piena e le limitazioni in realtà non sono mai mancate; col tempo sono andate anzi crescendo, perché imposte dalle necessità di ordine sociale. La nozione del limite è del resto coeva a quella del diritto, e quindi limiti vi erano anche nei precedenti ordinamenti, che pure erano ispirati alla concezione teorica che faceva del diritto di proprietà il diritto più assoluto.

R.R., n. 21. Il nostro ordinamento, ispirato ad altre idealità, riconosce e tutela la proprietà privata non quale diritto innato dell’individuo. Come tutti gli altri diritti, anche quello di proprietà ha una finalità di carattere sociale per cui l’ordinamento giuridico li conferisce all’individuo. È l’interesse della società nazionale che, insieme con quello del singolo, il diritto tutela.

Proprietà e autonomia privata sono concetti stranamente legati e su di essi si basa la disciplina del diritto patrimoniale, che forma una unità inscindibile. Dell’una e dell’altra, l’individualismo fece l’espressione del potere di volontà dell’individuo, potere pieno e illimitato. Oggi l’unità del diritto patrimoniale muove dal concetto che vede in ogni individuo il produttore il quale vive in una società fortemente organizzata e diretta dallo Stato. Egli deve quindi vivere non già per sé solo, ma in perfetta armonia con gli altri membri della società nazionale, verso la quale ha doveri che sono immanenti nei suoi diritti.

R.R., n. 22. La base di tutto il nuovo nostro diritto patrimoniale, la configurazione del diritto di proprietà e la determinazione del contenuto concreto di questo derivano dai principi affermati nella Carta del lavoro.

La dichiarazione VII pone il principio che «lo Stato corporativo considera l’iniziativa privata come lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della Nazione». Dalla dichiarazione II risulta che il «lavoro sotto tutte le sue forme è un dovere sociale » e che «il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale: i suoi obiettivi sono unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale».

Nella dichiarazione VII è detto che «l’organizzazione privata della produzione essendo funzione di interesse nazionale, l’organizzazione dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato».

La stessa Dichiarazione parla della «collaborazione delle forze produttive». La funzione sociale dell’attività del singolo, il dovere del lavoro, l’unità della produzione, la solidarietà degli interessi fra i partecipanti alla produzione stessa, la responsabilità dell’imprenditore verso lo Stato sono i principi ai quali l’istituto della proprietà privata è legato, i criteri direttivi della disciplina, dell’istituto del nuovo codice.

R.R., n. 23. La proprietà è riconosciuta e protetta perché è considerata come lo strumento più efficace e più utile per la produzione. Il diritto di proprietà acquista così la sua base sociale. L’interesse individuale e quello pubblico si intrecciano e si integrano. I beni devono essere diretti alla produzione e il proprietario non può impiegarli a fini puramente egoistici, ma deve usarli in modo che producano la propria utilità e concorrano al raggiungimento di quei fini unitari. Il dovere del proprietario si completa con la responsabilità che egli assume verso lo Stato, alla quale fa riscontro la tutela efficace che lo Stato assicura, perché è tutela dell’individuo che si risolve in tutela dell’interesse generale.

Ed ecco che così la proprietà privata si manifesta, quale è, istituto di carattere eminentemente sociale, che ha anche il suo contenuto profondamente etico e altruistico, a torto troppe volte negato.

Per questo «l’ordine corporativo rispetta il principio della proprietà privata. Questa completa la personalità umana. È un diritto e, se è un diritto, è anche un dovere, tanto che noi pensiamo che la proprietà privata deve essere intesa in funzione sociale. Non dunque la proprietà passiva, ma la proprietà attiva che non si limita a godere i frutti della ricchezza, ma li sviluppa, li aumenta, li moltiplica. La proprietà privata e l’iniziativa privata sono rispettate, ma l’una e l’altra devono essere dentro lo Stato, che solo può proteggerle, controllarle, vivificarle».

R.R., n. 24. Da questi capisaldi discende tutta la disciplina dell’istituto della proprietà privata, che non è più ispirata alla esclusiva tutela di interessi individuali. L’interesse pubblico vi domina e porta a una serie di limiti e di oneri nell’interesse della produzione e della economia nazionale, mentre altri limiti sono imposti dall’equo regolamento dei rapporti giuridici.

