I materiali ferrosi fra sovranità nazionale e giudice comunitario.
PASQUALE GIAMPIETRO
 
Sommario: 1. Una 
situazione critica. 2. Le cause dell’incertezza. 3. Quali rimedi? 3.1. Il 
ricorso alle sentenze della Corte di Giustizia. 3.1.1. Natura ed effetti della 
decisione 11 novembre 2004. 3.1.2. Nuove aperture della CGCE sulla nozione di 
rifiuto. 3.1.3. “Materia prima secondaria” e prodotto finale. 3.1.4. Il c.d. 
“partito del tutto rifiuto”. 3.2. La efficacia “vincolante” delle sentenze della 
CGCE. 3.3. I rapporti tra ordinamento interno e sistema comunitario. 3.4. Cenni 
di dottrina. 4. La presa di posizione del Ministero dell’ambiente. 5. Norma 
interna difforme dal diritto comunitario e obblighi di applicazione della P.A. e 
della polizia giudiziaria. 6. Ancora sui doveri della Pubblica amministrazione.
 
1. Una situazione 
critica - Le vicende giudiziarie, susseguitesi negli ultimi tre anni, 
relative al sequestro dei rottami ferrosi ad opera delle Procure della 
Repubblica dislocate in alcune aree strategiche del Paese per il commercio di 
detto materiale1 - provenienti dall’estero e destinati alle fonderie e/o 
acciaierie italiane - hanno rappresentato un caso emblematico di difficoltà, 
non solo di natura economico-commerciale, a danno delle imprese 
direttamente interessate, ma anche di vera e propria crisi della 
fisiologica e doverosa cooperazione delle stesse istituzioni 
(politiche, amministrative e giudiziarie) coinvolte nella vicenda.
E’ appena il caso di ricordare, in proposito, due dati significativi circa la 
rilevanza sociale ed economica (imprese coinvolte, dipendenti e fatturato) di 
tale settore commerciale e della sua incidenza, diffusione e visibilità 
come attività “para-industriale”2:
a) “il mercato delle materie prime secondarie” (fra cui il materiale ferroso) “ 
è di vitale importanza per un Paese, come il nostro, che, povero di materie 
prime, impegna nei cicli produttivi circa il 50 per cento di materie prime 
secondarie derivanti dai rifiuti”3;
b) i rottami ferrosi, cioè i rottami di acciaio e di ghisa, a livello mondiale, 
sono di fatto i materiali più riciclati del mondo, con una circolazione, 
movimentazione e riutilizzo (rifusione) per 318 milioni di tonnellate annue 
(dati riferiti al 2003). 
Nel sistema Italia, ogni anno il settore del recupero dei rottami ferrosi e non 
ferrosi mette a disposizione dell’industria del riciclaggio (acciaierie, 
fonderie di metalli ferrosi, fonderie di metalli non ferrosi) 14,5 milioni 
circa di tonnellate di rottame che costituiscono il quantitativo attualmente 
disponibile nel nostro mercato (gettito nazionale), di cui 1/5 (pari 5 milioni 
di tonnellate) proviene dall’estero. 
Si evidenzia, inoltre, per maggior chiarezza, che, nel 2003, la produzione 
nazionale di acciaio grezzo a “forno elettrico”, cioè esclusivamente mediante 
la rifusione di rottami ferrosi, ha coperto il 63% della produzione 
nazionale di acciaio la quale, complessivamente, ha raggiunto i 26,7 
milioni di tonnellate, considerando, cioè, la somma delle produzioni da 
“forno elettrico” e di quelle da “convertitore all’ossigeno”4. 
Non è, dunque, sfuggito alle categorie degli operatori direttamente implicati, 
ma anche alla più larga platea dei cittadini attenti e partecipi alla vita del 
Paese, che:
- non sempre l’operato della polizia giudiziaria (di sequestro d’urgenza 
degli scarti ferrosi) e della Autorità inquirente ha trovato l’avallo della 
magistratura giudicante5;
- gli orientamenti espressi dal Dicastero dell’ambiente e della difesa 
del territorio, in più occasioni6, non hanno riscontrato sicura e condivisa 
accoglienza delle Pubbliche amministrazioni, regionali e locali, quando 
non sono stati del tutto contestati - ovviamente in quanto non vincolanti 
oltre che ritenuti illegittimi - da alcuni Uffici giudiziari7;
- il Governo (con decreti legge) e il Parlamento (in sede 
di conversione del d. l. n. 138/2002 o di legge di delega n. 308/2004, sul 
riordino della materia ambientale), hanno apertamente dissentito, nella 
definizione e regolamentazione dei residui di produzione o di consumo - come nel 
caso dei rottami ferrosi non considerati “rifiuto” - tanto da 
orientamenti minoritari della magistratura (soprattutto inquirente8) che dagli 
indirizzi interpretativi degli Organi comunitari9, introducendo, 
nell’ordinamento giuridico interno, norme da molti ritenute in rotta di 
collisione con quelle poste dalle direttive, secondo l’interpretazione che ne 
forniva la stessa Corte di Giustizia10.
2. Le cause dell’incertezza - Ma ci si potrebbe, a questo punto, 
domandare: da dove nasce tale e tanto “sconquasso”? Quali sono le possibili 
cause di così vistosi attriti istituzionali con le connesse pregiudizievoli 
ricadute sulla efficienza di quel settore commerciale?
La risposta, a ben vedere è, per il giurista, relativamente semplice e 
sufficientemente nota. Essa va ricercata, sul piano giuridico-formale, (anche)
nella permanente, elevata incertezza delle norme giuridiche applicabili 
alle operazioni di importazione, trasporto, sbarco, stoccaggio, movimentazione e 
riutilizzo dei rottami ferrosi, non risultando ancora…. “pacificamente” nota e, 
soprattutto, unanimemente condivisa, la loro natura (ovviamente 
giuridica) di “materia prima secondaria” (da intendere, più esplicitamente come 
“merce” contrapposta alla nozione di rifiuto). 
E’, infatti, del tutto evidente che, dalla preventiva qualificazione dei 
rottami - come (sotto)prodotto o rifiuto - discende una diversa 
regolamentazione, volta a disciplinare le descritte fasi (dalla raccolta al 
riutilizzo), connotate da distinti oneri burocratici ed economici, fonte, 
a sua volta, di diversificate responsabilità di natura amministrativa, civile, 
penale, fiscale, ecc. Tutto ciò non può ovviamente considerarsi indifferente per 
gli operatori, i quali hanno, di recente, fatto sentire la loro voce, chiedendo 
(non sostegno politico o provvidenze economiche ma….) semplicemente certezza 
giuridica “nella confusa e difficile normativa attuale”11 
A questo punto, ci si dovrebbe coerentemente chiedere: perché tale persistente e 
risalente…. incertezza normativa sulla qualificazione del rifiuto? 
Anche di tale quesito la risposta è, in parte, agevole: 
a) perché il fenomeno della gestione dei rifiuti (e, per correlazione, delle 
materie prime secondarie: non rifiuto) è stata fatto oggetto di discipline – 
giuridiche e tecniche - derivanti da ordinamenti diversi (norme internazionali,
comunitarie, nazionali, regionali) non sempre omogenee e coerenti;
b) perché molti sono gli interpreti di tali disposizioni, a diversi 
livelli, con distinti approcci (con riferimento agli interessi pubblici o 
privati da tutelare) e con diversa efficacia dell’atto interpretativo (parere, 
sentenza, contestazione, ecc., vincolanti o meno), con risultati spesso – e 
comprensibilmente – divergenti (tot capita tot sententiae)! Partendo dal 
basso, si pensi, nell’ordinamento interno, all’interpretazione/applicazione 
fornita dalle autorità amministrative e di governo, centrali e locali; dalle 
autorità di vigilanza e controllo; dagli organi di polizia giudiziaria; dalla 
magistratura ordinaria e amministrativa; dal legislatore nazionale (per es. con 
norme di interpretazione autentica, come l’art. 14, legge n. 178/2002), dalla 
Corte costituzionale12; e, nell’ordinamento comunitario, dalla Commissione U.E. e 
dalla Corte di giustizia13;
c) perché, come spesso accade, non sempre gli interessi pubblici e quelli 
privati convergono all’atto della loro ponderazione e componimento, in sede 
interpretativa della norma e/o della sua applicazione (anche se spesso il 
conflitto, come nella materia considerata, potrebbe risultare, per alcuni 
aspetti, apparente….: v. oltre). 
Tale complicato assetto istituzionale, che pure costituisce un modello 
elevato e maturo di democrazia (cioè di potere diffuso, decentrato e/o 
trasferito, all’interno dell’ordinamento ovvero dallo Stato nazionale alla 
Comunità europea), di fatto, ha generato e continua a generare possibili 
divaricazioni di “letture” e dunque incertezza e instabilità giuridica e della 
prassi (quando non contraddizione, fra le istituzioni, e paralisi del 
mercato). 
Con la ulteriore, infelice conseguenza che la normativa sulla gestione dei 
rifiuti – come di qualsiasi altra disciplina - anziché assecondare, stimolare 
e dunque potenziare il mercato (nel caso, del recupero dei rottami ferrosi),
lo deprime e, qualche volta, lo arresta del tutto, in manifesta 
dissonanza dai propositi stessi del legislatore, degli indirizzi del Governo e 
degli obiettivi dell’impresa! 
3. Quali rimedi? - Se, dalla spiegazione del fenomeno, si passa alle 
possibili proposte di soluzione – per diradare le delineate incertezze – le 
risposte proponibili mi sembrano connotate da considerevoli difficoltà e 
comunque non appaiono di breve periodo. Prima, peraltro, di esprimere la 
mia personale opinione, occorre diradare il campo dell’attuale, concitato 
dibattito14, da falsi problemi e da altrettanto inidonei suggerimenti. 
3.1. Il ricorso alle sentenze della Corte di Giustizia – Una prima 
soluzione assai problematica - che ha però incontrato il favore di una parte 
della magistratura (soprattutto inquirente) - riposa sull’affermazione di 
principio secondo cui, dopo la pronuncia della Corte di Giustizia dell’U.E., 
dell’11 novembre 2004, sulla definizione comunitaria di rifiuto e sulla 
incompatibilità dell’art. 14, legge n. 178/2002 cit., con tale nozione, tutti i 
problemi interpretativi sopra delineati, sarebbero risolti anche con riferimento
ai rottami ferrosi derivanti da scarti di lavorazione industriale o 
artigianale oppure originati da cicli produttivi o di consumo”, ex art. 1, 
commi 25 e 29, della legge n. 308/2004 cit.15
Sia perché la sentenza dell’alto Consesso affronta direttamente la portata e 
gli effetti derivanti dalla norma nazionale (art. 14 cit.), fornendo una 
definizione di rifiuto che potrebbe ricomprendere i rottami ferrosi; sia in 
quanto la decisione fornisce una interpretazione autentica di tale 
nozione, che sarebbe vincolante per gli Stati membri e, nel loro ambito, 
vincolante per la Pubblica Amministrazione e per gli Organi giudiziari16.
In definitiva, dopo tale pronuncia, potrebbe legittimamente procedersi, in sede 
amministrativa e giurisdizionale, alla disapplicazione dell’art. 14 cit. 
in considerazione del rilievo giuridico che le sentenze della Corte 
lussemburghese sarebbero, come accennato, immediatamente vincolanti e 
direttamente applicabili anche in sede giurisdizionale. 
3.1.1. Natura ed effetti della decisione 11 novembre 2004 – Occorre 
certamente prestare grande attenzione a questa sentenza, sia in considerazione 
degli interessi coinvolti dall’intervento dell’organo comunitario (mi riferisco 
soprattutto agli operatori dello specifico e consistente mercato del riutilizzo, 
riciclo, recupero dei residui e/o sottoprodotti industriali e di consumo, in 
generale, e dei rottami ferrosi, in particolare) sia perché, per quanto attiene 
al nostro Paese, essa era stata sollecitata proprio da un giudice italiano, 
ed aveva ad oggetto il significato e la portata dell’art. 1, comma 1, lett. a) 
della direttiva 75/442 CEE, come modificata dalla direttiva 91/156 CE17.
La conclusione cui è pervenuto quel Collegio, con la sua decisione 
“interpretativa”18, per la sua complessità ed importanza - sia in relazione al 
merito (di pesante chiusura verso la nozione di “materia prima secondaria” 
che viene, sostanzialmente, ricondotta in quella di rifiuto) che alla 
sua efficacia negli ordinamenti interni - giustifica, credo, qualche 
ulteriore approfondimento, per rimuovere alcuni equivoci e fornire ulteriori 
messe a punto. 
Nel rigoroso rispetto delle norme costituzionali del Trattato CE ed in 
conformità agli indirizzi del giudice comunitario e nazionale19 va, infatti, 
ribadito che la pronuncia del giudice lussemburghese ha natura di sentenza 
dichiarativa resa, in via pregiudiziale, ex art. 234 Trattato. Per ciò 
stesso, essa non riveste i caratteri della definitività e della 
irrevocabilità20. 
E’altrettanto assodato, in dottrina21 e nella giurisprudenza comunitaria, che 
non esiste un effetto generale (erga omnes) di tali sentenze, neppure 
nei confronti della Corte che le ha adottate, perché essa stessa non si sente 
formalmente vincolata dai propri precedenti22 che può tranquillamente smentire 
o cambiare. 
