Responsabilità e risarcimento per il danno cagionato dall'incapace (artt. 2046-2047 del codice civile).(*)
CIPRIANO COSSU
(*) Le pagine che seguono sono parte di capitolo della monografia AA.VV.Atto illecito e responsabilità civile che è primo dei tomi dedicati alla materia della responsabilità civile nel Trattato di iritto privato diretto da Mario Bessone per la casa editrice Giappichelli(**)
SOMMARIO: Parte prima: DANNO E
IMPUTABILITÀ: 1. La nozione di imputabilità. Imputabilità e colpevolezza.
Le actiones liberae in causa. – 2. Imputabilità penale. Imputabilità
civile. – 3. Incapacità naturale e incapacità legale: il minore d’età e
l’infermo di mente. – 4. Il concorso di colpa dell’incapace. – 5. La
risarcibilità dei danni non patrimoniali. – 6. Imputabilità e responsabilità
oggettiva. – Parte seconda: IL
RISARCIMENTO DEL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE: 7. La responsabilità dei
soggetti tenuti alla sorveglianza. – 8. La prova liberatoria. – 9. La
responsabilità dell’incapace e la misura dell’indennizzo.
PARTE PRIMA
DANNO E IMPUTABILITÀ
1. La nozione di imputabilità. Imputabilità e colpevolezza. Le actiones
liberae in causa
Perché un danno possa essere riferito ad un dato soggetto – è insegnamento
consolidato – occorre procedere alla valutazione di due distinti elementi: uno
considera la condotta posta in essere e tende a verificare l’esistenza nella
specie del profilo dell’antigiuridicità; un altro concerne la lesione ed è
diretta ad accertare la presenza, nel caso concreto, di un interesse
giuridicamente protetto, vale a dire la sussistenza di un danno «ingiusto».
I criteri che concorrono a motivare il giudizio di responsabilità sono quindi di
due tipi: uno, oggettivo, attiene alla qualificazione della lesione; un altro,
soggettivo, pone l’accento sulla condotta, sull’autore del danno.
È a quest’ultimo criterio che occorre riferire il requisito dell’imputabilità,
in base al quale, a mente dell’art. 2046 c.c., «non risponde delle conseguenze
del fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere e di volere al momento
in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d’incapacità derivi da sua colpa».
Nel giudizio di responsabilità, occorre pertanto procedere preliminarmente ad
una valutazione di una possibilità futura, al fine di verificare l’astratta
possibilità che il danno possa essere messo a carico del soggetto. Vale a dire
per poter argomentare, a fatto avvenuto, il giudizio conclusivo, di imputazione
del danno, si deve prima procedere ad un giudizio di imputabilità:
l’imputabilità è quindi il presupposto dell’imputazione.
Secondo la definizione tradizionale, si intende per «capacità di intendere»
l’attitudine del soggetto a conoscere il valore delle azioni da lui poste in
essere, il «significato sociale» della sua condotta. Per «capacità di volere»,
l’idoneità della persona a determinarsi in modo libero ed autonomo, indipendente
da coazioni esterne1.
Si tratta di capacità analoga a quella richiesta in campo negoziale? La risposta
è sicuramente affermativa, se si guarda ai presupposti teorici delle due figure2,
sicuramente negativa qualora si volesse ipotizzare una tendenziale
equiparazione.
Perché possa ricorrere l’imputabilità è infatti necessario un grado di capacità
che non sempre è sufficiente per integrare anche la capacità negoziale: la
maturità richiesta per il conseguimento della capacità di agire è ben maggiore
di quella idonea a configurare la capacità nell’illecito, la quale rimane
sempre, diversamente da quanto accade per il conseguimento della capacità
negoziale, una questione di fatto, rimessa alla discrezionale valutazione
dell’interprete della singola fattispecie.
La necessità di doversi confrontare con la sfera psicologica, con l’«idea» della
capacità, le implicazioni (allora) tra consapevolezza e concezione della colpa,
l’esigenza di distinguere, fanno dell’espressione imputabilità una nozione
equivoca, a tale punto che non da oggi si deve registrare un dibattito che ha
messo in crisi la stessa «idea» di imputabilità.
Ed in effetti, è stato sottoposto a critica l’insegnamento che negava il
risarcimento del danno non patrimoniale, sull’assunto dell’inesistenza del fatto
reato per difetto dell’imputabilità, opponendo una definizione che assegna
autonomia alla nozione di imputabilità, ritenuta qualifica soggettiva, rispetto
alla colpevolezza, designata come elemento dell’illecito3.
Motivando in particolare sulle nuove direttive in materia di infermi di mente,
si è quindi dubitato dell’automatismo fra malattia ed incapacità (rectius:
imputabilità), in una direzione che denuncia il reale disfavore per l’incapace
costituito dal regime di automatica irresponsabilità4.
La crisi del concetto tradizionale di imputabilità è infine documentato dalle
serrate critiche, ispirate ad una «oggettivizzazione» del concetto di colpa, che
sono state mosse all’opinione che configura l’imputabilità come la premessa di
qualsivoglia ragionamento ispirato a criteri psicologici.
Secondo la teoria tradizionale, sarebbe infatti finanche assurdo argomentare un
giudizio fondato sulla colpa, nel caso in cui al soggetto non si potesse muovere
alcuna riprovazione per il fatto commesso, in ragione della di lui incapacità di
distinguere il «bene» dal «male» ovvero di determinarsi in modo autonomo5.
Di qui l’assunto in base al quale l’imputabilità costituisce il presupposto
della colpevolezza: in questa prospettiva, l’imputabilità viene ad essere
definita come «attitudine» alla colpa. Rispetto a simile conclusione si è dunque
da tempo registrata una tendenza diretta a separare la nozione di «colpevolezza»
da quella di «imputabilità», fino a configurare l’imputabilità come categoria
del tutto autonoma in ragione delle diverse funzioni che le due nozioni
assolvono nel meccanismo normativo. Così che si è potuto argomentare della
possibilità di motivare l’imputazione anche senza considerare il requisito
psicologico6.
Già in tempi non recenti, rispetto alla ricostruzione che configura tecnicamente
l’imputabilità come presupposto della responsabilità, è stata allora opposta una
nozione di colpa che sfugge a qualsivoglia valutazione di tipo morale e
soggettivo, una tesi che configura la colpa come difformità oggettiva del
comportamento posto in essere rispetto ad un modello sociale astratto. Secondo
questo orientamento, il giudizio sulla colpevolezza risulta quindi del tutto
autonomo rispetto alla valutazione circa l’esistenza della capacità d’intendere
e di volere: l’accertamento dell’imputabilità rimarrebbe pertanto materia del
tutto separata dal giudizio circa la colpevolezza.
In questa prospettiva sembra collocarsi anche quella giurisprudenza che
sottolinea la diversità della verifica circa l’esistenza della «capacità di
intendere e di volere», che si risolve in una valutazione di fatto,
incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata7,
dall’accertamento che identifica la colpevolezza. Vale a dire il presupposto che
subordina l’affermazione della responsabilità alla esistenza del dolo o della
colpa in capo all’autore.
In realtà, tali affermazioni non sembrano offrire alcun decisivo argomento. È
del tutto chiaro infatti che, sotto il profilo logico, le due indagini,
sull’imputabilità e sulla colpevolezza, sono del tutto distinte. Il problema è
però un altro: rimane infatti sempre da stabilire se si possa prescindere, nel
dare un giudizio di «colpevolezza», da una (preventiva) valutazione di
imputabilità.
Resta allora indubbio che il dato testuale continua a confermare il rapporto di
dipendenza tra imputabilità e responsabilità: nel dibattito non sembra infatti
che siano stati svolti argomenti tali da escludere che si possa davvero
procedere alla ricostruzione della responsabilità civile prescindendo dalla
capacità d’intendere e di volere.
