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 Responsabilità e risarcimento per il danno cagionato dall'incapace (artt. 2046-2047 del codice civile).(*)

 

CIPRIANO COSSU


 

 (*) Le pagine che seguono sono parte di capitolo della monografia AA.VV.Atto illecito e responsabilità civile che è primo dei tomi dedicati alla materia della responsabilità civile nel Trattato di iritto privato diretto da Mario Bessone per la casa editrice Giappichelli(**)


SOMMARIO: Parte prima: DANNO E IMPUTABILITÀ: 1. La nozione di imputabilità. Imputabilità e colpevolezza. Le actiones liberae in causa. – 2. Imputabilità penale. Imputabilità civile. – 3. Incapacità naturale e incapacità legale: il minore d’età e l’infermo di mente. – 4. Il concorso di colpa dell’incapace. – 5. La risarcibilità dei danni non patrimoniali. – 6. Imputabilità e responsabilità oggettiva. – Parte seconda: IL RISARCIMENTO DEL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE: 7. La responsabilità dei soggetti tenuti alla sorveglianza. – 8. La prova liberatoria. – 9. La responsabilità dell’incapace e la misura dell’indennizzo.


PARTE PRIMA


DANNO E IMPUTABILITÀ


1. La nozione di imputabilità. Imputabilità e colpevolezza. Le actiones liberae in causa


Perché un danno possa essere riferito ad un dato soggetto – è insegnamento consolidato – occorre procedere alla valutazione di due distinti elementi: uno considera la condotta posta in essere e tende a verificare l’esistenza nella specie del profilo dell’antigiuridicità; un altro concerne la lesione ed è diretta ad accertare la presenza, nel caso concreto, di un interesse giuridicamente protetto, vale a dire la sussistenza di un danno «ingiusto».


I criteri che concorrono a motivare il giudizio di responsabilità sono quindi di due tipi: uno, oggettivo, attiene alla qualificazione della lesione; un altro, soggettivo, pone l’accento sulla condotta, sull’autore del danno.


È a quest’ultimo criterio che occorre riferire il requisito dell’imputabilità, in base al quale, a mente dell’art. 2046 c.c., «non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d’incapacità derivi da sua colpa».


Nel giudizio di responsabilità, occorre pertanto procedere preliminarmente ad una valutazione di una possibilità futura, al fine di verificare l’astratta possibilità che il danno possa essere messo a carico del soggetto. Vale a dire per poter argomentare, a fatto avvenuto, il giudizio conclusivo, di imputazione del danno, si deve prima procedere ad un giudizio di imputabilità: l’imputabilità è quindi il presupposto dell’imputazione.


Secondo la definizione tradizionale, si intende per «capacità di intendere» l’attitudine del soggetto a conoscere il valore delle azioni da lui poste in essere, il «significato sociale» della sua condotta. Per «capacità di volere», l’idoneità della persona a determinarsi in modo libero ed autonomo, indipendente da coazioni esterne1.


Si tratta di capacità analoga a quella richiesta in campo negoziale? La risposta è sicuramente affermativa, se si guarda ai presupposti teorici delle due figure2, sicuramente negativa qualora si volesse ipotizzare una tendenziale equiparazione.


Perché possa ricorrere l’imputabilità è infatti necessario un grado di capacità che non sempre è sufficiente per integrare anche la capacità negoziale: la maturità richiesta per il conseguimento della capacità di agire è ben maggiore di quella idonea a configurare la capacità nell’illecito, la quale rimane sempre, diversamente da quanto accade per il conseguimento della capacità negoziale, una questione di fatto, rimessa alla discrezionale valutazione dell’interprete della singola fattispecie.


La necessità di doversi confrontare con la sfera psicologica, con l’«idea» della capacità, le implicazioni (allora) tra consapevolezza e concezione della colpa, l’esigenza di distinguere, fanno dell’espressione imputabilità una nozione equivoca, a tale punto che non da oggi si deve registrare un dibattito che ha messo in crisi la stessa «idea» di imputabilità.


Ed in effetti, è stato sottoposto a critica l’insegnamento che negava il risarcimento del danno non patrimoniale, sull’assunto dell’inesistenza del fatto reato per difetto dell’imputabilità, opponendo una definizione che assegna autonomia alla nozione di imputabilità, ritenuta qualifica soggettiva, rispetto alla colpevolezza, designata come elemento dell’illecito3.


Motivando in particolare sulle nuove direttive in materia di infermi di mente, si è quindi dubitato dell’automatismo fra malattia ed incapacità (rectius: imputabilità), in una direzione che denuncia il reale disfavore per l’incapace costituito dal regime di automatica irresponsabilità4.


La crisi del concetto tradizionale di imputabilità è infine documentato dalle serrate critiche, ispirate ad una «oggettivizzazione» del concetto di colpa, che sono state mosse all’opinione che configura l’imputabilità come la premessa di qualsivoglia ragionamento ispirato a criteri psicologici.


Secondo la teoria tradizionale, sarebbe infatti finanche assurdo argomentare un giudizio fondato sulla colpa, nel caso in cui al soggetto non si potesse muovere alcuna riprovazione per il fatto commesso, in ragione della di lui incapacità di distinguere il «bene» dal «male» ovvero di determinarsi in modo autonomo5.


Di qui l’assunto in base al quale l’imputabilità costituisce il presupposto della colpevolezza: in questa prospettiva, l’imputabilità viene ad essere definita come «attitudine» alla colpa. Rispetto a simile conclusione si è dunque da tempo registrata una tendenza diretta a separare la nozione di «colpevolezza» da quella di «imputabilità», fino a configurare l’imputabilità come categoria del tutto autonoma in ragione delle diverse funzioni che le due nozioni assolvono nel meccanismo normativo. Così che si è potuto argomentare della possibilità di motivare l’imputazione anche senza considerare il requisito psicologico6.


Già in tempi non recenti, rispetto alla ricostruzione che configura tecnicamente l’imputabilità come presupposto della responsabilità, è stata allora opposta una nozione di colpa che sfugge a qualsivoglia valutazione di tipo morale e soggettivo, una tesi che configura la colpa come difformità oggettiva del comportamento posto in essere rispetto ad un modello sociale astratto. Secondo questo orientamento, il giudizio sulla colpevolezza risulta quindi del tutto autonomo rispetto alla valutazione circa l’esistenza della capacità d’intendere e di volere: l’accertamento dell’imputabilità rimarrebbe pertanto materia del tutto separata dal giudizio circa la colpevolezza.


In questa prospettiva sembra collocarsi anche quella giurisprudenza che sottolinea la diversità della verifica circa l’esistenza della «capacità di intendere e di volere», che si risolve in una valutazione di fatto, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata7, dall’accertamento che identifica la colpevolezza. Vale a dire il presupposto che subordina l’affermazione della responsabilità alla esistenza del dolo o della colpa in capo all’autore.


In realtà, tali affermazioni non sembrano offrire alcun decisivo argomento. È del tutto chiaro infatti che, sotto il profilo logico, le due indagini, sull’imputabilità e sulla colpevolezza, sono del tutto distinte. Il problema è però un altro: rimane infatti sempre da stabilire se si possa prescindere, nel dare un giudizio di «colpevolezza», da una (preventiva) valutazione di imputabilità.


Resta allora indubbio che il dato testuale continua a confermare il rapporto di dipendenza tra imputabilità e responsabilità: nel dibattito non sembra infatti che siano stati svolti argomenti tali da escludere che si possa davvero procedere alla ricostruzione della responsabilità civile prescindendo dalla capacità d’intendere e di volere.


