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Considerazioni sullo scenario nazionale e mondiale

Luigi De Paoli

 

Pubblichiamo un ampio stralcio della relazione che il prof. Luigi De Paoli, direttore dello IEFE-Bocconi, ha illustrato in occasione dell'assemblea dei soci dell'istituto che si è tenuta il 4 maggio 2004.

L'economia energetica italiana nel 2003

Una sintesi dell'andamento dell'economia energetica italiana nel 2003 è presentata nella tabella.

Tab - L'economia energetica italiana 2003:

2003 Variazioni 2003/2002

PIL

1.300.926 M€

+ 0.3%

Domanda totale di energia

192,9Mtep

+2,9%

Intensità energetica

186 tep/M€ ('95)

+2.6%

Consumi energetici di cui:

 

- industria

- trasporti

- usi civili

140,8 Mtep

 

39,6 Mtep

43,8 Mtep

43,6 Mtep
319,7 TWh

53.105 MW

53.403 MW
76.250 Mmc

3,8%

 

+1,3%

+2,3%

+8,5%
+2,9%

+4,2%

+1,5%
+8,7%

Richiesta di energia elettrica

Picco estivo (17.7.03)

Picco invernale (10.12.03)

Consumi di gas

Consumi di petrolio

92.028 kt

-1,3%

Import. di carbone

22.139 kt

+11,3%

Fonte: MAP, Unione Petrolifera, GRTN e Istat1

 

Il primo elemento che conviene rilevare è che, in un anno in cui il PIL è rimasto quasi fermo (+0,3%), la domanda energetica è cresciuta ad un ritmo piuttosto sostenuto (+2,9%, secondo il dato ancora provvisorio del MAP). Conseguentemente l'intensità energetica è salita del 2,6%. 

Un così brusco aumento non si verificava dagli anni che precedettero la prima crisi petrolifera. Anche senza voler prendere il dato annuale come un segnale di inversione di tendenza, deve però preoccupare il fatto che il trend dell'intensità energetica sembri aver raggiunto un pianerottolo dalla metà degli anni '90. Ciò significa che, a meno di un deciso rilancio di una politica a favore del risparmio energetico, dobbiamo aspettarci difficoltà accresciute per la limitazione delle emissioni di gas serra secondo gli impegni internazionali che l'Italia ha assunto e di cui si dirà più tardi.

Il secondo elemento da mettere in evidenza è che l'aumento della domanda sembra trainato anzitutto dal settore civile soprattutto sotto la spinta di fattori climatici. Infatti il forte incremento dei consumi di gas è dovuto in parti uguali alla crescita della produzione termoelettrica e al riscaldamento. Allo stesso modo una parte non trascurabile dell'incremento della domanda elettrica (+2,9%) è spiegata dal caldo torrido della scorsa estate che ha fatto impennare i consumi per condizionamento degli edifici. 

Basti pensare che l'incremento della domanda elettrica nei tre mesi estivi (giugno-luglio-agosto) è stata del 7,2% mentre l'incremento medio nei restanti nove mesi dell'anno è stato solo dell'1,6%. L'impennata dei consumi estivi non sembra essere un fatto transitorio: una volta che ci si doti del sistema di condizionamento degli ambienti non si cessa di usarlo anche se fa un po' meno caldo dell'anno precedente. 
E' proprio per questa ragione che tutti gli studi previstivi (e tra questi anche quello dello IEFE) danno per scontato che ben presto (probabilmente già quest'anno) anche in Italia il picco della domanda elettrica si verificherà in estate. Già lo scorso anno il picco estivo e quello invernale sono stati praticamente identici, ma quello estivo ha subito un notevole incremento mettendo a dura prova la capacità del sistema elettrico nazionale di far fronte alla domanda in condizioni che, per ragioni fisiche, sono decisamente più critiche di quelle invernali.

A questo proposito non si può non ricordare che lo scorso anno il nostro Paese è stato sottoposto a un duplice fenomeno di interruzione delle forniture elettriche: il 26 giugno a un'interruzione programmata dovuta in primo luogo alle condizioni climatiche sopra richiamate, il 28 settembre per un black-out dovuto da un lato alla scarsa consapevolezza con cui da parte svizzera si è gestita una situazione di emergenza e dall'altro alla fragilità del nostro sistema elettrico nelle ore notturne in cui importiamo più di un quarto dell'elettricità che consumiamo.Questi due episodi mettono in evidenza la necessità che vengano fatti i necessari investimenti nell'ampliamento della capacità produttiva e delle reti di trasmissione sia per i collegamenti con l'estero che per quelli interni.