3.1.2. Nuove aperture della CGCE sulla nozione di rifiuto. Un esempio 
emblematico di tali revirement giurisprudenziali – che smentiscono tale 
presunta coerenza (di indirizzi interpretativi) e la “definitività” delle 
pronunce dichiarative - è stato fornito, di recente, dalla nota ordinanza della 
stessa Corte di Giustizia 15 gennaio 2004, proprio in tema di definizione 
della nozione di rifiuto, con riferimento alla qualificazione del pet 
coke. Quel Collegio, invero, svincolandosi, in modo netto, da un 
preesistente (non del tutto omogeneo), indirizzo restrittivo - come non hanno 
mancato di notare, anche se in chiave critica, autorevoli studiosi - introduce 
criteri accentuatamente innovativi che contraddicono precedenti assetti, 
e nella direzione opposta di restringere sostanzialmente (anziché 
ampliare), tale nozione23.
Non è, infatti, sfuggita l’assoluta novità del principio affermato in detto 
provvedimento secondo cui non è rifiuto quel materiale che venga 
riutilizzato “…. pur derivando da un processo di fabbricazione che non è 
principalmente destinato a produrlo”, tutte le volte in cui esso “… può 
costituire un sottoprodotto del quale l’impresa non ha intenzione di disfarsi, 
perché può sfruttarlo e commercializzarlo a condizioni per lei più favorevoli, 
in un processo successivo e senza operare trasformazioni preliminari”24.
Si tratta, mi permetto di rilevare, alla luce del chiaro tenore della 
motivazione, di una espressa e assai chiara rivalutazione, da parte del Giudice 
comunitario, dell’elemento soggettivo della volontà dell’imprenditore il 
quale – nella vicenda decisa - considerava il coke da petrolio (ma lo stesso è a 
ripetersi per il materiale ferroso), non un materiale di cui “disfarsi”, 
ma una materia “prodotta volontariamente” e consapevolmente di cui l’impresa, da 
tempo .., intende riutilizzare (nel caso del pet coke) “con certezza come 
combustibile per il fabbisogno di energia della propria raffineria o di altre 
industrie” (espressioni tratte dalla massima). 
Tale valorizzazione della volontà del produttore viene giustamente 
esaltata, dalla Corte, non solo nel caso di riutilizzo diretto del 
sottoprodotto, per es. all’interno della raffineria di provenienza, ma anche 
allorché il detentore del residuo produttivo intenda destinarlo presso altri 
processi produttivi (a cui, negli esempi fatti, tanto il coke che il 
materiale ferroso possono essere ceduti), con univoco superamento del 
precedente limite giurisprudenziale, del tutto irragionevole sul piano 
tecnico e giuridico, secondo il quale il riutilizzo del sottoprodotto doveva 
necessariamente avvenire, “tal quale”, all’interno dell’insediamento e “nel 
corso del processo di produzione”.
In definitiva, non può sfuggire che il provvedimento sul pet-coke si pone nel 
solco di un orientamento del giudice comunitario che, dopo le prime chiusure 
segnate dalla sentenza Tombesi del 25 giugno 1997 (per cui tutti gli “oggetti e 
le sostanze di cui il proprietario si disfi “ sono da considerare rifiuto “.. 
anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a 
fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo”, anche all’interno 
dell’insediamento”: v. punto 52), ha espresso delle rilevanti aperture, 
soprattutto con la sentenza 18 aprile 2002, Palin Granit Oy, per la quale 
sono esclusi da tale nozione “ i sottoprodotti il cui riutilizzo sia certo.. 
senza trasformazioni preliminari e nel corso del processo produttivo” (v. 
punto 36). 
Ebbene, l’ordinanza del 15 gennaio 2004 (sul coke) richiama tale precedente e 
lo porta alle logiche e coerenti conseguenze quando, nel rispetto di dette 
condizioni, estende l’esclusione in favore di quei materiali che vengano 
effettivamente riutilizzati anche presso terzi. In tal senso, peraltro, 
poteva essere letto anche un passo specifico della decisione Palin Granit (punto 
34 della motivazione) ove si legge che il produttore del sottoprodotto potrebbe 
volerlo “sfruttare o commercializzare a condizioni a lui favorevoli, in un 
processo successivo, senza trasformazioni preliminari”25. 
3.1.3. “Materia prima secondaria” e prodotto finale. Nel novero di tale 
indirizzo collocherei anche la successiva decisione del giudice comunitario 
dell’11 settembre 2003, Avesta Polarit Crome26 ove, con riferimento ai detriti 
e alla sabbia di scarto derivanti da una attività mineraria (di estrazione del 
cromo da un materiale grezzo sottoposto a perforazione, digrossamento e 
raffinazione), si riconosce la natura di non rifiuto (sottoprodotto) ai 
detriti e sabbia riutilizzati tal quali “per un necessario riempimento di 
gallerie della miniera “(per sostenerle) mentre….. agli stessi detriti e 
sabbia “che saranno trasformati in conglomerati” viene attribuita la 
qualifica di rifiuti.
La spiegazione di tale anomalia è rappresentata dalla considerazione che: 
1) i primi residui “sono utilizzati come materia nel processo 
industriale minerario… non possono essere considerate sostanze di cui il 
detentore si disfi o abbia intenzione di disfarsi… il gestore della miniera 
può identificare fisicamente i residui che saranno effettivamente utilizzati 
nelle gallerie e fornisce all’autorità garanzie sufficienti di tale riutilizzo 
(punti 37/39)”; mentre,
2) i secondi sono rifiuti “in quanto la loro utilizzazione per operazioni 
di costruzione o per altri usi è incerta.. “ e quanto “……ai detriti che saranno
trasformati in conglomerati, poiché anche quando una tale utilizzazione 
sia probabile, essa necessita precisamente di un’operazione di recupero di una 
sostanza che, come tale, non è utilizzata né nel processo di produzione 
mineraria, né per l’uso finale previsto” (punto 41). 
Non può sfuggire ad una più attenta riflessione che la distinzione operata dal 
giudice comunitario sub 1 e 2 contiene delle forzature e delle incoerenze che 
non possono essere condivise. Si rifletta, in particolare che, in entrambe 
le ipotesi, l’utilizzo dei residui da attività mineraria riguarda:
- gli stessi prodotti (detriti e sabbia);
- con la stessa natura e provenienza - e dunque con una identico rischio 
ambientale;
- di cui il detentore non intende disfarsi e che effettivamente 
riutilizza (per riempimento di gallerie o per realizzare conglomerati 
cementizi). 
Si argomenta, da parte della Corte, che i primi sono utilizzati nel 
medesimo processo industriale minerario e gli altri no perché sarebbero 
sottoposti ad un trattamento di recupero. Ma anche tali spiegazioni non mi 
sembrano probanti. 
I detriti e le sabbie destinati a riempire le gallerie (svuotate dall’estrazione 
del minerale) sono oggetto di una attività di bonifica e sistemazione ambientale
che non ha nulla a che vedere – sul piano oggettivo (merceologico e 
classificatorio) - con la distinta attività mineraria di estrazione del cromo 
(anche se la legge prevede l’obbligo di ripristino delle miniere e delle cave). 
Si presenta dunque approssimativa e metaforica l’osservazione della Corte circa 
un “residuo utilizzato come materia” nello stesso “processo industriale”. 
Mentre per i detriti e sabbie utilizzati per la produzione dei conglomerati (secondo 
caso), non ritengo giuridicamente appropriato affermare che essi sono 
sottoposti a recupero e dunque resterebbero nell’area dei rifiuti. Sembra, 
infatti, corretto obiettare che anche quei residui vengono utilizzati “tal 
quali”, come materia prima secondaria, unitamente ad altre materie prime 
(primarie o secondarie) impiegate per fabbricare conglomerati cementizi 
(prodotto finale). 
Tanto il cemento che il calcestruzzo costituiscono agglomerati di materiali 
greggi: il primo, formato da calcare e argilla e, il secondo, da cemento, sabbia 
e ghiaia. Ciascuna di tali componenti rappresenta una materia prima 
(primaria o secondaria) che resta tale anche se si trasforma in un distinto (e 
diverso) prodotto “finale”: appunto il calcestruzzo. 
E’ pertanto tecnicamente e giuridicamente improprio parlare delle sabbie come 
rifiuto, prima di essere “recuperate” nel prodotto “finale” (“conglomerato”).
Sarebbe, invece, più corretto definire il fenomeno come utilizzo di distinte 
materie prime (primarie o secondarie: sabbie, ghiaia, detriti) per realizzare un 
prodotto finale: cemento (che non esiste in natura), tenendo concettualmente 
distinto il prodotto (finale) dalle singole materie prime che lo 
compongono: è stato lo stesso giudice comunitario ad avvertire che, in alcuni 
casi, il residuo produttivo o di consumo si presenta come sottoprodotto, cioè, 
più propriamente come “beni, materiali o materie prime che, da un 
punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da 
qualsiasi trasformazione” [punto 35 della sentenza Palin Granit Oy cit.) 
Resta da segnalare, sempre in tema di (asserita) coerenza delle pronunce 
pregiudiziali del giudice comunitario che, da ultimo, con sentenza del 7 
settembre 2004, la stessa Corte, invitata a ridefinire la nozione 
comunitaria di rifiuto in un episodio di idrocarburi infiltrati nel suolo, ha “equiparato 
il termine sito contaminato con il termine rifiuto…..” , con la conseguenza 
che “ai siti contaminati si applica quantomeno la normativa sui rifiuti” 
27
Di fronte a tali significativi revirement giurisprudenziali, non mi 
sembrano dunque del tutto giustificate le preoccupazioni di chi obietta, per es., 
che “l’ordinanza sul pet-coke potrebbe prestarsi ad avallare la condotta di quei 
produttori di rifiuti che, per sottrarsi ai rigori della legge, 
dichiarino di aver programmato l’ottenimento di determinati residui così da 
giustificare un loro <<riutilizzo>> eseguito al di fuori dei controlli 
preventivi della pubblica amministrazione”28. 
Non solo, sul piano metodologico, le preoccupazioni dettate dalla scarsa 
efficienza dei sistemi pubblici italiani - di controllo preventivo - non possono 
incidere, né poco né molto, sul problema ermeneutico di una corretta 
ricostruzione di una nozione giuridica comunitaria e nazionale, così come 
esplicitamente e univocamente individuata nell’ordinanza de qua29; ma 
anche in considerazione del fatto che le imprese che “programmano” di recuperare 
determinati residui, quali il pet coke o il materiale ferroso, non lo fanno, 
normalmente, per eludere la legge… ma, molto più realisticamente, perché 
trovano un rilevante tornaconto economico a “non abbandonare nell’ambiente” quel 
prodotto (sia esso voluto sia esso “il risultato finale di una scelta tecnica” 
pur sempre adottata e quindi voluta), ma a esitarlo, tal quale (ovvero previe 
operazioni di recupero), presso terzi30.
3.1.4. Il c.d. “partito del tutto rifiuto”. L’ordinanza 15 gennaio 2004 
sul pet coke, proprio per la sua forte apertura verso il mercato del 
sottoprodotto (estraneo alla disciplina dei rifiuti), non è piaciuta al “partito 
del tutto rifiuto”, per usare, in senso rovesciato, la mediocre e fuorviante 
metafora introdotta da chi si batte per una categoria allargata di tale nozione, 
etichettando, sotto la denominazione indistinta del “partito del non rifiuto”, 
tutti coloro che (di fatto, la maggioranza degli studiosi, della magistratura, 
delle forze politiche [di entrambi gli schieramenti]ed istituzionali) optano per 
una sua lettura più congrua, ragionevole “e sostenibile”. 
Nel tentativo di screditare una pronuncia non gradita, si è innanzitutto 
sottolineato che “…in realtà le motivazioni della corte appaiono poco 
convincenti,… l’ordinanza risulta quanto meno non congrua rispetto al principio 
che essa afferma… Risulta peraltro che questo ordinanza è comunque 
inaccettabile nella sostanza proprio alla luce della pregressa e 
consolidata giurisprudenza della corte”31. 
Essa infatti si porrebbe in vistosa contraddizione con il principio basilare 
secondo cui .. “ l’effettiva esistenza di un rifiuto, ai sensi della direttiva, 
va accertata… tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non 
pregiudicarne l’efficacia” e sulla considerazione che la Corte abbia tradito i 
suoi precedenti (“ Tale principio, infatti, così come formulato, non risulta 
affatto dalla giurisprudenza pregressa…”), il noto Autore prospetta due 
possibilità: 
“a) la corte .. ritiene il pet coke direttamente un prodotto in base al 
principio che è prodotto volontariamente e viene utilizzato con certezza nel 
processo di produzione. Se così, si tratta di una novità perché mai 
la corte aveva affermato questo principio di identificazione del prodotto. 
Questa conclusione va, quindi scartata, perché, essendo innovativa, non 
si sarebbe potuta affermare con una semplice ordinanza motivata…”; 
“b) la corte ritiene il pet coke un sottoprodotto escluso dall’ambito dei 
rifiuti in base alla sua pregressa giurisprudenza. Ma anche in tal caso,
la conclusione è inaccettabile in quanto, come si è visto, mancano le 
condizioni, fra cui spicca quella relativa all’assenza di operazioni di 
trasformazione preliminare (e che nel dispositivo non viene neppure 
menzionata). Non è, quindi, applicazione di giurisprudenza pregressa pur 
trattandosi di semplice ordinanza motivata”. 