Meglio allora riconsiderare la tesi dell’imputabilità come presupposto
dell’imputazione del danno, riproponendola in termini relativi. In questa
prospettiva si deve affermare che il ruolo assegnato dall’ordinamento alla
previsione dell’art. 2046 c.c. è quello di regola generale dell’imputazione, per
quelle ipotesi in cui si tratta di responsabilità c.d. soggettiva8.
Soltanto introducendo una nozione di «colpevolezza» indipendente dal dolo o
dalla colpa, può allora essere giustificata anche la tesi secondo la quale la
previsione del 2046 condiziona l’operatività del criterio basato sul dolo o
sulla colpa allo stato di capacità dell’autore del danno9.
Conseguentemente, in quelle altre ipotesi nelle quali il criterio di imputazione
risulta fondato su criteri oggettivi, ogni valutazione circa la capacità
d’intendere e di volere, la «colpevolezza» non può essere ricostruita nei
termini del dolo e/o della colpa, dovendosi guardare essenzialmente alle
modalità oggettive del comportamento (che se non possono, secondo tale teoria,
contribuire a formare un giudizio di «disapprovazione», ben possono costituire
fattore capace di dare ragione al risarcimento: il riferimento è,
essenzialmente, alle previsioni di cui agli artt. 1227, 1° co. e 2047 c.c.).
Alla stessa conclusione perviene peraltro anche chi non condivide la possibilità
di configurare una colpa «obiettiva», rilevando che non vi dovrebbero essere
difficoltà a riconoscere che il fatto illecito dell’incapace possa concorrere
con quello del capace ai fini della diminuzione del danno risarcibile ovvero
possa impegnare il responsabile, sussistendo i requisiti della illiceità10.
In ogni caso, fuori da tali ipotesi, il termine «imputabilità» continua comunque
a conservare una indubbia valenza, rimanendo ad indicare uno dei criteri che la
legge richiede per giustificare l’attribuzione del fatto illecito ad un
determinato soggetto.
In via di principio, pertanto, il giudizio di responsabilità capace di
giustificare il trasferimento del danno da chi lo ha subìto ad un altro
soggetto, dovrà in primo luogo guardare alla sussistenza di determinate qualità
soggettive in capo a colui che dovrà definitivamente sopportare il danno, a meno
che il dato testuale escluda subito l’esigenza di simile indagine, essendo
previsto un criterio di responsabilità che prescinde del tutto da considerazioni
riguardanti la persona dell’agente (l’esempio classico è la responsabilità
stabilita per rischio d’impresa). Mentre rimane da accertare che ciò possa
avvenire anche per quelle ipotesi che una parte della dottrina suole indicare
nei termini della colpa «oggettiva» (dove il problema si risolve tutto nella
stessa nozione di «colpevolezza»).
Fuori da tali problematiche, la cui rilevanza pratica non è in realtà molto
percepibile, si deve in questa sede da ultimo segnalare che nessuna particolare
conseguenza deriva dall’incapacità, come conferma l’inciso contenuto nell’art.
2046 c.c., quando la stessa sia derivata per fatto colposo dell’autore del
danno.
Si tratta delle actiones liberae in causa, dove, tradizionalmente, la condotta
«non libera», resa in stato d’incapacità, deve farsi risalire ad un’azione
anteriore consapevole. In questa ipotesi non vi è motivo, anche in ragione di
una corretta applicazione delle regole in materia di causalità, per non
confermare il regime ordinario di responsabilità. E così, diversamente da quanto
prevede la legge penale, anche nell’ipotesi in cui l’autore del fatto illecito
si sia posto in condizioni di incapacità, senza l’intenzione preordinata di
porre in essere l’azione dannosa11.
Ciò che è qui sufficiente è il fatto che l’autore abbia adottato consapevolmente
un comportamento che lo abbia posto in condizioni di incapacità, dando causa ad
una condotta idonea, secondo i canoni della normalità, a produrre un evento
dannoso, ancorché non voluto e finanche non concretamente previsto (ma
prevedibile: è il classico caso di chi, in stato di ubriachezza, si metta alla
guida di un autoveicolo ed investa un pedone).
Come si deve considerare l’ipotesi in cui il soggetto si sia posto in stato di
incapacità consapevolmente, ma senza avere la possibilità di autodeterminarsi in
maniera davvero libera?
Al quesito ha dato risposta la giurisprudenza, la quale ha escluso che possa
individuarsi una responsabilità quando il comportamento che procura
l’incapacità, pur dovendosi ascrivere al soggetto, sia comunque caratterizzato
dall’inesistenza di una volontà. È questo il caso di cronica intossicazione da
alcool, caratterizzato da un impulso, ripetitivo e condizionante tutto il
comportamento della persona, all’assunzione di sostanze alcooliche e da stabili
perturbazioni di ordine fisico. In tale ipotesi, la situazione dell’autore è
quella stessa del malato di mente, con la conseguenza che la sua capacità deve
ritenersi esclusa ovvero diminuita12.
Parimenti, se lo stato di tossicodipendenza di per sé non potrebbe ritenersi
rilevante ai fini dell’imputabilità, a meno che la droga non sia stata assunta
per forza maggiore o per caso fortuito, quando quello stato sia tale da produrre
un’intossicazione patologica, esso può essere assimilato a quello di un vero
malato di mente13.
È facile osservare che in tale modo la valutazione del comportamento (rectius:
della capacità) si riporta al momento in cui è stato posto in essere l’atto che,
in ipotesi, ha prodotto l’incapacità. L’affermazione dell’irresponsabilità
risulta quindi dipendente dalla valutazione della capacità del soggetto in quel
dato momento: il tossicodipendente viene valutato incapace già prima che assuma
la droga, perché è «inidoneo» ad autodeterminarsi (secondo la definizione
tradizionale, è «incapace di volere») in vista di escludere uno stato che lo
renda «incapace di intendere». Allo stesso modo in cui neppure avrebbe senso
ammettere una indagine diretta a valutare la «libertà dell’azione», ad esempio
nel caso in cui un infante si ubriacasse: la verifica dell’incapacità, per così
dire, «fondamentale», assorbirebbe qui ogni ulteriore considerazione.
2. Imputabilità penale. Imputabilità civile
La formula utilizzata dal codice civile è quella stessa che figura nel codice
penale dove, ai sensi dell’art. 85, 2° co., «è imputabile chi ha la capacità
d’intendere e di volere».
Ed in effetti, per lungo periodo, la nozione di imputabilità a fini civilistici
è stata determinata sulla sola base dell’elaborazione concettuale maturata sul
terreno penalistico: si trattava, in entrambi i settori, di discriminare la
relazione tra fatto illecito ed il suo autore, negando l’esistenza di un
collegamento in relazione allo stato della persona, nel constatato difetto della
capacità di intendere e di volere.
Mentre peraltro, sul terreno penale, il sindacato circa la sussistenza della
capacità registra precisi parametri obiettivi (e legislativamente fissati: così
gli artt. 88, 95, 97 c.p. indicano, tra le cause dell’incapacità, il vizio di
mente, la cronica intossicazione da alcool, l’età inferiore ai quattordici
anni), la prospettiva civilistica – l’attribuzione del fatto illecito – non è
ancorata ad alcun automatismo, sicché l’interprete ha un’elasticità di
valutazione rispetto alla fattispecie concreta del tutto ignota al diritto
penale14.
Di questo tipo di enunciati sono solari conferme anche le più recenti massime
della Corte Suprema, che ancora ribadiscono la sostanziale diversità dei regimi
previsti dalla legge per stabilire l’imputabilità nel campo civile e nel campo
penale. Su quest’ultimo terreno, è la legge stessa che fissa le cause che la
escludono, mentre compete al giudice civile accertare caso per caso se, in
relazione all’età, allo sviluppo psico-fisico, alle modalità del fatto o ad
altre ragioni, debba escludersi o meno la capacità di intendere o di volere15.