Meglio allora riconsiderare la tesi dell’imputabilità come presupposto dell’imputazione del danno, riproponendola in termini relativi. In questa prospettiva si deve affermare che il ruolo assegnato dall’ordinamento alla previsione dell’art. 2046 c.c. è quello di regola generale dell’imputazione, per quelle ipotesi in cui si tratta di responsabilità c.d. soggettiva8.


Soltanto introducendo una nozione di «colpevolezza» indipendente dal dolo o dalla colpa, può allora essere giustificata anche la tesi secondo la quale la previsione del 2046 condiziona l’operatività del criterio basato sul dolo o sulla colpa allo stato di capacità dell’autore del danno9.


Conseguentemente, in quelle altre ipotesi nelle quali il criterio di imputazione risulta fondato su criteri oggettivi, ogni valutazione circa la capacità d’intendere e di volere, la «colpevolezza» non può essere ricostruita nei termini del dolo e/o della colpa, dovendosi guardare essenzialmente alle modalità oggettive del comportamento (che se non possono, secondo tale teoria, contribuire a formare un giudizio di «disapprovazione», ben possono costituire fattore capace di dare ragione al risarcimento: il riferimento è, essenzialmente, alle previsioni di cui agli artt. 1227, 1° co. e 2047 c.c.).


Alla stessa conclusione perviene peraltro anche chi non condivide la possibilità di configurare una colpa «obiettiva», rilevando che non vi dovrebbero essere difficoltà a riconoscere che il fatto illecito dell’incapace possa concorrere con quello del capace ai fini della diminuzione del danno risarcibile ovvero possa impegnare il responsabile, sussistendo i requisiti della illiceità10.


In ogni caso, fuori da tali ipotesi, il termine «imputabilità» continua comunque a conservare una indubbia valenza, rimanendo ad indicare uno dei criteri che la legge richiede per giustificare l’attribuzione del fatto illecito ad un determinato soggetto.


In via di principio, pertanto, il giudizio di responsabilità capace di giustificare il trasferimento del danno da chi lo ha subìto ad un altro soggetto, dovrà in primo luogo guardare alla sussistenza di determinate qualità soggettive in capo a colui che dovrà definitivamente sopportare il danno, a meno che il dato testuale escluda subito l’esigenza di simile indagine, essendo previsto un criterio di responsabilità che prescinde del tutto da considerazioni riguardanti la persona dell’agente (l’esempio classico è la responsabilità stabilita per rischio d’impresa). Mentre rimane da accertare che ciò possa avvenire anche per quelle ipotesi che una parte della dottrina suole indicare nei termini della colpa «oggettiva» (dove il problema si risolve tutto nella stessa nozione di «colpevolezza»).


Fuori da tali problematiche, la cui rilevanza pratica non è in realtà molto percepibile, si deve in questa sede da ultimo segnalare che nessuna particolare conseguenza deriva dall’incapacità, come conferma l’inciso contenuto nell’art. 2046 c.c., quando la stessa sia derivata per fatto colposo dell’autore del danno.


Si tratta delle actiones liberae in causa, dove, tradizionalmente, la condotta «non libera», resa in stato d’incapacità, deve farsi risalire ad un’azione anteriore consapevole. In questa ipotesi non vi è motivo, anche in ragione di una corretta applicazione delle regole in materia di causalità, per non confermare il regime ordinario di responsabilità. E così, diversamente da quanto prevede la legge penale, anche nell’ipotesi in cui l’autore del fatto illecito si sia posto in condizioni di incapacità, senza l’intenzione preordinata di porre in essere l’azione dannosa11. Ciò che è qui sufficiente è il fatto che l’autore abbia adottato consapevolmente un comportamento che lo abbia posto in condizioni di incapacità, dando causa ad una condotta idonea, secondo i canoni della normalità, a produrre un evento dannoso, ancorché non voluto e finanche non concretamente previsto (ma prevedibile: è il classico caso di chi, in stato di ubriachezza, si metta alla guida di un autoveicolo ed investa un pedone).


Come si deve considerare l’ipotesi in cui il soggetto si sia posto in stato di incapacità consapevolmente, ma senza avere la possibilità di autodeterminarsi in maniera davvero libera?


Al quesito ha dato risposta la giurisprudenza, la quale ha escluso che possa individuarsi una responsabilità quando il comportamento che procura l’incapacità, pur dovendosi ascrivere al soggetto, sia comunque caratterizzato dall’inesistenza di una volontà. È questo il caso di cronica intossicazione da alcool, caratterizzato da un impulso, ripetitivo e condizionante tutto il comportamento della persona, all’assunzione di sostanze alcooliche e da stabili perturbazioni di ordine fisico. In tale ipotesi, la situazione dell’autore è quella stessa del malato di mente, con la conseguenza che la sua capacità deve ritenersi esclusa ovvero diminuita12. Parimenti, se lo stato di tossicodipendenza di per sé non potrebbe ritenersi rilevante ai fini dell’imputabilità, a meno che la droga non sia stata assunta per forza maggiore o per caso fortuito, quando quello stato sia tale da produrre un’intossicazione patologica, esso può essere assimilato a quello di un vero malato di mente13.


È facile osservare che in tale modo la valutazione del comportamento (rectius: della capacità) si riporta al momento in cui è stato posto in essere l’atto che, in ipotesi, ha prodotto l’incapacità. L’affermazione dell’irresponsabilità risulta quindi dipendente dalla valutazione della capacità del soggetto in quel dato momento: il tossicodipendente viene valutato incapace già prima che assuma la droga, perché è «inidoneo» ad autodeterminarsi (secondo la definizione tradizionale, è «incapace di volere») in vista di escludere uno stato che lo renda «incapace di intendere». Allo stesso modo in cui neppure avrebbe senso ammettere una indagine diretta a valutare la «libertà dell’azione», ad esempio nel caso in cui un infante si ubriacasse: la verifica dell’incapacità, per così dire, «fondamentale», assorbirebbe qui ogni ulteriore considerazione.


 

2. Imputabilità penale. Imputabilità civile


La formula utilizzata dal codice civile è quella stessa che figura nel codice penale dove, ai sensi dell’art. 85, 2° co., «è imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere».


Ed in effetti, per lungo periodo, la nozione di imputabilità a fini civilistici è stata determinata sulla sola base dell’elaborazione concettuale maturata sul terreno penalistico: si trattava, in entrambi i settori, di discriminare la relazione tra fatto illecito ed il suo autore, negando l’esistenza di un collegamento in relazione allo stato della persona, nel constatato difetto della capacità di intendere e di volere.


Mentre peraltro, sul terreno penale, il sindacato circa la sussistenza della capacità registra precisi parametri obiettivi (e legislativamente fissati: così gli artt. 88, 95, 97 c.p. indicano, tra le cause dell’incapacità, il vizio di mente, la cronica intossicazione da alcool, l’età inferiore ai quattordici anni), la prospettiva civilistica – l’attribuzione del fatto illecito – non è ancorata ad alcun automatismo, sicché l’interprete ha un’elasticità di valutazione rispetto alla fattispecie concreta del tutto ignota al diritto penale14.


Di questo tipo di enunciati sono solari conferme anche le più recenti massime della Corte Suprema, che ancora ribadiscono la sostanziale diversità dei regimi previsti dalla legge per stabilire l’imputabilità nel campo civile e nel campo penale. Su quest’ultimo terreno, è la legge stessa che fissa le cause che la escludono, mentre compete al giudice civile accertare caso per caso se, in relazione all’età, allo sviluppo psico-fisico, alle modalità del fatto o ad altre ragioni, debba escludersi o meno la capacità di intendere o di volere15.


