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BONIFICA DEI SITI CONTAMINATI E SOSTANZE NON TABELLATE TRA PRINCIPIO DI PRECAUZIONE E CERTEZZA DEL DIRITTO

di Luca Prati *

 
 
La questione relativa alla definizione e applicazione di valori di concentrazione limite accettabili nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee per sostanze non esplicitamente indicate nelle Tabelle è dibattuta e controversa.
 
Si tratta infatti di un tema estremamente delicato, in quanto l’introduzione di una nuova sostanza inquinante tra quelle che possono comportare l’attivazione di un procedimento di bonifica, specie in forza della sostanziale retroattività che concerne la disciplina in questione, può avere pesanti riflessi economici anche su attività svolte del tutto legittimamente e in conformità alle autorizzazioni di cui l’operatore era o è in possesso.
 
Va da sé infatti che, nonostante il richiamo al principio di precauzione di derivazione europea1, la possibilità che le concentrazioni di inquinanti ritenute tollerabili nelle matrici ambientali vengano a mutare in forza di regole sopravvenute mentre determinate attività economiche sono ancora in corso, o addirittura si sono già esaurite, tende a erodere alla base il fondamentale principio della certezza del diritto, intesa come idoneità del diritto a orientare le condotte degli individui e a costituire una salda base di programmazione delle scelte dei consociati2 .
 
In tale prospettiva, affinché un corpo normativo sia certo, non è sempre necessario che esso permetta di prevedere con esattezza le conseguenze giuridiche delle azioni degli individui; esso deve tuttavia rendere possibile conoscere ex ante, perlomeno con buona approssimazione, le modalità e i limiti dell’esercizio del potere amministrativo o giudiziario in una determinata situazione. La garanzia della certezza del diritto è quindi compatibile con l’esistenza di poteri amministrativi o giurisdizionali discrezionali, purché l’esercizio di questi sia fondato su elementi oggettivamente controllabili.
 
Nel caso in questione, la fonte di eterointegrazione della norma potenzialmente “lacunosa” sotto il profilo tecnico è stata rinvenuta nell’Allegato 5 alla parte IV Titolo V del D.lgs.152/06, che alla tabella 1 (“Valori di concentrazione limite accettabili nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d’uso dei siti”) prevede, al punto 1, che “Per le sostanze non esplicitamente indicate in Tabella i valori di concentrazione limite accettabili sono ricavati adottando quelli indicati per la sostanza tossicologicamente più affine”.
 
In sostanza, il principio dell’affinità tra sostanze inquinanti potrebbe condurre all’applicazione di valori tabellari stabiliti per un parametro anche a un inquinante non direttamente considerato.
 
Sotto il profilo prettamente tecnico si è affermato che il “criterio di tossicologicamente affine” deve far riferimento sia alle caratteristiche propriamente tossicologiche, sia a quelle di comportamento ambientale.
 
L’Istituto Superiore di Sanità si è espresso indicando criteri generali per definire i limiti di accettabilità da adottare per le sostanze contaminanti che non sono ricomprese nel Testo Unico Ambientale. Tali criteri comprendono la consultazione di banche dati tossicologiche e ambientali, considerando i dati disponibili e ritenuti validi a livello scientifico. L’informazione raccolta deve quindi essere valutata al fine di estrapolare le informazioni a carattere tossicologico e ambientale significative per definire e classificare le sostanze in esame. Successivamente l’informazione deve essere confrontata con le caratteristiche tossicologiche e di destino/comportamento ambientale delle sostanze elencate nella tabella 1 di cui all’Allegato 5 alla parte IV del T.U.A., al fine di individuare quella “più affine”.

Sempre secondo l’I.S.S., “una volta individuata la sostanza affine a quella in esame nelle Tabelle 1 e 2 del D.M. 471/99 stesso, andrà assegnata ad essa la stessa concentrazione limite peri vari comparti prevista nel decreto per la sostanza affine. Ove il comportamento tossicologico della sostanza e le caratteristiche ambientali differiscano troppo da quelle delle sostanze elencate, oppure siano affini sul piano tossicologico, ma non sul piano del comportamento ambientale o viceversa, si potranno effettuare nuove stime che portano all’individuazione di concentrazioni limite differenti da quelle elencate nelle Tabelle 1 e 2 del D.M. 471/99”.

L’affinità è individuata – e lo precisa anche l’I.S.S. – con una certa approssimazione, in quanto è estremamente difficile poter assegnare alle sostanze comportamenti assolutamente identici.

Se quindi è possibile sotto il profilo tecnico, seppure con “approssimazione”, stabilire limiti di accettabilità da adottare per le sostanze contaminanti che non sono ricomprese nel Testo Unico Ambientale sulla base della “affinità tossicologica”, assai più complesso è trasporre la medesima operazione in ambito strettamente giuridico senza stravolgere il principio della certezza del diritto.

Sul punto la giurisprudenza si è divisa in almeno tre diversi orientamenti.

Per una prima tesi, decisamente minoritaria, il principio di precauzione (che consentirebbe di supplire ai ritardi del Legislatore) farebbe sì che la mancata inclusione della sostanza nelle tabelle sia irrilevante, non rappresentando, di per sé, un elemento che precluda di affermare la pericolosità di tale sostanza. Ciò consentirebbe alla P.A. – tenuto anche conto del principio di proporzionalità – di avvalersi dei valori limite prospettati con parere dell’Istituto Superiore della Sanità, pur in assenza di una puntuale previsione legislativa a tal riguardo3.