Proprio perché finalizzata a scopi del tutto diversi, e diversi essendo i
riferimenti normativi, l’accertamento dell’imputabilità in sede penale non
potrebbe quindi, automaticamente, far stato anche in sede civile. In ipotesi,
soltanto quando si ipotizzi che l’illecito civile rientri nella sfera della
responsabilità soggettiva, nella direzione teorica che si è sopra illustrata,
nel senso quindi che l’imputabilità rileva come fattispecie dell’illecito,
risulta giustificato che quanto acquisito nel processo penale possa essere
valorizzato (anche) sul terreno civilistico16.
3. Incapacità naturale e incapacità legale: il minore d’età e l’infermo di mente
Al fine di escludere l’imputabilità, ciò che rileva è l’incapacità naturale,
vale a dire l’attitudine del soggetto a valutare il valore delle proprie azioni.
Indifferente è quindi lo stato di incapacità legale. Può essere che lo stato di
incapacità legale corrisponda in concreto ad una incapacità di intendere e di
volere.
Così come può – evidentemente – accadere, simmetricamente, che lo stato di
capacità legale non sia sorretto, in maniera permanente o episodica, dalla
consapevolezza dei propri atti. In ogni caso, rimane compito del giudice
accertare nella singola fattispecie, e prescindendo dall’esistenza di una
capacità (o incapacità) legale, l’esistenza della capacità di intendere e di
volere.
Conseguentemente, anche nel caso del minore di età, nessuna presunzione assoluta
può essere utilizzata: l’id quod plerumque accidit su cui si basa
l’incapacità che la legge pone a carico del soggetto minore, è principio che non
può trovare applicazione nell’area dell’illecito extracontrattuale.
Ugualmente non può trovare applicazione sul terreno dell’illecito aquiliano, il
criterio penalistico, fissato nell’art. 97 c.p., che stabilisce la non
imputabilità del minore infraquattordicenne. La legge civile non menziona
infatti alcuna ipotesi capace di escludere l’imputabilità del soggetto, sia pure
minore, in ragione di una particolare età.
Che l’autore del fatto dannoso non abbia ancora compiuto il quattordicesimo anno
di età, evidenza che la legge penale considera come presunzione assoluta di
incapacità, è quindi fatto che non esonera il giudice civile dalla valutazione
circa la capacità di intendere e di volere.
Si tratta di assunti tutti largamente recepiti dalla giurisprudenza. Ed infatti
si registrano modelli di sentenze che riconoscono l’esigenza di una indagine da
condursi caso per caso. Sulla base di regole dettate dalla comune esperienza,
dall’esame della personalità dell’autore eseguita da periti ed esperti, dall’età
del soggetto, dalle modalità della di lui condotta, nonché dallo sviluppo
intellettivo e fisico dell’autore, dalla forza del carattere e dall’attitudine a
comprendere l’illiceità del proprio comportamento17.
Inammissibile è quindi una valutazione che faccia riferimento al puro dato
oggettivo segnato dall’età. Sarà compito del giudice farsi carico delle concrete
circostanze del caso, senza neppure indulgere alla possibilità di assumere
acriticamente quanto già eventualmente statuito in sede penale. Tant’è che è
consolidato il principio in base al quale il soggetto ritenuto incapace per la
legge penale, può essere ritenuto imputabile agli effetti civili18.
In base a tale assunti sarà quindi possibile dichiarare l’imputabilità di un
minore di dodici anni, sull’acquisita constatazione di una condizione psichica e
fisica tale da consentirgli di valutare il significato delle sue azioni ed i
pericoli che possono derivarne19.
Conseguentemente, non deve sorprendere l’affermazione che si rinviene in
giurisprudenza in base alla quale può essere ritenuto imputabile sotto il
profilo civilistico anche il minore di quattordici anni, rimasto coinvolto in
una collisione mentre era alla guida di un ciclomotore20.
Né sono segnali difformi da tali direttive quegli enunciati che escludono, sulla
(sola) base delle regole della comune esperienza, l’imputabilità di una bambina
di anni sei, sull’assunto che sarebbe in re ipsa la situazione di
incapacità di intendere e di volere21.
Ovvero quegli altri enunciati, contenuti peraltro in remote decisioni, che hanno
desunto la certezza dell’incapacità del minore sulla base dell’età estremamente
ridotta22.
Appare infatti evidente che il modello logico rappresentato da queste decisioni,
anche quando assume l’esistenza in re ipsa dell’incapacità, rimane
comunque ancorato ad una valutazione in concreto, confermando l’opinione che in
nessun caso può farsi derivare automaticamente, in ragione dell’età,
l’incapacità d’intendere e di volere.
Se quindi l’accertamento della imputabilità nel caso di un soggetto minore
presenta le sole difficoltà del caso concreto, per quanto riguarda l’ipotesi del
malato di mente, non vi sono ragioni di procedere in modo diverso. Vero è che
anche la qualificazione in termini di insano di mente è frutto di una
valutazione, a differenza della minore età. Altrettanto vero è però che tale
valutazione è suscettibile di riesame e non può quindi essere assunta
acriticamente in via assoluta, in tutti i casi: ben può accadere infatti che la
malattia mentale regredisca, così come ben può ritenersi irrilevante lo stato
patologico, in relazione all’accadimento concreto.
Non può infatti escludersi – a fini civilistici – che il fatto sia stato
commesso dall’incapace in un momento di lucidità, sicché risulta giustificata la
reazione del risarcimento del danno.
Anche quando l’illecito civile sia stato compiuto da un interdetto o da un
inabilitato non vi sono pertanto plausibili ragioni perché la capacità di
intendere e di volere non debba essere comunque accertata in relazione alle
concrete emergenze del caso, prescindendo da qualsiasi automatismo.
In questo stesso senso si colloca anche la serrata critica mossa da una ormai
non più minoritaria dottrina alla stessa nozione di infermo di mente la quale,
anche sulla base di una significativa produzione legislativa (segnatamente, la
l. 13 maggio 1978, n. 180, in materia di assistenza psichiatrica, poi recepita
dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale – n. 431/1978), ritiene
urgente una riformulazione della categoria23.
Si tratta di prospettiva che finisce con il fare proprio l’assunto che configura
l’imputabilità come sinonimo di libertà24,
nel tentativo, allora, di assicurare al malato di mente maggiori spazi di
libertà, censurando la conclusione automatica della inimputabilità dalla
patologia (a sua volta sottoposta a critica, nel rifiuto del concetto di
«normalità»)25.
La nuova disciplina, con l’abrogazione dei reati di omessa custodia e omessa
denuncia di malattie mentali (stabilità dall’art. 11 della l. n. 180/1978),
l’esplicito riconoscimento all’infermo psichico del potere di autodeterminazione
circa il trattamento sanitario, sembra in effetti confermare l’esigenza di una
ridefinizione dell’incapacità di intendere e di volere, non più deducibile in
via automatica dallo stato di infermità mentale26.
Tale tipo di legislazione ha infatti comportato un mutamento profondo nella
concezione giuridica della malattia mentale al punto da configurarla non più
come un problema di pubblica sicurezza, bensì come problema sanitario e di
reinserimento sociale27.
Di qui la possibilità di procedere ad un ribaltamento di prospettiva, fondata
sulla tesi di una tendenziale responsabilità dell’infermo psichico, propria di
altri ambienti, potendosi allora dubitare della validità di un giudizio di
inimputabilità fondato sulla semplice constatazione dell’esistenza di una
infermità psichica. Nella nostra esperienza rimane però ancora estranea la
scelta operata, ad esempio, dal legislatore francese, il quale ha inserito nel
testo del code civil l’art. 489-2 che così dispone: «celui qui cause un
dommage à autrui alors qu’il était sous l’empire d’un trouble mental n’en est
pas moins obligé à réparation». Si tratta del resto di prospettiva ormai
comune alle esperienze giuridiche moderne, considerando che anche negli ambienti
di common law la malattia mentale non è argomento decisivo per negare la
responsabilità28.