Le limitazioni al diritto di proprietà non costituiscono una novità. Abbiamo già notato che sotto la spinta di necessità di ordine sociale negli ultimi decenni esse so- no andate sempre crescendo, nonostante la nozione rigidamente individualistica che era a base del vecchio diritto. Ma la nostra nuova legislazione non rappresenta una semplice continuazione di questo indirizzo. Caratteristica della nuova legislazione non è l’aumento delle restrizioni del diritto di proprietà, ma il mutamento del carattere di tali restrizioni. Queste non consistono soltanto in limitazioni e divieti, cioè limiti esteriori al diritto di proprietà, ma assumono spesso il carattere di obbligazioni positive, non soltanto di tollerare o di non fare, ma altresì di fare. L’interesse pubblico così non funziona soltanto da limite, ma dà anche il contenuto stesso del diritto individuale. Il diritto di proprietà ha in se stesso il dovere, e il dovere importa responsabilità.

Questa trasformazione del diritto di proprietà, diventato fonte di doveri veri e propri, corrisponde del resto alla concezione etica della dottrina fascista. Mentre in passato la nozione del diritto era accompagnata da quella del limite, non esistendo diritti che non abbiano limiti, la dottrina fascista va oltre e unisce alla nozione del diritto quella del dovere, che anzi fa precedere alla nozione del diritto. Ciò importa che l’esercizio del diritto sia fatto in conformità della finalità sociale per cui il diritto è riconosciuto dall’ordinamento giuridico.

Nel diritto di proprietà il dovere riflette l’utilizzazione delle cose, per conseguire la massima produttività in guisa che la maggiore utilità che l’individuo trae da essa coincida con la maggiore utilità sociale. Questo dovere implica necessariamente la responsabilità del proprietario verso lo Stato.

R.R., n. 25. Se il diritto di proprietà che il nostro ordinamento riconosce e tutela è la proprietà attiva che sviluppa, aumenta e moltiplica i frutti della ricchezza, ne consegue che un elemento del diritto della proprietà è costituito dal lavoro. Il titolare del diritto non può rimanere inerte, così come fu dichiarato da uno dei commissari nel corso dei lavori preparatori del codice francese «il proprietario di una cosa può usarne come vuole: la conservi o la distrugga, ne è padrone assoluto». Nell’ordinamento dell’Italia Fascista non è così. Il lavoro è un dovere sociale e il proprietario deve provvedere all’utilizzazione dei propri beni, per conseguirne la massima produttività.

La Dichiarazione VII della Carta del lavoro afferma perciò che, essendo «l’organizzazione privata della produzione una funzione di interesse nazionale», l’organizzatore è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato. È una responsabilità che deriva dal fatto che gli individui, pure perseguendo l’interesse privato di propria spettanza, provvedono insieme a un interesse generale. L’iniziativa privata è rispettata se compie la sua funzione, nel campo della produzione, di strumento utile nell’interesse generale. La tutela di questo interesse, quando l’iniziativa privata manchi, è data da sanzioni tra le quali la più grave è quella dell’espropriazione, che viene espressamente preveduta per il caso che il proprietario lasci improduttivi i propri beni (art. 29). Ma vi sono anche altre disposizioni del codice, che possono essere ricondotte al concetto di sanzione per la insufficiente iniziativa del proprietario. I consorzi obbligatori per il compimento di determinate opere, che da solo il proprietario non voglia o non possa compiere (artt. 53, 54, 105, 111), rientrano in questa categoria. Né sono trascurabili le sanzioni di ordine sindacale, mentre nelle leggi speciali sono concretamente determinati il modo e il contenuto dell’intervento dello Stato in determinati casi per ricondurre l’esercizio del diritto di proprietà nell’ambito dell’interesse generale, quando per fini egoistici particolari se ne sia allontanato.

La rilevanza sociale del diritto di proprietà porta con sé da un lato la tutela dell’ordinamento giuridico, e dall’altro una responsabilità più alta verso lo Stato.

R.R., n. 26. Il legame indissolubile che intercede fra interesse individuale e interesse sociale, e la costante subordinazione dell’uno all’altro, sono tratti caratteristici della nuova disciplina del diritto di proprietà.