Un orientamento opposto ritiene, invece, che i parametri di riferimento non possano essere fissati o modificati in sede di Conferenza di Servizi o da pareri dell’I.S.S., dovendosi, invece, intervenire a mezzo del procedimento previsto dalla legge (nel caso in questione, l’
art. 17 del D. Lgs. 22/1997). La questione di metodo, quindi, sarebbe pregiudiziale rispetto alla stessa questione di merito4.

Per una terza tesi, intermedia e attualmente maggioritaria, occorre far leva sulla nota contenuta nell’allegato 1 al d.m. n. 471/1999, ora ripresa nell’Allegato 5 alla parte IV Titolo V del
D.lgs.152/06, la quale – con previsione a carattere generale, valevole anche per i valori di concentrazione limite accettabili nelle acque sotterranee – consente di adottare, per le sostanze non indicate in tabella, i valori di concentrazione limite accettabili riferiti alla sostanza tossicologicamente più affine5.

La predetta nota permetterebbe, applicando il principio di precauzione, di superare il problema del mancato inserimento della sostanza chimica nelle tabelle giacché sarebbe possibile ricorrere all’interpretazione analogica delle suddette tabelle (che non conterrebbero un’elencazione tassativa), basata sull’eadem ratio6.

Secondo la citata giurisprudenza l’integrazione della tabella 1 con riferimento alla nuova sostanza avrebbe quindi potuto essere effettuata per il tramite della previsione normativa di cui all’
art. 17 del D. Lgs. 22/1997, che attribuiva alla competenza del Ministero dell’Ambiente (nel rispetto del principio del “concerto” imposto dall’art. 17 D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22), il potere di fissare, per le sostanze non rientranti nell’elenco di quelle contemplate nella tabella, il valore di concentrazione limite accettabile sulla base di un giudizio di equivalenza che richiede l’individuazione della sostanza tossicologicamente più affine7.

In base quindi a quest’ultimo e prevalente orientamento, la lacuna normativa non poteva (e non potrebbe neppure oggi) essere colmata attraverso un’attività di integrazione analogica operata da organi consultivi quali l’Istituto Superiore di Sanità o dalla P.A. competente all’approvazione del progetto di bonifica, a ciò ostando il limite dell’
art. 17 del d.lgs. n. 22/1997, che attribuiva in via esclusiva tale potere al Ministero dell’Ambiente.

I giudici amministrativi8 hanno quindi sottolineato come né l’I.S.S., né la Conferenza di Servizi, avrebbero alcun potere di integrare (ove certe sostanze non siano specificamente previste) quanto già disposto da un regolamento approvato a seguito di apposita procedura ai sensi dell’
art. 17 del d.lgs. n. 22/1997.

Sul punto, particolare importanza riveste la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 settembre 2009, n. 5256: “con riguardo a quanto sopra ribadito dall’odierna appellante, in relazione al limite di 10 mg/l con riferimento al parametro MTBE, il Ministero appellato ha recepito nel caso in esame la posizione dell’ISS circa il parametro di accettabilità dell’MTBE, pur non avendo né l’ISS stesso, né la Conferenza di servizi alcun potere di integrare – ove taluni parametri, ivi compreso l’MTBE, non siano specificamente previsti – quanto già disposto da un regolamento, approvato a seguito di apposita procedura ai sensi della legge n.22/1977 (art.17), nel caso, per l’appunto, non rispettata; tesi questa prospettata dalla ricorrente e condivisa, del resto, nella medesima decisione impugnata, anche se con riguardo ai soli parametri “idrocarburi totali e piombo tetraetile”, non essendosi pronunciato invece il T.a.r sul parametro MBTE, e che in proposito, inoltre, il principio secondo cui i parametri stabiliti all’esito del procedimento ex D. Lgs. n. 22/1997 non possono essere modificati né dall’ISS, né dalle Conferenze di servizi è stato ribadito, con specifico riferimento al parametro MTBE, sia dalla giurisprudenza amministrativa, richiamata dall’appellante (che ha ritenuto illegittima la prescrizione imposta in sede di approvazione di un progetto di bonifica, finalizzato al raggiungimento di un valore di parametro MTBE nelle acque sotterranee, sia anche dal recente parere dell’ISS 12.9.2006 n.45848”.

In sostanza, secondo la tesi prevalsa in giurisprudenza:

1) La possibilità di integrare in via analogica le Tabelle delle CSC per i parametri in essi non previste non può avvenire semplicemente tramite un parere dell’ISS o una decisione della Conferenza di Servizi, occorrendo che sia rispettato il modello legislativo;
 
2) Tale modello legislativo si sarebbe rinvenuto nell’abrogato art. 17 del D. Lgs. 22/1997, che prevedeva espressamene l’adozione da parte del Ministero delle CSC secondo il principio del “concerto”. Disponeva infatti l’abrogato art. 17 che “Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto il Ministro dell’ambiente, avvalendosi dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente (ANPA), di concerto con i Ministri dell’industria, del commercio e dell’artigianato e della sanità, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, definisce : a) i limiti di accettabilità della contaminazione dei suoli, delle acque superficiali e delle acque sotterranee in relazione alla specifica destinazione d’uso dei siti”.

