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LCA-type Life Cycle Costing:
note metodologiche ed applicazione alla
produzione di energia ed al recupero di materia
LCA-type Life Cycle Cost Analysis: methodology outlines and application to
energy production and asphalt recycling
Ettore Settanni *
Abstract: As moving toward more sustainable practices becomes more and
more an institutional concern and new environmental induced costs are incurred,
facing issues like natural resource depletion and GHG emissions in a cost
effective way requires organizations to be more proactive. A life-cycle approach
in evaluating available production alternatives form a both environmental and
cost perspective would help in appreciating overall advantages from raw material
extraction to waste disposal of less energy and scarce resource demanding
processes, as in the case of recycling motorway pavements’ construction wastes,
or less air pollution emitting ones, as in the case of thermal power plants
fired with lower carbon-content fuels.
Keywords: Life Cycle Costing; Life Cycle Management; Energy Production;
Asphalt Recycling.
Introduzione
Una maggiore propensione da parte delle organizzazioni verso pratiche più
sostenibili nel condurre le proprie attività potrebbe consentire loro di
identificare opportunità di riduzione dei costi e maggiori efficienze
nell’impiego delle risorse. Al fine di apprezzare appieno le conseguenze
dell’introduzione di opportune modifiche nel design di prodotto, nelle materie
prime o nei processi, sarebbe opportuno che esse riconducessero entro le proprie
attività emissioni ed attività di smaltimento ascrivibili anche ad altri attori
nell’ambito del ciclo di vita del sistema considerato [Porter et van der Linde,
1996]. Pertanto, l’adozione di una prospettiva del ciclo di vita – la quale
richiede che i principali attori sociali non limitino la propria responsabilità
ai soli stadi della filiera da essi direttamente controllati – costituirebbe il
presupposto per una solida valutazione di sostenibilità.
In questo senso, il Life Cycle Managment (LCM) prevede che, nell’ambito della
gestione aziendale, ottica del ciclo di vita e considerazioni economiche,
ambientali e sociali siano integrate nei processi decisionali a supporto dello
sviluppo di prodotto [Saur et al., 2003].
In una prospettiva di LCM, vi sono evidenze circa un’ emergente tendenza ad
integrare, sebbene con una pluralità di approcci operativi [Parker, 2000;
Epstein et Roy, 1997; Shapiro, 2001], strumenti di contabilità direzionale,
quali il Life Cycle Costing (LCC), da un lato, e, dall’altro, sistemi e
strumenti analitici di gestione ambientale, quali la Life Cycle Assessment (LCA),
al fine di supportare i processi decisionali aziendali con una maggiore
consapevolezza circa le potenziali conseguenze, in termini di costo ed impatto,
su ambiente e salute umana connesse a modalità alternative di progettazione e
produzione, che hanno luogo negli stadi che vanno dall’estrazione delle materie
prime allo smaltimento dei rifiuti. In questa prospettiva sistemica, le scelte
di convenienza dovrebbero essere operate guardando ai plus e minus che
caratterizzano un prodotto, processo o attività “dalla culla alla tomba”,
conciliando, per quanto possibile, istanze economiche ed ambientali che
connotano una pluralità di processi ed operatori economici nell’ambito della
filiera.
In questa sede si è cercato di supportare tali intenti metodologici con due
applicazioni esemplificative, la prima delle quali attinente la produzione di
energia elettrica con impiego di diversi combustibili e le implicazioni che
questo comporta sulla composizione delle emissioni in atmosfera con particolare
riguardo ad alcuni inquinanti alla luce degli impatti ambientali correlabili
agli stessi. Sebbene sia necessario introdurre una configurazione di costo che
tenga conto anche delle esternalità negative della produzione di energia per
evidenziare che una centrale termoelettrica a Ciclo Combinato a gas (CCGT)
presenta impatti meno gravosi sia nello stadio di produzione che in quelli a
monte dello stesso [Notarnicola, Tassielli e Settanni, 2005], si osserva come la
promozione dell’impiego di combustibili a minor tenore di carbonio risulti dal 1
gennaio 2005 istituzionalizzata nel sistema comunitario di scambio di permessi
di inquinamento negoziabili di cui alla Direttiva Comunitaria 83/2003. Proprio
il settore della produzione di elettricità risulta nel nostro Paese più indietro
rispetto a quello industriale a causa del massiccio ricorso a petrolio e carbone
e del correlato incremento delle emissioni di inquinanti del 17% dal 1990 al
2003, il che connota tale settore come quello più problematico ai fini
dell’attuazione del protocollo di Kyoto, in particolare per quanto attiene le
ripercussioni sui costi1 [Gilberto, 2005].
Il secondo caso di studio attiene il recupero del conglomerato bituminoso
asportato nell’ambito delle operazioni di manutenzione delle pavimentazioni
autostradali. In particolare, vi sono evidenze che le attività connesse alla
costruzione e manutenzione delle pavimentazioni – in misura maggiore rispetto
alle altre attività di costruzione in ambito autostradale – sono connotate da
un’elevata intensità di materia ed energia, in particolare guardando sia alla
estrazione e confezionamento dei materiali da costruzione che ai consumi dei
mezzi d’opera. [Park et al., 2003]. Pertanto – anche alla luce della continua
crescita dei costi dello smaltimento in discarica e dei prezzi delle materie
prime vergini – il recupero delle pavimentazioni ammalorate nella attività di
manutenzione costituisce una concreta opportunità per ridurre i consumi di
risorse non rinnovabili – come inerti di cava e bitume – ed energia, nonché
evitare il conferimento a discarica di rifiuti speciali non pericolosi. D’altra
parte, notevoli sforzi istituzionali sono stati compiuti a partire dai primi
anni ottanta, per promuovere il perseguimento dell’obiettivo ampiamente
riconosciuto e condiviso della riduzione, reimpiego e riciclaggio di materiali
di risulta e sottoprodotti industriali nell’ambito delle operazioni di
pavimentazione, evidenziandone le opportunità e promovendo la condivisione delle
migliori pratiche. La stessa OECD ha osservato come negli ultimi due decenni la
disponibilità di inerti vergini sia diminuita ed il loro costo sia,
conseguentemente, aumentato e come il degrado ambientale e il consumo di energia
introduca nuove voci di costo, alle volte particolarmente significative, per le
attività di costruzione [OECD, 1997].