Il terzo elemento che vale la pena mettere in evidenza è che "fattura energetica", cioè quanto l'Italia deve pagare per le importazioni energetiche, per il quarto anno consecutivo è rimasta al di sopra del 2% del PIL. In sé, questo livello di prelievo non è preoccupante se si considera che nel decennio 1975-1985 la fattura energetica ha pesato tra il 4 e il 6% del PIL. Tuttavia va rilevato che tra il 1986 e il 1999 era sempre rimasta tra l'1 e il 2% del PIL e che nell'ultimo anno la fattura energetica sarebbe stata superiore se l'euro non si fosse apprezzato di quasi il 20% sul dollaro rispetto all'anno precedente. La crescita del livello della fattura energetica mette in evidenza due dati di fatto: ci troviamo in un periodo di rialzo del prezzo dell'energia e di pericolo di inflazione indotta da tale rialzo che si combina con l'instabilità del cambio euro-dollaro.

La situazione energetica mondiale

Un rapido sguardo alla situazione energetica mondiale mostra che l'elemento che meglio caratterizza questo periodo sono i prezzi elevati di tutti i combustibili fossili, anche se vi sono notevoli differenze tra i combustibili e tra le aree geografiche. I prezzi del petrolio in tutto il mondo sono elevati (e i consumatori se ne accorgono attraverso il prezzo della benzina), il prezzo spot del gas negli Stati Uniti si aggira attorno a 6 $/Mbtu, il prezzo del carbone in molti casi è superiore a 60 $/t. Dobbiamo quindi tornare a una visione del futuro conforme al modello di Hotelling secondo cui il prezzo delle risorse esauribili è inevitabilmente orientato all'aumento?

Non è certo qui il luogo per cercare di rispondere a tale domanda, ma vale la pena di soffermarsi un po' più in dettaglio sulla situazione del mercato del petrolio perché rimane la prima fonte energetica e il suo mercato è il più interconnesso a livello mondiale.

Da qualche anno la domanda mondiale di petrolio si mantiene compresa tra 75 e 79 Mb/g e cresce in misura modesta. Secondo le prime stime, lo scorso anno l'aumento è stato di 1,4 Mb/g con un tasso di incremento dell'1,8-2%, sensibilmente più elevato della media dell'ultimo quinquennio. 
I principali responsabili di questo aumento sono stati anzitutto gli USA e in secondo luogo la Cina che, secondo i dati provvisori, hanno incrementato le loro importazioni rispettivamente di 0,8 e 0,5 Mb/g. In un contesto di moderata crescita della domanda, si pensava che la conclusione della seconda guerra del golfo e il ritorno dell'Iraq sul mercato avrebbe comportato prezzi in flessione. Invece il prezzo del barile, dopo essere sceso a quasi 22 $/bl, da maggio in poi si è ripreso ed ha seguito un trend crescente. Ne è derivato che il prezzo medio su base annua è stato di 27 dollari al barile con un aumento del 15% ca rispetto al 2002 e la tendenza al rialzo è proseguita nei primi mesi del 2004.
Anche il paniere dei greggi Opec ha subito un aumento analogo essendo salito da 24,36 $/bl nel 2002 a 28,10 $/bl nel 2003 ed è rimasto costantemente sopra i 28 $/bl nei primi quattro mesi del 2004. 

Come è noto, in base alle regole stabilite dall'Opec nel marzo 2000, se il prezzo del paniere di riferimento rimane per 20 giorni consecutivi di contrattazioni sopra i 28 $/bl, l'Organizzazione dovrebbe prendere provvedimenti e aumentare la produzione. Invece, malgrado ciò sia accaduto per un periodo ben più lungo, l'Opec non solo non ha aumentato la quota ufficiale di produzione, come avrebbe dovuto fare in base alle regole stabilite, ma l'ha ridotta da 5,4 a 24,5 Mb/g (escluso l'Iraq) dal 1° novembre 2003.