Così ricostruito il quadro giurisprudenziale, occorre interrogarsi su quale sia il procedimento normativo da attuare nel vigore del
D. Lgs. 152/2006 per attribuire effetti giuridici all’affinità tossicologica rilevata sulla base delle informazioni scientifiche. Il D. lgs. 152/2006 infatti non prevede più una norma analoga a quella dell’art. 17 del D. Lgs. 22/1997 e i valori tabellari, originariamente stabiliti in un atto fonte di natura secondaria, sono oggi fissati da una fonte di natura primaria (l’allegato 5 del TUA), secondo quanto previsto dall’art. 240 del D. Lgs. 152/2006, che definisce le CSC come “i livelli di contaminazione delle matrici ambientali che costituiscono valori al di sopra dei quali è necessaria la caratterizzazione del sito e l’analisi di rischio sito specifica, come individuati nell’Allegato 5 alla parte quarta del presente decreto.

Riconoscendosi che oggi per poter modificare i valori soglia occorre un atto fonte di natura primaria, è stato notato che tale mutamento di collocazione nel sistema delle fonti avrebbe comportato una accentuata rigidità della normativa, difficilmente compatibile con l’esigenza di armonizzarla continuamente alle evoluzioni scientifiche, con tutte le difficoltà (e i tempi) che ciò comporta. Tanto che le varie proposte di correzione che si sono succedute nel tempo sono andate tutte nella direzione di una «delegificazione» di tali valori prevedendo che essi potessero essere aggiornati con decreto del Ministro dell’Ambiente .

E’ quindi doveroso domandarsi se, dopo l’
abrogazione dell’art. 17 del D. Lgs. 22/1997, sussista ancora il potere di integrare in via amministrativa i valori tabellari di cui all’Allegato 5 della parte quarta del D. Lgs. 152/2006 attraverso un atto di natura meramente amministrativa.

La risposta sembrerebbe chiaramente negativa, a meno di non individuare un diverso supporto normativo a tale facoltà.

Un tentativo in tal senso si rinviene in una sentenza del Giudice Amministrativo10  che ha ritenuto che l’autorità amministrativa avrebbe “il potere di integrare i valori limite non previsti dal codice dell’ambiente, essendovi legittimata ex
art. 301 D. Lgs. n. 152 del 2006 (“il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, in applicazione del principio di precauzione, ha facoltà di adottare in qualsiasi momento misure di prevenzione, ai sensi dell’articolo 304, che risultino: a) proporzionali rispetto al livello di protezione che s’intende raggiungere; b) non discriminatorie nella loro applicazione e coerenti con misure analoghe già adottate; c) basate sull’esame dei potenziali vantaggi ed oneri; d) aggiornabili alla luce di nuovi dati scientifici”), disposizione che, per espressa definizione di legge, è attuazione del principio di precauzione.

La soluzione non appare tuttavia del tutto convincente. E’ infatti agevole rilevare come l‘
art. 240 del D. Lgs. 152/2006, nel definire le CSC, si limiti a richiamare l’Allegato 5, senza alcun richiamo ai poteri ministeriale dell’art. 301 come fonte di eterointegrazione della norma primaria. Inoltre, l’art. 301 attribuisca al Ministero il potere di adottare “misure di prevenzione”, ai sensi dell’art. 304 del D. Lgs. 152/2006, come tali riferite a situazioni in cui “un danno ambientale non si è ancora verificato, ma esiste una minaccia imminente che si verifichi”, che mal si attagliano alla imposizione di un valore delle CSC che presuppone una contaminazione già avvenuta piuttosto che un intervento preventivo.

Senza contare che l’estensione delle norme in tema di danno ambientale alla disciplina speciale delle bonifiche deve essere operata con estrema cautela, a pena di comportarne lo stravolgimento e di aumentare ulteriormente l’incertezza di cui già è afflitta.

In ogni caso, il potere riconosciuto al Ministero dell’Ambiente dall’
art. 301, per la sua ampiezza e potenziale impatto su libertà costituzionalmente garantite, deve soggiacere ai precisi limiti posti dallo stesso articolo 301, richiamati anche dalla succitata sentenza del T.A.R. Sicilia – Catania.

Ne deriva che la fissazione di una nuova CSC, sempre che si ritenga possibile addivenirvi per atto amministrativo, oltre che essere conforme al principio di proporzionalità dovrà avvenire, in primo luogo, attraverso provvedimenti “non discriminatori nella loro applicazione”. Sono del resto evidenti le storture che deriverebbero dalla determinazione di una CSC in un ambito limitato solo ad alcuni operatori o contesti geografici, sia sotto il profilo della parità di trattamento dei consociati che sotto quello concorrenziale. Quindi una nuova CSC non potrebbe mai valere solo per determinati siti e procedimenti; una volta introdotta, la nuova CSC dovrebbe invece trovare applicazione generalizzata, fintanto da poter portare anche alla riapertura di procedimenti già chiusi. Si tratta, del resto, di una conseguenza insita nel ricorso al principio di precauzione come strumento per supplire ai ritardi del Legislatore. Una volta riconosciuto che il principio di precauzione fonda un vero e proprio obbligo da parte delle autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire rischi anche se unicamente potenziali per la salute e per l’ambiente, viene meno la discrezionalità dell’autorità all’esercizio di tale potere, al punto che il dato scientifico impone l’adozione stessa del provvedimento cautelativo.