Un approccio di tipo Life-Cycle per la valutazione degli aspetti economici ed
ambientali
Poiché una rilevante parte dei costi e dei carichi ambientali viene determinata
– sebbene non ancora sostenuta da alcuno degli attori operanti lungo il ciclo di
vita – dalla scelte operate in fase di progettazione, nell’ambito del LCM il
concetto di LCC si rivela essenziale nel supportare lo sviluppo di prodotto, per
conciliare le esigenze di riduzione dei costi con quelle di una migliore
performance ambientale, considerando costi e carichi ambientali non solo entro i
confini aziendali, ma coinvolgendo, in una prospettiva più olistica, processi ed
operatori a monte e a valle lungo la filiera (Supply-chain) [Hunkeler et
Rebitzer, 2003; Bennett et James, 1997].
Il Life Cycle Costing (LCC) nella sua accezione originaria (o budget- LCC) non
si configura, tuttavia, come strumento di contabilità ambientale. Costituisce,
piuttosto, uno strumento di consolidato impiego nell’ambito della contabilità
direzionale [Horngren, 2003; Atkinson et al., 2002] che si propone di perseguire
una riduzione dei cd. Whole life cost – l’insieme dei costi di progettazione,
produzione, supporto logistico ed i postpurchase costs, connessi al
funzionamento, manutenzione e smaltimento del prodotto [Shields et Young, 1991;
Arrto, 1994] – identificando, con riferimento al sistema, le attività funzionali
appropriate nell’ambito delle fasi di progettazione, produzione, utilizzo e
smaltimento dello stesso e attribuendo loro un costo [Fabricky et Blanchard,
1991] esplicitando, così, le relazioni causali tra alternative progettuali
riguardo l’architettura del prodotto e le stime dei correlati costi, i quali –
determinati dalle scelte operate in fase progettuale – verranno verosimilmente
sostenuti dai diversi attori nell’arco della vita economica del prodotto [Fixson,
2004].
Tuttavia, per essere utilmente impiegato nell’ambito del LCM come controparte
economica di un’analisi di tipo Life Cycle Assessment (LCA) [Saur et al., 2003,
Klöppfer, 2003], il LCC dovrebbe fondarsi su un’analisi sistematica che sia
complementare e coerente con la corrispondente valutazione ambientale [Rebitzer
et Hunkeler, 2003] – per cui si suole parlare di LCA-type Life Cycle Costing (LCA-type
LCC) [Huppes, 2004]. Di conseguenza, affinché si possano effettivamente ottenere
delle sinergie dalla contestuale implementazione di LCA e LCC, occorre che i
confini del sistema, l’unità funzionale e le principali ipotesi siano allineate
tra le due metodologie.
Sebbene tale cornice metodologica non sia, attualmente, oggetto di
standardizzazione – nonostante il vivace dibattito in corso in seno al Working
Group europeo all’uopo istituito nell’ambito della SETAC (Society of
Environmental Toxicology and Chemistry) [Rebitzer et Seuring, 2003; Rebitzer et
Hunkeler, 2004] – una possibile, seppur ampia, definizione si può evincere da
un’elaborazione di alcune tra quelle proposte in letteratura [Rebitzer et
Hunkeler, 2003; Schaltegger et Burrit, 2000; Weitz et al., 1994; White et al.,
1996]:
il LCC si configura come uno strumento a supporto delle decisioni aziendali che
consente di guardare ad entrambe le dimensioni – quella economica e quella
fisica [Bartolomeo et al, 1997; Burritt et al., 2003] – della contabilità
ambientale, considerando tutti i costi interni, effettivamente sostenuti ovvero
stimati, ed esterni associati ad un sistema, prodotto, processo o attività
sostenuti dai molteplici attori operanti nell’arco del suo intero ciclo di vita
– dall’estrazione delle materie prime allo smaltimento dei rifiuti – con
riguardo ad una specifica unità funzionale.
Dalla definizione di cui sopra emergono le caratteristiche riportate nel
seguente schema, tre delle quali connotano l’accezione di LCC in oggetto come
LCA-type.
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LCA-Type |
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In un contesto di tipo LCM, il LCC prende in considerazione diverse istanze
economiche e ambientali che connotano diversi attori e processi lungo la filiera
al fine di quantificare ripercussioni in termini di costo connesse alle
emissioni inquinanti ed al consumo di risorse naturali, in modo da mettere,
così, in relazione istanze ambientali, strategie aziendali e processi operativi
prendendo in considerazione costi e impatti o aspetti ambientali che hanno luogo
anche al di là dei confini aziendali, negli stadi rilevanti lungo la filiera [Hunkeler
et Rebitzer, 2003].