Proprio perché finalizzata a scopi del tutto diversi, e diversi essendo i riferimenti normativi, l’accertamento dell’imputabilità in sede penale non potrebbe quindi, automaticamente, far stato anche in sede civile. In ipotesi, soltanto quando si ipotizzi che l’illecito civile rientri nella sfera della responsabilità soggettiva, nella direzione teorica che si è sopra illustrata, nel senso quindi che l’imputabilità rileva come fattispecie dell’illecito, risulta giustificato che quanto acquisito nel processo penale possa essere valorizzato (anche) sul terreno civilistico16.


 

3. Incapacità naturale e incapacità legale: il minore d’età e l’infermo di mente


Al fine di escludere l’imputabilità, ciò che rileva è l’incapacità naturale, vale a dire l’attitudine del soggetto a valutare il valore delle proprie azioni. Indifferente è quindi lo stato di incapacità legale. Può essere che lo stato di incapacità legale corrisponda in concreto ad una incapacità di intendere e di volere.


Così come può – evidentemente – accadere, simmetricamente, che lo stato di capacità legale non sia sorretto, in maniera permanente o episodica, dalla consapevolezza dei propri atti. In ogni caso, rimane compito del giudice accertare nella singola fattispecie, e prescindendo dall’esistenza di una capacità (o incapacità) legale, l’esistenza della capacità di intendere e di volere.


Conseguentemente, anche nel caso del minore di età, nessuna presunzione assoluta può essere utilizzata: l’id quod plerumque accidit su cui si basa l’incapacità che la legge pone a carico del soggetto minore, è principio che non può trovare applicazione nell’area dell’illecito extracontrattuale.


Ugualmente non può trovare applicazione sul terreno dell’illecito aquiliano, il criterio penalistico, fissato nell’art. 97 c.p., che stabilisce la non imputabilità del minore infraquattordicenne. La legge civile non menziona infatti alcuna ipotesi capace di escludere l’imputabilità del soggetto, sia pure minore, in ragione di una particolare età.


Che l’autore del fatto dannoso non abbia ancora compiuto il quattordicesimo anno di età, evidenza che la legge penale considera come presunzione assoluta di incapacità, è quindi fatto che non esonera il giudice civile dalla valutazione circa la capacità di intendere e di volere.


Si tratta di assunti tutti largamente recepiti dalla giurisprudenza. Ed infatti si registrano modelli di sentenze che riconoscono l’esigenza di una indagine da condursi caso per caso. Sulla base di regole dettate dalla comune esperienza, dall’esame della personalità dell’autore eseguita da periti ed esperti, dall’età del soggetto, dalle modalità della di lui condotta, nonché dallo sviluppo intellettivo e fisico dell’autore, dalla forza del carattere e dall’attitudine a comprendere l’illiceità del proprio comportamento17.


Inammissibile è quindi una valutazione che faccia riferimento al puro dato oggettivo segnato dall’età. Sarà compito del giudice farsi carico delle concrete circostanze del caso, senza neppure indulgere alla possibilità di assumere acriticamente quanto già eventualmente statuito in sede penale. Tant’è che è consolidato il principio in base al quale il soggetto ritenuto incapace per la legge penale, può essere ritenuto imputabile agli effetti civili18.


In base a tale assunti sarà quindi possibile dichiarare l’imputabilità di un minore di dodici anni, sull’acquisita constatazione di una condizione psichica e fisica tale da consentirgli di valutare il significato delle sue azioni ed i pericoli che possono derivarne19. Conseguentemente, non deve sorprendere l’affermazione che si rinviene in giurisprudenza in base alla quale può essere ritenuto imputabile sotto il profilo civilistico anche il minore di quattordici anni, rimasto coinvolto in una collisione mentre era alla guida di un ciclomotore20.


Né sono segnali difformi da tali direttive quegli enunciati che escludono, sulla (sola) base delle regole della comune esperienza, l’imputabilità di una bambina di anni sei, sull’assunto che sarebbe in re ipsa la situazione di incapacità di intendere e di volere21. Ovvero quegli altri enunciati, contenuti peraltro in remote decisioni, che hanno desunto la certezza dell’incapacità del minore sulla base dell’età estremamente ridotta22.


Appare infatti evidente che il modello logico rappresentato da queste decisioni, anche quando assume l’esistenza in re ipsa dell’incapacità, rimane comunque ancorato ad una valutazione in concreto, confermando l’opinione che in nessun caso può farsi derivare automaticamente, in ragione dell’età, l’incapacità d’intendere e di volere.


Se quindi l’accertamento della imputabilità nel caso di un soggetto minore presenta le sole difficoltà del caso concreto, per quanto riguarda l’ipotesi del malato di mente, non vi sono ragioni di procedere in modo diverso. Vero è che anche la qualificazione in termini di insano di mente è frutto di una valutazione, a differenza della minore età. Altrettanto vero è però che tale valutazione è suscettibile di riesame e non può quindi essere assunta acriticamente in via assoluta, in tutti i casi: ben può accadere infatti che la malattia mentale regredisca, così come ben può ritenersi irrilevante lo stato patologico, in relazione all’accadimento concreto.


Non può infatti escludersi – a fini civilistici – che il fatto sia stato commesso dall’incapace in un momento di lucidità, sicché risulta giustificata la reazione del risarcimento del danno.


Anche quando l’illecito civile sia stato compiuto da un interdetto o da un inabilitato non vi sono pertanto plausibili ragioni perché la capacità di intendere e di volere non debba essere comunque accertata in relazione alle concrete emergenze del caso, prescindendo da qualsiasi automatismo.


In questo stesso senso si colloca anche la serrata critica mossa da una ormai non più minoritaria dottrina alla stessa nozione di infermo di mente la quale, anche sulla base di una significativa produzione legislativa (segnatamente, la l. 13 maggio 1978, n. 180, in materia di assistenza psichiatrica, poi recepita dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale – n. 431/1978), ritiene urgente una riformulazione della categoria23.


Si tratta di prospettiva che finisce con il fare proprio l’assunto che configura l’imputabilità come sinonimo di libertà24, nel tentativo, allora, di assicurare al malato di mente maggiori spazi di libertà, censurando la conclusione automatica della inimputabilità dalla patologia (a sua volta sottoposta a critica, nel rifiuto del concetto di «normalità»)25.


La nuova disciplina, con l’abrogazione dei reati di omessa custodia e omessa denuncia di malattie mentali (stabilità dall’art. 11 della l. n. 180/1978), l’esplicito riconoscimento all’infermo psichico del potere di autodeterminazione circa il trattamento sanitario, sembra in effetti confermare l’esigenza di una ridefinizione dell’incapacità di intendere e di volere, non più deducibile in via automatica dallo stato di infermità mentale26.


Tale tipo di legislazione ha infatti comportato un mutamento profondo nella concezione giuridica della malattia mentale al punto da configurarla non più come un problema di pubblica sicurezza, bensì come problema sanitario e di reinserimento sociale27. Di qui la possibilità di procedere ad un ribaltamento di prospettiva, fondata sulla tesi di una tendenziale responsabilità dell’infermo psichico, propria di altri ambienti, potendosi allora dubitare della validità di un giudizio di inimputabilità fondato sulla semplice constatazione dell’esistenza di una infermità psichica. Nella nostra esperienza rimane però ancora estranea la scelta operata, ad esempio, dal legislatore francese, il quale ha inserito nel testo del code civil l’art. 489-2 che così dispone: «celui qui cause un dommage à autrui alors qu’il était sous l’empire d’un trouble mental n’en est pas moins obligé à réparation». Si tratta del resto di prospettiva ormai comune alle esperienze giuridiche moderne, considerando che anche negli ambienti di common law la malattia mentale non è argomento decisivo per negare la responsabilità28.


 

4. Il concorso di colpa dell’incapace


Problemi interpretativi di eccezionale rilevanza sono sorti con riferimento al trattamento che la previsione di cui al 1° co. dell’art. 1277 c.c. (richiamato, per la responsabilità extracontrattuale, dall’art. 2056 c.c.) sembrerebbe riservare allo stato di incapacità naturale. Secondo questa previsione «Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate».