La necessità di rispettare il principio di non discriminazione richiederebbe quindi che le CSC possano essere adottate solo tramite atti di natura regolamentare, come infatti avveniva nel vigore dell’art. 17 del D. Lgs. 22/1997, ossia con i caratteri distintivi propri di tali atti: l’astrattezza, cioè l’idoneità a regolare una pluralità indeterminata di fattispecie, la generalità, e, cioè, l’attitudine a trovare applicazione su un numero indeterminato di destinatari, e l’innovatività e, cioè, la capacità di innovare l’ordinamento giuridico in modo stabile. Tale ultimo requisito, in particolare, vale a distinguere il regolamento amministrativo dagli atti amministrativi generali, dalle circolari amministrative e dalle ordinanze di necessità e urgenza, alle quali difetta la capacità di innovare stabilmente l’ordinamento giuridico.

Infine, è indubitabile come l’integrazione delle CSC effettuata ai sensi della nota alla
tabella 1 dell’Allegato 5 alla parte IV Titolo V del D.lgs. 152/2006 non possa in alcun modo incidere sulla tutela penale da cui è assistita la normativa sulle bonifiche dei siti contaminati.
La stessa giurisprudenza amministrativa che ha ammesso la possibilità di integrazione per via analogica dei valori tabellari ha infatti avuto cura di precisare come ciò non possa valere in sede penale. Ciò in quanto l’applicazione di norme sanzionatorie è sottoposta alla garanzia di cui all’
art. 25, secondo comma della Costituzione, da cui derivano i corollari della determinatezza, tassatività, irretroattività e divieto di analogia nella materia penale. Essi sono del tutto incompatibili con l’integrazione in via amministrativa del precetto penale ove manchi una espressa norma di legge che consenta l’eterointegrazione di quest’ultimo (come invece avveniva nel vigore dell’art. 17 del D. Lgs. 22/1997).

In sintesi, si può concludere affermando come attualmente sia assai dubbia l’esistenza di una fonte giuridica atta a consentire la definizione di nuove CSC per via puramente amministrativa e in forza di una operazione meramente analogica.

Ove anche si ritenesse possibile l’integrazione delle tabelle per via amministrativa tramite il ricorso al principio di precauzione sembra poi da escludersi radicalmente che essa possa avvenire senza l’adozione di un atto di contenuto generale, astratto e innovativo dell’ordinamento giuridico, tipicamente coincidente con il regolamento. E’ poi del tutto escluso che la fissazione di una CSC non contenuta nelle tabelle possa rilevare a fini penali.

Volendo chiudere con una considerazione di carattere più generale, va detto come il richiamo al generale principio di precauzione non possa certo da solo bastare a rimediare alla pessima tecnica legislativa usata (e abusata) dai redattori della norma ambientale, i quali hanno affidato una questione tanto delicata alla nota posta in calce alla tabella di un allegato.

L’invocazione del principio di precauzione, del resto, non può prescindere dal suo coordinamento con l’altrettanto imperativa necessità di certezza del diritto, intesa come limite nei confronti dell’esercizio del potere arbitrario degli organi che lo applicano; regole scientifiche e norme giuridiche muovono infatti da fondamenti ben diversi, che non consentono un automatico travaso delle prime nelle seconde ove manchi un preciso meccanismo legale che lo regoli. Ciò a maggior ragione in un settore dove gli stessi organismi deputati a stabilire l’affinità tossicologica tra sostanze riconoscono come si tratti di operazione necessariamente “approssimativa”, tanto da essere oggetto di non infrequenti ripensamenti.
 
 
 
Note:
L’art. 174 del Trattato CE indica al comma 1 la protezione della salute umana fra gli obiettivi della politica comunitaria in materia ambientale e il principio di precauzione è stato introdotto al suo comma 2, il quale dispone che “La politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio «chi inquina paga”.
Il principio della certezza del diritto sta alla base del positivismo giuridico: N. Bobbio, Il positivismo giuridico, 1961, Torino, Giappichelli.
3 T.A.R. Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 25 marzo 2010, n. 93.
4 T.A.R. Campania, Napoli, 3 maggio 2004, n. 7756.
5 T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 13 novembre 2008, n. 1630.
6 T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 9 ottobre 2009, n. 1738; T.A.R. Toscana Firenze, Sez. II, 6 ottobre 2011, n. 1452.
7 T.A.R. Lazio Roma Sez. II bis, 16 marzo 2015, n. 4224; C.d.S., Sez. VI, 8 settembre 2009, n. 5256.
8 T.A.R. Toscana, Sez. II, 24 agosto 2010, n. 4875, con la giurisprudenza ivi citata; C.d.S., Sez. VI, 8 settembre 2009, n. 5256.
9 Trattato di diritto dell’ambiente, a cura di Paolo Dell’Anno, Eugenio Picozza – Vol. II, pag 303, CEDAM.
10 T.A.R. Sicilia Catania Sez. I, Sent. 11 settembre 2012, n. 2117.
 