4. Il concorso di colpa dell’incapace
Problemi interpretativi di eccezionale rilevanza sono sorti con riferimento al
trattamento che la previsione di cui al 1° co. dell’art. 1277 c.c. (richiamato,
per la responsabilità extracontrattuale, dall’art. 2056 c.c.) sembrerebbe
riservare allo stato di incapacità naturale. Secondo questa previsione «Se il
fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è
diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne
sono derivate».
Si tratta, come è intuitivo, di spiegare come sia possibile ipotizzare una
«colpa» a carico dell’incapace, posto che la condotta di quest’ultimo, in
ragione del suo stato, non può essere qualificata nei termini della
volontarietà.
Una prima soluzione può essere quella di escludere già in radice l’applicabilità
dell’art. 1227 c.c. al caso del danno procurato dall’incapace. Poiché il dato
testuale menziona esplicitamente la nozione di «colpa», è impossibile riferire
all’incapace, in ragione della sua assenza di discernimento, il danno da lui
cagionato29.
Tale tipo di risposta denuncia come la soluzione del problema possa essere
tratta attingendo dalle argomentazioni che sono state proposte (secondo le linee
già sopra segnalate), in ordine all’autonomia delle nozioni di colpevolezza ed
imputabilità.
Chi infatti ritiene che la «colpa» possa essere individuata anche prescindendo
dal profilo psicologico, chi sostiene la tesi dell’indifferenza del giudizio
sull’imputabilità rispetto al giudizio sulla «colpevolezza», riesce a motivare
l’opinione secondo la quale la previsione dell’art. 1227, 1° co., c.c.
costituirebbe altro indizio normativo (insieme all’art. 2047 c.c.), capace di
confermare l’impossibilità di configurare l’imputabilità quale elemento
essenziale della colpevolezza.
Come la responsabilità di cui all’art. 2047 c.c. non sorge – nonostante la
conclamata incapacità – se non tramite una valutazione di «colpevolezza», in
termini «oggettivi» del comportamento dell’incapace, anche la regola del
concorso – ed anche qui nonostante l’affermata incapacità – sarebbe
irragionevole se la colpa a cui fa riferimento la norma non fosse quella che si
evidenzia in termini obiettivi, rispetto ad un modello sociale astratto30.
Di tale dibattito non vi è particolare traccia nella giurisprudenza, della quale
si avverte la fondamentale preoccupazione di non addossare definitivamente il
danno a carico di un soggetto, quando non sussistano valide ragioni (e tale non
sarebbe la circostanza che nell’illecito abbia avuto parte una persona
incapace). Anche qui si tratta peraltro di teoria che la giurisprudenza,
difficile è dire quanto consapevolmente o meno, da sempre ignora.
In risposta a tali esigenze, già a metà degli anni sessanta la Corte Suprema a
sezioni unite31
aveva affermato che la regola enunciata nel 1° co. dell’art. 1227 c.c. trova
applicazione anche nel caso in cui il danneggiato sia incapace, ricomponendo in
tale modo un conflitto che aveva segnato la giurisprudenza della stessa Corte di
legittimità32.
A decorrere dalla sent. n. 351/1964 la Corte non ha invece più avuto
oscillazioni e l’insegnamento in essa contenuto è stato seguito dalla
giurisprudenza successiva, sicché oggi l’orientamento secondo il quale il 1° co.
dell’art. 1227 c.c. trova applicazione anche nel caso dell’incapace è
assolutamente univoco e dominante33.
La sentenza della Corte del 1964 non prende peraltro posizione in ordine
all’autonomia delle nozioni di colpevolezza ed imputabilità ed esclude
l’applicabilità dell’art. 2046 c.c. all’ipotesi del concorso di colpa (non già
in ragione dell’impossibilità di dare un giudizio nei termini della colpa,
stante l’incapacità, ma) sull’assunto che la fattispecie ivi prevista sarebbe
delimitata alla sola ipotesi del danno cagionato dall’incapace (non già a sé
medesimo bensì) a terzi.
In effetti è proprio nell’ipotesi di danno cagionato dall’incapace (a sé stesso
ed) a terzi che si rischia di pervenire a soluzioni palesemente iniquee: mentre
infatti, nel caso di soggetti tutti capaci, il risarcimento, in caso di
concorso, sarebbe graduato in funzione delle rispettive colpe, nel caso in cui
un coautore fosse incapace, dando rilievo allo stato di incapacità, la vittima
sarebbe costretta ad assumersi il danno per l’intero. Compreso il caso in cui,
se l’autore fosse stato capace, rispetto ad una identica condotta, il danno
sarebbe rimasto a carico della vittima34.
Da parte della giurisprudenza, si tratta quindi di un ossequio ad esigenze
equitative, che non incide minimamente sul problema teorico ma anzi, per il
richiamo operato dalla Corte alla regola della causalità, tende a produrre
ulteriori equivoci.
Se infatti le esigenze equitative meritano di essere condivise, numerose
perplessità solleva35,
il richiamo operato dalla Corte alla regola causale, con l’esplicita
dichiarazione che «il principio della riduzione del risarcimento in caso di
danno unilaterale con la colpa concorrente del danneggiato, costituisce
applicazione logica del più generale principio della rispettiva efficenza delle
colpe concorrenti, ai fini della determinazione del quantum di danno di
cui deve rispondere ciascun concorrente». In altre parole, secondo la Corte,
l’elemento subiettivo (della capacità) avrebbe rilevanza (solo) ai fini della
responsabilità e non già ai fini del diritto al risarcimento subito.
A prescindere dal fatto che un simile principio, come già osservava insigne
dottrina in sede di primo commento alla decisione36,
non esiste nel nostro ordinamento (ma semmai, in relazione all’art. 2055 c.c.,
esiste l’opposto principio), deve condividersi la tesi, sostenuta da autorevole
dottrina37,
in base alla quale l’art. 1227 c.c. svolge la stessa funzione preventiva che nel
campo della responsabilità altrui è svolta dall’art. 2043 c.c.: gli incapaci di
intendere e di volere non possono pertanto considerarsi destinatari di tale
previsione, a motivo che non sono in grado di conformare la propria condotta in
modo tale da evitare il danno.
Le – pur innegabili – esigenze di giustizia di cui si fa portatrice la
giurisprudenza neppure sembrano essere motivabili introducendo una nozione di
«colpa» obiettiva. La soggezione al concorso anche nel caso di danno procurato
dall’incapace può infatti essere giustificata sulla considerazione38,
secondo la quale l’art. 1227 c.c. è espressione del principio generale in base
al quale nessuno può invocare il risarcimento del danno da lui stesso provocato.
Correlativamente, chi ha subito un danno deve sopportare quella parte di danno
che sia ricollegabile alla sua condotta, ma non quello che si deve mettere in
collegamento con fattori a lui esterni, compreso quello dell’altrui condotta,
quand’anche incolpevole.
In questa direzione sembra collocarsi una non lontana sentenza della Corte di
Cassazione, la quale ha affermato che nel caso di danno provocato ad un incapace
la responsabilità dell’autore materiale del fatto sussiste solo se è confermata
la colpa di quest’ultimo, con esclusione della percentuale ascrivibile al
comportamento del danneggiato39.
Che, quindi, una parte del danno finisca con il gravare sull’incapace non è
perché può a lui essere rimproverata una «colpa», neppure in senso «oggettivo»,
ma perché nessuna colpa (pro-misura) è riscontrabile nella condotta del
coautore: in assenza di validi criteri di trasferimento del danno, quest’ultimo
non potrà che rimanere là dove si è collocato.
Resta il rilievo della pressoché assoluta irrilevanza di simili questioni sotto
il profilo pratico: la Corte Suprema conclude per l’applicabilità della regola
del concorso anche nel caso dell’incapace, senza motivare con alcuno degli
argomenti utilizzati in dottrina.
L’insoddisfazione per tale tipo di soluzione, che finisce con il far gravare
sull’incapace il danno da lui cagionato (sulla pretesa esistenza di una sua
«colpa»), è stata fatta propria dal Tribunale di Genova il quale ha ritenuto di
sollevare il sospetto di illegittimità costituzionale dell’art. 1227, 1° co.,
c.c., per violazione del principio di eguaglianza40.