A me sembra, invece, in coerenza con i precedenti rilievi, che possa delinearsi 
una terza spiegazione: che la Corte, la quale non è vincolata - come 
sottolineato - dalle sue precedenti decisioni, abbia voluto rafforzare 
alcuni criteri già formulati in passato, volti a valorizzare l’elemento della 
volontà del produttore/detentore del sottoprodotto, una volta verificato 
il suo oggettivo riutilizzo, senza pregiudicare, in alcun modo, il principio 
fondamentale di garantire le finalità e l’efficacia della direttiva, assicurato, 
per l’appunto, dall’accertamento dell’effettivo riutilizzo del sottoprodotto, 
presso lo stesso insediamento o presso terzi. 
Ma anche a seguire, per mera ipotesi, che si tratti di una novità, essa non può 
“ essere scartata pregiudizialmente perché innovativa”, sia perché la potestà 
esclusiva della Corte - di interpretare le fonti del diritto comunitario, ex 
art. 234 del Trattato - le consente logicamente di modificare le sue precedenti 
interpretazioni (e dunque di innovare sino a “contraddire”32 i suoi stessi “ 
arresti”: gli esempi da citare sarebbero assai agevoli) sia, in quanto, la 
funzione nomofilattica che le compete (vigilare sull’esatta ed uniforme 
interpretazione della norma) risulta giuridicamente compatibile anche con netti
revirement giurisprudenziali33. 
Obiettare infine, sub a), che, a tale innovazione, sarebbe da ostacolo la 
natura del provvedimento (ordinanza anziché sentenza) si presenta come un mero 
formalismo giuridico – o, al peggio, come una “censura” all’operato (irrituale) 
della Corte - che, peraltro, non è in grado di modificare in nulla la sostanza 
delle conclusioni dalla stessa assunte. 
Quanto alle considerazioni, sub b), riteniamo più affidabile l’opinione 
del giudice comunitario – che ritiene di essersi conformato “alla sua pregressa 
giurisprudenza” (peraltro minuziosamente citata e commentata) – limitandoci ad 
aggiungere, in punto di fatto, che, secondo la sentenza, il pet coke non ha 
subito “trasformazioni preliminari” (ovviamente di natura sostanziale: 
cioè operazioni di recupero che modificano l’identità della sostanza) in quanto 
detto combustibile deriva, direttamente, “dal processo di raffinazione 
del petrolio .. ed è il risultato di una scelta tecnica (il coke da 
petrolio non sarebbe necessariamente prodotto nelle operazioni di 
raffinazione)…”. 
Si legge, infatti in sentenza che, “…. lo scopo di una raffineria” (cioè 
l’obiettivo voluto dall’imprenditore) “ è precisamente quello di 
produrre diversi tipi di combustibile a partire dal petrolio grezzo” 
(compreso il pet coke).
3.2. La c.d. efficacia “vincolante” delle sentenze della CGCE. Come è 
noto, la sentenza di accertamento pregiudiziale fissa il contenuto della 
norma comunitaria (per es. più ampio o più ristretto di quello ritenuto dal 
legislatore nazionale, in sede di trasposizione, ovvero dai giudici nazionali, 
con riferimento alla norma comunitaria direttamente applicabile) ma non 
ne modifica la natura e l’efficacia, che dipende dalla sua fonte di 
produzione o provenienza (la norma può essere posta dal Trattato o dal 
regolamento ovvero da una direttiva34). 
Tanto il Tribunale di Terni che la Sezione distrettuale del riesame del
Tribunale di Venezia citt., nel sollevare questione di legittimità 
costituzionale – con riferimento all’at. 1 cit. e alla legge n. 308/2004 - 
invocano a sostegno dell’efficacia vincolante delle sentenze della Corte 
di giustizia (e/o del conseguente dovere di disapplicazione della legge 
iniziale), ben note sentenze della Corte costituzionale (nn.170/1964; 113/1985;
389/ 1989; n. 111/1990). 
Peraltro, quei giudici di merito non si avvedono che tale citazione, nel caso 
sottoposto alla loro giudizio, non è pertinente. Tutte le decisioni da essi 
invocate, infatti, si riferiscono a fonti comunitarie con effetti diretti 
nell’ordinamento interno e pertanto, anche solo per tale ragione giuridica (a 
parte i profili di rispetto del principio di legalità della pena in caso di 
disapplicazione), non possono essere richiamate per sostenere l’effetto diretto 
e vincolante delle sentenze del giudice comunitario che ha interpretato l’art. 
1, primo comma, lett. a) della direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 
91/156 /CEE - cioè di due direttive “classiche” - prive di effetto immediato 
negli ordinamenti nazionali.
In proposito bastava rileggere il seguente passo della sentenza 389/1989 
del giudice costituzionale (pur richiamata nelle due ordinanze!), cui si sono 
conformate le successive pronunce evocate, per ricostruire correttamente tale 
meccanismo (effetti della sentenza interpretativa correlati alla natura 
/efficacia della norma interpretata): 
- “ Poiché ai sensi dell’art. 164 (oggi art. 234) del trattato, spetta alla 
Corte di giustizia assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e 
nella applicazione del medesimo trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi 
sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente 
carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che 
la Corte di giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne 
precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal 
via, ne determina, in definitiva, l’ampiezza e il contenuto delle possibilità 
applicative”. 
-“Quando questo principio viene riferito a una norma comunitaria avente 
“effetti diretti” – vale a dire una norma dalla quale i soggetti 
operanti all’interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre 
situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio – non vi è 
dubbio che la precisazione o l’integrazione del significato normativo compiute 
attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di giustizia abbiano la 
stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate ”. 
In conclusione: il giudice nazionale si limita ad applicare - ed è 
vincolato - dalla norma comunitaria (con la portata precettiva identificata 
dalla Corte di giustizia) non dalla sentenza interpretativa della Corte, come 
chiarito dalla dottrina35. Più specificamente: se la Corte interpreta una “norma 
comunitaria avente effetti diretti negli ordinamenti interni…le 
precisazioni e le integrazioni della Corte .. hanno la stessa immediata 
efficacia delle disposizioni interpretate”36. 
Come dire che “.. al giudice si impone la non applicazione della norma interna 
confliggente e l’applicazione della norma comunitaria (se) provvista di 
effetto diretto”37, con l’ulteriore specificazione che il giudice (e la P.A.) applicano sempre e comunque la norma comunitaria e non la sentenza 
del giudice comunitario (che si limita a fissane la portata precettiva, 
estendendone o restringendone il contenuto ma non mutandone la natura, con 
riferimento alla sua efficacia diretta o indiretta negli ordinamenti interni).
Peraltro, su tale messa a punto sistematica, conviene, da ultimo…, anche il 
Tribunale di Terni it., il quale - dopo aver richiamato, nella parte motiva 
della sua ordinanza, l’art. 11 e 117 della Cost. (che non sarebbero stati 
rispettati dal legislatore nazionale in quanto l’Italia avrebbe “.. violato i 
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario , .. vincoli che derivano 
anche dalle statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte 
europea di giustizia, cfr., per tutte, le sentenze n. 170/1984 e n. 113/1985 
della Corte Cost)” - qualche riga dopo aggiunge, in senso opposto: 
- “Ma tale soluzione giuridica non appare convincente per lo scrivente 
giudicante, che ritiene dunque di non adottarla, per diversi motivi, in 
punto di diritto. In primo luogo vi è un indirizzo, proprio a proposito dei 
rottami metallici, della terza Sezione della Cassazione, che, in sostanza, 
nega radicalmente qualsiasi influenza alla giurisprudenza comunitaria se porta 
ad una limitazione della nozione di rifiuto, così come interpretata dall’art. 
14…., soprattutto in base alla duplice argomentazione che tale definizione
è contenuta non in un regolamento ma in una direttiva; e che “la 
interpretazione pregiudiziale che compete alla Corte di Giustizia riguarda il 
Trattato e gli atti delle istituzioni della Comunità .. non già atti del 
legislatore nazionale” (Cass. pen. Sez. 3, c.c. 13 novembre 2002, n. 1421, 
Passerotti…”.
Analogamente la Sezione Distrettuale del riesame di Venezia, cit., 
tradisce, sul punto, qualche incoerenza sistematica quando, per un verso, 
censura il nostro “… Paese (che si è sottratto agli obblighi derivanti 
dall’appartenenza sua all’Unione Europea…. spettando agli stati membri di 
adottare ogni misura necessaria per conformarsi alle direttive vincolanti” 
e, per altro verso afferma, nella stessa pagina (la 13° dell’originale della 
sentenza): “…. E’ ribadita la necessità di applicazione immediata, diretta e 
prevalente, nell’ordinamento interno, dei principi fissati [meno che da 
direttive non autoapplicative, quale quella oggetto di interpretazione da 
parte della nominata sentenza della Corte di giustizia comunitaria]”.
Sul punto è doveroso, dunque, ribadire che:
- l’art. 1 della direttiva (75/42 e 91/156), non ha efficacia diretta 
nell’ordinamento italiano (coma ripetutamente affermato dallo stesso giudice 
comunitario) e, pertanto, la nozione di rifiuto che la Corte di Giustizia 
individua, in base a tale disposto, non è immediatamente efficace e 
vincolante, in forza della direttiva, né per i giudici nazionali né per 
la pubblica amministrazione. 
- lo stesso vale, di conseguenza, per la sentenza della Corte di giustizia 
dell’11 novembre 2004, che non deve essere applicata dalla P.A. e dal giudice 
nazionale in quanto detta pronuncia si limita a definire, in modo 
vincolante, una norma che non è idonea a produrre effetti diretti negli 
ordinamenti degli Stati membri.
Giudici e amministrazione non possono applicare l’art. 1, della direttiva – 
secondo l’interpretazione datane l’11 novembre scorso ovvero direttamente la 
sentenza – disapplicando l’art. 14, in quanto, si ribadisce, la 
norma comunitaria (nella portata individuata dalla sentenza) non è 
provvista di effetto diretto. 
3.3. I rapporti tra ordinamento interno e sistema comunitario. Su tale 
ultima affermazione di principio, ormai pacifica, resta esemplare, per linearità 
espositiva e per rigore sistematico, la più volte invocata (ed equivocata) 
sentenza della Corte costituzionale n. 170/1984 che scolpisce il 
rapporto fra i due ordinamenti (nazionale e Comunitario) nei seguenti 
termini: 
I) “Occorre tuttavia, meglio chiarire come, riguardo al fenomeno in 
esame, si ponga il rapporto fra i due ordinamenti. Sovviene in proposito il 
seguente rilievo. La disciplina emanata mediante il regolamento della CEE38 
è destinata ad operare, con caratteristica immediatezza, così nella nostra sfera 
territoriale, come in quella di ogni altro Stato membro; il sistema statuale, 
dal canto suo, si apre a questa normazione, lasciando che le regole in 
cui essa si concreta vigano nel territorio italiano, quali sono scaturite dagli 
organi competenti a produrle. Ora, la Corte ha in altro giudizio affermato che 
l’esercizio del potere trasferito a detti organi viene qui a manifestarsi in 
un “atto”, riconosciuto nell’ordinamento interno come “avente forza e valore di 
legge” (cfr. sentenza n. 183/73). 
Questa qualificazione del regolamento comunitario merita un cenno di 
svolgimento. Le norme poste da tale atto sono, invero, immediatamente 
applicate nel territorio italiano per forza propria. Esse non devono, né 
possono, essere riprodotte o trasformate in corrispondenti disposizioni 
dell’ordinamento nazionale. La distinzione tra il nostro ordinamento e quello 
della Comunità comporta, poi, che la normativa in discorso non entra a far 
parte del diritto interno, né viene per alcun verso soggetta al regime 
disposto per le leggi (e gli atti aventi forza di legge) dello Stato. 
Quel che si è detto nella richiamata pronunzia, va allora avvertito, altro non 
significa, in definitiva, che questo: l’ordinamento italiano – in virtù del 
particolare rapporto con l’ordinamento della CEE, e della sottostante 
limitazione della sovranità statale – consente, appunto, che nel territorio 
nazionale il regolamento comunitario spieghi effetto in quanto tale e perché 
tale. A detto atto normativo sono attribuiti “forza e valore di legge” solo 
e propriamente nel senso che ad esso si riconosce l’efficacia di cui è 
provvisto nell’ordinamento di origine”.
II) Quanto ai doveri del giudice italiano – di applicazione della 
fonte comunitaria e di disapplicazione della norma nazionale confliggente - lo 
stesso Collegio così argomenta univocamente: 
- “ Il giudice italiano accerta che la normativa scaturente da tale fonte 
regola il caso sottoposto al suo esame, e ne applica di conseguenza il disposto, 
con esclusivo riferimento al sistema dell’ente sovrannazionale: cioè al solo 
sistema che governa l’atto da applicare e di esso determina la capacità 
produttiva. Le confliggenti statuizioni della legge interna non possono 
costituire ostacolo al riconoscimento della “forza e valore”, che il 
Trattato conferisce al regolamento39 comunitario, nel configurarlo come 
atto produttivo di regole immediatamente applicabili. Rispetto alla sfera di 
questo atto, così riconosciuta, la legge statale rimane infatti, a ben guardare, 
pur sempre collocata in un ordinamento, che non vuole interferire nella 
produzione normativa del distinto ed autonomo ordinamento della Comunità, 
sebbene garantisca l’osservanza di essa nel territorio nazionale”.