Per identificre, in ultima analisi, modalità di produzione che consentano, a un
tempo, la riduzione di entrambe, laddove possibile2. Al fine di perseguire un
ottimo complessivo, si devono considerare plus e minus e trade-offs che
caratterizzano diversi processi ed attori nell’ambito del ciclo di vita [Rebitzer
et Hunkeler, 2002].
La connotazione del metodo è strettamente influenzata dall’accezione di ciclo di
vita adottata. Nella misura in cui condivida il ciclo di vita “fisico” e la
prospettiva from-cradle-to-grave propri della LCA, lo si può definire LCA-type –
ovvero supply chain – LCC3 [James, 2003].
Una connotazione Supply Chain del Life-Cycle Management implica che, in una
prospettiva sistemica, il prodotto ed i processi associati alla produzione, uso
e smaltimento dello stesso che hanno luogo sia a monte che a valle della filiera
siano al centro dell’analisi [Rebitzer, 2002]. Poiché attori diversi controllano
stadi diversi (fornitore, produttore, utilizzatore, responsabile dello
smaltimento o del recupero) l’approccio life cycle considera le rispettive
prospettive, mettendo in relazione clienti e fornitori lungo la value chain [Druty
et McWatters, 1998] e la value chain con la “ecological product chain” [Vogtländer
et al., 2002].
Le principali differenze tra budget- e LCA-type LCC originano principalmente
dalla differente prospettiva, incentrata sul sistema in sé nel primo caso, e
sull’unità funzionale nel secondo. Proponendosi l’analisi dei processi, sia a
monte che a valle, con riferimento ad una data funzione, a prescindere dalla
localizzazione o dal momento in cui hanno luogo, il LCC nell’accezione accolta
può dirsi function oriented, analogamente alla LCA. La distinzione tra costi
ricorrenti e non ricorrenti, sostenuti per l’operatività del sistema
complessivamente considerato nell’arco della sua vita utile, assume una diversa
rilevanza se la prospettiva è incentrata sull’unità funzionale, nel qual caso
l’obiettivo consiste nel determinare i costi associati alla produzione, impiego
e smaltimento del sistema nella misura in cui lo stesso renda una determinata
unità di servizio, dunque come fossero sostenuti nel medesimo periodo di
riferimento4 (Fig. 1).
Assumendo che i costi siano sostenuti nel medesimo periodo di riferimento, il
LCC si caratterizza per un approccio di tipo statico (steady state) [Wrisberg et
Udo de Haes, 2002], vale a dire che i flussi di costo, così come quelli fisici,
sono presi in considerazioni senza che la tempistica degli stessi rilevi ai fini
dell’analisi, ossia non si ricorre all’aggregazione dei costi per
attualizzazione, a differenza di quanto previsto nel LCC tradizionale. La comune
pratica di attualizzazione dei costi risponde al fine precipuo di tener conto
non tanto dei cambiamenti che potrebbero interessare nell’entità dei costi
futuri, quanto dell’incertezza circa la manifestazione dei costi stessi [Ciroth,
2003]. Tuttavia, sarebbe più opportuno tener conto dell’incertezza che
caratterizza in particolar modo costi e impatti che dovrebbero manifestarsi
nell’arco di un di tempo significativo [Schmidt, 2003a], rispettivamente con
l’ausilio di una distribuzione di probabilità [Emblemsvåg, 2001], ovvero
un’analisi di scenario [Hellweg et al., 2003] piuttosto che ricorrendo ad un
fattore di attualizzazione5.
Tale approccio, definito LCA-type LCC [Huppes, 2004] in quanto compatibile con
la natura statica della LCA, prevede si determinino, per ciascuno stadio del
ciclo di vita, un costo medio di periodo, riferito all’unità funzionale.
Fig 1: In un approccio di tipo steady-state LCA-Type Life Cycle Costing, LCA e
LCC condividono la medesima prospettiva di ciclo di vita nell’ambito dei confine
del sistema
Il Processo di determinazione dei costi
Molte delle accezioni di LCC proposte in letteratura non sono metodi di
determinazione e attribuzione dei costi, bensì analisi di cash flows. Ai fini
della corretta determinazione dei costi, è necessario determinare i consumi di
risorse da parte di attività e processi e la richiesta di questi ultimi da parte
di altri oggetti. Poiché è il consumo di risorse a rilevare, i cash flows
risultano non appropriati per la determinazione dei costi [Emblemasvåg, 2001].
Nell’accezione accolta, il LCC conduce, così, a determinare, con riferimento
all’unità di servizio reso dal sistema oggetto di analisi considerato in
ciascuno stadio del proprio ciclo di vita, una configurazione di costo ampliata,
che si estende “al di là” dei confini della singola unità economica di
produzione. La metodologia prevede preliminarmente che, per ciascuno stadio del
ciclo di vita, i costi interni, in particolare quelli relativi alle attività
ambientali, siano correttamente identificati ed attribuiti o allocati agli
oggetti in analisi in base ad opportune determinanti di costo. Anche i flussi di
materia ed energia dovrebbero essere opportunamente identificati entro i confini
del sistema stabiliti al fine di consentire la costruzione di un indicatore del
carico o dell’impatto ambientale, nella misura in cui i soli costi ambientali
interni non rappresentano l’impatto di un’organizzazione sull’ambiente, quanto,
piuttosto, le ripercussioni economiche e finanziarie sul reddito e sul
patrimonio di temi ambientali presenti, passati e futuri [Borghini et Mio, 1997;
Burritt et al., 2003]. Le alternative considerate sono, quindi, caratterizzate o
ordinate nell’ambito di un “portafoglio” sulla base, da un lato, dei costi
interni del ciclo di vita e, dall’altro, della prestazione ambientale di
ciascuna sintetizzata in un indicatore più o meno complesso [Saling, 2003;
Rebitzer, 2002; Kasai et al., 2002; Stutz et al., 2002; Takamura, 2001].