Si tratta, come è intuitivo, di spiegare come sia possibile ipotizzare una «colpa» a carico dell’incapace, posto che la condotta di quest’ultimo, in ragione del suo stato, non può essere qualificata nei termini della volontarietà.


Una prima soluzione può essere quella di escludere già in radice l’applicabilità dell’art. 1227 c.c. al caso del danno procurato dall’incapace. Poiché il dato testuale menziona esplicitamente la nozione di «colpa», è impossibile riferire all’incapace, in ragione della sua assenza di discernimento, il danno da lui cagionato29. Tale tipo di risposta denuncia come la soluzione del problema possa essere tratta attingendo dalle argomentazioni che sono state proposte (secondo le linee già sopra segnalate), in ordine all’autonomia delle nozioni di colpevolezza ed imputabilità.


Chi infatti ritiene che la «colpa» possa essere individuata anche prescindendo dal profilo psicologico, chi sostiene la tesi dell’indifferenza del giudizio sull’imputabilità rispetto al giudizio sulla «colpevolezza», riesce a motivare l’opinione secondo la quale la previsione dell’art. 1227, 1° co., c.c. costituirebbe altro indizio normativo (insieme all’art. 2047 c.c.), capace di confermare l’impossibilità di configurare l’imputabilità quale elemento essenziale della colpevolezza.


Come la responsabilità di cui all’art. 2047 c.c. non sorge – nonostante la conclamata incapacità – se non tramite una valutazione di «colpevolezza», in termini «oggettivi» del comportamento dell’incapace, anche la regola del concorso – ed anche qui nonostante l’affermata incapacità – sarebbe irragionevole se la colpa a cui fa riferimento la norma non fosse quella che si evidenzia in termini obiettivi, rispetto ad un modello sociale astratto30.


Di tale dibattito non vi è particolare traccia nella giurisprudenza, della quale si avverte la fondamentale preoccupazione di non addossare definitivamente il danno a carico di un soggetto, quando non sussistano valide ragioni (e tale non sarebbe la circostanza che nell’illecito abbia avuto parte una persona incapace). Anche qui si tratta peraltro di teoria che la giurisprudenza, difficile è dire quanto consapevolmente o meno, da sempre ignora.


In risposta a tali esigenze, già a metà degli anni sessanta la Corte Suprema a sezioni unite31 aveva affermato che la regola enunciata nel 1° co. dell’art. 1227 c.c. trova applicazione anche nel caso in cui il danneggiato sia incapace, ricomponendo in tale modo un conflitto che aveva segnato la giurisprudenza della stessa Corte di legittimità32.


A decorrere dalla sent. n. 351/1964 la Corte non ha invece più avuto oscillazioni e l’insegnamento in essa contenuto è stato seguito dalla giurisprudenza successiva, sicché oggi l’orientamento secondo il quale il 1° co. dell’art. 1227 c.c. trova applicazione anche nel caso dell’incapace è assolutamente univoco e dominante33.


La sentenza della Corte del 1964 non prende peraltro posizione in ordine all’autonomia delle nozioni di colpevolezza ed imputabilità ed esclude l’applicabilità dell’art. 2046 c.c. all’ipotesi del concorso di colpa (non già in ragione dell’impossibilità di dare un giudizio nei termini della colpa, stante l’incapacità, ma) sull’assunto che la fattispecie ivi prevista sarebbe delimitata alla sola ipotesi del danno cagionato dall’incapace (non già a sé medesimo bensì) a terzi.


In effetti è proprio nell’ipotesi di danno cagionato dall’incapace (a sé stesso ed) a terzi che si rischia di pervenire a soluzioni palesemente iniquee: mentre infatti, nel caso di soggetti tutti capaci, il risarcimento, in caso di concorso, sarebbe graduato in funzione delle rispettive colpe, nel caso in cui un coautore fosse incapace, dando rilievo allo stato di incapacità, la vittima sarebbe costretta ad assumersi il danno per l’intero. Compreso il caso in cui, se l’autore fosse stato capace, rispetto ad una identica condotta, il danno sarebbe rimasto a carico della vittima34.


Da parte della giurisprudenza, si tratta quindi di un ossequio ad esigenze equitative, che non incide minimamente sul problema teorico ma anzi, per il richiamo operato dalla Corte alla regola della causalità, tende a produrre ulteriori equivoci.


Se infatti le esigenze equitative meritano di essere condivise, numerose perplessità solleva35, il richiamo operato dalla Corte alla regola causale, con l’esplicita dichiarazione che «il principio della riduzione del risarcimento in caso di danno unilaterale con la colpa concorrente del danneggiato, costituisce applicazione logica del più generale principio della rispettiva efficenza delle colpe concorrenti, ai fini della determinazione del quantum di danno di cui deve rispondere ciascun concorrente». In altre parole, secondo la Corte, l’elemento subiettivo (della capacità) avrebbe rilevanza (solo) ai fini della responsabilità e non già ai fini del diritto al risarcimento subito.


A prescindere dal fatto che un simile principio, come già osservava insigne dottrina in sede di primo commento alla decisione36, non esiste nel nostro ordinamento (ma semmai, in relazione all’art. 2055 c.c., esiste l’opposto principio), deve condividersi la tesi, sostenuta da autorevole dottrina37, in base alla quale l’art. 1227 c.c. svolge la stessa funzione preventiva che nel campo della responsabilità altrui è svolta dall’art. 2043 c.c.: gli incapaci di intendere e di volere non possono pertanto considerarsi destinatari di tale previsione, a motivo che non sono in grado di conformare la propria condotta in modo tale da evitare il danno.


Le – pur innegabili – esigenze di giustizia di cui si fa portatrice la giurisprudenza neppure sembrano essere motivabili introducendo una nozione di «colpa» obiettiva. La soggezione al concorso anche nel caso di danno procurato dall’incapace può infatti essere giustificata sulla considerazione38, secondo la quale l’art. 1227 c.c. è espressione del principio generale in base al quale nessuno può invocare il risarcimento del danno da lui stesso provocato.


Correlativamente, chi ha subito un danno deve sopportare quella parte di danno che sia ricollegabile alla sua condotta, ma non quello che si deve mettere in collegamento con fattori a lui esterni, compreso quello dell’altrui condotta, quand’anche incolpevole.


In questa direzione sembra collocarsi una non lontana sentenza della Corte di Cassazione, la quale ha affermato che nel caso di danno provocato ad un incapace la responsabilità dell’autore materiale del fatto sussiste solo se è confermata la colpa di quest’ultimo, con esclusione della percentuale ascrivibile al comportamento del danneggiato39.


Che, quindi, una parte del danno finisca con il gravare sull’incapace non è perché può a lui essere rimproverata una «colpa», neppure in senso «oggettivo», ma perché nessuna colpa (pro-misura) è riscontrabile nella condotta del coautore: in assenza di validi criteri di trasferimento del danno, quest’ultimo non potrà che rimanere là dove si è collocato.


Resta il rilievo della pressoché assoluta irrilevanza di simili questioni sotto il profilo pratico: la Corte Suprema conclude per l’applicabilità della regola del concorso anche nel caso dell’incapace, senza motivare con alcuno degli argomenti utilizzati in dottrina.


L’insoddisfazione per tale tipo di soluzione, che finisce con il far gravare sull’incapace il danno da lui cagionato (sulla pretesa esistenza di una sua «colpa»), è stata fatta propria dal Tribunale di Genova il quale ha ritenuto di sollevare il sospetto di illegittimità costituzionale dell’art. 1227, 1° co., c.c., per violazione del principio di eguaglianza40.