III) Ne consegue che - nel momento in cui i giudici rimettenti di Terni e 
Venezia si appellano alla funzione di garanzia (di applicazione diretta 
della normativa comunitaria) assolta dall’art. 11 e (attuale) dall’art. 
117 Cost., per disattendere l’art. 14 cit. (e successivamente la legge n. 
308/2004) e tener conto esclusivamente della direttiva U.E. (nella lettura 
datane dalla Corte lussemburghese) - essi sembrano disattendere l’insegnamento 
del nostro giudice costituzionale che, sul punto, così lucidamente insegna: 
“… D’altra parte, la garanzia che circonda l’applicazione di tale normativa 
(comunitaria), è – grazie al precetto di cui all’art. 11 Cost., com’è 
sopra chiarito – piena e continua. Precisamente, le disposizioni della CEE, 
le quali soddisfano i requisiti dell’immediata applicabilità40 devono, al 
medesimo titolo, entrare e permanere in vigore nel territorio italiano, senza 
che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata dalla legge ordinaria 
dello Stato. Non importa, al riguardo, se questa legge sia anteriore o 
successiva. Il regolamento comunitario fissa, comunque, la disciplina 
della specie. L’effetto connesso con la sua vigenza è perciò quello, non già di 
caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, 
bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della 
controversia innanzi al giudice nazionale”41.
IV) I vincoli posti dall’art. 11 (e dell’art. 117, ultima 
versione) Cost., appena descritti, presuppongono, comunque, che la normazione 
comunitaria risponda a determinati requisiti di efficacia (non 
soddisfatti dalle direttive classiche non autoapplicative) come, da ultimo, 
afferma la Corte con il seguente passo: 
“ La conseguenza ora precisata opera però, nei confronti della fonte statuale, 
solo se e fino a quando il potere trasferito alla Comunità si estrinseca con 
una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno. 
Fuori dall’ambito materiale, e dai limiti temporali, in cui vige la disciplina 
comunitaria così configurata, la regola nazionale serba intatto il proprio 
valore e spiega la sua efficacia; e d’altronde, è appena il caso di 
aggiungere, essa soggiace al regime previsto per l’atto del legislatore 
ordinario, ivi incluso il controllo di costituzionalità.
Il regolamento comunitario va, dunque, sempre applicato, sia che segua, 
sia che preceda nel tempo le leggi ordinarie con esso incompatibili: e il 
giudice nazionale investito della relativa applicazione potrà giovarsi 
dell’ausilio che gli offre lo strumento della questione pregiudiziale di 
interpretazione, ai sensi dell’art. 177 del Trattato. Solo così è soddisfatta la 
fondamentale esigenza di certezza giuridica, sempre avvertita nella 
giurisprudenza di questo Collegio, che impone eguaglianza e uniformità di 
criteri applicativi del regolamento comunitario per tutta l’area della Comunità 
Europea”.
Chiarito l’equivoco (il giudice non applica le sentenze d’oltralpe ma le norme 
comunitarie, ad efficacia diretta, come interpretate dalla Corte, previa 
disapplicazione della norma nazionale), si può concludere nel senso che 
l’art. 14 cit., nonché l’art. 1, comma 25/29, della legge n. 308 cit.,
sono ancora efficaci, in quanto vigenti e vincolanti - sia per la 
magistratura che per le amministrazioni pubbliche - in attesa della pronuncia 
della Corte costituzionale e/o sino a quando il Parlamento non li modificherà o 
abrogherà. 
Nel frattempo.. (ed è il nostro tempo), la loro disapplicazione (o non 
applicazione) è vietata dalla legge italiana e non consentita 
dall’ordinamento dell’U.E. il quale esclude la immediata applicazione di una 
direttiva non self-executing (non autoapplicativa), come quella in esame,
per creare obblighi a carico dei cittadini o peggio, per fondare un giudizio 
di responsabilità penale a loro danno.42
3.4. Cenni di dottrina. Anche la dottrina più attenta accoglie le 
conclusioni, appena sopra esposte, osservando43, fra l’altro, che “La sentenza 11 
novembre 2004 non “cancella” la legge n. 178/02 (art. 14) e perciò si 
deve rifuggire da facili entusiasmi nel valutare le conseguenze che da essa 
derivano con riferimento ai procedimenti amministrativi e soprattutto penali per 
fatti concernenti la gestione dei residui di produzione o consumo. . ”. 
L’apprezzato Autore - dopo aver premesso che “Nelle materie riservate alla sfera 
di competenza della Comunità, il giudice ordinario deve provvedere ad assicurare 
la piena e continua osservanza delle norme comunitarie direttamente applicabili, 
senza tener conto delle leggi nazionali, anteriori o successive, eventualmente 
confliggenti (v. Corte cost. 8 giugno 1984, n. 170) …. (sicché) si potrebbe 
perciò sostenere che giudici e funzionari debbano far ricorso diretto alla 
nozione di rifiuto dettata dalla Cee, non applicando la normativa nazionale 
con essa confliggente” – aggiunge subito dopo: 
“Sennonché, qualche dubbio in proposito si può sollevare sia perché il principio 
in questione non ci risulta che sia mai stato enunciato in ambito penale, 
in cui la disapplicazione di una norma, che si risolva in una operazione in 
malam partem, è incompatibile con l’art. 25 Cost., sia perché una 
direttiva di per sé non può creare obblighi a carico di un soggetto né può 
avere l’effetto, di per sé, e indipendentemente da una legge interna di uno 
Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la 
responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue 
disposizioni”. 
Mi permetto di aggiungere due postille: 
- la materia ambientale non è “materia riservata alla sfera di competenza 
della Comunità”, in via esclusiva, ma rientra nella competenza “concorrente” 
della Comunità e degli Stati nazionali, governata dunque dal principio della 
sussidiarietà (se non di “residualità”44); 
- “il ricorso diretto alla nozione di rifiuto dettato dalla CEE”, 
previa disapplicazione, non può essere in alcun modo consentito, perché, al di 
là della impropria espressione, detto ricorso riguarderebbe una nozione 
introdotta da una direttiva CEE (nel senso assegnatole dal giudice 
comunitario), la quale, prima ancora di non poter costituire fonte immediata di 
responsabilità penale negli ordinamenti interni, non è idonea ad essere 
immediatamente applicata da giudice nazionale in quanto priva di efficacia 
diretta negli Stati membri (come ricordato dalla sentenza n. 170/84 della 
Corte cost. cit. dallo stesso Autore).
In definitiva: né invocando l’art. 1, comma 1, lett. a) della direttiva 
75/42 cit. (come modificata dalla direttiva 91/156 CEE) né dando applicazione 
alle pronunce del giudice comunitario, equivocando sulla loro vera portata ed 
efficacia (v. retro) e magari invocando a giustificazione (apparente), le 
pronunce della Corte costituzionale (come chiarito appena sopra) o del 
Consiglio di Stato cit.45 ; e neppure appellandosi ad isolate sentenze della sez. 
3° della Cassazione penale46, e comunque contraddette da orientamenti contrari, 
ormai consolidati47, è legittimo disapplicare l’art. 14 cit. e la legge n. 
308/2004, nei commi afferenti il riutilizzo del materiale ferroso48. Quei 
disposti, come rilevato, possono essere espunti dall’ordinamento solo dal 
legislatore nazionale (con l’abrogazione) o dal giudice delle leggi (con 
dichiarazione di illegittimità costituzionale) in quanto essi non contraddicono 
una fonte comunitaria ad effetti diretti. 
4. La presa di posizione del Ministero dell’ambiente – Nel panorama poco 
sopra delineato si è finalmente pronunciato, expressis verbis, anche se 
con non commendevole ritardo, lo stesso Ministero dell’ambiente49, 
prendendo posizione in modo assai netto (e in linea con le soluzioni sopra 
esposte) sui seguenti temi: 
- la natura e gli effetti delle direttive sui rifiuti escludono una applicazione 
diretta della nozione comunitaria di rifiuto, previa disapplicazione dell’art. 
14, legge 178;50
- l’art. 1, comma 1, lett. a) della direttiva 75/442 CEE (modificata dalla 
successiva direttiva 91/156) non produce effetti immediati sulla situazione 
soggettiva dei cittadini o delle imprese51;
- “le autorità nazionali non potranno né dovranno disapplicare la norma 
nazionale, dato che la soluzione del conflitto è rimessa all’organo 
legislativo……”.
Dopo aver sottolineato, in termini di opportunità e di certezza del diritto 
che”…la disapplicazione della definizione italiana di rifiuto comporterebbe il 
venir meno, per gli operatori privati e pubblici, per gli organi di controllo e 
per i magistrati, di quei criteri di certezza e di uniforme applicazione delle 
norme necessari per il corretto svolgimento delle attività ed indispensabili 
quando vi sia la possibilità di incorrere in sanzioni penali o il dovere di 
irrogarle..”, il Dicastero dell’ambiente, così conclude:
“ Pertanto, in risposta ai quesiti sottoposti, questo Ministero, nelle more 
di una nuova formulazione della definizione di rifiuto aderente ai principi 
comunitari ed in attesa che la Commissione meglio identifichi e precisi detti 
principi, ritiene:
- che le Capitanerie di Porto e, più in generale, le autorità nazionali siano 
ancora vincolate all’interpretazione autentica che l’art. 14, L. 178/02 
offre dell’art. 6 comma 1 lett. a) D. Lgs. 22/97;
- che la norma nazionale, risultante dal combinato disposto dell’art. 6 comma 1 
lett. a) D. Lgs. 22/97 e dell’art. 14 L. 178/02 non possa/debba essere 
disapplicata con diretta applicazione della direttiva 75/442/CEE. 
Per quanto esposto, nei paragrafi precedenti, il parere espresso autorevolmente 
dal Capo Gabinetto del Ministro merita consenso in considerazione della 
correttezza e chiarezza delle soluzioni date, circa le delicate questioni 
giuridiche sottopostegli, e della direttiva finale impartita sul 
“vincolo” delle Capitanerie di Porto, come di tutte le Autorità nazionali 
all’osservanza dell’art. 14, visto che la norma è ancora vigente e non 
disapplicabile, tanto per le Pubbliche amministrazioni che per l’autorità 
giudiziaria (ai sensi dell’art. 101, comma 2, della Costituzione :”I giudici 
sono soggetti soltanto alla legge”) salvo, per quest’ultima, il potere-dovere di 
chiederne l’annullamento dinanzi alla Corte costituzionale (come correttamente è 
stato fatto dalla magistratura più avvertita).52 
Non mi sembra proficuo disquisire, in questa sede, sulla natura e sull’efficacia 
dell’atto amministrativo adottato dal Capo Gabinetto in quanto appare evidente 
che si tratta di un parere doverosamente rilasciato dal menzionato 
dicastero ad un Ufficio periferico (Reparto Ambiente Marino della Capitaneria di 
Porto di Venezia e Monfacone) che ne faceva richiesta urgente, con formulazione 
di specifici quesiti.53
Resta da sottolineare l’autorevolezza e l’efficacia di un tale parere – che si 
sostanzia in una vera e propria direttiva con ben chiari scopi operativi 
nei confronti delle autorità richiedenti e , più in generale “delle autorità 
nazionali”54 – tenuto conto che, per legge55, il Capo Gabinetto, nominato dal 
Ministro dell’ambiente, collabora con quest’ultimo nelle relazioni 
istituzionali, cura l’esame di tutti gli atti che passano alla firma del 
Ministro e del Sottosegretario e, pur nel rispetto delle distinte funzioni tra 
le funzioni di indirizzo politico e i compiti di gestione, “assume ogni utile 
iniziativa per favorire il conseguimento degli obietti stabiliti dal Ministro” 
56. 
5. Norma interna (difforme), P.A. e polizia giudiziaria. Più serio il 
problema derivante dal contrasto tra l’art. 14 cit. e la sentenza della Corte di 
giustizia che ne dichiara l’incompatibilità con l’ordinamento comunitario. Ma 
come si è ampiamente precisato, nei precedenti paragrafi, la corretta soluzione 
non riposa, come pure è stato insistentemente sostenuto, con qualche 
approssimazione, nel “dare applicazione” alla sentenza comunitaria57 quanto, 
semmai, come infatti è avvenuto, nell’adire il giudice delle leggi (v. oltre)58.
Né può sostenersi, come è stato prospettato, che con il parere ministeriale, in 
oggetto “…si scarica il problema sull’anello più debole“ (le Capitanerie 
di porto “organi amministrativi e organi di polizia giudiziaria”) sicché, 
nell’ipotesi di direttive ministeriali ed ordini opposti dell’A.G. “il povero 
agente o ufficiale è quello che comunque ci va di mezzo, qualunque cosa faccia”.59
L’ordinamento interno e quello comunitario costituiscono un complesso sistema 
sufficientemente coordinato ed equilibrato per non far ricadere - sulla pubblica 
amministrazione e sulla polizia giudiziaria…. - un contrasto tra 
Dicastero dell’ambiente e qualche magistrato, delle tante Procure della 
repubblica, derivante da un accertata difformità della normativa 
nazionale al diritto comunitario. 