In base al noto schema dei costi annidati [EPA, 1995] i costi ambientali interni
includono quelli convenzionali, potenzialmente nascosti, contingenti e
intangibili.
Le prime due categorie di costo possono essere determinate contabilmente
mediante il processo di Activity-based Environmental Cost Assignment, cioè una
volta identificate – tra le altre – le attività ambientali entro i confini
aziendali in un’ottica strategica [Park, 2000; Hansen et Mowen, 2003], alle
stesse dovrebbero essere assegnati costi diretti ed indiretti secondo un
criterio di causalità – misurato dai resource drivers – ed un approccio
differenziale, operando, così, una riclassificazione per destinazione degli
stessi6 [Hansen et Mowen, 2003; Epstein et al,, 2002; Mio, 2002; Durairaj et al.,
2002]. Con il procedimento di Full Environmental Costing possono essere
considerati anche i costi contingenti a manifestazione futura associati ai
processi produttivi ed ai prodotti stessi [Krewze et Newell, 1994; Epstein,
1996].
I flussi fisici di materia ed energia rilevati nei LCI forniscono informazioni
utilmente impiegabili al fine di identificare sia i costi interni aventi
connotazione ambientale – spesso potenzialmente nascosti in voci di costo non
sufficientemente analitiche da evidenziarne la destinazione ambientale7 [EPA,
1995; White et al., 1996; Macve, 1997; Krewze et Newell, 1994] – sia i drivers
più idonei all’opportuna assegnazione dei costi diretti associati ai flussi di
materia ed energia [Letmathe et Doost, 2000; Orbach et al., 2003] ed allocazione
dei costi riconducibili alle attività ambientali [Emblemsvåg et al., 2002] a
specifici prodotti, processi o attività al fine di evitare che si determinino
fenomeni di sovvenzione incrociata [Bartolomeo, 1997; Ranaganathan et Ditz,
1996; White, 1997].
Le componenti di costo così identificate vengono raggruppate in sottocategorie
quali, ad esempio, costi di estrazione e prima lavorazione delle materie prime,
inclusi i semilavorati (∑CTr); trasporto e logistica (CT); progettazione (R&D);
lavorazione industriale dei beni finali (CP); impiego dei beni finali (CU);
smaltimento o recupero a fine vita (CEOL); esternalità negative o costi sociali
(EC) laddove agevolmente quantificabili.
L’equazione (1) – adattata da Lazzari et Levizzari [2000] e Rebitzer [2002] –
rappresenta il LCC come l’aggregazione delle categorie di costo di cui sopra,
con riferimento ad una specifica unità funzionale:
LCC = ∑CTr + CT + R&D + CP + CU + CEOL + EC (1)
Così, a determinare la configurazione di costo del ciclo di vita concorrono, per
somma orizzontale, tutti gli elementi di costo che, a partire dai confini della
singola organizzazione, si cumulano nell’ambito dei processi di trasformazione
fisico-tecnica che hanno luogo lungo il ciclo di vita (Fig. 2), analogamente a
quanto avviene per i singoli carichi ambientali nell’ambito delle LCA.
Il LCC richiede una serie di informazioni da soggetti esterni che tuttavia sono
piuttosto scarse nella quantità e nella qualità [Vicini, 1997]. In particolare,
poiché dati di costo sono ritenuti sensibili, i prezzi sono sovente impiegati
come proxy dei costi nell’ambito della filiera [Ciroth, 2003; Ellram, 1997,
Vizayakumar et al., 2003]. Le categorie di costo rilevanti ai fini dell’analisi
dipendono dalla prospettiva dell’attore del ciclo di vita considerato. Gli
elementi di costo propri degli altri stadi del ciclo di vita richiedono un minor
dettaglio e, di conseguenza, i costi rilevati entro i confini delle altre
organizzazioni/attori possono essere visti come una “black box” [Rebitzer et
Hunkeler, 2003]. Il livello di dettaglio nell’ambito di più
organizzazioni/attori è importante nel caso di un’integrazione verticale lungo
la filiera mediante l’acquisizione di fornitori o congiunti sforzi di
coordinamento.
Il trattamento delle esternalità
Sebbene da più parti sia stata avanzata l’ipotesi di includere – pur con una
varietà di approcci – i costi esterni nel LCC [AIChE CWRT, 1999; Rebitzer et
Hunkeler, 2003; Vizayakumar et al., 2003; Lazzari et Levizzari, 2000; Lombard et
Molocchi, 2000; Shapiro, 2001; White et al., 1996; Plagiannakos et al., 1997] si
constatano, altresì, le oggettive difficoltà in cui inevitabilmente si incorre
nella determinazione di una stima monetaria delle esternalità negative8 [Ackerman
et Heinzerling, 2004; Hongisto, 1997]. In questa sede, si opta per l’impiego di
una quantificazione dei costi esterni9 esclusivamente laddove siano disponibili
in letteratura idonei coefficienti di costo – come nel caso della produzione di
energia elettrica10 – al solo proposito di introdurre un elemento di
omogeneizzazione nel processo di aggregazione di impatti fisici differenti alla
luce della robustezza, nonostante le incertezze, delle risultanze della
letteratura in oggetto ai fini dell’ordinamento relativo delle diverse
tecnologie, ma pur sempre nella consapevolezza che la specificità di tali stime
ad un dato contesto ne limita fortemente la trasferibilità [Krewitt, 2002].