Le esigenze dell’interesse pubblico hanno portato, da un lato, ad allargare la categoria dei beni demaniali e dei beni indisponibili: miniere, foreste, demanio idrico, ecc.; dall’altro, a ridurre in più ristretto ambito i poteri di disposizione riconosciuti al proprietario, a gravarli di oneri e di obblighi e a provocarne perfino, in determinati casi, il trasferimento coattivo. In questo senso hanno operato le leggi che disciplinano le bonifiche, le trasformazioni fondiarie, i limiti al frazionamento dei fondi rustici e quelle concernenti le foreste e i bacini montani, gli usi civici, il sottosuolo e lo spazio aereo, i contributi di miglioria.

I mezzi idonei alla tutela dell’interesse pubblico in concorso con quello privato possono essere, secondo le varie categorie di beni e le diverse situazioni di fatto, di carattere negativo, come i limiti legali e la servitù di diritto pubblico; di carattere positivo, come gli oneri in senso stretto e gli obblighi che il privato proprietario deve adempiere.

I mezzi di carattere negativo rispondono all’esigenza di circoscrivere o ridurre l’esercizio della proprietà privata quando ciò sia richiesto dall’interesse pubblico; quelli di carattere positivo rispondono all’esigenza di stimolare l’esercizio del diritto con la prospettiva di vantaggi o di sanzioni, mettendo a profitto l’interesse e l’attività del privato proprietario quale strumento attivo dell’interesse pubblico.

R.R., n. 27. Il contenuto delle restrizioni, che si concretano in limiti e obblighi, varia naturalmente secondo le diverse categorie di beni, in relazione all’importanza che essi hanno ai fini della produzione, in coordinamento con le esigenze della economia della Nazione. Ciò non vuol dire che vi siano tanti tipi di proprietà quanti sono i gruppi di beni. Il concetto di proprietà è unico e in esso è insito il concetto di limitazioni e di obblighi, ma le une e gli altri variano praticamente secondo la natura dei beni. A questo concetto allude precisamente l’art. 2.

Non solamente sotto il profilo di un interesse pubblico da proteggere, ma anche di conflitto fra interessi privati da regolare, la nuova disciplina del codice considera come base e limite della tutela del diritto di proprietà un interesse socialmente apprezzabile. Non è quindi ammissibile, da parte del proprietario del suolo, la pretesa di escludere attività di terzi che si svolgano a un’altezza o profondità tale da non limitare l’effettivo godimento del fondo. Nello stesso modo non sono ammissibili atti che, sotto la specie dell’esercizio della proprietà, non possono in realtà avere altro scopo che il danno o la molestia altrui (atti d’emulazione). D’altro lato, non può il proprietario impedire ad altri l’esercizio normale dei propri diritti, quando di questi l’uso sia ispirato alla funzione sociale a cui la cosa è destinata.

Sotto tale profilo, il proprietario deve tollerare quelle immissioni la cui necessità e inevitabilità sia da riconoscere siccome avente carattere generale in relazione all’ambiente e alle condizioni di tempo e di luogo.

R.R., n. 28. Infine l’esercizio della proprietà privata, oltre che essere informato negativamente a spirito di socialità – dove al vantaggio proprio sia collegata l’eventualità di un danno altrui – deve anche positivamente ispirarsi a solidarietà e a collaborazione dovunque le situazioni di fatto rendano possibile una sana e feconda unione di forze. Quando fra più proprietari fondiari sussista un interesse comune, sia all’esecuzione, alla manutenzione o all’esercizio di opere di bonifica o di miglioramento fondiario, sia alla derivazione e all’uso dell’acqua o al prosciugamento o all’uso delle acque defluenti dal medesimo bacino o dai bacini contigui, la collaborazione si rende necessaria e se non sia realizzata spontaneamente nella forma di consorzi volontari, può essere imposta dall’autorità mediante costituzione di consorzi coattivi. Altra situazione tipica adatta allo sviluppo di una collaborazione sotto forma di servizi reciproci tra fondi si ha nei rapporti di vicinanza; e le servitù coattive ammesse nell’interesse privato non configurano soltanto un regime negativo di difesa della proprietà, ma anche un regime positivo di servizi necessari o utili per la gestione economica della proprietà altrui.