Il contrasto, infatti, si risolve, come osservato retro, con i previsti 
meccanismi della applicazione (da parte della P.A. e dell’A. G.) della norma 
comunitaria ad efficacia diretta ovvero sollecitando (ad opera del 
giudice): 
a) le procedure di infrazione (ex art- 226 del Trattato); 
b) la pronuncia pregiudiziale del giudice lussemburghese (ex 234 cit.); 
c) facendo ricorso alla Corte Costituzionale” .60
Come si vede non ricadiamo né in una situazione imprevista – da risolvere 
in sede amministrativa o di polizia giudiziaria….(?) - né “paradossale”, 
essendosi verificato, di frequente, che uno Stato membro non condivida gli 
orientamenti del giudice comunitario (tutt’altro che certi e coerenti, come 
sottolineato) e, mantenendo la propria normativa interna contraria, si proponga 
di modificarla gradualmente o di trovare soluzioni diverse (rispetto a quelle 
emerse in sede giurisprudenziale) nelle sedi legislative e/o esecutive 
(politiche) europee a ciò deputate. 
In tutti questi casi, la norma nazionale – in contrasto con la fonte comunitaria 
priva di efficacia diretta – resta vincolante per tutti i soggetti 
dell’ordinamento interno (cittadino, pubblica amministrazione, polizia 
giudiziaria e magistratura61) sino a quando non sia abrogata (dal legislatore) o 
annullata (dalla Corte costituzionale)62.
6. Ancora sui doveri della Pubblica amministrazione. Con riferimento alla 
pubblica amministrazione, il principio fondamentale ribadito più volte dal 
giudice delle leggi, si può così riassumere: 
- la p.a. ha il dovere di adottare il singolo atto previa individuazione della 
norma applicabile alla fattispecie concreta, raffrontando la normativa 
europea e quella nazionale (fenomeno non nuovo in quanto ciò accade altresì 
nel caso di applicazione di norme nazionali con diversa posizione gerarchica);
- di fronte ad atti normativi comunitari produttivi di effetti diretti, 
anche gli organi delle amministrazioni nazionali, così come gli organi 
giurisdizionali, sono tenuti a dare ad essi senz’altro applicazione a 
prescindere dal diritto nazionale vigente63.
- l’atto amministrativo adottato sulla base di questa attività interpretativa, 
verrà sottoposto a controllo della giurisdizione. Sarà il giudice a decidere se 
l’interpretazione adottata dalla P.A. che ha dato luogo all’applicazione 
dell’una o dell’altra norma (nazionale o comunitaria) sia corretta o meno64.
I) Il rapporto tra diritto europeo e diritto interno, con riferimento all’azione 
amministrativa, si riverbera sul regime di invalidità degli atti 
amministrativi nell’ambito del diritto nazionale in modo diverso, seconda la 
efficacia della norma comunitaria.
Ove detta norma abbia efficacia diretta negli ordinamenti interni, si 
considerino i seguenti casi: 
1) l’atto amministrativo adottato in violazione di norme nazionali in 
vigore che però siano contrastanti con norme comunitarie, e perciò da 
disapplicare, è un atto amministrativo valido ai sensi della disciplina 
statale sull’invalidità degli atti amministrativi (il vizio della violazione di 
legge in questo caso non rileva perché la legge doveva essere 
disapplicata); 
2) l’atto amministrativo adottato in conformità a norme nazionali 
contrastanti con norme comunitarie, e perciò da disapplicare in base ai predetti 
principi, è un atto amministrativo invalido (la norma interna non poteva 
essere applicata);65
3) ove l’atto amministrativo sia adottato sulla base di legge incostituzionale 
(con riferimento sia all’ordinamento comunitario che all’ordinamento 
costituzionale), il giudice non potrà decidere direttamente, circa 
l’incostituzionalità della norma, ma dovrà rinviare la questione alla Corte 
costituzionale. Dopo la pronuncia di incostituzionalità provvederà 
all’annullamento dell’atto.
II) Diversamente si pone la problematica - sull’invalidità degli atti 
amministrativi - nel caso di contrasto della norma interna con la fonte 
comunitaria priva di efficacia diretta (come nel nostro caso).
4) atti amministrativi adottati in conformità a norme nazionali, contrastanti 
con norme comunitarie (prive di effetto diretto): in tal caso “.. non 
sembra dubbio che l’amministrazione non possa non applicare la norma nazionale, 
ovviamente interpretandola laddove è possibile, in conformità con i principi 
delle direttive comunitarie” . E’ questa, appunto, la vicenda che ci 
occupa per la quale il contrasto si pone fra norma interna (l’art. 14 
della legge n. 178 cit. e alcuni comma dell’art. 1 della legge n. 308 
menzionata) e norma comunitaria (l’art. 1, comma 1, lett. a) delle 
direttive comunitarie66 75/442 e 91/156 CEE). Esclusa ogni possibilità di 
conformazione, in via interpretativa, della legge interna a quella dell’U.E. - 
stante l’evidenza e la insanabilità del contrasto, come accertato dal giudice 
comunitario (con la sentenza Niselli) - si deve concludere nel senso che:
5) anche il giudice amministrativo (come quello ordinario) “… sarà tenuto ad 
applicare la normativa nazionale”;
6) in sede di impugnazione dell’atto amministrativo, ove “… il contrasto tra le 
due normative permane….. il meccanismo della disapplicazione non può 
funzionare… “, secondo “…l’orientamento prevalente, e a nostro giudizio 
corretto… (Cons. Stato, VI, 24.1.1989, n. 30)”67;
7) il giudice amministrativo (e quello ordinario) ovviamente “.. potrà sollevare 
davanti al giudice competente la questione di costituzionalità della norma 
nazionale difforme dai principi della direttiva o di altro atto comunitario 
privo di effetti diretti. Siamo infatti in uno dei casi, sopra considerati, 
in cui la questione del contrasto tra i due diritti resta affidata alla 
decisione della Corte costituzionale”68. 
Appare pertanto dissonante con il sistema giuridico appena delineato, sui 
rapporti fra ordinamento interno e diritto comunitario – oltre che occasione o 
possibile causa di diffusa conflittualità istituzionale – invitare i funzionari 
italiani a coordinarsi con gli organi inquirenti della magistratura, in luogo di 
adempiere ai propri doveri di conformazione alle direttive ministeriali, 
e prima ancora, all’obbligo inderogabile di applicare la norma statale,
benché confliggente con quella comunitaria priva di efficacia diretta (e 
anche se impugnata di incostituzionalità), come sembra di poter intendere 
leggendo alcune proposte o suggerimenti di un noto magistrato69.
Si è già detto che altre – e di tutt’altro genere e livello - sono le sedi 
istituzionali in cui la Carta costituzionale ed il Trattato di Roma 
collocano la risoluzione di tali conflitti. La loro stessa evidenziazione (e 
richiesta di soluzione) viene, fra l’altro, affidata - dall’ordinamento interno 
e dell’U.E. - solo ad alcuni organi in possesso di determinate condizioni 
soggettive ed oggettive.
Come è noto, dagli stessi organi sono esclusi gli uffici della Procura 
della Repubblica i quali non risultano abilitati a sollevare direttamente 
né questioni di costituzionalità né rinvii pregiudiziali alla Corte di 
giustizia, ai sensi dell’art. 234 del Trattato, come i giudici. Il Procuratore 
della Repubblica, infatti, nel compimento dei suoi compiti, svolge “attività 
giudiziaria”, ex artt. 50/54 quater c.p.p. (per es. indagini 
preliminari) ma non “funzioni giurisdizionali” (quali quelle – riservate 
al giudice - di accertamento, nel pubblico dibattimento, nel rispetto delle 
garanzie del contraddittorio e con sentenza, del reato ipotizzato e contestato 
dalla pubblica accusa)70.
Conclusivamente:
- l’art. 14, legge n. 178 cit. e l’art. 1, commi 25/29 della legge n. 308 
richiamata (sui materiali ferrosi) sino alla loro caducazione/sostituzione, nei 
termini indicati, restano norme di legge statale e, come tali, sono cogenti 
– anche se in contrasto con una direttiva non autoapplicativa, fatta 
oggetto di accertamento pregiudiziale della Corte di Giustizia e di impugnative 
di incostituzionalità;
- il vincolo riguarda sia la Pubblica amministrazione, centrale e locale,
che la magistratura, giudicante ed inquirente, e dunque tutti “i 
funzionari italiani”, compresi gli organi di polizia amministrativa e 
giudiziaria71, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale72, della Corte di 
Giustizia dell’U.E.73, della Corte di cassazione penale74 e del Consiglio di Stato75;
- appare pertanto consequenziale affermare che l’eventuale disapplicazione 
di tali disposizioni, in applicazione immediata delle direttive sui rifiuti 
(erroneamente ritenute direttamente applicabili) o della sentenza 11 novembre 
2004, Niselli (altrettanto indebitamente considerata vincolante ed 
immediatamente efficace per il giudice e la P.A.), ponendosi in aperto 
contrasto con il sistema di rapporti instaurati fra i due ordinamenti 
esaminati (interno e dell’U.E.76), secondo l’insegnamento univoco ed esplicito 
della giurisprudenza (comunitaria e nazionale) sopra rassegnata, potrebbe 
configurare, come è stato già prospettato77, una possibile ipotesi di 
responsabilità disciplinare e civile (obbligo di risarcimento dei danni) a 
carico del “funzionario statale” o del magistrato che, tramite la descritta 
condotta (di indebita disapplicazione della norma statale interna, 
attualmente vigente e non disapplicabile in base a direttiva non autoapplicativa 
o a decisione della CGE), nella piena, doverosa consapevolezza della sua 
persistente efficacia vincolante (in quanto non ancora caducata dal 
giudice delle leggi o abrogata dal Parlamento), abbia cagionato la violazione 
e/o la compressione di diritti soggettivi, anche di rango costituzionale 
(diritti di proprietà, di iniziativa economica privata, diritti della persona, 
ecc.), provocando un danno, patrimoniale e morale, ad un qualsiasi soggetto 
giuridico che ne sia intestatario (persona fisica, ente, impresa)78. 
____________________________________
1 Mi riferisco agli 
uffici giudiziari di Venezia, Udine e Terni. Merita segnalare che dai porti di 
Venezia passa circa l’80% del traffico italiano dei rottami ferrosi diretti ad 
acciaierie e fonderie. Da quanto si apprende dal quotidiano “ Il Sole 24 ORE,” 
del 26 gennaio scorso, dal primo “stop” (leggi: sequestro) di detto commercio a 
Marghera, nel corso del 2004, si sono perse circa 400 mila tonnellate di detto 
materiale. Mentre, nel più ampio arco di tempo che comprende il periodo 
2000/2003, secondo stime attendibili dell’Autorità portuale, il costo 
complessivo dell’interruzione dell’attività commerciale si aggira a 5 milioni di 
euro. 
2
Che, non può, per evidenti ed oggettive ragioni storiche e commerciali, essere 
denotato o, peggio, assimilato a episodiche e marginali forme occulte e/o 
incontrollate di riutilizzo indebito di residui produttivi ferrosi.
3
Così ricorda il Sottosegretario al Ministero dell’ambiente, on. S. Stefani, in 
risposta ad una interpellanza parlamentare rivoltagli, ai primi di febbraio 
scorso, da alcuni deputati DS, a seguito della nota pronuncia della Corte di 
giustizia dell’11 novembre 2004, Niselli, pubblicata in questa Rivista n. 
23/2004, pag. 16, con mia nota. 
4
Dati forniti dall’Assofermet, nelle note di presentazione al convegno 
organizzato a Milano, l’1 marzo scorso, di cui si fa cenno a nota 11. 
5
Si pensi al caso recente del sequestro di alcune partite di rottami ferrosi 
operato, in via d’urgenza, dalla p.g. nel Porto di Monfalcone, nel gennaio di 
quest’anno, seguito dalla richiesta di convalida del sequestro d’urgenza, da 
parte della Procura della Repubblica di Venezia, respinta del G.I.P. presso il 
Tribunale di quella stessa città con successivo dissequestro dei materiali, in 
data ’8 febbraio 2005: in tema, v. oltre).
6
Da ultimo quelli contenuti nella missiva dell’Ufficio Gabinetto del ministro, 
del 17 gennaio 2005, a firma del prof. P. Togni: v., oltre, par. 4.
7
Mi riferisco, per es., alle disposizioni impartite, nell’episodio accennato del 
gennaio scorso, dalla Procura della Repubblica di Venezia alla P.G. per 
intervenire sui rottami ferrosi in movimentazione presso il porto di Venezia, in 
quanto considerati “rifiuti”, alla luce della sentenza della Corte di Giustizia 
dell’11 novembre 2004 (su cui v., oltre, par. 3.1.), contro l’indirizzo opposto 
manifestato dal Governo. Sulla decisione dell’Organo comunitario, mi permetto di 
rinviare alla mia nota “Nuovo capitolo sulla nozione di rifiuto: 
l’interpretazione “autentica” per la CGE”, in questa Rivista, n. 23/2004, pag. 
22 . 
8
Su cui mi sia consentito richiamare P. Giampietro, Proposte ricostruttive della 
“nozione autentica di rifiuto”, ex art. 14, l. 178/2002”, in Riv. Giur. 
dell’Ambiente, n. 2/2004, pag. 233, con richiami di dottrina (n. 1) e 
giurisprudenza della suprema Corte (n. 3).