Nonostante alcuni Autori propongano di considerare esclusivamente i costi
ambientali interni come in qualche modo rappresentativi del carico ambientale [Borghini
et Vicini, 1997; Malagoli et al., 2001;
Fig. 2: Processo di accumulazione per somma orizzontale di costi e carichi
ambientali lungo la supply chain.
Monna et al., 2003; Orbach et al., 2003], almeno una determinazione fisica
rappresentativa degli impatti o degli aspetti ambientali dovrebbe essere presa
in considerazione, mediante l’integrazione di informazioni di natura economica
con quelle fornite dagli strumenti di gestione ambientale.
In particolare, gli indicatori che considerino singoli aspetti ambientali –
quali, ad esempio, i consumi energetici impiegati in questa sede per uno dei
casi di studio – risultano, sotto determinati assunti, di più agevole
implementazione in quanto non richiedono impegnative fasi di valutazione degli
impatti, e le correlate esigenze di ponderazione delle diverse categorie,
previste nelle analisi del ciclo di vita.
Caso di studio I: produzione di energia elettrica da diversi combustibili11
Nel presente caso di studio semplificato, la metodologia di LCC, come definita
precedentemente, è stata applicata al processo di produzione di energia
elettrica in modo da fornire una visione ampliata del costo del kWh che integri
i costi interni con una misura – in questo caso espressa in unità monetarie –
degli impatti ambientali. Obiettivo dell’applicazione è quello di individuare il
combustibile che tra le opzioni considerate – carbone, olio combustibile, gas
naturale – comporti il costo di ciclo di vita più basso.
L’unità funzionale considerata è la produzione di 1 kWh elettrico da diverse
fonti.L’unità funzionale considerata e la produzione di 1 MWh elettrico da
diverse fonti. L’analisi prende in considerazione le seguenti fasi del ciclo di
vita: estrazione della materia prima dall’ambiente; produzione del combustibile;
produzione dell’energia elettrica.
Dai confini del sistema si escludono le fasi di (1) distribuzione ed uso
dell’energia prodotta; (2) costruzione e smantellamento degli impianti di
estrazione della materia prima, di eventuali gasdotti/oleodotti, degli impianti
di raffinazione e di produzione dell’energia elettrica, della rete di
trasmissione e distribuzione alle utenze finali.
Tra le diverse emissioni in atmosfera, gli inquinanti presi in esame nel
presente studio sono: NOx, SO2, polveri, COV, CO2, N2O, CH4, O3. Le categorie di
impatto ambientale su cui si focalizzerà l’analisi sono: salute umana,
produzione agricola, riscaldamento globale. La motivazione di tale scelta
dipende dal fatto che per alcune categorie di impatto non si è attualmente in
grado di esprimere con sufficiente attendibilità in termini di relazioni
dose-effetto i danni arrecati da un certo carico ambientale su determinate
categorie di ricettori – specie sugli ecosistemi naturali. Inoltre, si è
preferito tralasciare quelle categorie di impatto la cui quantificazione non è
esprimibile in termini di valore del danno per quantità di inquinante emessa,
come ad esempio nel caso della salute dei lavoratori operanti negli impianti e
gli impatti sui materiali da costruzione. Per quanto attiene l’effetto di
riscaldamento globale, tra i coefficienti proposti dalla letteratura si è optato
per un range “medio” e, all’interno dello stesso, per l’opzione con il tasso di
attualizzazione più basso (1%).
La sensibilità delle informazioni afferenti i costi interni che caratterizzano
ciascuna fase del ciclo di vita ha comportato la necessità di approssimare la
configurazione più prossima al costo di produzione tramite elaborazioni operate
su informazioni analitiche circa i prezzi di combustibili e le tariffe
elettriche. Il prezzo dei combustibili è stato assunto come rappresentativo del
costo di tutti gli stadi a monte della produzione di energia elettrica
complessivamente considerati. Tale prezzo è stato riferito ad 1 kWh elettrico
calcolando il consumo del combustibile – sulla base del suo potere calorifico e
dell’efficienza termica dell’impianto – necessario alla produzione dello stesso.
Il confronto delle opzioni è stato condotto considerando per ogni stadio del
ciclo di vita di ciascuna alternativa i costi convenzionali (Fig. 3) –
determinati come sopra – e quelli esterni (Fig. 4) – ottenuti moltiplicando le
emissioni relative a determinate categorie di inquinanti per gli appositi
coefficienti di costo esterno reperibili in letteratura12. I costi contingenti e
intangibili, invece, sono ostati esclusi dall’analisi. Le alternative
considerate sono state quindi caratterizzate e ordinate in base a queste due
dimensioni (Fig. 5).
Dall’analisi semplificata qui condotta emerge che l’opzione gas naturale
presenta i costi esterni più bassi sia nello stadio di produzione dell’energia
elettrica che in quelli a monte dello stesso (Fig. 4), sebbene i costi interni
siano, complessivamente, leggermente inferiori nel caso del carbone per via del
costo del combustibile. Questo significa che l’opzione carbone risulterebbero
preferibile al gas naturale e all’olio combustibile qualora considerata alla
luce della sola componente di costo ascrivibile alle materie prime, ma la
considerazione di una configurazione di costo più ampia13 e della dimensione
ambientale – sintetizzata nei costi esterni – evidenzia come l’opzione gas
naturale risulti, nel complesso, preferibile.