La Corte Costituzionale ha respinto tali dubbi, dichiarando che l’equiparazione
del trattamento anche nei riguardi dell’incapace «risulta giustificata dal
rilievo che il comportamento del creditore, sia egli capace o no, si pone
egualmente come un evento di cui il debitore, che non l’ha cagionato,
ragionevolmente non deve rispondere»41.
La giurisprudenza rimane quindi attestata sull’affermazione della rilevanza
giuridica del contributo causale della condotta del soggetto incapace che abbia
concorso alla produzione dell’evento.
Ancora in tempi recenti, in fattispecie di sinistro da circolazione di
autoveicoli, è stato così sostenuto che la prova della incapacità di intendere e
di volere di uno dei due conducenti esclude solo la responsabilità di uno ma non
anche la comparazione della valenza causale delle due condotte. Giustificata è
allora la proporzionale riduzione del risarcimento, in ragione dell’entità
percentuale del contributo causale della condotta dell’autore incapace, dovuto
dall’altro conducente, il quale risponde solo nei limiti dell’incidenza causale
del suo comportamento. E ciò sia nel caso in cui la colpa di quest’ultimo sia
stata in concreto accertata, sia in quello in cui la colpa debba essere, invece,
presunta perché è mancata la prova liberatoria richiesta dall’art. 2054 c.c.42.
Secondo i costanti assunti della giurisprudenza, in tale ipotesi l’indagine deve
essere quindi limitata a conoscere l’esistenza della causa concorrente alla
produzione dell’evento dannoso, prescindendo dall’imputabilità del fatto
all’incapace e dalla responsabilità di chi era tenuto a sorvegliarlo: nel
risarcimento dovuto rimane pertanto esclusa quella parte di danno ascrivibile al
comportamento della vittima43.
Tali orientamenti risultano talmente consolidati che talvolta neppure vengono
esplicitati in sentenza. Così in una recente decisione, dove neppure la massima
redazionale dà conto che si tratta di fattispecie che concerne la questione del
concorso di colpa dell’incapace44.
Soltanto la lettura della sentenza segnala infatti che la fattispecie concerne
l’investimento da parte di un automobilista di un minore (di quasi tredici
anni). Il giudizio non si incentra affatto sulla capacità del minore bensì
(poiché il primo grado si era concluso con l’affermazione della totale
responsabilità della vittima) sull’esigenza di rinvenire un criterio su cui
fondare la possibile concorrente responsabilità dell’investitore.
Quel che qui interessa sottolineare non è che tale principio venga rinvenuto
nell’affermazione – già espressa dalla Cassazione – secondo la quale l’utente
della strada deve uniformare la propria condotta, anche ipotizzando situazioni
di pericolo determinate da altri. Ciò che qui rileva è il fatto che la Corte non
indugia minimamente a considerare lo stato del minore, determinando il
contributo causale della vittima nella misura del 70%.
Qualche temperamento a tale tipo di decisioni viene realizzato soltanto quando
palesi esigenze equitative (in favore dell’incapace) sconsigliano la
riproposizione automatica della regola del concorso. Dalla lettura delle
sentenze, si ha peraltro conferma che si tratta di scelta del tutto
discrezionale, rimessa alla sensibilità del Giudicante. Così, in tempi non
recenti, è stata esclusa, ai fini della riduzione del danno, la rilevanza del
fatto del minore per avere fatto oggetto di un suo gioco una bomba inesplosa,
ritrovata in un campo45;
così come è stata ritenuta irrilevante la condotta dell’incapace per il danno da
lui subìto per la detonazione di una capsula esplosiva da lui acquistata
nonostante l’esistenza di un divieto alla vendita46.
Più recente è la soluzione accolta da una decisione della Corte Suprema47,
dove peraltro – occorre segnalare – la colpa (la condotta) concorrente non era
dell’incapace, bensì dei soggetti che avevano la cura del medesimo.
Nel caso si controverteva infatti del risarcimento del danno subìto dall’attore
per le lesioni personali derivategli da errore di diagnosi e cura quando era
ancora minore a carico dei genitori, i quali avevano colpevolmente ritardato il
ricorso a diverso intervento specialistico. Secondo la Corte tale condotta non
può essere ritenuta come rilevante perché la valutazione del concorso di colpa
del danneggiato deve essere riferita esclusivamente alla colpevolezza del
comportamento del minore, tenuto conto della sua dipendenza anche economica dai
genitori e della sua conseguente mancanza di autonomia decisionale.
Si tratta quindi di fattispecie che non appartiene alla materia qui trattata e
che dovrà essere esaminata con riferimento alla regola di cui all’art. 2047 c.c.
(su cui infra): quella in cui il concorso di colpa sia ascrivibile (non
all’incapace ma) al suo sorvegliante (in un caso di sinistro stradale
verificatosi con il concorso causale di persona incapace, si è precisato che non
può escludersi il concorso di colpa di chi è tenuto ad esercitare la
sorveglianza con quella dell’investitore48.
5. La risarcibilità dei danni non patrimoniali
Considerata la norma di chiusura contenuta nell’art. 2059 c.c., che ancora la
risarcibilità del danno non patrimoniale alla dominante ipotesi della
commissione di un reato (peraltro si vanno sempre più moltiplicando i casi in
cui la legge prevede il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in
ipotesi diverse: da ultimo, v. l’art. 29, n. 9 della l. 31 dicembre 1996, n.
675, sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei
dati personali), l’imputabilità del soggetto è stata ritenuta per un lunghissimo
periodo criterio discriminatore del risarcimento.
Secondo la tesi che a lungo è stata assolutamente dominante in giurisprudenza ed
in dottrina49,
poiché l’imputabilità costituisce elemento essenziale del reato, in difetto del
quale reato non è, ogni conseguenza prevista dall’ordinamento in presenza di un
illecito penale (e così per il risarcimento del danno non patrimoniale) doveva
essere esclusa in assenza di reato. In difetto dell’elemento imputabilità la
vittima non poteva pertanto ottenere la riparazione del danno non patrimoniale
subìto.
A simile conclusione si è opposta l’autorità delle Sezioni Unite della Corte
Suprema, con decisione che si è già sopra segnalata50,
la quale ha affermato che la legge, nel condizionare la risarcibilità del danno
non patrimoniale all’esistenza del fatto reato, non assume la nozione
penalistica di reato, facendo derivare l’irrisarcibilità del danno quando del
reato fa difetto uno dei suoi elementi essenziali.
Secondo la tesi della Corte, ora assolutamente incontrastata51,
non occorre la sussistenza di una effettiva punibilità di natura penale: ciò che
rileva, tenuto anche conto della diversa natura degli interessi tutelati dalla
legge penale e di quelli tutelati dalla legge civile, è l’astratta
qualificazione del fatto come illecito penale.
L’allarme sociale suscitato dal fatto reato si conserva anche nel difetto del
requisito dell’imputabilità: non vi è quindi ragione per negare protezione agli
interessi tutelati dalla legge civile.
Ne consegue che deve ritenersi ammissibile il risarcimento di tutti i danni –
patrimoniali e non – che derivano da quel fatto, indipendentemente dalla
circostanza che l’autore dell’illecito sia un inimputabile sotto il profilo
penale.
6. Imputabilità e responsabilità oggettiva
L’accertamento della capacità di intendere e di volere cessa di avere
significato in tutti quei casi in cui la legge prescinde dalla colpevolezza,
anche quando venga intesa in termini obiettivi: posto che l’imputazione del
danno risponde a criteri che prescindono dalla sfera psicologica dell’autore,
non avrebbe significato procedere a verificare la sussistenza di un requisito
che qui non viene richiesto per l’affermazione della responsabilità.
Nessun motivo avrebbe quindi indagare, ad esempio, nell’ipotesi di cui all’art.