9
Sto pensando, soprattutto, alle “letture” fornite dalla Commissione e dalla 
Corte di Giustizia dell’U.E. in materia di disciplina comunitaria della gestione 
dei rifiuti, come rassegnate nel commento di cui a nota precedente. 
10
Si richiama, in proposito, il contestato dettato dell’art. 14 della legge n. 
178/2002 e quello della legge delega n. 308/2004, artt. 1, commi 25/29: su cui, 
v. infra. Su tale ultima legge, si vedano le lucide osservazioni di F. Peres, 
Attività siderurgiche e metallurgiche: ridisegnata la disciplina sui rottami, in 
questa Rivista, n. 3/2005, pag. 20 .
11
Questo appunto era l’obiettivo dichiarato nella locandina di presentazione del 
convegno organizzato dall’ASSOFERMET, a Milano, il 14 marzo scorso, i cui Atti 
sono riportati nel sito web www.assofermet.it. 
12
Da ultimo chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’art. 14, cit. e 
dei commi 25/29 dell’art. 1, della legge n. 308/2004, cit. da Tribunale di 
Venezia, Sezione Distrettuale del riesame, ordinanza 8 marzo 2005, inedita (su 
cui v. oltre) e da Tribunale di Rieti 2 febbraio 2005, inedita (limitatamente 
alla legge n. 308). Si segnala, altresì, che la Procura della Repubblica di 
Asti, in sede di richiesta di archiviazione rivolta al G.I.P. di detta città, il 
13 gennaio 2005 (inedita), ha sollecitato detto giudice, in via preliminare, di 
dichiarare rilevante e non manifestamente infondata la questione di 
costituzionalità relativa al contrasto dell’art. 14, legge 178/2002, con gli artt. 11 e 117 Cost. (sui profili di costituzionalità si dirà a momenti).
13
Sui “rapporti fra l’ordinamento dell’unione europea e l’ordinamento interno”, 
alla luce del nuovo Trattato costituzionale”, v. il recentissimo volume curato 
da ASTRID, “LA Costituzione europea” – Un primo commento – a cura di F. 
Bassanini e G. Tiberi (presentazione di R. Prodi e conclusioni di G. Amato), Il 
Mulino, Bologna, 2004, pag. 263 (di V. Cerulli Irelli e F. Pizzetti). 
14
Non sempre, spiace rilevarlo, libero da preconcetti o, addirittura, da sottese 
opzioni ideologiche.
15 La nuova disciplina introdotta dalla legge n. 308, sui “rottami ferrosi e non 
ferrosi”, oggi vigente, contempla:
1) due ipotesi (e discipline) differenziate:
a) la prima, relativa ai rottami provenienti dall’estero (ex comma 27), che si 
completa con il richiamo al comma 28 (sulla regolamentazione di una nuova 
sezione speciale dell’Albo);
b) la seconda, afferente i rottami prodotti in Italia, ex art. 29, introduttivo 
del comma q-bis) dell’art. 6, comma 1, del decreto Ronchi, a cui vanno 
raccordati i commi 25 e 26.
Per quanto attiene a quest’ultima ipotesi, il legislatore configura due distinte 
fattispecie:
b1) “rottami ferrosi e non ferrosi 1) derivanti da operazioni di recupero, ex 
31/33 o 27/28 d. lgs n. 22/97 - i quali sono, necessariamente, qualificati 
“materie prime secondarie” per attività metallurgiche e siderurgiche (ciò che 
proviene da operazioni di recupero, va qualificato, per legge, ex art. 4, comma 
1, lett. b), decreto Ronchi ed ex art. 3, del D.M. 5.2.1998, “un prodotto, una 
materia prima o una materia prima secondaria”) – a condizione che: 2) rispondano 
a determinate specifiche tecniche (CECA, AISI, CAEF, UNI, EURO o altre e 
diverse, nazionali o internazionali). Tale ipotesi non è nuova né sul piano 
concettuale né su quello della disciplina, in quanto già contemplata dal D.M. 
5.2.1998, Allegato 1, Suballegato 1, voce 3 “Rifiuti di metalli e loro leghe 
sotto forma metallica non disperdibile” ;
b2) “rottami ferrosi o non ferrosi che costituiscono 1) “scarti di lavorazioni 
industriali o artigianali o provenienti da cicli produttivi o di consumo, 
esclusa la raccolta differenziata, 2) che possiedono in origine (fin 
dall’origine) le caratteristiche indicate dalle specifiche tecniche di cui alla 
prima parte della lett. q-bis (v. sopra). Si tratta, in definitiva, di residui 
industriali che vengono considerati non rifiuti (materie prime secondarie) 
non 
perché fatti oggetto di attività di recupero – come nel caso precedente sub
b1)- 
ma in quanto possiedono, fin dalla loro formazione, le caratteristiche tecniche 
di cui sopra (CECA, AISI, ecc.) e possono essere utilizzati “tal quali” o con 
trattamento preventivo minimale, nel senso previsto dall’art. 14, comma 2, lett. 
b) della legge n. 178/2002.
A tale esclusiva ipotesi si riferiscono le specificazioni, quasi del tutto 
superflue e ripetitive, dei commi 25 e 26, che richiamano e confermano la 
validità e vigenza dell’art. 14, legge n. 178, in cui correttamente si riporta 
la fattispecie dei rottami ferrosi - quali scarti di lavorazione ovvero 
originati da cicli produttivi o di consumo - costituenti “materia prima 
secondaria” per la siderurgia e metallurgia. Essi, infatti, non costituiscono 
oggetto dell’attività di “disfarsi” (inteso in senso pieno, comprensivo 
dell’attività svolta anche al presente: “si disfi”, in aggiunta a quanto 
previsto dall’art. 14, cit. che fa menzione solo della diversa condotta di chi 
“abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”), purché siano destinati, in modo 
effettivo, “all’impiego” anche presso altri e diversi cicli produttivi, tal 
quali, in quanto già in possesso delle ridette “specifiche tecniche” (tale 
ultima condizione non era esplicitata nell’art. 14, ma, in qualche modo 
risultava implicita, sia con riferimento alla utilizzabilità “tal quale” del 
rottame, sia per l’assenza, in fase di riutilizzo, di un pregiudizio 
all’ambiente” superiore a quello derivante dall’uso della materia prima vergine 
corrispondente). L’aver indicato le fonti di regolamentazione di tali specifiche 
tecniche ( CECA, AISI, ecc) rende la nuova disciplina stringente rispetto 
all’art. 14 cit. dove ci si limitava a pretendere che detti materiali non 
subissero “ interventi preventivi di trattamento” o subissero trattamenti 
preventivi minimali (appunto perché già in possesso delle specifiche pretese dal 
mercato di destinazione per il riutilizzo).
16
Nell’ordinanza della Sezione distrettuale del riesame del Tribunale di Venezia 8 
marzo 2005, cit. a nota 12, si leggono, infatti espressioni del seguente tenore: 
“ la Corte di Giustizia, con la pronuncia dell’11 settembre 2004… ha stabilito 
un principio di diritto incompatibile con la possibilità di applicazione del 
citato articolo 14, legge 178…” (pag. 8 dell’originale del provvedimento); “.. 
la sentenza della Corte di giustizia .. orientata nel senso della necessaria 
“disapplicazione” della norma di diritto interno contrastante.. (come) la legge 
15 dicembre 2004, n. 308” (sui materiali ferrosi: v. ivi, pag. 11); “.. la 
proposizione chiave dell’appello proposto dal p.m. avverso il diniego del g.i.p. 
risulta essere fondato: il contrasto tra la sentenza della Corte di Giustizia 
comunitaria e le norme interne (anteriori e successive alla statuizione della 
stessa), potrebbe dirsi risolto, in quanto, adeguandosi all’insegnamento 
della Corte costituzionale, funzionari e giudici italiani devono “non applicare” le 
disposizioni tutte che qualificano i rottami metallici come materie prime 
secondarie: non solo perché contrastanti con la interpretazione di “rifiuto” 
dichiarata conforme al diritto comunitario della Corte di giustizia ….” (ivi, 
pag. 13); “… E pertanto, ribadita la necessità di applicazione immediata, 
diretta e prevalente, nell’ordinamento interno dei principi fissati [meno che da 
direttive non autoapplicative, quale quella oggetto di interpretazione da parte 
della nominata sentenza della Corte di giustizia comunitaria] …… dalla sentenze 
della Corte di giustizia comunitaria (così Corte Cost., sentenza n. 389/1989 e 
n. 113/1985), ancora una volta richiamato che, giusta sentenza C/ 457 di data 11 
novembre 2004, il principio di diritto comunitario risulta essere 
incontrovertibile e che le nominate disposizioni di legge risultano essere con 
esse incompatibili …, il Tribunale ritiene sussistere, nel caso sottoposto al 
suo esame, condizioni vincolanti nel senso della disapplicazione delle norme di 
diritto interno in contrasto (tanto seguendo la traccia segnata dalla Corte 
costituzionale a partire dalla sentenza n. 170/1984). 
17
Com’è noto, il Tribunale di Rieti, in data 20 novembre 2002, adiva la Corte di 
Strasburgo, ai sensi dell’art. 234 del Trattato, invitandola a pronunciarsi, in 
via pregiudiziale, sulla nozione giuridica di rifiuto, secondo l’ordinamento 
comunitario e, conseguentemente, sulla “compatibilità comunitaria” di una norma 
nazionale (l’art. 14, della legge 178/2002) adottata, in via d’urgenza, dal 
governo - ma ratificata poi dal parlamento - che ne forniva una “definizione 
autentica”, con l’intento dichiarato e ben preciso di non assoggettare agli 
oneri economici (aggravi di spesa) e burocratici (perdite di tempo, 
incomprensioni e rischio di errori), propri della normativa sulla gestione dei 
rifiuti, quei “materiali residuali di produzione e di consumo” (come i rottami 
ferrosi) che fossero “effettivamente riutilizzati, senza subire alcun intervento 
preventivo di trattamento” ovvero subendo trattamenti preliminari minimi (per 
es. cernita, compattazione, macinazione, vagliatura, ecc. e, quindi, non di 
“recupero completo”), nel medesimo o diverso ciclo produttivo (cioè presso il 
produttore o presso terzi), ovviamente senza recare pregiudizi all’ambiente.
18
Non di condanna dell’Italia o di annullamento di quella disposizione, come si è 
letto o sentito da alcuni primi commentatori, per quanto ho cercato di chiarire 
nel contributo indicato a nota 7.
19
Cioè sulla base delle stesse sentenze della Corte costituzionale citate nelle 
ordinanze di Terni e di Venezia che hanno sollevato le questioni di 
costituzionalità indicate, retro, a nota 12. 
20
Il suo contenuto - di accertamento del significato e portata della norma 
comunitaria (e non di quella nazionale) - non è dato una volta per tutte (una 
sorta di sentenza passata in giudicato). All’opposto, essa non preclude affatto 
la riproponibilità della stessa questione (e dunque un ulteriore rinvio 
pregiudiziale sul medesimo tema) anche da parte del giudice rimettente (per 
chiedere chiarimenti) o di altri giudici, sulla base ovviamente di nuovi 
elementi e/o nuove prospettazioni. In definitiva, detta pronuncia vincola il 
Tribunale di Terni – che l’ha sollecitata – ma non le altre autorità giudiziarie 
(civili, penali, amministrative) le quali non condividano le sue conclusioni. In 
proposito è sufficiente rinviare ad un qualsiasi manuale di diritto comunitario, 
come quelli citati nella mia nota “Nuovo capitolo sulla nozione di rifiuto,” 
cit. e, da ultimo, al volume della ASTRID, “La costituzione europea , cit., a 
cura di F. Bassanini e G. Viveri, citt. pag. 266. 
21
Cfr. G. Gaja, Introduzione al diritto comunitario, Bari, 1996, pag. 63.
22
V., fra le tante, Corte di giustizia 24 novembre 1993, cause C- 267-268/91 
(sentenza Keck).
23
Nell’annotare la sentenza in Foro it. 2000, IV, col 150, V. Paone osserva, fra 
l’altro, che “ .. la pronuncia.. rischia di aggiungere ulteriori elementi di 
confusione nel dibattito tuttora aperto sulla conformità della legge n. 178/2002 
al diritto comunitario”.
24
Così riassume un punto saliente della sentenza V. Paone, op. ult. cit.
25
Tale ultima espressione non è sfuggita a V. Paone, che, nell’annotare la 
sentenza, in Foro it. 2003, IV, col 510, osserva: “ la Corte di Giustizia 
sostiene che certi materiali possono essere sfruttati o commercializzati, a 
condizioni favorevoli per i detentore, in un processo successivo onde si può 
opinare – anche se con notevoli perplessità a riguardo – che la corte volesse 
anche riferirsi alla eventualità in cui il residuo sia consegnato a terzi che lo 
riutilizzano in un nuovo ciclo produttivo . . Siamo dell’avviso che vanno 
ristretti i casi in cui i residui riutilizzabili sono sottratti alla sfera di 
applicazione della normativa sui rifiuti alle ipotesi in cui si instauri un 
rapporto diretto tra produttore del residuo e suo utilizzatore (ad esempio i 
gusci d’uovo macinati per produrre fertilizzanti)”.. 
26
In Foro it. 2002, V, col 510.