R.R., n. 29. All’idea di una vasta solidarietà sociale si riconduce anche il principio per cui ai vantaggi collegati all’esercizio del diritto sono correlativi specifici oneri e obblighi. Così, quando vengano eseguite opere di bonifica non dichiarate di competenza dello Stato od opere di regolamento di corsi d’acqua o di riparazione o rimozione
a essi relative, ciascun proprietario interessato è tenuto a contribuire alla spesa in proporzione del vantaggio che ne ricava. Se un incremento di valore non derivi al fondo da impiego di capitale o lavoro da parte del proprietario, ma sia occasionato dall’esecuzione di un’opera pubblica, è dovuto dal privato avvantaggiato un contributo di miglioria. Anche qui al diritto reale si congiunge un rapporto d’obbligazione che ristabilisce l’equilibrio sociale mediante un corrispettivo.

In conformità della nuova concezione della proprietà, ispirata a finalità di utilità generale, il nuovo codice non poteva non estendere l’ambito della disciplina che si riconnette con la proprietà. Questa più ampia disciplina della materia poneva un problema tecnico-legislativo di particolare rilevanza circa il modo di attuarla. Una via – certo la più semplice – sarebbe stata quella di far una semplice menzione dei nuovi istituti e rimandare quindi per la concreta regolamentazione di essi alle leggi speciali. È chiaro però che con questo sistema non si sarebbe raggiunto lo scopo essenziale di inquadrare nel testo legislativo i vari aspetti del diritto di proprietà

Si poteva seguire anche un procedimento opposto, e cioè introdurre nel codice l’intera disciplina di questi istituti, ma ciò avrebbe innanzi tutto alterato l’armonia e la proporzione fra le diverse parti di esso. Inoltre si sarebbe dovuto comprendere nel codice un complesso di norme di carattere prettamente tecnico ovvero di natura amministrativa, attesa la particolare configurazione di taluni istituti e i rapporti che essi vengono ad avere, nella loro attuazione, con gli organi della P.A. Escluse queste due soluzioni, si profilava chiaro il vantaggio della soluzione intermedia, che ha avuto accoglimento nel testo legislativo. In questo, alcuni particolari aspetti della disciplina dei singoli istituti sono stati regolati nei loro punti essenziali, sufficienti a fissarne le linee caratteristiche, ma si è lasciato alle leggi particolari l’ulteriore regolamentazione, che è estranea alla natura e alle finalità stesse del codice, ed è anche soggetta a modificazioni e ad aggiornamenti che possano rendersi necessari per adeguare i precetti legislativi a quelle che sono le mutevoli esigenze della vita della Nazione. La soluzione adottata ha indotto quindi a portare nel codice alcune regole generali che ora si trovano nelle leggi particolari. Questa ripetizione può apparire a taluno non completamente soddisfacente, ma è di natura provvisoria, perché è chiaro che le leggi particolari, nelle successive loro rielaborazioni, non avranno più bisogno di stabilire quello che è già fermato nel codice, bensì a questo semplicemente di fare riferimento.

R.R., n. 31. Particolare menzione merita la materia concernente la bonifica. Questa costituisce uno dei rami più efficaci per la valorizzazione e il potenziamento dell’economia rurale. L’avere visto e affrontato questo problema secolare in tutta la sua ampiezza e complessità, e l’avere con larga visione adottato i mezzi più adeguati per risolverlo, costituisce merito imperituro del Regime. «La bonifica integrale del territorio nazionale è una iniziativa, il cui compito basterà da solo a rendere gloriosa, nei secoli, la Rivoluzione delle Camicie Nere». Non poteva quindi il nuovo codice, espressione concreta e vitale di tutte le forze produttive della Nazione, ignorare gli aspetti giuridici di questo problema, così intimamente legato allo sviluppo dell’agricoltura, che costituisce una delle basi fondamentali non solo dell’economia bensì della vita della Nazione > .

C’è quindi una continuità – e non solo ideale – tra la disciplina del Codice civile In vigore e quella prevista dal Codice civile del 1865.

L’orientamento della codificazione civile del 1942 diverge, quindi, da quello proprio della codificazione del 1865, nella quale si ritrovava una definizione esplicita del diritto di proprietà (art. 436: «La proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti»). Non sfugge, tuttavia, la stretta analogia formale dello schema su cui sono ricalcate entrambe le definizioni, sì che è stato possibile sostenere tanto che nessuna novità poteva ritrovarsi nel passaggio dall’una all’altra codificazione, data la permanenza di uno schema per sé solo capace di attestare la continuità con la tradizione; tanto l’opposta tesi di chi ritiene sostanzialmente mutato il punto di vista prescelto dal legislatore del 1942 nella considerazione dell’antico diritto, proprio in ragione della significativa variante apportata all’interno dello schema tradizionale (ci si riferisce, infatti, al «proprietario» e non più alla «proprietà»).