2049 c.c., circa lo stato di capacità dei padroni e dei committenti ovvero, in
relazione alla disciplina di cui all’art. 2050 c.c., dell’esercente un’attività
pericolosa: in questa ipotesi, la liberatoria non è condizionata ad una
particolare condotta non rispettosa del modello sociale né, tanto meno, allo
stato psicologico del soggetto, bensì alla prova «di avere adottato tutte le
misure idonee ad evitare il danno».
Allo stesso modo, nel danno cagionato da cose in custodia (art. 2051 c.c.) o da
animali (art. 2052 c.c.) è (soltanto) la prova del caso fortuito lo strumento
utile per andare esente da responsabilità.
In questa medesima direzione si collocano anche le ipotesi di responsabilità
oggettiva contenute in leggi speciali, le quali a conferma dell’irrilevanza di
ogni indagine in punto «capacità», nulla dettano in materia di imputabilità52.
Ne deriva che in nessun caso il soggetto chiamato a rispondere del danno a
titolo di responsabilità oggettiva potrà essere assolto con l’argomento della
sua incapacità di intendere e di volere53.
Conseguentemente, anche quando fosse dimostrato lo stato di incapacità, sarebbe
comunque possibile affermare la responsabilità.
Su questa posizione non sembra apparentemente essere attestata la
giurisprudenza, la quale ha osservato che quando la responsabilità civile sia
esclusa, ai sensi dell’art. 2046 c.c., in ragione dell’incapacità di intendere e
di volere, è inammissibile l’affermazione della responsabilità a titolo
oggettivo54.
Si tratta peraltro di contrasto più apparente che reale: la soluzione segnalata
non sembra infatti assumere il carattere di massima generale, risultando
motivata sulla base delle (originali) circostanze del caso concreto. Il giudizio
concerneva infatti un sinistro stradale, dove l’incapace risultava proprietario
del veicolo.
La soluzione data dalla Corte, più che affermare la rilevanza dello stato di
incapacità anche nei casi di responsabilità oggettiva, risulta quindi in questo
caso giustificata per l’impossibilità (qui in radice, stante l’incapacità) per
il proprietario di dare prova «che la circolazione del veicolo è avvenuta contro
la sua volontà», vale a dire di quell’esimente che, ai sensi del 3° co.
dell’art. 2054, esonera da responsabilità il proprietario.
Ferma dunque l’irrilevanza dello stato di incapacità quando nel caso la legge
disponga un titolo oggettivo della responsabilità, questioni sorgono quando la
vittima di una tale fattispecie possa essere guardata come soggetto incapace. La
domanda, che si colloca nella prospettiva sopra delineata della rilevanza nel
risarcimento del danno del fatto della vittima incapace, è se, quando la legge
imputi una responsabilità a titolo oggettivo, debba essere considerato l’atto
della vittima ancorché incapace ovvero tale stato debba ritenersi del tutto
irrilevante, sicché rimane ferma in ogni caso la responsabilità oggettiva del
soggetto indicato dalla legge.
È appena il caso di sottolineare che si tratta pertanto di ipotesi in cui il
danno ha inciso esclusivamente nella sfera dell’incapace. Sul piano sistematico
quindi la fattispecie deve essere collocata nella prospettiva che si è sopra
delineata della (rilevanza del principio di) autoresponsabilità (ovvero, in una
prospettiva del tutto estranea alla previsione contemplata dall’art. 2046 c.c.,
che riguarda, a seguire gli orientamenti fatti propri dalla Cassazione,
l’ipotesi del danno causato dall’incapace a terzi).
A tale quesito la giurisprudenza risponde assegnando rilievo al fatto
dell’incapace e perciò esonerando il responsabile, a titolo oggettivo, dal
risarcimento del danno, quando il comportamento della vittima sia stato tale da
rappresentarsi come causa decisiva dell’evento (e così ribadendo – v. supra –
che il criterio di soluzione di fattispecie dove sia coinvolto il soggetto
incapace è quello causale).
In un caso recentemente sottoposto alla Corte di Cassazione si controverteva
della lesione causata, ad un ragazzo di dodici anni dallo snodo di un’altalena.
Affermata l’astratta applicabilità nel caso della disciplina in materia di
responsabilità del produttore, per la (affermata) difettosità del prodotto, la
Cassazione ha ritenuto in concreto di negare tale responsabilità.
Secondo la Corte infatti l’imputazione della responsabilità sulla sola base del
fatto costituito dalla produzione della cosa, rileva solo quando la stessa è
usata secondo una destinazione che il produttore può ragionevolmente prevedere.
Quando il comportamento tenuto dall’utente non rientra in tale giudizio di
ragionevolezza, la responsabilità è esclusa. E poiché nel caso è stato ritenuto
non ragionevole l’uso operato, viene negato il risarcimento55.
Nella stessa materia della responsabilità del fabbricante, si tratta del resto
di affermazione tutt’altro che nuova. Alla stessa stregua (rilevanza del fatto
commesso dal soggetto incapace) venne infatti esclusa la responsabilità del
produttore, in ragione dell’uso fatto del prodotto, nonostante l’avvertenza
stampigliata sullo stesso dal fabbricante, dei pericoli insiti in tale tipo di
uso (nel caso un minore si era ferito giocando con una pistola, nonostante
un’avvertenza con la quale si indicavano i pericoli che potevano derivare se si
fosse impugnata l’arma «vicino agli occhi»)56.
E così se l’evento dannoso è in rapporto di causalità materiale con una
pluralità di azioni ascrivibili a più persone, ciascuna delle quali abbia posto
in essere uno stato di cose che ha condizionato il verificarsi dell’evento, la
responsabilità grava su tutte le persone predette, indipendentemente dalla
«presunzione di colpa» posta dalla legge a carico di talune di essere,
verificandosi un concorso di cause e non potendosi attribuire alla condotta di
colui che si presume in colpa una responsabilità maggiore di quella derivante
dall’obiettiva efficienza causale del suo comportamento57.
NOTE
1 Cfr. Cass. 4 aprile 1959, n. 1056, in Foro it., 1959, I, c.
533.
2 Cfr., sul punto, A. FALZEA, voce Capacità (teoria gen.), in
Enc. dir., VI, Milano, 1958, p. 8 ss.
3 Così L. DEVOTO, L’imputabilità e le sue forme nel diritto
civile, Milano, 1964, p. 100.
4 V., sul punto, fin d’ora, P. CENDON, Profili dell’infermità di
mente nel diritto privato, in Riv. critica dir. privato, 1986, p. 31 ss., specie
p. 70 ss.
5 Poiché «i soggetti capaci d’intendere o di volere sono
naturalmente inetti a discernere e valutare le conseguenze delle proprie azioni
e, come tali, sono a priori sottratti al giudizio di riprovazione corrispondente
alla colpa. Tale giudizio morale è impossibile riguardo ad essi, che per loro
natura agiscono spesso con imprudenza, mai con colpa» (così, letteralmente, DE
CUPIS, Il danno, Milano, 1979, vol. I, pp. 179-180).
6 Identificazione del soggetto - costituzione di figure
giuridiche. Così L. DEVOTO, L’imputabilità e le sue forme nel diritto civile,
cit., p. 87.
7 Cfr. Cass. 30 gennaio 1985, n. 565, in Rep. Foro it., 1985,
voce Responsabilità civile, n. 105; Cass. 27 marzo 1984, n. 2027, ivi, 1984,
voce Responsabilità civile, n. 84.
8 Così G. VISINTINI, Imputabilità e danno cagionato
dall’incapace, in Nuova giur. civ. comm., 1986, vol. II, p. 123.
9 In questo senso, cfr. SALVI, voce Responsabilità
extracontrattuale (dir. vig.), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, pp. 1223-1225.