27
Così si esprime D. Rottgen, in “Primi commenti alla nozione di rifiuto secondo 
la Corte CE”, in Ambiente, n. 1/2005, pag. 5 e ss. il quale, critica 
puntualmente, e correttamente, il giudice lussemburghese concludendo che “.. la 
definizione comunitaria di rifiuto contenuta nella direttiva non comprende beni 
immobili, quali, per esempio, il terreno inquinato presente in un sito.. 
Nonostante ciò, resta il fatto che la sentenza della Corte crea una sostanziale 
incertezza di diritto..” (v. pag. 12, ultima colonna). Altro che coerenza ed 
efficacia vincolante delle sentenze della Corte (sulle direttive classiche)…!
28
Così V. Paone, cit. a nota 25, il quale, peraltro, in un successivo contributo, 
“La nozione di rifiuto tra diritto comunitario e diritto penale, in Foro it., 
2005, IV, col 19, a commento di Corte di giustizia 11 novembre 2004, cit., 
riassume la deroga alla nozione di rifiuto – con riferimento ai residui di 
produzione e consumo – alle seguenti condizioni (con qualche interessante 
apertura): “.. per garantire la massima protezione ambientale”: a) il riutilizzo 
del materiale non deve essere solo eventuale, ma certo; b) il riutilizzo deve 
avvenire senza la preliminare trasformazione del materiale; c) il riutilizzo 
deve avvenire nel corso dello stesso processo di produzione; d) il riutilizzo 
può avvenire anche in un processo successivo, rispetto a quello di 
provenienza, ma sempre senza trasformazioni preliminari; e) il riutilizzo deve avvenire, in 
ogni caso, senza arrecare danni all’ambiente”. 
29
Ricostruzione da compiere secondo canoni di probità e neutralità interpretativa 
e non in base a prospettive e/o con scopi di prevenzione penale, certo 
giustificabili, nel singolo caso, ma non adottabili, in via generale e 
sistematica, con l’effetto di colpire tutti quegli operatori (sicuramente la 
grande maggioranza) che operano nella legalità.
30
Forse che non costituisce “criterio di riconoscimento” di una sostanza come 
merce e non come rifiuto “ il grado di probabilità del riutilizzo di tale 
sostanza senza operazioni di trasformazione preliminare” ( v. sentenza Palin 
Granit, punto 37, richiamata dal punto 37 dell’ordinanza, in esame)? 
31
Così G. Amendola, in Foro it. 2004, IV, col. 151, “Rifiuti, prodotti, e 
sottoprodotti: il coke di Gela”.
32
In tali evenienze non si può parlare, ovviamente, di contraddizione in cui 
sarebbe incorso l’organo giudicante ma, più correttamente, di un suo mutamento 
di “orientamento”, del tutto previsto, nell’esercizio del potere giurisdizionale 
(quello che i francesi definiscono, con metafora marinaresca, revirement 
giurisprudenziale cioè “mutamento di rotta” o “virata” ). 
33
Altrettanto si può dire per la nostra Corte di Cassazione che, pur investita 
dello stesso compito nomofilattico, ex art. 65 dell’Ordinamento giudiziario, ha 
fatto spesso registrare, nei più disparati settori ordinamentali, profondi 
rivolgimenti di precedenti assetti: basti pensare, di recente, alla sentenza 
delle Sez. Un. n. 500/1999 la quale ha affermato la risaricibilità del danno da 
lesione di interessi legittimi (anziché dei soli diritti soggettivi), azzerando, 
con un colpo di penna, mezzo secolo di propria giurisprudenza contraria!
34
V. G. Tesauro, Diritto comunitario, 2003, pag. 285. Nello stesso senso, fra i 
tanti, v. G. Greco, Rapporti tra ordinamento comunitario e nazionale, in 
Trattato di diritto amministrativo europeo, a cura di M.P. Chiti e G. Greco, 
1997, pag. 399. L’effetto diretto all’interno degli ordinamenti interni è 
prodotto dalla fonte giuridica comunitaria e non dalla sentenza del giudice 
lussemburghese.  
35
V. G. Tesauro, op. cit., pag. 323 : “ .. I giudici e amministrazioni nazionali 
saranno tenuti a fare applicazione delle norme così come interpretate dalla 
Corte”.
36
Così Corte Costituzionale 11 luglio 1989, n. 389, cit. 
37
Cfr. G. Tesauro, op. cit. pag. 285. 
38
Non quindi della direttiva classica.
39
V. nota precedente.
40
V. nota precedente.
41
La Corte, sul punto, chiarisce: “In ogni caso, il fenomeno in parola va distinto 
dall’abrogazione, o da alcun effetto estintivo o derogatorio, che investe le 
norme all’interno dello stesso ordinamento statale, ad opera delle sue fonti. 
Del resto, la norma interna contraria al diritto comunitario non risulta – è 
stato detto nella sentenza n. 232/75, e va anche qui ribadito – nemmeno affetta 
da alcuna nullità, che possa essere accertata e dichiarata dal giudice 
ordinario. Il regolamento, occorre ricordare, è reso efficace in quanto e perché 
atto comunitario, e non può abrogare, modificare o derogare le confliggenti 
norme nazionali, né invalidarne le statuizioni. Diversamente accadrebbe, se 
l’ordinamento della Comunità e quello dello Stato – ed i rispettivi processi di 
produzione normativa – fossero composti ad unità. Ad avviso della Corte, 
tuttavia, essi, per quanto coordinati, sono distinti e reciprocamente autonomi. 
Proprio in ragione, dunque della distinzione dei due ordinamenti, la prevalenza 
del regolamento adottato dalla CEE va intesa come si è con la presente pronunzia 
ritenuto: nel senso, vale a dire, che la legge interna non interferisce nella 
sfera occupata da tale atto, la quale è interamente attratta sotto il diritto 
comunitario”.
42
In tal senso, v. Corte di giustizia 26 settembre 1996, Arcaro; Id. 25 giugno 
1997, Tombesi; Id. 1 settembre 2000, Collino e Chiappero; e, per il giudice 
nazionale v. Cass. pen. Sez. 3, 28 ottobre 1997 – 26 giugno 1997, n. 1699, Aprà 
nonché, da ultimo, Cass. pen. 3 sez. 13 dicembre 2002, Passerotti.
43
Per es., V. Paone, a commento della sentenza della Corte di giustizia 11 
novembre 2004, in Foro it. 2005, IV, col. 16.
44
Cfr. . G. Tesauro, , op. cit., pagg. 97/101.
45
V., oltre, nota 57 ove un noto “parere” del 13 maggio 1992, di quel giudice è 
esaminato in termini più appropriati.
46
Non motivate sul punto, salvo richiami impropri a decisioni del giudice 
costituzionale (richiamanti però il Trattato o i regolamenti), come sopra 
indicato.
47
L’orientamento minoritario, che improvvisamente suggerisce di disapplicare la 
normativa nazionale per applicare le direttive comunitarie o le sentenze della 
Corte di Giustizia (che sarebbero “immediatamente e direttamente applicabili in 
Italia”, in ogni caso e senza alcuna distinzione in ordine alla fonte 
comunitaria interpretata con efficacia diretta o meno), è rappresentato, in 
specie, da Cass. pen. sez. 3°, 27 novembre 2002, ric. Ferretti, in Foro it., 
2003, II, 116 (rel. Novarese); Id. 5 marzo 2002, ric. Amadori, in Foro it., 
2002, II, 673, 681 (rel. Novarese);. Per l’indirizzo prevalente, sostanzialmente 
condivisibile, in quanto rispettoso del sistema costituzionale e comunitario 
delineato nel testo, si vedano, in particolare:, Cass. pen., sez. III, 13 
novembre 2002, ric. Ronco; Cass. pen., sez. III, 13 dicembre 2002, ric. 
Passerotti, in Foro it., 2003, II, 116; Cass. pen., sez. III, 22 gennaio 2003, 
ric. Costa, in Foro it. 2003, II, 514, con nota di V. Paone; Cass. pen., sez. 
III, 11 febbraio 2003, ric. Mortellaro ; Cass. pen., sez. III, 31 luglio 2003, 
ric. Agogliati ed altri; Cass. pen., sez. III, 9 ottobre 2003, ric. De Fronzo 
(le ultime due decisioni, con nota di commento a cura di S. Beltrame, in 
Ambiente, IPSOA, n.12/2003, pag. 1179); Cass. pen., sez. III, 13 dicembre 2002, 
ric. Pittini, in Ambiente & Sicurezza, con nota di Butti; Cass. pen., sez. III, 
12 novembre 2003, ric. Puppo; Cass. 14 novembre 2003, Balistreri, Ced Cass., rv. 
227393; Cass. 14 novembre 2003, Min. difesa; id. rv. 227554; Cass. 25 giugno 
2003, Papa, inedita; Cass. 25 giugno 2003, Malpignano, inedita; Cass. 6 dicembre 
2002, Belardinelli, Rivistambiente 2003, 980 (con nota di Prati); G.i.p. Trib. 
Palermo 14. 02.2004, in www.giuristiambientali.it; Trib. Caltanissetta 3 luglio 
2003, Barbaro, Riv. Pen. 2003, 770; per il giudice amministrativo: cfr. TAR 
Veneto 28 maggio 2003, n. 3479/03 (reperibile sul sito web: 
www.giustizia-amministrativa.it); Cons. di Stato, sez V, 19 febbraio 2004, n. 
674;. 
48
Diverso discorso ovviamente è da fare se si invocasse, a mio avviso 
impropriamente, il regolamento comunitario n. 259/93, per le ragioni che 
esporranno in altra occasione. 
49
Tramite il suo Capo Gabinetto che, con missiva a firma del Prof. Paolo Togni, 
del 17 gennaio 2005, in risposta alle richieste delle Capitanerie di Venezia e 
di Monfalcone ha fornito le precisazioni di cui al testo.
50
Questo il testo: “ E’ necessario, in primo luogo, precisare che la direttiva 
comunitaria sopra indicata non è self executing; in altre parole la direttiva di 
cui trattasi non è direttamente applicabile nell’ordinamento italiano, 
diversamente da quanto ipotizzato sub b) dalla Capitaneria che propone il 
quesito. La circostanza non merita ulteriore approfondimento essendo 
riconosciuta dalla stessa Corte di Giustizia oltre che dalla Corte di 
Cassazione. Tuttavia la precisazione appare opportuna in quanto il quesito si 
incentra sulla possibilità che la definizione italiana di rifiuto, come 
interpretata dal legislatore nazionale, sia stata direttamente modificata da una 
sentenza della Corte di Giustizia che ha interpretato una direttiva non 
direttamente applicabile. Ciò posto, occorre ricordare che le sentenze 
interpretative della Corte di Giustizia producono effetti solo sulla norma 
comunitaria interpretata e non sull’ordinamento degli Stati membri; sarà poi la 
norma comunitaria, nell’interpretazione data dalla Corte, ad esplicare o meno 
effetti diretti nell’ordinamento interno a seconda della propria natura”.
51
In proposito così si argomenta: “.. Si parla di immediata applicabilità di una 
norma comunitaria (norma avente effetti diretti) quando la norma incide 
direttamente sulle situazioni soggettive dei cittadini degli Stati membri. Tale 
fattispecie non ricorre quando, come nel caso della direttiva cui si riferisce 
la sentenza interpretativa 11 novembre 2004 della Corte, la norma comunitaria 
pone obblighi non per i cittadini ma per gli Stati membri e può essere applicata 
nei vari ordinamenti solo attraverso l’intervento del legislatore nazionale.
Come ha più volte affermato la Corte Costituzionale solo le norme comunitarie 
direttamente applicabili prevalgono, senza tuttavia produrre effetti estintivi, 
rispetto alle norme nazionali con esse incompatibili. Esclusivamente in tale 
evenienza le autorità nazionali hanno il potere-dovere di risolvere il contrasto disapplicando la norma nazionale. Come detto, nel caso in esame, siamo in 
presenza di una norma comunitaria non direttamente applicabile, di conseguenza 
non insorge diretto contrasto tra la norma comunitaria, nella interpretazione 
datane dalla Corte di Giustizia e la norma nazionale con essa incompatibile; 
infatti le due normative si muovono su piani differenti e sono collegate 
esclusivamente dall’intervento del legislatore nazionale.
52
In proposito, oltre all’opinione riportata retro di V. Paone (v. nota 28), si 
legga quanto scritto, in conformità, da G. Amendola : “..Ha facile gioco, 
quindi, il Capo di Gabinetto del Ministero dell’Ambiente, a rispondere, con nota 
del 17 gennaio 2005, che la direttiva non è affatto self executing e che, 
quindi, le norme in essa contenute non sono direttamente applicabili negli Stati 
membri. Il che è totalmente condivisibile ma nulla ha a che vedere con il 
problema posto…. In realtà, il contrasto esiste, ma riguarda l’art. 14 della 
legge 178/2002, la quale vuole fornire una <<interpretazione autentica della 
nozione di rifiuto>>; e riguarda la sentenza Niselli della Corte europea che ha 
dichiarato questo articolo contrastante con la normativa comunitaria, in quanto 
consente di sottrarre rifiuti alla relativa disciplina stabilita dalla Unione 
Europea. Quindi, il vero problema che bisogna porsi è quali conseguenze derivano 
da una sentenza della Corte europea la quale dichiari una norma italiana 
contrastante con la normativa Europea..”. (così in “Rottami metallici, Ministero 
dell’ambiente e Capitanerie di porto”, in www. Dirittoambiente.com) . Si è già 
detto, su tale distinto tema, che l’espressione 
relativa “all’applicazione diretta della sentenza comunitaria” contiene un 
equivoco (perché il giudice e la P.A. applicano la norma comunitaria, non la 
sentenza interpretativa di essa) ed è giuridicamente erronea ove, tramite la 
sentenza, si voglia riconoscere efficacia diretta ad una norma di direttiva non 
self executing. 