La Corte Costituzionale ha respinto tali dubbi, dichiarando che l’equiparazione del trattamento anche nei riguardi dell’incapace «risulta giustificata dal rilievo che il comportamento del creditore, sia egli capace o no, si pone egualmente come un evento di cui il debitore, che non l’ha cagionato, ragionevolmente non deve rispondere»41.


La giurisprudenza rimane quindi attestata sull’affermazione della rilevanza giuridica del contributo causale della condotta del soggetto incapace che abbia concorso alla produzione dell’evento.


Ancora in tempi recenti, in fattispecie di sinistro da circolazione di autoveicoli, è stato così sostenuto che la prova della incapacità di intendere e di volere di uno dei due conducenti esclude solo la responsabilità di uno ma non anche la comparazione della valenza causale delle due condotte. Giustificata è allora la proporzionale riduzione del risarcimento, in ragione dell’entità percentuale del contributo causale della condotta dell’autore incapace, dovuto dall’altro conducente, il quale risponde solo nei limiti dell’incidenza causale del suo comportamento. E ciò sia nel caso in cui la colpa di quest’ultimo sia stata in concreto accertata, sia in quello in cui la colpa debba essere, invece, presunta perché è mancata la prova liberatoria richiesta dall’art. 2054 c.c.42.


Secondo i costanti assunti della giurisprudenza, in tale ipotesi l’indagine deve essere quindi limitata a conoscere l’esistenza della causa concorrente alla produzione dell’evento dannoso, prescindendo dall’imputabilità del fatto all’incapace e dalla responsabilità di chi era tenuto a sorvegliarlo: nel risarcimento dovuto rimane pertanto esclusa quella parte di danno ascrivibile al comportamento della vittima43.


Tali orientamenti risultano talmente consolidati che talvolta neppure vengono esplicitati in sentenza. Così in una recente decisione, dove neppure la massima redazionale dà conto che si tratta di fattispecie che concerne la questione del concorso di colpa dell’incapace44. Soltanto la lettura della sentenza segnala infatti che la fattispecie concerne l’investimento da parte di un automobilista di un minore (di quasi tredici anni). Il giudizio non si incentra affatto sulla capacità del minore bensì (poiché il primo grado si era concluso con l’affermazione della totale responsabilità della vittima) sull’esigenza di rinvenire un criterio su cui fondare la possibile concorrente responsabilità dell’investitore.


Quel che qui interessa sottolineare non è che tale principio venga rinvenuto nell’affermazione – già espressa dalla Cassazione – secondo la quale l’utente della strada deve uniformare la propria condotta, anche ipotizzando situazioni di pericolo determinate da altri. Ciò che qui rileva è il fatto che la Corte non indugia minimamente a considerare lo stato del minore, determinando il contributo causale della vittima nella misura del 70%.


Qualche temperamento a tale tipo di decisioni viene realizzato soltanto quando palesi esigenze equitative (in favore dell’incapace) sconsigliano la riproposizione automatica della regola del concorso. Dalla lettura delle sentenze, si ha peraltro conferma che si tratta di scelta del tutto discrezionale, rimessa alla sensibilità del Giudicante. Così, in tempi non recenti, è stata esclusa, ai fini della riduzione del danno, la rilevanza del fatto del minore per avere fatto oggetto di un suo gioco una bomba inesplosa, ritrovata in un campo45; così come è stata ritenuta irrilevante la condotta dell’incapace per il danno da lui subìto per la detonazione di una capsula esplosiva da lui acquistata nonostante l’esistenza di un divieto alla vendita46.


Più recente è la soluzione accolta da una decisione della Corte Suprema47, dove peraltro – occorre segnalare – la colpa (la condotta) concorrente non era dell’incapace, bensì dei soggetti che avevano la cura del medesimo.


Nel caso si controverteva infatti del risarcimento del danno subìto dall’attore per le lesioni personali derivategli da errore di diagnosi e cura quando era ancora minore a carico dei genitori, i quali avevano colpevolmente ritardato il ricorso a diverso intervento specialistico. Secondo la Corte tale condotta non può essere ritenuta come rilevante perché la valutazione del concorso di colpa del danneggiato deve essere riferita esclusivamente alla colpevolezza del comportamento del minore, tenuto conto della sua dipendenza anche economica dai genitori e della sua conseguente mancanza di autonomia decisionale.


Si tratta quindi di fattispecie che non appartiene alla materia qui trattata e che dovrà essere esaminata con riferimento alla regola di cui all’art. 2047 c.c. (su cui infra): quella in cui il concorso di colpa sia ascrivibile (non all’incapace ma) al suo sorvegliante (in un caso di sinistro stradale verificatosi con il concorso causale di persona incapace, si è precisato che non può escludersi il concorso di colpa di chi è tenuto ad esercitare la sorveglianza con quella dell’investitore48.

 


5. La risarcibilità dei danni non patrimoniali


Considerata la norma di chiusura contenuta nell’art. 2059 c.c., che ancora la risarcibilità del danno non patrimoniale alla dominante ipotesi della commissione di un reato (peraltro si vanno sempre più moltiplicando i casi in cui la legge prevede il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in ipotesi diverse: da ultimo, v. l’art. 29, n. 9 della l. 31 dicembre 1996, n. 675, sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali), l’imputabilità del soggetto è stata ritenuta per un lunghissimo periodo criterio discriminatore del risarcimento.


Secondo la tesi che a lungo è stata assolutamente dominante in giurisprudenza ed in dottrina49, poiché l’imputabilità costituisce elemento essenziale del reato, in difetto del quale reato non è, ogni conseguenza prevista dall’ordinamento in presenza di un illecito penale (e così per il risarcimento del danno non patrimoniale) doveva essere esclusa in assenza di reato. In difetto dell’elemento imputabilità la vittima non poteva pertanto ottenere la riparazione del danno non patrimoniale subìto.


A simile conclusione si è opposta l’autorità delle Sezioni Unite della Corte Suprema, con decisione che si è già sopra segnalata50, la quale ha affermato che la legge, nel condizionare la risarcibilità del danno non patrimoniale all’esistenza del fatto reato, non assume la nozione penalistica di reato, facendo derivare l’irrisarcibilità del danno quando del reato fa difetto uno dei suoi elementi essenziali.


Secondo la tesi della Corte, ora assolutamente incontrastata51, non occorre la sussistenza di una effettiva punibilità di natura penale: ciò che rileva, tenuto anche conto della diversa natura degli interessi tutelati dalla legge penale e di quelli tutelati dalla legge civile, è l’astratta qualificazione del fatto come illecito penale.


L’allarme sociale suscitato dal fatto reato si conserva anche nel difetto del requisito dell’imputabilità: non vi è quindi ragione per negare protezione agli interessi tutelati dalla legge civile.


Ne consegue che deve ritenersi ammissibile il risarcimento di tutti i danni – patrimoniali e non – che derivano da quel fatto, indipendentemente dalla circostanza che l’autore dell’illecito sia un inimputabile sotto il profilo penale.

 


6. Imputabilità e responsabilità oggettiva


L’accertamento della capacità di intendere e di volere cessa di avere significato in tutti quei casi in cui la legge prescinde dalla colpevolezza, anche quando venga intesa in termini obiettivi: posto che l’imputazione del danno risponde a criteri che prescindono dalla sfera psicologica dell’autore, non avrebbe significato procedere a verificare la sussistenza di un requisito che qui non viene richiesto per l’affermazione della responsabilità.


Nessun motivo avrebbe quindi indagare, ad esempio, nell’ipotesi di cui all’art. 2049 c.c., circa lo stato di capacità dei padroni e dei committenti ovvero, in relazione alla disciplina di cui all’art. 2050 c.c., dell’esercente un’attività pericolosa: in questa ipotesi, la liberatoria non è condizionata ad una particolare condotta non rispettosa del modello sociale né, tanto meno, allo stato psicologico del soggetto, bensì alla prova «di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno».