Indagando in questa direzione, è necessario ricordare che la disciplina della proprietà, nell’ordinamento giuridico italiano, è contenuta nella Costituzione, nel c.c. e in numerosissime leggi speciali. Di questa ricchezza di norme lo studioso del problema non può non tenere conto: commetterebbe un errore gravissimo ritenendo possibile una ricostruzione dei lineamenti del diritto di proprietà che prescindesse da questa complessa situazione legislativa, e fosse fondata soltanto su alcuni dei testi indicati.

Tuttavia, già dal semplice confronto tra il nuovo e il vecchio codice ci si avvede che, pur nel divario esistente tra dichiarazione programmatiche e realizzazioni positive, si è in presenza di un mutamento abbastanza netto rispetto alle concezioni del passato.

L’art. 436 c.c. del 1865 era così concepito: «La proprietà è il diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta, purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti». Questa definizione altro non era che la traduzione letterale di quella contenuta nell’art. 544 del Code civil («La propriété est le droit de jouir et de disposer des choses de la manière la plus absolue, pourvu qu’on n’en fasse pas un usage prohibé par les lois ou par les réglements»): essa rifletteva, quindi, un ordine di valutazioni che già negli anni intorno al 1865 appariva a più d’uno del tutto superato, per i profondi mutamenti intervenuti nei fatti e nelle idee dopo l’inizio del secolo, sollecitando un lavoro di riforma che si concluderà solo nel 1942. Una delle quistioni più controverse, in questo lungo lavoro di riforma, fu costituita proprio dalla definizione legislativa del diritto di proprietà: se a tutti era pale- se l’inadeguatezza della definizione contenuta nel c.c. del 1865, mancava poi ogni accordo sulla formula da introdurre nel nuovo codice. Tra le numerose definizioni che furono proposte, da commissioni ufficiali o da singoli studiosi, merita d’essere ricordata quella contenuta nell’art. 18 del progetto preparato dalla Commissione

Reale: «La proprietà è il diritto di godere e disporre della cosa in modo esclusivo, in conformità della funzione sociale del diritto stesso. Il proprietario deve inoltre osservare i limiti imposti dalle leggi e dai regolamenti e i diritti spettanti ai terzi sulla medesima cosa».

Si ricorda questa definizione sia perché era contenuta nel più importante tra i vari progetti di codice che furono predisposti; sia perché fu quella che più attirò l’interesse e le critiche degli studiosi; sia perché, infine, dimostra come il concetto di «funzione sociale», più tardi introdotto nella Costituzione repubblicana, fosse presente pure ai nostri codificatori. Proprio su questo concetto si appuntarono le critiche più vivaci, osservandosi che il richiamo alla funzione stava meglio in un programma politico, che non in un codice; e sottolineandosi i rischi che sarebbero potuti derivare ai privati da una imposizione di obblighi o limiti fondati sulla funzione sociale.

Questo perché – a differenza dell’art. 42 della Costituzione – la definizione contenuta in quel progetto non affidava alla legge la definizione in concreto della funzione sociale: mancando il riferimento alla legge – si osservava – la determinazione della funzione sociale sarebbe stata affidata unicamente ai giudici (o agli organi dell’amministrazione), che avrebbero avuto poteri di intervento sulla proprietà privata tali da mettere in pericolo la protezione accordata ai proprietari e la stessa certezza delle relazioni giuridiche. Per questa e per altre ragioni si preferì tacere, in sede di redazione definitiva della norma, su ogni accenno alla funzione, e si giunse all’attuale formulazione dell’art. 832. Questa norma era accompagnata da una Relazione che, tra vari richiami alla Carta del lavoro allora vigente, sottolineava ripetutamente il carattere non più individualistico, ma sociale, della nuova disciplina della proprietà.

È possibile, a questo punto, riprendere l’interrotto discorso sul valore e sul significato della definizione contenuta nell’art. 832. Si può osservare, anzitutto, che la tesi dell’assoluta identità formale delle due definizioni è già contraddetta dal diverso  modo in cui esse si riferiscono al limite posto ai poteri di godimento e di disposizione.