Caso di studio II: il recupero di conglomerato bituminoso nella manutenzione
delle pavimentazioni autostradali14
Trattandosi di un inerte bitumato, il conglomerato bituminoso asportato dalle
pavimentazioni autostradali ammalorate (RAP – Recycled Asphalt Pavement – o
“fresato”) presenta un elevato grado di riciclabilità15 nell’ambito dello stesso
processo di confezionamento di nuovo conglomerato, in quanto costituito dalle
medesime materie prime all’uopo normalmente impiegate.
Nell’ambito dell’intero ciclo di vita delle pavimentazioni stradali in asfalto –
che comprende progettazione, costruzione, uso, manutenzione della struttura e
smaltimento del materiale da demolizione – ci si concentrerà solo sul
sottosistema attinente il singolo intervento di manutenzione, il quale origina
il proprio ciclo di vita (Fig. 6).
Fig. 6: Ciclo di vita delle pavimentazioni autostradali
I confini del sistema includono estrazione, prima lavorazione e trasporto di
inerti e legante bituminoso; produzione del conglomerato bituminoso; fresaggio
delle pavimentazioni esistenti; posa in opera e compattazione; riciclaggio (in
situ o presso l’impianto) o smaltimento del materiale di risulta.
In questa sede si è scelto di pretendere in considerazione solo due delle
molteplici tecniche di riciclaggio delle pavimentazioni stradali attuabili [SITEB,
2002; OECD, 1997] e valutarne le ripercussioni economiche (costi interni) ed
ambientali (consumi di materia ed energia) a fronte del base case rappresentato
dal tradizionale processo di produzione a caldo16 di conglomerato bituminoso
(Hot Mix Asphalt - HMA) in impianto discontinuo (batch). Quest’ultimo, consiste
in una serie di processi in cui gli inerti vengono essiccati, ponderati,
vagliati e mescolati con percentuali variabili di bitume. In assenza di processi
di recupero, essa richiede, a monte, l’estrazione di materie prime vergini
(bitume e inerti) e, a valle, lo smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi.
Tuttavia, il materiale risultante dalla rimozione di alcuni strati – in
particolare lo strato di base e quello di collegamento (o binder) – della
pavimentazione preesistente può essere utilmente impiegato direttamente come
materia prima seconda nel processo di cui sopra, a condizione che vengano
approntate alcune modifiche impiantistiche al fine di consentire – mediante
dispositivi complementari, quali un cilindro essiccatore aggiuntivo noto come
Recycling Asphalt Device (RAD) – che il RAP possa essere alimentato, ponderato
ed essiccato autonomamente.
In alternativa, nel riciclaggio a freddo in situ (CIPR) la strada stessa viene
impiegata come fonte di approvvigionamento. Quasi il 100% materiale asportato,
infatti, viene rigenerato in cantiere: per mezzo di un treno semovente di
macchinari, il fresato viene incorporato in una miscela, composta da emulsione
di bitume, cemento Portland, agenti rigeneranti (olii minerali) ed una piccola
integrazione di inerti prodotta, posta in opera e compattata a temperatura
ambiente, cioè in assenza di processi di riscaldamento. In questo modo, non ha
luogo alcuna produzione di rifiuti.
Ai fini dell’analisi, l’unità funzionale considerata consiste in un metro cubo
di pavimentazione in conglomerato bituminoso sottoposta ad intervento di
manutenzione. Le grandezze sono riferite ad un “pacchetto” che si compone degli
strati interessati (ai fini della presente analisi ed in misura differente) dal
recupero di materia, ovvero quello di base (18 cm) e quello di collegamento o
binder (5 cm), ma non quello di usura.
In questa sede si adotta come indicatore della performance ambientale i consumi
energetici che hanno luogo in ciascuno stadio del ciclo di vita della
pavimentazione, in quanto la produzione di energia comporta, a monte, una
molteplicità di impatti. Inoltre, attraverso tale parametro è possibile
apprezzare i minori consumi di materie prime non rinnovabili, per
approvvigionarsi delle quali è necessario sostenere costi energetici a monte del
processo di produzione del conglomerato. Al fine di aggregare i dati energetici
e di costo riferiti ai singoli strati si è considerato che 1 mc di pacchetto
base e binder è costituito rispettivamente da 0,22 mc di binder e 0.78 mc di
base. Per i processi a monte si è ricorso alla letteratura [Chappat et Bilal,
2003; Stripple, 2001; McManus, 2001]
Uno degli assunti fondamentali per l’analisi è che le diverse modalità di
intervento sulle pavimentazioni considerate in questa sede garantiscano – se
opportunamente progettate e attuate – in linea di massima caratteristiche
prestazionali simili, non incidendo, di conseguenza, la scelta dell’una o
dell’altra opzione in modo apprezzabile sulla vita utile residua della
pavimentazione oggetto di intervento e non implicando, quindi, una diversa
frequenza degli interventi a seguire. Sebbene manchino ancora evidenze
generalizzabili in proposito – essendo, in particolare, relativamente recente il
ricorso sistematico al recupero di materia a freddo in sito – vi sono riscontri
modellistici ed alcune evidenze empiriche in tal senso [Foschi et al., 2002;
Camomilla et al., 2002].
|
Fig. 7 consumi energetici del ciclo di vita |
|
Fig. 8 Composizione dei costi del ciclo di vita riferiti all’unità funzionale |
|
Fig. 9 Ordinamento delle alternative |
Dal punto di vista dei consumi energetici (Fig. 8), il recupero di materia
risulta caratterizzato da una minore intensità di energia se considerato in una
prospettiva del ciclo di vita [Bocchi et Francese, 1989; Chappat et Bilal,
2003], il che non risulta scontato nel caso del riciclaggio in impianto fisso,
che implica un maggiore consumo energetico nello stadio di produzione a causa
degli impianti dedicati aggiuntivi, ma altresì risparmi energetici dovuti a
ridotte esigenze di consumo e trasporto di materie prime. Il notevole risparmio
energetico che si realizza nel caso della rigenerazione a freddo in situ è
principalmente dovuto all’assenza di processi di riscaldamento degli inerti e
nonché all’ulteriore riduzione del fabbisogno di materie prime e delle esigenze
di trasporto.