Allo stesso modo, nel danno cagionato da cose in custodia (art. 2051 c.c.) o da animali (art. 2052 c.c.) è (soltanto) la prova del caso fortuito lo strumento utile per andare esente da responsabilità.
In questa medesima direzione si collocano anche le ipotesi di responsabilità oggettiva contenute in leggi speciali, le quali a conferma dell’irrilevanza di ogni indagine in punto «capacità», nulla dettano in materia di imputabilità52.


Ne deriva che in nessun caso il soggetto chiamato a rispondere del danno a titolo di responsabilità oggettiva potrà essere assolto con l’argomento della sua incapacità di intendere e di volere53. Conseguentemente, anche quando fosse dimostrato lo stato di incapacità, sarebbe comunque possibile affermare la responsabilità.


Su questa posizione non sembra apparentemente essere attestata la giurisprudenza, la quale ha osservato che quando la responsabilità civile sia esclusa, ai sensi dell’art. 2046 c.c., in ragione dell’incapacità di intendere e di volere, è inammissibile l’affermazione della responsabilità a titolo oggettivo54.


Si tratta peraltro di contrasto più apparente che reale: la soluzione segnalata non sembra infatti assumere il carattere di massima generale, risultando motivata sulla base delle (originali) circostanze del caso concreto. Il giudizio concerneva infatti un sinistro stradale, dove l’incapace risultava proprietario del veicolo.


La soluzione data dalla Corte, più che affermare la rilevanza dello stato di incapacità anche nei casi di responsabilità oggettiva, risulta quindi in questo caso giustificata per l’impossibilità (qui in radice, stante l’incapacità) per il proprietario di dare prova «che la circolazione del veicolo è avvenuta contro la sua volontà», vale a dire di quell’esimente che, ai sensi del 3° co. dell’art. 2054, esonera da responsabilità il proprietario.


Ferma dunque l’irrilevanza dello stato di incapacità quando nel caso la legge disponga un titolo oggettivo della responsabilità, questioni sorgono quando la vittima di una tale fattispecie possa essere guardata come soggetto incapace. La domanda, che si colloca nella prospettiva sopra delineata della rilevanza nel risarcimento del danno del fatto della vittima incapace, è se, quando la legge imputi una responsabilità a titolo oggettivo, debba essere considerato l’atto della vittima ancorché incapace ovvero tale stato debba ritenersi del tutto irrilevante, sicché rimane ferma in ogni caso la responsabilità oggettiva del soggetto indicato dalla legge.


È appena il caso di sottolineare che si tratta pertanto di ipotesi in cui il danno ha inciso esclusivamente nella sfera dell’incapace. Sul piano sistematico quindi la fattispecie deve essere collocata nella prospettiva che si è sopra delineata della (rilevanza del principio di) autoresponsabilità (ovvero, in una prospettiva del tutto estranea alla previsione contemplata dall’art. 2046 c.c., che riguarda, a seguire gli orientamenti fatti propri dalla Cassazione, l’ipotesi del danno causato dall’incapace a terzi).


A tale quesito la giurisprudenza risponde assegnando rilievo al fatto dell’incapace e perciò esonerando il responsabile, a titolo oggettivo, dal risarcimento del danno, quando il comportamento della vittima sia stato tale da rappresentarsi come causa decisiva dell’evento (e così ribadendo – v. supra – che il criterio di soluzione di fattispecie dove sia coinvolto il soggetto incapace è quello causale).


In un caso recentemente sottoposto alla Corte di Cassazione si controverteva della lesione causata, ad un ragazzo di dodici anni dallo snodo di un’altalena.


Affermata l’astratta applicabilità nel caso della disciplina in materia di responsabilità del produttore, per la (affermata) difettosità del prodotto, la Cassazione ha ritenuto in concreto di negare tale responsabilità.


Secondo la Corte infatti l’imputazione della responsabilità sulla sola base del fatto costituito dalla produzione della cosa, rileva solo quando la stessa è usata secondo una destinazione che il produttore può ragionevolmente prevedere. Quando il comportamento tenuto dall’utente non rientra in tale giudizio di ragionevolezza, la responsabilità è esclusa. E poiché nel caso è stato ritenuto non ragionevole l’uso operato, viene negato il risarcimento55.


Nella stessa materia della responsabilità del fabbricante, si tratta del resto di affermazione tutt’altro che nuova. Alla stessa stregua (rilevanza del fatto commesso dal soggetto incapace) venne infatti esclusa la responsabilità del produttore, in ragione dell’uso fatto del prodotto, nonostante l’avvertenza stampigliata sullo stesso dal fabbricante, dei pericoli insiti in tale tipo di uso (nel caso un minore si era ferito giocando con una pistola, nonostante un’avvertenza con la quale si indicavano i pericoli che potevano derivare se si fosse impugnata l’arma «vicino agli occhi»)56.


E così se l’evento dannoso è in rapporto di causalità materiale con una pluralità di azioni ascrivibili a più persone, ciascuna delle quali abbia posto in essere uno stato di cose che ha condizionato il verificarsi dell’evento, la responsabilità grava su tutte le persone predette, indipendentemente dalla «presunzione di colpa» posta dalla legge a carico di talune di essere, verificandosi un concorso di cause e non potendosi attribuire alla condotta di colui che si presume in colpa una responsabilità maggiore di quella derivante dall’obiettiva efficienza causale del suo comportamento57.