Mentre l’art. 436 c.c. del 1865 lo fa consistere in «un uso vietato dalle leggi o dai regolamenti», l’art. 832 c.c. del 1942 parla di «limiti» e di «obblighi stabiliti  dall’ordinamento giuridico»: e questo è un rilievo di non piccola importanza, anche se è vero che la dottrina e la giurisprudenza anteriori all’entrata in vigore del c.c. vigente avevano talvolta interpretato l’art. 436 in un senso prossimo a quello dell’art. 832. L’art. 436, conformemente al concetto di proprietà tradizionalmente accolto, si era riferito unicamente alla possibilità di limitare negativamente i poteri del proprietario (uso vietato): mentre l’art. 832 ipotizza una situazione del tutto diversa, e cioè quella di una funzionalizzazione dei poteri in senso positivo (obblighi stabiliti…), assumendo così l’opposta posizione rispetto al fondamentale problema dell’atteggiamento che il legislatore può tenere nei confronti delle proprietà private.

Si noti, inoltre, che al riferimento alla «legge», contenuto in entrambe le definizioni, deve essere attribuito un valore sostanzialmente diverso, malgrado l’uso del medesimo termine. Nell’Ottocento, infatti, non soltanto i legislatori erano, in via di principio, assai più cauti nell’uso dello strumento legislativo, quando era in questione la limitazione di diritti dei privati; ma lo stesso ricorso alla legge era assai meno frequente di quanto non lo sia attualmente. Tutto ciò conferiva alla garanzia legislativa un valore assai maggiore di quello che oggi assume in società che, come la nostra, attribuiscono un significato «sacrale» molto minore a taluni diritti privati a contenuto economico, e la cui complessa organizzazione richiede un uso larghissimo dello strumento legislativo.

Vi è dunque una ragione tecnico-giuridica (aggiungersi degli obblighi positivi alle limitazioni negative) e una socio-politica (mutata funzione della legge) a giustificare la tesi di chi guarda alla definizione contenuta nella codificazione del 1942 come a una definizione sostanzialmente diversa da quella della codificazione abrogata.


In questa prospettiva, anche il riferimento al «proprietario» e non alla «proprietà», contenuto nell’art. 832, appare ben diverso da una mera variante terminologica, confermandosi come segno evidente della rottura con la concezione tradizionale e del consumarsi dell’antica visione giusnaturalistica nel positivismo legislativo. Il dato fondamentale, infatti, è ormai costituito dall’ordinamento che la legge può dare ai poteri attribuiti al proprietario. Il confronto tra la sistematica del c.c. del 1865 e quella del c.c. del 1942 è ancora una volta istruttivo: mentre l’art. 436 era seguito da una serie di norme che ribadivano il carattere esclusivo del diritto, e si ponevano esse stesse come limite a ogni intervento che potesse snaturarne l’essenza, l’art. 832 è seguito unicamente da norme che circoscrivono i poteri del proprietario, subordinando anzi il suo diritto a interessi di portata più generale (dal divieto degli atti emulativi all’espropriazione per pubblica utilità, alle requisizioni, ai vincoli e obblighi temporanei, agli ammassi, alla espropriazione dei beni interessanti la produzione nazionale o di prevalente interesse pubblico; artt. 833-38). Ciò non rispecchia soltanto l’erosione del contenuto del diritto di proprietà per motivi d’interesse generale: individua nel contenuto l’oggetto peculiare dell’attenzione legislativa.

Più che sull’essenza del diritto di proprietà, l’accento è, dunque, posto sul suo contenuto e sulla conseguente sua riduzione per motivi inerenti a considerazioni d’ordine sociale. In questo, piuttosto che nella prevalenza accordata a una considerazione soggettivistica, ci sembra debba essere ritrovato il carattere originale della codificazione civile del 1942.