Il mancato intervento dell'Opec per cercare di stabilizzare il prezzo del petrolio può essere interpretato in molti modi. Alcuni pensano che ci sia un ritorno ad un uso politico dell'arma petrolio. Altri suggeriscono che è in atto un cambiamento di strategia in seno all'Organizzazione: per bloccare la concorrenza degli altri produttori, sarebbe più conveniente un prezzo incerto che un prezzo prevedibile. Inoltre il valore del prezzo di riferimento (25 $/bl) potrebbe essere ritenuto troppo basso.

Vi è però anche un'altra spiegazione possibile: i margini reali di manovra dell'Opec per aumentare la propria produzione sarebbero molto ridotti. Secondo il Short-term Energy Outlook dell'aprile 2004 dell'Aie, tutti i paesi Opec con l'eccezione dell'Arabia Saudita e degli Emirati starebbero producendo al massimo delle loro possibilità e quindi, in generale, ben al di sopra della loro quota ufficiale. Anche l'Iraq ha ormai raggiunto una produzione di 2,2-2,3 Mb/g, cioè è ritornato sui livelli di produzione di prima della guerra dell'aprile dello scorso anno, ma stenta ad andare oltre per la ben nota situazione di caos che continua a regnare nel paese. Non vi sarebbero quindi grandi margini per aumentare la produzione e calmierare il prezzo. Se a ciò si aggiunge il basso livello di scorte di prodotti petroliferi nei paesi Ocse (e in particolare di benzina negli Usa) e i timori che la tanto attesa ripresa dell'economia dei paesi industrializzati (in particolare dell'UE) faccia crescere la domanda, emerge chiaramente una situazione di tensione del mercato fino ad arrivare, secondo alcuni, alla prospettiva di una vera penuria di offerta che potrebbe provocare un nuovo choc petrolifero con prospettive peggiori dei due precedenti. Sta dunque accadendo qualcosa di nuovo?


Il picco di Hubbert

Marion King Hubbert, un geologo americano della Shell, non è stato il primo a fare previsioni "catastrofiche" sull'andamento della produzione di petrolio. Tuttavia egli è stato il primo ad aver avuto utilizzato un "metodo" previsivo basato su dati e ad aver avuto in larga parte ragione. Hubbert nel 1956, sulla base dell'interpolazione dei dati storici con una curva logistica, formulò la doppia previsione che la quantità totale di petrolio recuperabile nei 48 Stati contigui degli Usa sarebbe stata di 170 miliardi di barili e che il picco della produzione sarebbe stato raggiunto nel 1969 dopo di che la produzione sarebbe inesorabilmente diminuita. 

In effetti la produzione dei 48 stati americani contigui ha raggiunto il picco nel 1970 e ancora oggi si stima che il petrolio recuperabile in tale area non sarà molto superiore a quanto previsto da Hubbert. Hubbert ha poi applicato il suo metodo alla previsione della produzione di petrolio mondiale in un articolo pubblicato nel 1971, ma questa volta con minore fortuna avendo indicato che il picco sarebbe caduto tra il 1990 e il 2000 e il livello di produzione massimo sarebbe stato compreso tra 65 e 100 Mb/g.

La metodologia utilizzata da Hubbert è stata criticata da alcuni geologi soprattutto per quanto riguarda l'ipotesi implicita che l'andamento della produzione sia simmetrico nella fase crescente e in quella calante e per l'incertezza con cui è possibile prevedere la quantità totale di petrolio recuperabile.Tra l'altro i modelli più recenti prendono in considerazione l'effetto di più cicli anzichè uno. Piuttosto però che esaminare in dettaglio i singoli argomenti, qui ci interessa rilevare i punti di consenso che sono:

    a) in un sistema finito (la Terra) la quantità di petrolio recuperabile è finita;
    b) pertanto la produzione è destinata a calare per ragioni fisiche a partire da un certo momento (esiste cioè un "picco di Hubbert").

Quanto è accaduto negli Stati Uniti si è ripetuto in molte altre aree produttive: per esempio proprio in questi anni si è raggiunto il picco della produzione nel Mare del Nord. Questa prospettiva non deve essere intesa come una visione apocalittica, ma segnala un possibile stato di allarme che si verificherà soprattutto nel momento in cui si verificasse il punto di svolta della produzione a livello mondiale. Infatti per quel momento o saranno disponibili i prodotti sostitutivi di quelli del petrolio nelle quantità necessarie e negli usi dove ciò è possibile, oppure, a fronte di una domanda che continua a crescere per ragioni esogene (l'aumento della popolazione mondiale e l'auspicato sviluppo dei tre quarti dell'umanità), l'impennata dei prezzi e le conseguenze socio-economiche potrebbero essere più gravi di quelle dei primi due choc petroliferi.