 
Allegato:
Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 settembre 2009, n. 5256
 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
 
sul ricorso numero di registro generale 10029 del 2011, proposto da: 
Eni s.p.a., in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dall’avv. Gioia Vaccari, con domicilio eletto presso Gioia Vaccari in Roma, v.leGioacchino Rossini, 18; 
contro
Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
Regione Marche; 
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE II BIS n. 04215/2011, resa tra le parti, concernente conferenza di servizi decisoria relativa al sito di bonifica di interesse nazionale del Basso bacino del fiume Chienti

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 27 gennaio 2015 il Presidente Giuseppe Severini e uditi per le parti gli avvocati Gioia Vaccari e l’avvocato dello Stato Valentina Fico;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
 
1. La Eni s.p.a. (in seguito “ricorrente”) è proprietaria dei punti vendita di carburante già AGIP n. 6812, S.S. 485, in Comune di Montecosaro (MC); n. 7308, S.S. 16, nel Comune di Porto S. Elpidio (AP); n. 6753, S.S. 16, in Civitanova Marche, tutti inclusi nell’area “Basso Bacino del Fiume Chienti”, dichiarato sito di interesse nazionale su proposta dalla Regione Marche con decreto ministeriale 18 settembre 2001, n. 468, cui ha fatto seguito la perimetrazione provvisoria prevista dal decreto ministeriale 26 febbraio 2003, con la conseguente necessità di eseguire le attività di caratterizzazione per l’accertamento delle effettive condizioni di inquinamento, e, se occorrenti, quelle di messa in sicurezza d’emergenza, di bonifica, di ripristino ambientale.
2. La ricorrente riferisce:
-che, su richiesta delle competenti Amministrazioni, ha eseguito analisi e indagini di caratterizzazione dei terreni e delle acque di falda nelle aree di proprietà per l’accertamento delle effettive condizioni di inquinamento, esponendo le conclusioni nelle “Relazioni tecniche descrittive delle indagini di caratterizzazione ambientale”, elaborate per l’ENI da ENSR Italia s.r.l., per tutti e tre i punti vendita e trasmesse nel 2007 al Ministero dell’ambiente, alla Regione, all’ARPAM, all’Azienda sanitaria competente.
– che:
a) circa il punto vendita n. 6812 sarebbero stati riscontrati composti alifatici clorurati che non sarebbero connessi alle attività commerciali ivi svolte, poiché non relativi a composti idrocarburici e perciò riconducibili a sorgenti di contaminazione localizzate fuori del punto di vendita, mentre per i composti idrocarburici, le indagini avrebbero attestato la conformità delle percentuali delle dette sostanze ai limiti di legge;
-b) circa il punto vendita n. 7308, sarebbe stata evidenziata la conformità dei terreni ai parametri di legge e la presenza nelle acque di falda superficiali di composti inorganici quali ferro, mercurio, manganese ed alifatici clorurati non riconducibili a composti idrocarburici, ma attribuibili a fonti localizzate fuori dell’area di cui al punto vendita, ed inoltre la presenza di diossine e furani mentre circa i composti idrocarburici, questi sarebbero nei limiti di legge;
– c) per il punto di vendita n. 6753, la relazione dell’ENSR avrebbe evidenziato una passività ambientale per due composti idrocarburici: m p Xilene ed MTBE, nonché composti inorganici quali Ferro, Nichel, Manganese e clorurati, restando le ultime due tipologie di composti totalmente estranee all’attività di vendita di idrocarburi. Sui composti idrocarburici, la società riferisce di aver attivato un intervento di messa in sicurezza con il sistema di emungimento e trattamento (pump and treat) delle acque di falda, peraltro limitato al sistema pump and stock (stante la mancata risposta del Comune di Civitanova Marche alla richiesta, con prescrizioni, dello scarico in fogna), in corrispondenza dei piezometri PM3 e PM4 istallati in sito, per contenere la diffusione dei contaminanti idrocarburici individuati, e che pertanto emunge i derivati idrocarburici nelle acque di falda ove presenti, ed in tal caso, li stocca in una cisterna, con asportazione e smaltimento periodico da parte di impresa autorizzata.
3. Successivamente alle indagini, alle relazioni ed alla attivazione dei predetti interventi, sono state convocate, presso il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (in seguito “Ministero”), la conferenza dei servizi del 2 ottobre 2007 e di seguito quella decisoria del 10 gennaio 2008, ai sensi dell’art. 14-ter della legge 7 agosto 1990, n. 241, per acquisire la volontà delle amministrazioni partecipanti con la conseguente adozione della determinazione di conclusione del procedimento (art.14-ter, comma 6-bis, della stessa legge).
4. Le determinazioni della conferenza decisoria, di cui al relativo verbale del 10 gennaio 2008, sono state approvate e adottate con decreto n. 678 del 14 gennaio 2008 del Direttore generale della Direzione generale per la qualità della vita del Ministero, e, in relazione ai punti di vendita di carburante di cui si tratta, recano a carico della ricorrente i seguenti adempimenti:
-a) per il punto di vendita n. 6812, è stata chiesta l’immediata attivazione delle misure di messa in sicurezza d’emergenza della falda e la trasmissione del relativo elaborato progettuale, sollecitando l’esecuzione della caratterizzazione dei suoli ai sensi della vigente normativa in materia di bonifiche e del progetto di bonifica della falda, dovendo la ricorrente trasmettere i risultati della caratterizzazione e a presentare il progetto di bonifica entro trenta giorni dalla ricezione del verbale, con l’attivazione altrimenti di poteri sostitutivi in danno. Inoltre è stato richiesto all’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Ancona di attivare nei confronti della ricorrente ogni iniziativa ritenuta opportuna a tutelare la pretesa erariale dell’Amministrazione in relazione sia agli obblighi di risarcimento dell’eventuale danno ambientale derivato e derivante dalla fuoriuscita di inquinanti dai terreni e dalle falde sottostanti la proprietà, sia alla rivalsa dei costi sostenuti per la messa in sicurezza e la bonifica della medesima area, attivando altresì le procedure per l’iscrizione dell’ipoteca legale sulla proprietà a garanzia dei crediti che saranno azionati, ricordando che l’eventuale inerzia costituirebbe reato ai sensi dell’art. 257 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152152 del 2006 (punto 17 del verbale);
b) per il punto di vendita n. 6753, preso atto dell’avvio dell’attività di messa in sicurezza d’emergenza della falda e dei risultati della caratterizzazione trasmessi dall’Azienda e validati da Arpam, e richiesta la validazione da parte di Arpam delle misure di messa in sicurezza adottate dalla ricorrente, a questa è stato chiesto di presentare il progetto di bonifica entro 30 giorni dal ricevimento del verbale. Secondo le prescrizioni imposte, l’impianto di trattamento delle acque emunte dovrà assicurare allo scarico i limiti di tabella 2 allegato 5, parte quarta, titolo V del d.lgs. n. 152 del 2006 ovvero avviare le acque di falda ad un idoneo impianto di trattamento esterno all’area, debitamente autorizzato, in grado di rispettare identici limiti allo scarico. La restituzione dell’area agli usi legittimi è stata condizionata alla circostanza che le attività non pregiudichino l’eventuale successiva messa in sicurezza e bonifica della falda, che sia presentato il progetto di bonifica della falda ed inoltre un’indagine sul sito specificamente svolta sulla base di analisi di campo e riferita agli standard normativi e contrattuali vigenti e che sia verificato, di concerto con gli Enti di controllo, che non vi sia il superamento dei limiti normativi vigenti di esposizione professionale ovvero TLV_TVA (puto 18 del verbale);
-c) per il punto vendita AGIP n. 7308, è stata confermata la richiesta di attivazione di idonee misure di messa in sicurezza della falda finalizzate a contenere la diffusione della contaminazione e l’immediata rimozione dal terreno contaminato da Diossine e Furani. I partecipanti alla Conferenza di Servizi decisoria hanno altresì deliberato di prendere atto dei risultati di caratterizzazione trasmessi dalla ricorrente, subordinatamente al recepimento delle prescrizioni riportate a verbale e di quelle contenute nella nota della Regione Marche (punto 21 del verbale).
I medesimi partecipanti hanno deliberato infine di richiedere la presentazione del progetto di bonifica delle acque di falda entro 30 giorni dal ricevimento del verbale, secondo le medesime descritte prescrizioni, segnalando che, in difetto, si sarebbero esercitati i poteri sostitutivi e che le inerzie della ricorrente avrebbero integrato gli estremi del reato di cui all’ art. 257 del d.lgs. n. 152 del 2006, e richiedendo al contempo tutte le azioni legali possibili all’Avvocatura di Stato, con attivazione altresì dell’ipoteca legale.
5. La ENI s.p.a., con il ricorso n. 3213 del 2008 proposto al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, ha chiesto l’annullamento del citato decreto direttoriale prot. n. 678 del 14 gennaio 2008, nella parte in cui si riferisce ai punti vendita AGIP, oggi ENI s.p.a. n. 6812, n. 6753 e n. 7308, inclusi nel sito di bonifica di interesse nazionale del “Basso Bacino Fiume Chienti”; delle determinazioni adottate dalle suddette amministrazioni in sede di Conferenza dei Servizi del 10 gennaio 2008, il cui verbale è stato recepito dal d.d. impugnato, nella parte in cui riguarda i citati punti vendita AGIP, oggi ENI (nn. 17, 18, 21 del verbale) in quanto recanti illegittimi ordini e prescrizioni, ivi compresi quelli regionali di cui al verbale della Conferenza dei servizi suindicato, deducendo l’illegittimità degli atti che hanno posto a suo carico gli oneri, gli interventi e i progetti di bonifica suindicati.
6. Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione II-bis, con la sentenza n. 4215 del 2011 ha respinto il ricorso con compensazione tra le parti delle spese del giudizio.
7. Con l’appello in epigrafe è chiesto l’annullamento della sentenza di primo grado.
8. All’udienza del 27 gennaio 2015 la causa è stata trattenuta per la decisione.
 