 

È evidente che questo elemento di novità risalta con chiarezza minore di quanto non accada nella Costituzione, e nemmeno può essere sempre ritenuto frutto di una consapevole scelta del legislatore. Questi, certamente, ebbe presenti molti dei problemi che travagliano l’istituto della proprietà: ma, pur concedendo molto a una sistemazione che respingeva nella sostanza l’antico mito individualistico, mancò della coscienza della necessità di una piena revisione della categoria giuridica della proprietà. Fossero i tempi ancora non maturi, o insufficienti gli strumenti di cui i codificatori disponevano, certo è che questo porsi al bivio tra le idee vecchie e quelle nuove, senza abbracciare del tutto queste ultime e non abbandonando completamente quelle, impedì al nostro nuovo codice di porsi «come una svolta fondamentale dei nostri ordinamenti». Da qui non poche della difficoltà che l’interprete incontra nella sistemazione di alcuni dei suoi più complessi istituti.

È tempo, però, di chiedersi più particolarmente quali siano le trasformazioni di cui i testi legislativi offrono testimonianza, soffermandosi brevemente a considerare il senso e la funzione spettanti alla proprietà privata in una organizzazione sociale come la nostra. Tra i vari istituti giuridici, infatti, la proprietà è certamente uno di quelli che più direttamente riflettono i mutamenti delle condizioni economiche e sociali; e, quindi, uno di quelli considerati con attenzione particolare da filosofi, storici, economisti, sociologi > .

(S. Rodotà, Poteri dei privati, cit., pp. 367-371).

(* ) I materiali di lettura raccolti in queste pagine (che si devono ad Andrea Fusaro) sono prima parte di un capitolo del secondo volume di Poteri dei privati e statuto della proprietà (casa editrice S.e.a.m ),dove sono trattati gli argomenti che risultano dal circostanziato indice dell’opera.




INDICE  DEL  PRIMO  VOLUME

 

Nozione e rilevanza costituzionale

PREMESSA 7

 

CAPITOLO PRIMO

Per una definizione della proprietà 9

1.1 La proprietà nel vocabolario giuridico 9

1.2 La prospettiva costituzionale 20

1.3 Nel quadro dei diritti dell’uomo 22

1.4 Le new properties 29

 

CAPITOLO SECONDO

La proprietà nei modelli stranieri e attraverso la comparazione 45

2.1 La proprietà nei modelli stranieri notevoli 45

2.1.A) Property 45

2.1.B) Proprieté 66

2.1.C) Eigentum 74

2.2 Lo ius aedificandi 79

2.3 L’espropriazione 92

2.4 Le immissioni 100

2.5 Diritti e rimedi in prospettiva comparatistica 107

2.6 Il trust 119

2.7 Trasferimento della proprietà e sistemi di pubblicità 125

2.8 Il numero chiuso dei diritti reali 140

471

 

CAPITOLO TERZO

La prospettiva dell’analisi economica 149

3.1 Un metodo di studio della proprietà. L’analisi economica del diritto 149

3.1.A) Introduzione 149

3.1.B) Le premesse dell’analisi economica del diritto:

il teorema di Coase 151

3.1.C) Diritto di proprietà e teoria economica 161

3.1.D) Costi transattivi e disciplina della proprietà:

la tesi di Posner 165

3.1.E) Costi transattivi e disciplina della proprietà:

la tesi di Calabresi e Melamed 170

3.1.F) La letteratura successiva 178

3.1.G) Alcuni ripensamenti 180

3.2 I property rights nell’analisi economica 207

3.2.A) La prospettiva rimediale 207

3.2.B) Il matrimonio tra comparazione e analisi economica 210

3.2.C) In tema di property rights 228

3.3 Il numero chiuso dei diritti reali tra teoria economica e property law 235

3.4 Le new properties nell’analisi economica 252

 

CAPITOLO QUARTO

La funzione sociale della proprietà 257

4.1 La proprietà nella Costituzione repubblicana del 1948.

I lavori dell’Assemblea Costituente 257

4.2 Le diverse letture dell’art. 42 Cost. 262

4.3 Le garanzie costituzionali della proprietà privata 279

4.4 La funzione sociale della proprietà. Profili storici e ideologici 291

4.5 Proprietà privata ed espropriazione 297

4.6 L’occupazione acquisitiva 304

4.7 La funzione sociale e la «socialità» nella Costituzione 318

4.8 La funzione sociale e la Costituzione materiale 320

4.9 Gli statuti della proprietà e la disciplina dei beni 331

4.10 La funzione sociale alla vigilia del nuovo millennio 340

 