10 Secondo questa teoria, che si fonda su una particolare
distinzione dell’atto illecito, che è qui impossibile riferire, ne deriva che
«l’imputabilità del responsabile sarà normalmente richiesta quando si tratti di
atto illecito dannoso, quando il danno cioè, derivi da un’azione (cosciente,
volontaria e colpevole) del responsabile, che una norma giuridica valuta
sfavorevolmente. In ogni altro caso (illecito non dannoso, illecito dannoso non
derivante da atto del responsabile) chi è indicato come responsabile dalla
norma, sarà tale anche se non imputabile». Così L. DEVOTO, L’imputabilità e le
sue forme nel diritto civile, cit., pp. 49-50.
11 G VISINTINI, I fatti illeciti. I. Ingiustizia del danno.
Imputabilità, Padova, 1987, p. 500.
12 Cfr. Cass. 19 ottobre 1982, in Rep. Foro it., 1984, voce
Imputabilità, n. 24.
13 Cfr. Cass. 23 novembre 1988, in Rep. Foro it., 1989, voce
Imputabilità, n. 21.
14 V. G. VISINTINI, Trattato breve della responsabilità civile,
Padova, 1996, p. 467 ss.
15 Così tra le più recenti, Cass. 19 novembre 1990, n. 11163,
in Rep. Foro it., 1990, voce Responsabilità civile, n. 98.
16 Cfr. Trib. Roma, 28 maggio 1987, in Riv. giur. circolaz. e
trasp., 1988, p. 635.
17 V. ancora la già segnalata (n. 15), Cass. 19 novembre 1990,
n. 11163. V. altresì, più remota, Cass. 26 giugno 1975, n. 1642, in Resp. civ.
prev., 1959, p. 104.
18 In questo senso è, fin da epoca risalente, la tesi affermata
dalla Cassazione. Cfr. Cass. 18 giugno 1953, n. 1812, in Riv. giur. circ. trasp.,
1953, p. 1036; Cass. 8 aprile 1965, n. 597, in Riv. giur. circ. trasp., 1965, p.
269.
19 V. C. app. Firenze, 13 marzo 1964, in Giur. tosc., 1964, p.
598, ai fini dell’applicabilità nel caso della regola di cui all’art. 1227, 1°
co., c.c.
20 Cfr. C. app. Firenze, 27 febbraio 1968, in Giur. tosc.,
1968, p. 611.
21 Cfr. Trib. Piacenza, 4 marzo 1961, in Arch. giur. circ.,
1962, II, p. 290.
22 Cfr. Cass. 7 luglio 1958, n. 2435, in Resp. civ. prev.,
1959, p. 104; C. app. Bologna, 14 luglio 1956, in Giur. it., 1957, I, 2, c. 574.
23 V. P. CENDON, Il prezzo della follia. Lesione della salute
mentale e responsabilità civile, Bologna, 1984.
24 Così, già in prospettiva penalistica, A. BETTIOL, Diritto
penale, Parte generale, Padova, 1958, p. 335.
25 Cfr. il volume collettaneo, a cura di P. CENDON, Infermità
di mente e responsabilità civile, Padova, 1993, passim.
26 G. VISINTINI, Trattato breve della responsabilità civile,
cit., p. 475.
27 Così, per obiter dictum, C. cost., 25 febbraio 1988, n. 211,
in Rep. Foro it., 1988, voce Trentino-Alto Adige, n. 59.
28 Cfr. ZENO-ZENCOVICH, La colpa oggettiva del malato di mente:
le esperienze nord-americana e francese, in Resp. civ. prev., 1986, p. 3 ss., ed
in P. CENDON (a cura di), Un diritto per il malato di mente. Esperienze e
soggetti della trasformazione, Napoli, 1988, p. 847.
29 Cfr. A. DE CUPIS, Postilla sulla riduzione del risarcimento
per concorso del fatto del danneggiato incapace, in Riv. dir. civ., 1965, II, p.
62 ss.
30 Così SALVI, voce Responsabilità extracontrattuale (dir. vig.),
cit., pp. 1223-1224.
31 Cfr. Cass., Sez. Un., 17 febbraio 1964, n. 351, in Foro it.,
1964, I, c. 752.
32 Cfr., in diverso senso, Cass. 5 luglio 1950, n. 1749, in
Resp. civ. prev., 1950, p. 430; Cass. 11 giugno 1953, n. 1697, ivi, 1954, p.
253; Cass. 25 marzo 1957, n. 1016, in Foro it., 1958, I, c. 943; Cass. 3 giugno
1959, n. 1650, in Resp. civ. prev., 1960, p. 160; Cass. 10 febbraio 1961, n.
291, ivi, 1961, p. 324; Cass. 28 aprile 1962, n. 827, in Foro it., 1962, I, c.
913.
33 Cfr. Cass. 21 aprile 1965, n. 702, in Foro it., 1965, I, c.
890; Cass. 15 giugno 1973, n. 1753, in Giur. it., 1974, I, 1, c. 1400; Cass. 11
febbraio 1978, n. 630, in Resp. civ. prev., 1978, p. 652; Cass. 12 aprile 1978,
n. 1736, in Dir. prat. ass., 1979, p. 282; Cass. 24 febbraio 1982, n. 1442, in
Rass. avv. Stato, 1983, p. 446; Cass. 24 febbraio 1983, n. 1442, in Resp. civ.,
1983, p. 627.
34 Cfr. P. CENDON, Il dolo nella responsabilità
extracontrattuale, Torino, 1976, p. 456 ss.
35 In questo senso, cfr. G. VISINTINI, I fatti illeciti, cit.,
p. 478.
36 Cfr. A. DE CUPIS, Postilla sulla riduzione del risarcimento
per concorso del fatto del danneggiato incapace, cit., p. 63.
37 G. CATTANEO, Il concorso di colpa del danneggiato, in Riv.
dir. civ., 1967, p. 460 ss., specie p. 510; G. VISINTINI, Imputabilità e danno
cagionato dall’incapace, cit., pp. 118-119.
38 Così P. TRIMARCHI, Causalità e danno, in Riv. dir. civ.,
1967, p. 129 ss.
39 Cfr. Cass. 16 aprile 1992, n. 4691, in Rep. Foro it., 1992,
voce Responsabilità civile, n. 124; nello stesso senso, v. Cass. 24 febbraio
1983, n. 1442, ivi, 1984, voce Danni civili, n. 88; Cass. pen., 25 marzo 1982,
in Giur. it., 1983, II, c. 152.
40 V. Trib. Genova, (ord.) 23 maggio 1977, in Foro it., 1977,
I, c. 2818.
41 V. C. cost., (ord.) 23 gennaio 1985, n. 14, in Foro it.,
1985, I, c. 934.
42 Cfr. Cass. 29 aprile 1993, n. 5024, in Resp. civ., 1994, p.
472.
43 Tra le più recenti, v. Cass. 5 maggio 1994, n. 4332, in
Arch. circ., 1994, p. 953; in termini analoghi Cass. 16 aprile 1992, n. 4691, in
Rep. Foro it., 1992, voce Responsabilità civile, n. 124.
44 V. C. app. Bologna, 7 ottobre 1995, Danno e responsabilità,
1996, p. 765.
45 Cfr. Cass. 10 febbraio 1961, n. 291, in Resp. civ. prev.,
1961, P. 324.
46 Cfr. Cass. 3 giugno 1959, n. 1650, in Resp. civ. prev.,
1960, p. 160.
47 V. Cass. 7 marzo 1991, n. 2384, in Foro it., 1993, I, c.
1974.
48 Cfr. Cass. 4 febbraio 1988, in Arch. circ., 1988, p. 835.
49 Cfr. Cass. 4 aprile 1959, n. 1056, in Foro it., 1959, I, c.
533; in dottrina v. SCOGNAMIGLIO, Il danno morale (Contributo alla teoria del
danno extracontrattuale), in Riv. dir. civ., I, p. 277 ss.; POGLIANI,
Responsabilità e risarcimento da illecito civile, Milano, 1969, p. 451. In senso
contrario, v. DEVOTO, L’imputabilità e le sue forme nel diritto civile, cit., p.
101.