53
Onde mi risulta incomprensibile la distinta spiegazione, volta a svalutarne il 
peso giuridico del parere, secondo cui “.. ci troviamo preliminarmente a 
comprendere che i richiedenti hanno inteso richiedere un quesito, e non un 
parere”: così D. Carissimi, in www.dirittoambiente.com. 
54
Ovviamente amministrative, per la rilevata soggezione della magistratura 
soltanto alla legge, con potestà di disapplicazione di ogni atto o provvedimento 
amministrativo ritenuto illegittimo. 
55
Ai sensi dell’art. 1, comma 3, del DPR n. 245/2001, recante Regolamento di 
organizzazione degli uffici di diretta collaborazione del Ministro 
dell’ambiente, adottato ai sensi dell’art. 7, d. lgs del 30 luglio 1999, n. 300.
56
Tra questi obiettivi va certamente annoverato quello – più volte dichiarato dal 
Ministro dell’ambiente - del potenziamento del mercato dei residui produttivi, 
in generale, e dei materiali ferrosi, in particolare, secondo quanto disposto 
dall’art. 14, legge n. 178 cit., prima, e dalla legge n. 308/2004, dopo.
57
Dovrebbe risultare ormai chiaro che, quando il Consiglio di Stato, nel noto 
parere del 13 maggio 1992 cit. afferma che le sentenze interpretative della 
Corte di Giustizia, “.. pur non importando la caducazione della norma interna 
ritenuta incompatibile, si traducono in un obbligo di attuazione della normativa 
comunitaria rivolto a tutti i soggetti giuridicamente tenuti all’attuazione 
delle leggi, ed in particolare alle autorità giurisdizionali e amministrative “, 
esso si riferisce, indubitabilmente, alle ipotesi in cui la sentenza comunitaria 
cada su norme aventi effetti diretti (e non è il caso della sentenza 11 novembre 
2004, Niselli), come si desume dal seguente passo dello stesso parere: “… tutti 
i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e 
agli atti aventi forza o valore di legge) – tanto se sono dotati di poteri di 
dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di 
tali poteri, come gli organi amministrativi - sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili 
con le norme ….. del Trattato CE 
nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea >>. Nella 
fattispecie decisa dalla Corte di Giustizia del 10 dicembre 1991, in causa 
C-170/90 (in Foro it. 1992, IV, 225) – richiamata dal Consiglio di Stato cit. – 
il giudice comunitario, adito per risolvere una questione pregiudiziale, aveva 
dichiarato che il monopolio delle compagnie portuali di Genova (per le 
operazioni di carico e scarico), assicurato dall’art. 110, codice della 
navigazione, era incompatibile con le norme del Trattato (artt. 90, 30, 48 e 86 
) le quali pongono il divieto di restrizioni quantitative all’importazione, la 
libera circolazione dei lavoratori, il divieto di sfruttamento di posizione 
dominate ecc. cioè precetti costituzionali immediatamente efficaci negli 
ordinamenti interni. Si imponeva pertanto, ai giudici italiani e alla pubblica 
amministrazione, di disapplicare la norma interna ed applicare, in sua vece, gli 
articoli citt. del Trattato .. “nell’interpretazione datane dalla Corte di 
Giustizia” (operazione che non può ripetersi nel nostro caso, come suggerisce G. Amendola, op. ult. cit., il quale, per giustificare l’obbligo di disapplicare la 
norma interna e di dare attuazione alla sentenza Niselli dell’11 novembre 
scorso, cita a sostegno della sua tesi proprio il parere del Consiglio di Stato, 
sopra riportata, senza avvedersi della distinta fattispecie decisa (né la P.A. 
né il giudice ordinario e/o speciale, potrebbero applicare la sentenza Niselli 
per dare applicazione alla direttiva 75/442, perché quest’ultima non riveste, 
come ripetuto, l’efficacia delle norme del Trattato o di quelle del 
regolamento). 
58
E’ bensì vero che in alcune pronunce della Cassazione si è fatto cenno, con 
espressioni tralatizie e apodittiche, alla diretta applicazione delle sentenze 
della Corte di Giustizia ma, ove si confrontino tali pronunce con quelle, di 
gran lunga prevalenti che, all’opposto, affermano la vincolatività e dunque 
danno attuazione all’art. 14, cit. (di cui appare esemplare la decisione assunta 
da Cass. pen. Sez. 3, 13 dicembre 2002, ric. Passerotti, cit. a nota 47), ci si 
accorge, all’evidenza, ben oltre il criterio (favorevole) della prevalenza 
numerica, quale indirizzo meriti adesione, in base alla congruenza e adeguatezza 
delle motivazioni giuridiche poste a fondamento della scelta ermeneutica 
propugnata (sulla quale concorda, in questo caso, anche il Ministero 
dell’ambiente). 
59
Così, G. Amendola, in Rottami metallici cit. pag. 6. 
60
In tal senso, V. Cerulli Irelli – F. Pizzetti, La Costituzione europea cit., 
2004, pag. 267 che notano: “Quanto alle norme giuridiche nazionali in contrasto 
(con fonti europee ad efficacia diretta), si è detto, in base alla costruzione 
sinora seguita, che esse devono essere disapplicate dal giudice. Tuttavia resta 
in piedi per esse, lo scrutinio di legittimità davanti alla Corte costituzionale 
laddove il contrasto si rilevi nei confronti della normativa comunitaria non 
produttiva di effetti diretti, la quale, quindi, come tale non può essere 
applicata dal giudice (Corte cost. sentenze nn. 170/84; n. 286/86). E la 
competenza della Corte costituzionale a sindacare leggi nazionali in contrasto 
con la normativa comunitaria viene affermata altresì nel caso di ricorsi in via 
principale rispettivamente dello Stato e delle regioni ai sensi dell’art. 127, 
Cost. (Corte cost., sent. n. 94/5).
61
V. nota precedente. In ordine al possibile richiamo del nuovo testo dell’art. 
117, 1° comma, Cost. - il quale, com’è noto, stabilisce il rispetto << dei 
vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario >> come quello che, tra gli 
altri, limita, in punto di costituzionalità, la potestà legislativa sia dello 
Stato che delle regioni – la stessa dottrina, da ultimo citata, conferma che 
tale limite “… potrebbe indurre a predicare, senz’altro, l’incostituzionalità 
delle norme legislative nazionali in contrasto con il diritto europeo” da far 
valere dinanzi alla stessa Corte (op. cit. pag. 267).
62
Come sembra ammettere lo stesso Amendola, op. ult. cit., con la seguente 
considerazione: “… E’ una situazione paradossale, resa ancora più grave 
dall’approvazione, 14 giorni dopo la sentenza Niselli, di una espressa 
disposizione, contenuta nei commi 25-29 dell’art. 1 legge 15 dicembre 2004 n. 
308, secondo cui, in sostanza e in diretto contrasto con la sentenza Niselli, 
l’art. 14 resta valido ed i rottami metallici sono sottratti alla disciplina dei 
rifiuti”. Si può personalmente non condividere una norma di legge dello Stato ma 
essa resta tale anche (e soprattutto) per il magistrato, nel periodo della sua 
vigenza, fatti salvi i rimedi indicati.
63
Sono soggetti << all’obbligo di disapplicare disposizioni contrastanti della 
legge interna non solamente i giudici nazionali ma anche quelli degli organi 
dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali >> ( Corte giust., 
sent. 29.4.1999, Ciola, causa 224/97; precedentemente:, Corte giust., sent. 
22.6.1989, f.lli Costanzo, causa 103/88).
64
Lo stesso giudice, nell’ambito del sindacato di legittimità sull’atto 
amministrativo, deciderà se sollevare questione di pregiudizialità comunitaria 
dinanzi alla Corte di giustizia o di costituzionalità davanti al giudice delle 
leggi.
65
Sarà il giudice amministrativo, in sede di giudizio sull’impugnazione dell’atto, 
a dichiarane l’invalidità appurando che, nella fattispecie, doveva essere 
applicata la norma europea in vece di quella nazionale (nell’incertezza, 
rimettendo la questione alla Corte di giustizia).
66
In tal senso, testualmente, V. Cerulli Irelli e F. Pizzetti, op. cit. 2004, pag. 
275. 
67
Secondo gli AA citati a nota precedente.
68
V. nota precedente.
69
Si veda G. Amendola, Rottami metallici, cit., in www.dirittoambiente.com , il 
quale afferma: “… Non è questa la sede per ulteriori approfondimenti, ma, a 
nostro sommesso avviso, in questa situazione, c’è una sola strada da indicare ai 
funzionari italiani: riferire, immediatamente e per iscritto al Procuratore 
della Repubblica competente per territorio qualunque caso dubbio, chiedendo 
espresse indicazioni ed allegando, se necessario, sia le indicazioni 
dell’Autorità amministrativa sia le indicazioni della giurisprudenza, 
comunitaria e nazionale, riportate in questa nostra nota”. Mi permetto di 
rilevare che le tre sentenze della Cass. pen. citate dall’Autore a sostegno 
della sua tesi, riportate retro , in testa a nota n. 45, costituiscono un 
isolato orientamento contrario all’indirizzo prevalente richiamato nella stessa 
nota. 
70
Osserva, in proposito, G. Tesauro, op. cit, pag. 302: “Sono, in particolare, 
stati esclusi dalla nozione di giurisdizione, ai sensi dell’art. 234 del 
Trattato, la pubblica accusa, come il Procuratore della Repubblica italiano: v. 
Procura Torino, causa C-74/95 e 129/95, sentenza 12 dicembre 1996, punti 18/19; 
e già Pretore di Salò, causa 14/86, sentenza 11 giungo 1987.
71
Per richiamare i destinatari dei suggerimenti di cui a nota 69, per i motivi 
indicati a par. 5.
72
Posto in luce, retro, a par. 3.3.
73
V. retro, nel testo, nonché nota 42 e, da ultimo, la sentenza della Corte di 
Giustizia 3.05.2005 (ricorrenti S. Berlusconi, S. Adelchi, M. Dell’Utri e altri) 
sul falso in bilancio, ove si ribadisce che: “ una direttiva non può avere come 
effetto, di per sé ed indipendentemente da una legge interna dello Stato membro 
adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità 
penale degli imputati”. 
74
Richiamata a nota 47 che ha dato applicazione all’art. 14 cit., salvo casi 
episodici e del tutto isolati. 
75
Commentato a nota 57. 
76
Esposti a par. 3.3. Diversa soluzione va ricercata in caso di contrasto fra 
norma interna e regolamento comunitario, ma non sembra il nostro caso (come si 
esaminerà, in altra occasione, con riferimento al regolamento 93/259 cit.). 
77
Per es. dal capo di gabinetto del Ministro Matteoli, Paolo Togni, il quale, con 
toni molto perentori, ha dichiarato al presidente di Federacciai - come 
riferisce L. Di Pillo, su “Il Sole 24 Ore” del 26 gennaio scorso, pag. 20, che 
“.. la normativa vigente consente alle imprese danneggiate dai comportamenti 
irresponsabili e illegittimi dei magistrati di chiedere loro conto dei danni e 
il ministero sarà lieto di schierarsi a fianco degli operatori economicamente 
corretti...”. 
78
Sulla responsabilità amministrativa – oggetto di accertamento da parte della 
Corte dei Conti - per violazione degli obblighi di servizio e sul grado di colpa 
del pubblico dipendente, v. da ultimo, M. Andreis, in La responsabilità civile 
della Pubblica Amministrazione (a cura di F. Caringella e M. Protto), Zanichelli, 
Bologna, 2005, pag. 1821 e ss. Quanto alla responsabilità disciplinare del 
magistrato, essa è sempre connessa ad un comportamento, atto o provvedimento che 
ha cagionato un danno ingiusto, in quanto posto in essere contra ius. In altre 
parole si tratta di un comportamento, atto o provvedimento giudiziario diverso 
da quello che avrebbe dovuto essere realizzato ove il responsabile avesse 
correttamente applicato alla fattispecie esaminata la norma giuridica 
corrispondente. Come è noto si richiede altresì un atteggiamento della volontà 
che assuma la forma del dolo o della colpa grave. Quest’ultima si configura, nel 
caso di erronea interpretazione delle norme giuridiche, quando tale erroneità 
derivi da negligenza inescusabile, vale a dire insuscettibile di giustificazione 
(nel nostro caso, la colpa andrebbe valutata con riferimento alle nozioni 
indicate di (sicura) validità e non disapplicabilità della norma nazionale, 
ancorché ritenuta in contrasto con direttive non autoapplicative in sede di 
accertamento pregiudiziale, prima del giudizio di validità della Corte 
costituzionale nel (pacifico) rapporto fra i due ordinamenti giuridici: 
comunitario e nazionale). 
 
 
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 6/10/2005