Diventa quindi importante attrezzarsi per realizzare una "transizione soffice" per il momento del possibile punto di svolta. Ma è proprio a questo riguardo che esistono le maggiori discrepanze. Le posizioni ufficiali non hanno ancora "internalizzato" l'esistenza di un possibile picco, cioè lo considerano ancora molto lontano per doversene preoccupare. Si considerino ad esempio le previsioni dell'agenzia americana per l'informazione energetica fino al 2025. 

Secondo l'Aie nel 2025 la domanda mondiale di petrolio si avvicinerebbe ai 120 Mb/g e la domanda di petrolio pro capite nei Paesi industrializzati sarebbe circa sette volte superiore a quella dei PVS (poco meno del rapporto odierno che è pari a 8). In altri termini, secondo questa fonte ufficiale, siamo di fronte ad almeno un ventennio ancora di "business as usual". Secondo numerosi geologi (Campbell, Deffeyes, Laherrère) che hanno riesaminato la questione usando la metodologia di Hubbert, il picco di produzione avverrebbe certamente prima di quella data (per Campbelle Deffeyes in questo decennio, per Laherrère più probabilmente nel prossimo) e non potrebbe superare 90 Mb/g.

Se dunque si vuole prendere sul serio il segnale di allarme che, pur restando minoritario, si va diffondendo occorre prepararsi a usare meno petrolio e a ricorrere ad altre fonti (oltre a incrementare l'efficienza d'uso). Come fare? I due sostituti più immediati sono il gas e il carbone anche se la vera sfida a lungo termine è la sostituzione del petrolio nel trasporti (da qui il forte interesse per l'idrogeno, che però è solo un vettore energetico, anche per la sua benignità ambientale). Per quanto riguarda il gas però la risposta potrebbe rinviare il problema solo per qualche decennio (senza dimenticare che molti prevedono che nei prossimi anni negli Usa verrà raggiunto anche il picco della produzione di gas). Il ricorso al carbone invece solleva il secondo problema più controverso del settore energetico: quello dei cambiamenti climatici dovuti alle emissioni di anidride carbonica.

Cambiamenti climatici e Protocollo di Kioto - I termini della questione delle iniziative da prendere per far fronte ai cambiamenti climatici possono essere così riassunti. L'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l'organismo scientifico internazionale creato per studiare il problema dei cambiamenti climatici, nel suo terzo rapporto pubblicato nel 2001, oltre a mettere in evidenza che negli ultimi trent'anni vi è un trend crescente della temperatura media sulla Terra, ha sostanzialmente avvalorato la tesi che l'aumento di circa mezzo grado finora verificatosi sia dovuto all'emissione di gas serra da parte dell'uomo. Questa conclusione, ancorché contestata da alcuni che ritengono ancora insufficienti le nostre conoscenze sulle cause dei cambiamenti climatici e inadeguati i modelli utilizzati per studiarli, fa ormai parte del "mainstream", cioè delle opinioni condivise dalla maggioranza, inclusa la classe politica.

La CO2 è di gran lunga il principale gas serra e la sua emissione è legata ai consumi energetici. Da qui la logica deduzione che, per ridurre le emissioni di gas serra, si dovrebbero ridurre i consumi energetici e/o modificare le fonti utilizzate impiegando quelle a minor contenuto di carbonio a parità di energia resa disponibile. L'IPCC ha però anche messo in evidenza due altri dati che rendono più complicato aderire alla conclusione precedente. In primo luogo, per stabilizzare la concentrazione di CO2 a un livello accettabile per le conseguenze climatiche, occorrerebbe ridurre le emissioni globali non di pochi percento, ma in maniera sostanziale (arrivare a pochi percento delle emissioni attuali). In secondo luogo, esiste un ritardo anche di secoli tra la riduzione delle emissioni, la stabilizzazione della concentrazione della CO2 in atmosfera e l'esaurimento delle conseguenze che l'aumento della concentrazione di CO2 provoca. 