50 Cfr. Cass., Sez. Un., 6 dicembre 1982, n. 6651, in Giust.
civ., 1983, p. 1161, con nota di C. COSSU, Imputabilità e risarcimento del danno
non patrimoniale.
51 Ma v., in senso contrario, Trib. Macerata, 20 maggio 1986,
in Foro it., 1986, I, c. 2594, rimasta peraltro del tutto isolata.
52 Cfr. d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224, in materia di
responsabilità del produttore. Ed allora v. G. ALPA-M. BIN-P. CENDON, La
responsabilità del produttore, in Trattato di diritto commerciale e di diritto
pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, 1989.
53 Così P. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva,
Milano, 1961, p. 38; G. ALPA E M. BESSONE, I fatti illeciti, in Trattato di
diritto privato, diretto da P. Rescigno, XIV, Torino, 1982, p. 93; G. VISINTINI,
I fatti illeciti, Padova, 1987, p. 500.
54 Cfr. Cass. 29 aprile 1993, n. 5024, in Resp. civ., 1994, p.
472.
55 Cfr. Cass. 29 settembre 1995, n. 10274, in Danno e
responsabilità, 1996, p. 87, con nota di C. COSSU.
56 Cfr. C. app. Genova, 5 giugno 1964, riportata in G. ALPA E
M. BESSONE, La responsabilità del produttore, Milano, 1980, p. 34.
57 Cfr. Cass. 15 giugno 1973, n. 1760, in Rep. Giur. it., voce
Responsabilità civile, n. 42. Principio affermato nell’ipotesi di folgorazione
elettrica di un minore, per la mancata adozione da parte dell’Enel di opere di
protezione della linea elettrica e per l’omessa sorveglianza dei genitori della
vittima.
(**)
C. SCOGNAMIGLIO,A. FIGONE,C. COSSU,G. GIACOBBE,P.G. MONATERI
ILLECITO E RESPONSABILITA’ CIVILE
G. Giappichelli editore
Primo dei volumi dedicati alla disciplina della responsabilità civile nel
Trattato di diritto privato diretto da Mario Bessone, e risultato della
collaborazione tra ben noti cultori della materia, quest’opera svolge esauriente
analisi delle normative e delle problematiche indicate con chiarezza già dal
circostanziato indice del volume.
INDICE
L’INGIUSTIZIA DEL DANNO (ART. 2043)
di Claudio Scognamiglio
1. Premessa: ingiustizia del danno e problema della responsabilità civile 1
2. L’ingiustizia del danno ed il sistema della responsabilità civile 12
2.1. La nozione dogmatica di danno ed il concetto di «ingiustizia» del danno: le
posizioni della dottrina 12
2.2. L’ingiustizia del danno: tra «clausola generale» di responsabilità e
«tipicità progressiva» degli illeciti civili 23
3. Il giudizio di ingiustizia del danno 31
3.1. La struttura formale del giudizio di ingiustizia 31
3.2. Il giudizio di ingiustizia: la struttura della situazione giuridica
rilevante 36
3.3. Il giudizio di ingiustizia del danno: il «bilanciamento degli interessi» 42
3.3.1. Giudizio di ingiustizia del danno e regola di buona fede 48
3.4. Giudizio di ingiustizia del danno e norma costituzionale 54
3.4.1. La tutela degli interessi riferibili alla persona umana 54
3.4.2. La tutela degli interessi «meramente patrimoniali» 60
3.4.2.1. Tutela aquiliana e disciplina del mercato: il caso dell’illecito
antitrust 65
ARTT. 2044-2045
di Giovanni Giacobbe
I.
1. Premessa
2. Presupposti della responsabilità civile: a) il fatto 82
3. b) l’elemento soggettivo 85
4. c) il danno ingiusto 89
5. d) il nesso di causalità 95
6. Gli atti leciti dannosi nella teoria della responsabilità civile 100
II.
7. Legittima difesa e stato di necessità: considerazioni generali 104
8. La legittima difesa nel diritto penale: elementi costitutivi della
fattispecie 109
9. Lo stato di necessità nel diritto penale: elementi costitutivi della
fattispecie 115
10. Lo stato di necessità e la teoria dell’inesigibilità 122
11. La disciplina penale delle scriminanti 125
III.
12. L’art. 2044 c.c.: caratteri della legittima difesa 129
13. Segue. I diritti tutelabili 133
14. Segue. Il pericolo 134
15. La proporzionalità tra l’offesa e la reazione. L’eccesso colposo di
legittima difesa e la provocazione 136
16. La legittima difesa putativa 140
IV.
17. La previsione dello stato di necessità nel codice civile 144
18. Il fondamento dello stato di necessità 147
19. Elementi costitutivi dello stato di necessità: il danno grave alla persona
153
20. Segue. Il pericolo di danno. Attualità, inevitabilità, involontarietà 159
21. Segue. In particolare: lo stato di necessità putativo 164
22. Segue. Il fatto necessitato dannoso 167
23. Il diritto sacrificato ed il criterio della proporzionalità 170
24. Il dovere di esporsi al pericolo 173
25. Il fatto colposo del terzo 176
26. Il soccorso necessitato 183
27. L’obbligazione indennitaria: natura e fondamento 188
28. La rilevanza dello stato di necessità nella responsabilità contrattuale 193
LA RESPONSABILITÀ E IL DANNO CAGIONATO
DALL’INCAPACE (ARTT. 2046-2047)
di Cipriano Cossu
Parte prima: DANNO E IMPUTABILITÀ
1. La nozione di imputabilità. Imputabilità e colpevolezza. Le actiones liberae
in causa 199
2. Imputabilità penale. Imputabilità civile 204
3. Incapacità naturale e incapacità legale: il minore d’età e l’infermo di mente
205
4. Il concorso di colpa dell’incapace 208
5. La risarcibilità dei danni non patrimoniali 214
6. Imputabilità e responsabilità oggettiva 215
Parte seconda: IL RISARCIMENTO DEL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE
7. La responsabilità dei soggetti tenuti alla sorveglianza 218
8. La prova liberatoria 220
9. La responsabilità dell’incapace e la misura dell’indennizzo 224
RESPONSABILITÀ CIVILE DEI GENITORI, DEI TUTORI,
DEGLI INSEGNANTI E DEI MAESTRI D’ARTE O MESTIERE
di Alberto Figone
1. Una premessa 227
2. Fondamento della responsabilità 229
3. Solidarietà passiva tra genitori e figli 233
4. I soggetti responsabili 235
4.1. Generalità 235
4.2. I genitori 236
4.3. Gli affidatari 239
4.4. Concorso dei genitori con terzi 241
5. La convivenza 242
6. Prova liberatoria 244
7. Precettori e maestri: generalità 249
8. In particolare: gli insegnanti 251
9. I maestri di mestiere o d’arte 256
10. Prova liberatoria 257
IL RISARCIMENTO IN FORMA SPECIFICA
di Pier Giuseppe Monateri
1. Natura e funzione del risarcimento in forma specifica. I rapporti tra
reintegrazione e risarcimento per equivalente 261
2. La prassi evolutiva verso il riconoscimento di una azione generale di
renitegrazione fondata sull’art. 2058 c.c. 264
3. I limiti alla reintegrazione in forma specifica 268
4. Profili processuali 270
5. Risarcimento del danno in forma specifica e Pubblica Amministrazione 273
IL NUOVO DANNO NON PATRIMONIALE
LA NUOVA TASSONOMIA DEL DANNO ALLA PERSONA
di Pier Giuseppe Monateri
1. Il nuovo sistema risarcitorio dei danni non patrimoniali 277
2. Le interpretazioni dell’art. 2059 c.c.: la vecchia regola 278
2.1. Segue. Il superamento della “vecchia regola” 280
2.2. Segue. L’abbandono della “vecchia regola” 282
3. Danno biologico, danno morale e danno esistenziale: la nuova tassonomia 286
4. La prova dei danni non patrimoniali 289
5. La quantificazione dei danni non patrimoniali: liquidazione analitica o
liquidazione unica? 290
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 21/11/2005