Vi sono alcune evidenze che l’introduzione del RAP come materia prima nella
produzione in impianto consenta una riduzione nei costi delle materie prime
dovuti a ridotti consumi (Fig. 7). D’altro canto, i dispositivi di riciclaggio
dedicati necessitano il sostenimento di ulteriori costi d’investimento, nonché
quelli necessari per il loro funzionamento (energia) e manutenzione ed i costi
per il controllo di qualità del RAP [Horvath, 2004]. In particolare, possono
ritenersi di connotazione ambientale i costi per il cilindro essiccatore
aggiuntivo, per i filtri a manica potenziati – la cui quota di costo di periodo
dovrebbe essere allocata alle diverse produzioni dell’impianto in base al
rispettivo contenuto di RAP – i costi per la manutenzione e il funzionamento dei
suddetti dispositivi, le spese amministrative per il trasporto, stoccaggio e
trattamento di rifiuti speciali non pericolosi.
Se da un punto di vista energetico il CIPR comporta evidenti risparmi nello
stadio di produzione delle materie prime, da un punto di vista economico,
invece, il costo delle materie prime è maggiore. In parte ciò è dovuto al
particolare tipo di legante e all’impiego di agenti rigeneranti. Il maggior
costo della fase di posa in opera, invece, è dovuto all’impiego del treno del
freddo, ma si deve considerare che in questo modo si evita lo stadio – e i
relativi costi – della produzione del conglomerato in impianto, inclusi quelli
ambientali associati al trattamento dei rifiuti (che in questo caso non si
producono).
In ogni caso, è verosimile che il costo del ciclo di vita riferito all’unità
funzionale si riduca con il ricorso ad un mix di tecnologie di riciclaggio (Fig.
9) poiché maggiori costi unitari di produzione dovrebbero essere compensati da
risparmi nel costo delle materie prime. Si deve notare che nell’ordinamento
delle alternative non sono stati considerati esplicitamente i costi di fine vita
associati allo smaltimento del fresato, in quanto si è ritenuto che, laddove non
negativi, tali costi non modificano tale ordinamento ma – semmai – ne rafforzano
la validità.
Risultati e Conclusioni
Considerazioni di tipo ambientale sono spesso considerate d’ostacolo allo
sviluppo dell’impresa, in particolare nel breve periodo [Backer, 1996]. Il LCM
può, quindi essere visto come un modo per rendere operativo il concetto di
sviluppo sostenibile in azienda, alla luce dei vincoli temporali e finanziari
della stessa [Hunkeler et Rebitzer, 2003].
La corretta applicazione dello stesso presuppone, tuttavia, un opportuno
trattamento contabile delle spese ambientali: è necessario identificare ed
assegnare opportunamente tali costi, individuandone le determinanti mediante
l’impiego congiunto di LCA e ABC [Epstein et Roy, 1996].
Poiché il LCC combina le prospettive di attori diversi operanti negli stadi del
ciclo di vita, l’approccio olistico del concetto di catena del valore può essere
visto in principio analogamente all’approccio LCA nella contabilità direzionale.
Tuttavia, il perseguimento di una riduzione dei costi che vada oltre le
possibilità della singola organizzazione richiede che si sviluppino sinergie
lungo la supply chain che, sfortunatamente, possono essere perseguite solo
mediante il coordinamento degli sforzi di riduzione dei costi da parte di
molteplici aziende connesse da legami funzionali, che mettano in comune i propri
skills e consentano di sviluppare il prodotto e le sue componenti in modo da
ridurre i costi lungo la filiera [Cooper et Slagmulder, 1998; Cooper et
Slagmulder, 1999], il che potrebbe essere più agevole nel caso di
un’integrazione verticale.
La limitata comprensione del concetto stesso di LCC costituisce un ulteriore
motivo della sua non implementazione [James et al., 2002]. Nonostante una
crescente attenzione ai costi di fine vita ed ai costi legati alla vita del
prodotto in generale nella contabilità direzionale [Bartolomeo et al., 2000]
strumenti di supporto quali il LCC non sono ancora diffusi, ma potrebbero
assumere crescente rilievo in un prossimo futuro [Dreher et Schirrmeister,
2000].
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_______________________________
*ettoresettanni@hotmail.com
1 Particolarmente significativo, questo proposito, il monito del
ex Ministro dell’Ambiente Ronchi: «molti appesantiscono i costi di Kyoto con
quegli investimenti che si farebbero in ogni caso per altre ragioni. [...]
perfino la spesa per ammodernare le centrali elettriche, adottando la tecnologia
del turbogas a ciclo combinato che si usa in tutto il mondo». Si veda
l’intervista raccolta da Gilberto [2005].