NOTE

1 Cfr. Cass. 4 aprile 1959, n. 1056, in Foro it., 1959, I, c. 533.
2 Cfr., sul punto, A. FALZEA, voce Capacità (teoria gen.), in Enc. dir., VI, Milano, 1958, p. 8 ss.
3 Così L. DEVOTO, L’imputabilità e le sue forme nel diritto civile, Milano, 1964, p. 100.
4 V., sul punto, fin d’ora, P. CENDON, Profili dell’infermità di mente nel diritto privato, in Riv. critica dir. privato, 1986, p. 31 ss., specie p. 70 ss.
5 Poiché «i soggetti capaci d’intendere o di volere sono naturalmente inetti a discernere e valutare le conseguenze delle proprie azioni e, come tali, sono a priori sottratti al giudizio di riprovazione corrispondente alla colpa. Tale giudizio morale è impossibile riguardo ad essi, che per loro natura agiscono spesso con imprudenza, mai con colpa» (così, letteralmente, DE CUPIS, Il danno, Milano, 1979, vol. I, pp. 179-180).
6 Identificazione del soggetto - costituzione di figure giuridiche. Così L. DEVOTO, L’imputabilità e le sue forme nel diritto civile, cit., p. 87.
7 Cfr. Cass. 30 gennaio 1985, n. 565, in Rep. Foro it., 1985, voce Responsabilità civile, n. 105; Cass. 27 marzo 1984, n. 2027, ivi, 1984, voce Responsabilità civile, n. 84.
8 Così G. VISINTINI, Imputabilità e danno cagionato dall’incapace, in Nuova giur. civ. comm., 1986, vol. II, p. 123.
9 In questo senso, cfr. SALVI, voce Responsabilità extracontrattuale (dir. vig.), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, pp. 1223-1225.
10 Secondo questa teoria, che si fonda su una particolare distinzione dell’atto illecito, che è qui impossibile riferire, ne deriva che «l’imputabilità del responsabile sarà normalmente richiesta quando si tratti di atto illecito dannoso, quando il danno cioè, derivi da un’azione (cosciente, volontaria e colpevole) del responsabile, che una norma giuridica valuta sfavorevolmente. In ogni altro caso (illecito non dannoso, illecito dannoso non derivante da atto del responsabile) chi è indicato come responsabile dalla norma, sarà tale anche se non imputabile». Così L. DEVOTO, L’imputabilità e le sue forme nel diritto civile, cit., pp. 49-50.
11 G VISINTINI, I fatti illeciti. I. Ingiustizia del danno. Imputabilità, Padova, 1987, p. 500.
12 Cfr. Cass. 19 ottobre 1982, in Rep. Foro it., 1984, voce Imputabilità, n. 24.
13 Cfr. Cass. 23 novembre 1988, in Rep. Foro it., 1989, voce Imputabilità, n. 21.
14 V. G. VISINTINI, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1996, p. 467 ss.
15 Così tra le più recenti, Cass. 19 novembre 1990, n. 11163, in Rep. Foro it., 1990, voce Responsabilità civile, n. 98.
16 Cfr. Trib. Roma, 28 maggio 1987, in Riv. giur. circolaz. e trasp., 1988, p. 635.
17 V. ancora la già segnalata (n. 15), Cass. 19 novembre 1990, n. 11163. V. altresì, più remota, Cass. 26 giugno 1975, n. 1642, in Resp. civ. prev., 1959, p. 104.
18 In questo senso è, fin da epoca risalente, la tesi affermata dalla Cassazione. Cfr. Cass. 18 giugno 1953, n. 1812, in Riv. giur. circ. trasp., 1953, p. 1036; Cass. 8 aprile 1965, n. 597, in Riv. giur. circ. trasp., 1965, p. 269.
19 V. C. app. Firenze, 13 marzo 1964, in Giur. tosc., 1964, p. 598, ai fini dell’applicabilità nel caso della regola di cui all’art. 1227, 1° co., c.c.
20 Cfr. C. app. Firenze, 27 febbraio 1968, in Giur. tosc., 1968, p. 611.
21 Cfr. Trib. Piacenza, 4 marzo 1961, in Arch. giur. circ., 1962, II, p. 290.
22 Cfr. Cass. 7 luglio 1958, n. 2435, in Resp. civ. prev., 1959, p. 104; C. app. Bologna, 14 luglio 1956, in Giur. it., 1957, I, 2, c. 574.
23 V. P. CENDON, Il prezzo della follia. Lesione della salute mentale e responsabilità civile, Bologna, 1984.
24 Così, già in prospettiva penalistica, A. BETTIOL, Diritto penale, Parte generale, Padova, 1958, p. 335.
25 Cfr. il volume collettaneo, a cura di P. CENDON, Infermità di mente e responsabilità civile, Padova, 1993, passim.
26 G. VISINTINI, Trattato breve della responsabilità civile, cit., p. 475.
27 Così, per obiter dictum, C. cost., 25 febbraio 1988, n. 211, in Rep. Foro it., 1988, voce Trentino-Alto Adige, n. 59.
28 Cfr. ZENO-ZENCOVICH, La colpa oggettiva del malato di mente: le esperienze nord-americana e francese, in Resp. civ. prev., 1986, p. 3 ss., ed in P. CENDON (a cura di), Un diritto per il malato di mente. Esperienze e soggetti della trasformazione, Napoli, 1988, p. 847.
29 Cfr. A. DE CUPIS, Postilla sulla riduzione del risarcimento per concorso del fatto del danneggiato incapace, in Riv. dir. civ., 1965, II, p. 62 ss.
30 Così SALVI, voce Responsabilità extracontrattuale (dir. vig.), cit., pp. 1223-1224.
31 Cfr. Cass., Sez. Un., 17 febbraio 1964, n. 351, in Foro it., 1964, I, c. 752.
32 Cfr., in diverso senso, Cass. 5 luglio 1950, n. 1749, in Resp. civ. prev., 1950, p. 430; Cass. 11 giugno 1953, n. 1697, ivi, 1954, p. 253; Cass. 25 marzo 1957, n. 1016, in Foro it., 1958, I, c. 943; Cass. 3 giugno 1959, n. 1650, in Resp. civ. prev., 1960, p. 160; Cass. 10 febbraio 1961, n. 291, ivi, 1961, p. 324; Cass. 28 aprile 1962, n. 827, in Foro it., 1962, I, c. 913.
33 Cfr. Cass. 21 aprile 1965, n. 702, in Foro it., 1965, I, c. 890; Cass. 15 giugno 1973, n. 1753, in Giur. it., 1974, I, 1, c. 1400; Cass. 11 febbraio 1978, n. 630, in Resp. civ. prev., 1978, p. 652; Cass. 12 aprile 1978, n. 1736, in Dir. prat. ass., 1979, p. 282; Cass. 24 febbraio 1982, n. 1442, in Rass. avv. Stato, 1983, p. 446; Cass. 24 febbraio 1983, n. 1442, in Resp. civ., 1983, p. 627.
34 Cfr. P. CENDON, Il dolo nella responsabilità extracontrattuale, Torino, 1976, p. 456 ss.
35 In questo senso, cfr. G. VISINTINI, I fatti illeciti, cit., p. 478.
36 Cfr. A. DE CUPIS, Postilla sulla riduzione del risarcimento per concorso del fatto del danneggiato incapace, cit., p. 63.
37 G. CATTANEO, Il concorso di colpa del danneggiato, in Riv. dir. civ., 1967, p. 460 ss., specie p. 510; G. VISINTINI, Imputabilità e danno cagionato dall’incapace, cit., pp. 118-119.
38 Così P. TRIMARCHI, Causalità e danno, in Riv. dir. civ., 1967, p. 129 ss.
39 Cfr. Cass. 16 aprile 1992, n. 4691, in Rep. Foro it., 1992, voce Responsabilità civile, n. 124; nello stesso senso, v. Cass. 24 febbraio 1983, n. 1442, ivi, 1984, voce Danni civili, n. 88; Cass. pen., 25 marzo 1982, in Giur. it., 1983, II, c. 152.
40 V. Trib. Genova, (ord.) 23 maggio 1977, in Foro it., 1977, I, c. 2818.
41 V. C. cost., (ord.) 23 gennaio 1985, n. 14, in Foro it., 1985, I, c. 934.
42 Cfr. Cass. 29 aprile 1993, n. 5024, in Resp. civ., 1994, p. 472.
43 Tra le più recenti, v. Cass. 5 maggio 1994, n. 4332, in Arch. circ., 1994, p. 953; in termini analoghi Cass. 16 aprile 1992, n. 4691, in Rep. Foro it., 1992, voce Responsabilità civile, n. 124.
44 V. C. app. Bologna, 7 ottobre 1995, Danno e responsabilità, 1996, p. 765.
45 Cfr. Cass. 10 febbraio 1961, n. 291, in Resp. civ. prev., 1961, P. 324.
46 Cfr. Cass. 3 giugno 1959, n. 1650, in Resp. civ. prev., 1960, p. 160.
47 V. Cass. 7 marzo 1991, n. 2384, in Foro it., 1993, I, c. 1974.
48 Cfr. Cass. 4 febbraio 1988, in Arch. circ., 1988, p. 835.
49 Cfr. Cass. 4 aprile 1959, n. 1056, in Foro it., 1959, I, c. 533; in dottrina v. SCOGNAMIGLIO, Il danno morale (Contributo alla teoria del danno extracontrattuale), in Riv. dir. civ., I, p. 277 ss.; POGLIANI, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, Milano, 1969, p. 451. In senso contrario, v. DEVOTO, L’imputabilità e le sue forme nel diritto civile, cit., p. 101.
50 Cfr. Cass., Sez. Un., 6 dicembre 1982, n. 6651, in Giust. civ., 1983, p. 1161, con nota di C. COSSU, Imputabilità e risarcimento del danno non patrimoniale.
51 Ma v., in senso contrario, Trib. Macerata, 20 maggio 1986, in Foro it., 1986, I, c. 2594, rimasta peraltro del tutto isolata.
52 Cfr. d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224, in materia di responsabilità del produttore. Ed allora v. G. ALPA-M. BIN-P. CENDON, La responsabilità del produttore, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, 1989.
53 Così P. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, p. 38; G. ALPA E M. BESSONE, I fatti illeciti, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, XIV, Torino, 1982, p. 93; G. VISINTINI, I fatti illeciti, Padova, 1987, p. 500.
54 Cfr. Cass. 29 aprile 1993, n. 5024, in Resp. civ., 1994, p. 472.
55 Cfr. Cass. 29 settembre 1995, n. 10274, in Danno e responsabilità, 1996, p. 87, con nota di C. COSSU.
56 Cfr. C. app. Genova, 5 giugno 1964, riportata in G. ALPA E M. BESSONE, La responsabilità del produttore, Milano, 1980, p. 34.
57 Cfr. Cass. 15 giugno 1973, n. 1760, in Rep. Giur. it., voce Responsabilità civile, n. 42. Principio affermato nell’ipotesi di folgorazione elettrica di un minore, per la mancata adozione da parte dell’Enel di opere di protezione della linea elettrica e per l’omessa sorveglianza dei genitori della vittima.