CAPITOLO QUINTO

La proprietà e le proprietà 357

5.1 La proprietà tra diritto soggettivo e interesse legittimo 357

5.2 La proprietà e le proprietà 365

5.3 La proprietà conformata e la proprietà vincolata 369

5.4 Titolarità individuale e fruizione collettiva (beni culturali

e ambientali) 381

5.5 La proprietà edilizia 386

5.5.A) Le peculiarità della proprietà edilizia 386

5.5.B) Il bene «casa» e il diritto all’abitazione 389

5.5.C) La disciplina urbanistica ed edilizia 400

5.5.D) La proprietà dei suoli urbani 409

5.6 La proprietà agraria 412

5.6.A) La proprietà agraria e la disciplina del Codice civile 412

5.6.B) La proprietà agraria nella Costituzione 415

5.6.C) La legislazione speciale del primo dopoguerra:

la riforma agraria 423

5.6.D) L’accesso alla proprietà contadina e il diritto di prelazione

a favore dei coltivatori diretti 426

5.6.E) La tipizzazione dei contratti agrari 432

5.7 La proprietà dei gruppi 437

5.8 La proprietà fiduciaria 456

5.9 La proprietà-garanzia 465

Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 470

INDICE DEL SECONDO VOLUME

 POTERI DEI PRIVATI E STATUTO DELLA PROPRIETA’ IL CODICE CIVILE E LE LEGGI SPECIALI

CAPITOLO PRIMO

Dal Codice napoleonico al modello contemporaneo 7

1.1 I poteri del proprietario nella definizione di «proprietà»

del codice napoleonico 7

1.2 Le definizioni di «proprietà» nei codici italiani preunitari 21

1.3 La proprietà nello statuto albertino 25

1.4 La disciplina della proprietà nel Codice civile italiano del 1865 29

1.5 Proprietà e impresa. La vicenda del conflitto tra proprietari

terrieri e imprenditori di trasporti ferroviari 45

1.6 Proprietà e intervento dello Stato. Le opere pubbliche

e i lavori pubblici 55

1.7 Le trasformazioni del diritto di proprietà: (a) La proprietà

come potere relativo, limitato dal diritto pubblico 60

1.8 (b) L’idea di «funzione sociale» della proprietà nelle elaborazioni

del socialismo giuridico 73

1.9 (c) La legislazione di guerra 83

1.10 (d) La funzione sociale nei testi costituzionali. La Costituzione

di Weimar 87

1.11 Verso una nuova definizione di proprietà. L’interventismo

corporativo e la codificazione del 1942 95

1.12 La legislazione speciale. Proprietà agraria e proprietà edilizia 115

1.13 L’evoluzione successiva 128

 

CAPITOLO SECONDO

 Una vicenda da concettuale: il numero chiuso dei diritti reali 149

2.1 Introduzione 149

2.2 La definizione di un dogma: la tesi di Venezian 152

2.3 Il diritto di cacciare sul fondo altrui. Uso e servitù irregolari 156

2.4 La trascrizione degli obblighi personali 171

2.5 Il principio del numero chiuso dei diritti reali sullo sfondo

della crisi del modello tradizionale di proprietà 183

2.6 Convenzioni di lottizzazione, asservimenti, cessioni di cubatura 207

2.7 La vicenda dei diritti reali nella dottrina recente 239

 

CAPITOLO TERZO

 L’oggetto del diritto di proprietà 251

3.1 La nozione di oggetto del diritto di proprietà 251

3.2 I limiti all’appropriazione 263

3.2.A) Res nullius, caccia e pesca, le energie 263

3.2.B) Lo statuto del corpo umano 268

3.2.C) L’informazione, i programmi per elaboratori 271

3.2.D) Suolo e sottosuolo 277

3.3 L’ambiente come bene 290

 

CAPITOLO QUARTO

 I limiti temporali al diritto di proprietà 301

4.1 La proprietà temporanea 301

4.2 La multiproprietà 308

 

CAPITOLO QUINTO

 Il contenuto dei poteri del proprietario 323

5.1 Le limitazioni nell’interesse pubblico 323

5.2 La disciplina urbanistica ed edilizia 357

5.2.A) Nozione e ambito dell’urbanistica 357

5.2.B) La facoltà edificatoria 384

5.2.C) Autonomia privata e disciplina urbanistica 394

5.3 Il potere dei privati di vincolare la destinazione d’uso dei beni 414

5.4 La legislazione vincolistica 423

5.5 Immissioni e tutela della salute 430

Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 446

 448