2 Laddove non sia
possibile perseguire un minore impatto al contempo riducendo o lasciando
inalterati i costi del ciclo di vita, si dovrebbero considerare le efficienze
ambientali; vale a dire, si dovrebbe concordare la preferenza all’alternativa
che offre il più consistente miglioramento ambientale per unità di costo
addizionale [Shmidt, 2003a].
3 Il LCC tradizionale, invece, adotta prospettive di ciclo di
vita proprie del “produttore” e del “cliente”.
4 L’implementazione
congiunta di LCC e LCA costituisce ancora oggetto di dibattito in letteratura.
La maggior parte dei modelli proposti affianca le risultanze della LCA a quelle
del LCC tradizionale [Shmidt, 2003; AIChE CWRT, 1999; Monna et al., 2002; Asiedu
et Gu, 1998; Senthil Kumaran et al., 2002; Parikh, 2002]. Rimangono tuttavia da
risolvere le problematiche afferenti la stima e l’attualizzazione dei costi a
manifestazione futura, come anche la necessità di conciliare le determinazioni
riferite all’unità funzionale con i dati rilevati in contabilità.
5 La determinazione di un Valore Attuale Netto, o altre misure
che implichino l’attualizzazione dei costi futuri non sarebbe compatibile con i
procedimenti comunemente impiegati nella LCA. Ciò rende difficile procedere ad
un confronto diretto tra le risultanze degli strumenti di analisi ambientale
come la LCA e quelli economici come il budget-LCC. Per allineare i due diversi
approcci vi sono due alternative: trasformare la LCA in un modello
quasi-dinamico [Norris, 2001], ovvero rendere statico il LCC [Huppes et al.,
2004].
6 Tipicamente si
distingue tra costi di: (1) prevenzione: sostenuti per evitare che l’azienda
generi un impatto ambientale negativo con i suoi prodotti/processi;
(2)monitoraggio: connessi alle attività poste in essere per verificare che
l’operato dell’impresa sia conforme a determinati standards ambientali
(volontari, legali, o di politica interna); (3) responsabilità interna: legati
ad attività poste in essere una volta che l’inquinamento è stato prodotto al
fine di gestirlo affinché non entri in contatto con l’ambiente ovvero ridurne la
quantità/pericolosità entro certi limiti; (4) responsabilità esterna: legati ad
attività poste in essere dopo che l’inquinamento è stato disperso nell’ambiente
(si manifestano come costi di esercizio o accantonamenti).
7 Nella misura in cui siano applicate le prescrizioni tecniche
in materia di corretto trattamento contabile e corretta esposizione in bilancio
delle poste ambientali [EC, 2001; CNDC, 2002; Mio et al, 2002; Bianchi, 1997] i
costi ambientali non dovrebbero risultare esclusi dai processi di riparto dei
costi indiretti né allocati in base a criteri di riparto non appropriati, con il
rischio di risultare, così, potenzialmente nascosti.
8 Ciò è dovuto, da un lato, alla non completa conoscenza dei
complessi meccanismi biochimici di azione su cui si basa la determinazione delle
relazioni fisiche di dose-effetto tra determinanti inquinanti e categorie di
impatto ambientale [EC, 1998]; dall’altro, per via dei limiti insiti nei metodi
di valutazione diretti e indiretti elaborati dall’economia dell’ambente [Musu,
2000; Pearce et Turner, 1991].
9 In ogni caso, la determinazione semplificata della esternalità
non ne comporta l’internalizzazione, ma solo la manifestazione di una volontà
nel minimizzare costi comunque gravanti sulla società, attraverso la scelta, tra
più opzioni, di quella che presenti gli impatti avversi per l’ambiente e la
salute umana più contenuti, cioè modificando gli esiti del processo decisionale
in senso più favorevole all’ambiente.
10 Relazioni dose-effetto sono state quantificate solo per un
numero limitato di sostanze inquinanti e con riferimento ad un numero limitato
di categorie di impatto. La letteratura più ampia in materia di si riferisce al
settore della produzione di energia elettrica [EC, 1998; Venema et al., 2003].
Di fondamentale importanza nel contesto comunitario è la collana di studi
ExternE sulle esternalità della produzione di energia elettrica condotti dal DG
XII della Commissione Europea con riferimento al settore energetico (http://externe.jrc.es;
http://www.externe.info).
11 Il caso di
studio in oggetto si basa in parte su quanto presentato in Notarnicola,
Tassielli et Settanni (2005) a cui si rimanda per i dettagli.
12 In particolare Ascari et al. (1997), Berry et al. (1997),
Nicoletti et al. (2001).
13 Le ripercussioni dei costi della gestione ambientale sul
costo della fase di produzione dell’ elettricità dipendono anche dalle
caratteristiche merceologiche del combustibile considerato, quali, ad esempio,
il contenuto di zolfo, azoto e polveri sottili da cui originano esigenze di
abbattimento end-of-pipe di ossidi e particolato mediante filtri e desolforatori
ovvero processi di reburning ecc. [Di Silvio et Tencati, 2002]
14 Il caso di studio in oggetto si basa su quanto presentato in
Settanni (2005), a cui si rimanda per i dettagli.
15 Il riciclaggio, inteso come reimpiego di una parte della
pavimentazione senza declassamento della sua funzionalità originaria [Bonola,
2004], richiede preliminarmente una fase ad hoc in cui si determina il design
della mescola, ovvero qualità e quantità di inerti e legante di apporto, in modo
da non compromettere le prestazioni del conglomerato riciclato.
16 I termini “a caldo” e “a freddo” si riferiscono alla
presenza o meno di processi di essiccamento degli inerti.