 

 

(**) C. SCOGNAMIGLIO,A. FIGONE,C. COSSU,G. GIACOBBE,P.G. MONATERI

ILLECITO E RESPONSABILITA’ CIVILE

G. Giappichelli editore


Primo dei volumi dedicati alla disciplina della responsabilità civile nel Trattato di diritto privato diretto da Mario Bessone, e risultato della collaborazione tra ben noti cultori della materia, quest’opera svolge esauriente analisi delle normative e delle problematiche indicate con chiarezza già dal circostanziato indice del volume.


INDICE


L’INGIUSTIZIA DEL DANNO (ART. 2043)
di Claudio Scognamiglio

1. Premessa: ingiustizia del danno e problema della responsabilità civile 1
2. L’ingiustizia del danno ed il sistema della responsabilità civile 12
2.1. La nozione dogmatica di danno ed il concetto di «ingiustizia» del danno: le posizioni della dottrina 12
2.2. L’ingiustizia del danno: tra «clausola generale» di responsabilità e «tipicità progressiva» degli illeciti civili 23
3. Il giudizio di ingiustizia del danno 31
3.1. La struttura formale del giudizio di ingiustizia 31
3.2. Il giudizio di ingiustizia: la struttura della situazione giuridica rilevante 36
3.3. Il giudizio di ingiustizia del danno: il «bilanciamento degli interessi» 42
3.3.1. Giudizio di ingiustizia del danno e regola di buona fede 48
3.4. Giudizio di ingiustizia del danno e norma costituzionale 54
3.4.1. La tutela degli interessi riferibili alla persona umana 54
3.4.2. La tutela degli interessi «meramente patrimoniali» 60
3.4.2.1. Tutela aquiliana e disciplina del mercato: il caso dell’illecito antitrust 65


ARTT. 2044-2045
di Giovanni Giacobbe

I.
1. Premessa
2. Presupposti della responsabilità civile: a) il fatto 82
3. b) l’elemento soggettivo 85
4. c) il danno ingiusto 89
5. d) il nesso di causalità 95
6. Gli atti leciti dannosi nella teoria della responsabilità civile 100

II.
7. Legittima difesa e stato di necessità: considerazioni generali 104
8. La legittima difesa nel diritto penale: elementi costitutivi della fattispecie 109
9. Lo stato di necessità nel diritto penale: elementi costitutivi della fattispecie 115
10. Lo stato di necessità e la teoria dell’inesigibilità 122
11. La disciplina penale delle scriminanti 125

III.
12. L’art. 2044 c.c.: caratteri della legittima difesa 129
13. Segue. I diritti tutelabili 133
14. Segue. Il pericolo 134
15. La proporzionalità tra l’offesa e la reazione. L’eccesso colposo di legittima difesa e la provocazione 136
16. La legittima difesa putativa 140

IV.
17. La previsione dello stato di necessità nel codice civile 144
18. Il fondamento dello stato di necessità 147
19. Elementi costitutivi dello stato di necessità: il danno grave alla persona 153
20. Segue. Il pericolo di danno. Attualità, inevitabilità, involontarietà 159
21. Segue. In particolare: lo stato di necessità putativo 164
22. Segue. Il fatto necessitato dannoso 167
23. Il diritto sacrificato ed il criterio della proporzionalità 170
24. Il dovere di esporsi al pericolo 173
25. Il fatto colposo del terzo 176
26. Il soccorso necessitato 183
27. L’obbligazione indennitaria: natura e fondamento 188
28. La rilevanza dello stato di necessità nella responsabilità contrattuale 193


LA RESPONSABILITÀ E IL DANNO CAGIONATO
DALL’INCAPACE (ARTT. 2046-2047)
di Cipriano Cossu

Parte prima: DANNO E IMPUTABILITÀ
1. La nozione di imputabilità. Imputabilità e colpevolezza. Le actiones liberae in causa 199
2. Imputabilità penale. Imputabilità civile 204
3. Incapacità naturale e incapacità legale: il minore d’età e l’infermo di mente 205
4. Il concorso di colpa dell’incapace 208
5. La risarcibilità dei danni non patrimoniali 214
6. Imputabilità e responsabilità oggettiva 215

Parte seconda: IL RISARCIMENTO DEL DANNO CAGIONATO DALL’INCAPACE
7. La responsabilità dei soggetti tenuti alla sorveglianza 218
8. La prova liberatoria 220
9. La responsabilità dell’incapace e la misura dell’indennizzo 224


RESPONSABILITÀ CIVILE DEI GENITORI, DEI TUTORI,
DEGLI INSEGNANTI E DEI MAESTRI D’ARTE O MESTIERE
di Alberto Figone

1. Una premessa 227
2. Fondamento della responsabilità 229
3. Solidarietà passiva tra genitori e figli 233
4. I soggetti responsabili 235
4.1. Generalità 235
4.2. I genitori 236
4.3. Gli affidatari 239
4.4. Concorso dei genitori con terzi 241
5. La convivenza 242
6. Prova liberatoria 244
7. Precettori e maestri: generalità 249
8. In particolare: gli insegnanti 251
9. I maestri di mestiere o d’arte 256
10. Prova liberatoria 257


IL RISARCIMENTO IN FORMA SPECIFICA
di Pier Giuseppe Monateri

1. Natura e funzione del risarcimento in forma specifica. I rapporti tra reintegrazione e risarcimento per equivalente 261
2. La prassi evolutiva verso il riconoscimento di una azione generale di renitegrazione fondata sull’art. 2058 c.c. 264
3. I limiti alla reintegrazione in forma specifica 268
4. Profili processuali 270
5. Risarcimento del danno in forma specifica e Pubblica Amministrazione 273

IL NUOVO DANNO NON PATRIMONIALE
LA NUOVA TASSONOMIA DEL DANNO ALLA PERSONA
di Pier Giuseppe Monateri

1. Il nuovo sistema risarcitorio dei danni non patrimoniali 277
2. Le interpretazioni dell’art. 2059 c.c.: la vecchia regola 278
2.1. Segue. Il superamento della “vecchia regola” 280
2.2. Segue. L’abbandono della “vecchia regola” 282
3. Danno biologico, danno morale e danno esistenziale: la nuova tassonomia 286
4. La prova dei danni non patrimoniali 289
5. La quantificazione dei danni non patrimoniali: liquidazione analitica o liquidazione unica? 290

 

Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 21/11/2005

 

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