DIRITTO
 
1. Nella sentenza di primo grado si afferma anzitutto che la ricorrente ha dedotto, alla base del primo dei motivi di ricorso nonché del secondo, terzo, quarto e quinto, la violazione del principio “chi inquina paga”, poiché non ha contestato l’irragionevolezza o l’ingiustizia delle prescrizioni che le sono state impartite ma la loro imposizione quale proprietaria dei siti; indipendentemente perciò dall’accertamento della sua responsabilità per l’inquinamento, ovvero in assenza di un significativo tasso di inquinanti da idrocarburi riferibili alla sua specifica attività, essendo presenti più alte concentrazioni di inquinanti con ogni probabilità connesse alle pregresse attività di produzione di scarpe, il cui inquinamento, dei suoli e della falda, motivò l’individuazione del “Basso Bacino del fiume Chienti” quale sito d’interesse nazionale ad alto rischio ambientale (come da scheda allegata al decreto ministeriale n. 468 del 2001) a prescindere dalla presenza di distributori di carburanti.
2. Al riguardo la sentenza impugnata afferma che il principio “chi inquina paga”, posto dall’attuale art. 174, comma 2, del Trattato UE e dalla direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, non può essere interpretato nel senso di precludere la possibilità dell’Autorità competente di imporre al proprietario l’adozione tempestiva delle misure di tutela urgenti e necessarie fino al definitivo accertamento delle responsabilità, essendo altrimenti leso il superiore interesse pubblico alla tutela sanitaria e ambientale, sancito dalla Costituzione e dal diritto europeo, prevalente su quello economico-imprenditoriale del proprietario a non anticipare le misure di messa in sicurezza e bonifica nelle more dell’accertamento del responsabile dell’inquinamento, fermi la facoltà del proprietario di rivalersi nei confronti di questi, e dei terzi di citarlo in danno, e l’obbligo dell’Amministrazione di procedere a tale accertamento, che il proprietario può pretendere agendo avverso l’inerzia della stessa.
La normativa di cui al d.lgs. n. 152 del 2006 (Norme in materia ambientale; qui in seguito “codice”) è infatti da interpretare in tal senso, considerato, in particolare, che il proprietario è tenuto alle misure di prevenzione di cui all’art. 242 (art. 245), anche se non responsabile può attivare volontariamente gli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale (art. 245), è soggetto, se il responsabile non è individuato o infruttuosamente escusso, ai costi per le conseguenze dell’inquinamento e relativi interventi (art. 253), essendogli altresì notificata l’ordinanza che impone al responsabile i necessari interventi (art. 244). Normativa questa, si soggiunge: non in contrasto con la Costituzione, poiché volta alla tutela d’urgenza della salute e dell’ambiente, nonché attuativa del principio della funzione sociale della proprietà di cui all’art. 42; riferibile al ragionevole principio per cui, potendo l’Amministrazione intervenire sottraendo l’area al proprietario, ben può farlo destinatario degli interventi di messa in sicurezza e bonifica, essendo egli così in grado di controllare le spese che rimarrebbero a suo carico e limitare il danno che gli deriverebbe dalla mancata tempestiva esecuzione degli interventi; da considerare anche alla luce della non facile distinzione fra gli interventi di prevenzione, spettanti al proprietario, e quelli di messa in sicurezza di emergenza e bonifica; da collocare, infine, nel quadro dell’impostazione propria del diritto nazionale ed europeo, per cui l’inquinamento ambientale deve essere contenuto non soltanto riguardo ai limiti di emissione dei singoli responsabili ma considerato complessivamente, ciò che rende impossibile considerare separatamente l’inquinamento dei suoli e di una falda interessante la medesima area.
3. Su questa base la sentenza respinge il primo e il quinto motivo di ricorso e, in parte, il secondo, terzo e quarto, poiché fondati sul presupposto che obbligato all’intervento è soltanto il responsabile dell’inquinamento.
4. Il secondo, terzo e quarto motivo sono respinti nella parte restante, non essendo stati dedotti sufficienti profili di manifesta irragionevolezza o ingiustizia delle prescrizioni impartite, risultanti adeguate rispetto all’interesse ambientale perseguito e riguardando la questione, per altri profili, ambiti non sindacabili di professionalità tecnica.
5. Si respinge poi specificamente la dedotta illegittimità dell’equiparazione, da parte del Ministero, delle acque emunte ai rifiuti liquidi, assoggettate perciò al regime dei rifiuti, non valendo l’art. 243 del “codice”, di disciplina degli scarichi idrici anche per emungimento in falda, a fronte della specialità di quella di derivazione comunitaria sui rifiuti, che assimila tali acque a quelle reflue industriali, e per la considerazione dell’intervallo temporale tra le fasi di emungimento e trattamento, che le differenzia da quelle che direttamente refluiscono, salva la prova dell’insussistenza di fasi di stoccaggio o dell’utilizzo delle acque in cicli produttivi nel sito, non resa nel caso di specie.
6. Si respingono, infine:
-a) il sesto motivo di ricorso, sulla mancata legittimazione dell’Amministrazione ad adottare ordinanza di diffida a provvedere in quanto prevista dall’art. 244 del “codice” ma non dall’art. 242 per i siti di bonifica di interesse nazionale, poiché, ferma l’immanenza del potere di autotutela dell’amministrazione per l’esecuzione dei propri provvedimenti, il potere esercitato si colloca nel quadro normativo di riferimento, sopra ricostruito, valido unitariamente per ogni attività e fase relativa allo stesso sito;