Le conclusioni dell'IPCC tendono a dare suggerimenti contraddittori sul "che fare" e sulla posizione da prendere nei confronti del Protocollo di Kioto (PK). Da un lato infatti rafforzano l'indicazione del PK che i paesi industrializzati devono ridurre le loro emissioni di gas serra, dall'altro però dicono che la riduzione del 5% delle emissioni di gas serra rispetto a quelle del 1990 dei paesi industrializzati è del tutto inefficace. Il fatto di aver escluso i PVS dagli obblighi di contenimento delle emissioni è un altro elemento di contesa: a che cosa serve se alcuni emettono di meno se altri accrescono le loro in misura superiore? 

Senza un accordo globale è difficile resistere al "dilemma del prigioniero". Inoltre, i critici del PK osservano che le conseguenze in termini economici non sono affatto trascurabili, nonostante il PK abbia previsto la possibilità di commercializzare i permessi di emissioni, cioè permettendo che si riducano le emissioni là dove costa di meno per minimizzare il costo del rispetto dell'impegno assunto. Persino questo fatto può però essere contestato perché ha dato il via a una macchina burocratico-amministrativa di dimensioni considerevoli per cercare di garantire che siamo in presenza di un reale risparmio di emissioni e non di un commercio "truccato".

Gli Stati Uniti, che a Kioto avevano accettato di ridurre le proprie emissioni del 7% rispetto al 1990, oggi si trovano ad averle aumentate dell'11% e hanno deciso di non ratificare il Protocollo preferendo puntare su uno sforzo più massiccio di riduzione delle emissioni che dia effetti più in là nel tempo. L'Unione Europea, che a Kioto si era impegnata a ridurre le proprie emissioni dell'8%, oggi si trova ad averle ridotte del 2-3%, grazie non poco all'unificazione delle due Germanie che ha consentito di risparmiare facilmente CO2 eliminando in parte l'uso della lignite nella Germania Est. L'Europa sembra inoltre decisa ad andare avanti anche se il PK non è ancora efficace non avendo raggiunto una delle due condizioni richieste. Anzi, l'UE ha approvato nello scorso mese di ottobre una direttiva sull'emission trading che diventerà effettiva a partire dal 2005 e di cui proprio in questi giorni si sta discutendo in Italia per definire il "Piano nazionale di allocazione" dei permessi di emissione. Non ci si può nascondere che L'Italia si trova in una situazione di difficoltà avendo aumentato le sue emissioni di circa il 7% tra il 1990 e il 2000 e dovendo invece ridurle del 6,5% per il 2010, cioè dovendo ridurle di circa il 15% in pochi anni da oggi. 

Considerazioni conclusive

Dal breve esame che abbiamo condotto sulla situazione energetica e ambientale italiana e internazionale emerge un quadro un quadro alquanto complesso per l'azione dei pubblici poteri per il contemporaneo manifestarsi di numerosi problemi lungo le tre direttrici tradizionali della politica energetica: la sicurezza, la compatibilità ambientale e l'economicità. 
La sicurezza degli approvvigionamenti e la continuità delle forniture vanno perseguite facendo i necessari investimenti in un clima di accresciuta incertezza rispetto al passato. La compatibilità ambientale diventa sempre più un elemento dirimente delle scelte, ma ciò richiede una forte capacità delle autorità pubbliche di mantenere fermi gli obiettivi e le regole stabilite. Inoltre, questa preoccupazione si trova talora presa a tenaglia tra la sicurezza e l'economicità e rischia in questi casi di fare la fine del vaso di coccio, almeno nel nostro paese e in una situazione di perdurante debolezza della situazione economica. 

Infine l'economicità rimane la ragione fondamentale per cui si sono intrapresi i processi di liberalizzazione, ma nel nostro Paese questi stentano ancora a dare risultati tangibili. D'altra parte economicità e liberalizzazione vanno rese compatibili con la sicurezza e la difesa dei consumatori, ma non sempre questo risulta facile.

In un contesto così difficile, negli scorsi mesi sono state prese numerose decisioni di politica energetica molto significative. Tra queste vale la pena ricordare la decisione di riunificate la proprietà e la gestione della rete elettrica di trasmissione, l'introduzione del "capacity payment", l'avvio dell'operatività dell'Acquirente Unico e, da circa un mese, l'avvio della borsa elettrica. Alcune di queste decisioni non sono ancora operative e talora hanno suscitato anche le nostre critiche costruttive. Come sempre, abbiamo cercato di dare il nostro contributo di idee per migliorare le soluzioni adottate e contiamo di continuare a farlo anche in futuro.

1 Alcuni dati devono considerarsi provvisori