-b) la censura sulla carenza motivazionale del provvedimento impugnato che è invece adeguata per relationem ai risultati della conferenza decisoria, anche impugnati;
-c) la censura di illegittima partecipazione della Regione Marche alla conferenza di servizi, per mancato deposito della delega del rappresentante, in quanto vizio solo formale insuscettibile di incidere sulle conclusioni della conferenza, che integra un modulo procedimentale e non un organo amministrativo, tanto meno a composizione perfetta.
7. Nell’appello si censura la sentenza per le ragioni che seguono.
7.1. Per avere del tutto trascurato: che il Basso Bacino del fiume Chienti è stato inserito fra i siti di bonifica di interesse nazionale essendo risultato, dalle caratterizzazioni eseguite dalla Regione Marche, l’inquinamento da agenti chimici derivanti dalla lavorazione di componenti delle calzature; che la finalità della bonifica di interesse nazionale è relativa ai terreni aventi la suddetta destinazione produttiva e non a quelli destinati alla distribuzione di carburanti, valendo al riguardo l’art. 2, lett. f), del decreto ministeriale n. 471 del 1999 che riferisce la bonifica alla riduzione degli inquinanti nei limiti stabili per la destinazione d’uso degli immobili; che i terreni dove sono installati i depositi di carburante in questione non sono mai stati destinati alla produzione di calzature.
Non poteva essere imposta, di conseguenza, alcuna attività di caratterizzazione, di redazione di progetti di bonifica e della conseguente esecuzione in capo a proprietari di terreni inquinati da terzi, essendo la contraria conclusione in contrasto con la normativa nazionale ed europea e con la relativa giurisprudenza.
Infatti, l’art. 17 d.lgs. n. 22 del 1997 nel testo modificato dalla legge n. 426 del 1998 sul programma dei siti di interesse nazionale, vigente ratione temporis all’epoca delle rilevazione dell’inquinamento per l’attività di produzione delle calzature, obbliga agli interventi il responsabile dell’inquinamento e ugualmente provvedono l’art. 7 del decreto ministeriale n. 471 del 1999, di esecuzione del d.lgs. n. 22 del 1997 e, poi, gli articoli 252, 242 e 253 del “codice”; in particolare, se si sia provveduto d’ufficio, gli interventi costituiscono onere reale sul sito e le spese sostenute sono assistite da privilegio speciale immobiliare sulle aree che può essere esercitato soltanto a seguito di provvedimento motivato che giustifichi l’impossibilità di reperire il responsabile ovvero quando siano infruttuose le azioni nei confronti di questi, prevedendosi che l’eventuale rimborso delle spese a carico del proprietario non responsabile è limitato al solo valore di mercato del sito determinato dagli interventi, mentre egli può rivalersi delle spese e del danno avverso il responsabile soltanto se abbia provveduto spontaneamente alla bonifica (art. 253 citato).
Analogo indirizzo si evince dalla normativa europea, come indicato nel 17° e 18° considerando della Direttiva CE 2004/35, per quanto applicabile agli eventi dannosi antecedenti il 2007, ed è confermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, venendo anche posto, con il principio della responsabilità finanziaria dell’operatore che ha causato il danno ambientale, quello della corrispondenza tra le sostanze inquinanti e i componenti impiegati dall’operatore.
In questo quadro tanto più è erronea la sentenza quando, come nella specie, è stato obbligato il proprietario di terreni su cui non è mai stata esercitata un’attività produttiva inquinante né mai ci sarà un responsabile dell’inquinamento, configurando a sua carico una responsabilità oggettiva priva di ogni fondamento normativo, ed essendo assolta la funzione sociale della proprietà con la detta costituzione dell’onere reale e del privilegio, se si interviene d’ufficio, avendo la giurisprudenza anche esteso il subentro nell’onere reale anche a chi succede nella proprietà.
Nella memoria depositata dalla ricorrente il 22 dicembre 2014 si richiama l’ordinanza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, 13 novembre 2013, n. 25, di rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea di una questione pregiudiziale riguardo la normativa nazionale in materia, indicando che ivi è stato affermato il principio dell’impossibilità di imporre al proprietario dell’area non colpevole dell’inquinamento le misure di messa in emergenza e bonifica di cui all’art. 240, comma 1, lett. m) e p), del “codice”, confermando che egli è tenuto soltanto alle misure di prevenzione di cui al citato art. 240, comma 1, lett. i), che gli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano soltanto sul soggetto cui l’inquinamento sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo (art. 244, comma 2), che se il responsabile non è individuato o non provvede (non intervenendo neppure spontaneamente il proprietario o altro soggetto interessato) interviene l’Autorità competente (art. 244, comma 4), ricorrendo in tal caso la previsione dell’art. 253.
Nella memoria si deduce anche la questione rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la detta ordinanza, relativa all’ipotesi dell’impossibilità di individuazione del responsabile, non attiene al caso di specie, non essendo questo il presupposto delle prescrizioni imposte alla ricorrente
7.2. La sentenza è altresì errata riguardo alla questione del trattamento delle acque emunte dalla falda. Queste infatti non sono da equiparare ai rifiuti liquidi, come anche chiarito in giurisprudenza (Cons. Stato, VI, 8 settembre 2009, n. 5256), considerato che, ai sensi dell’art. 243 del “codice” le acque sono trattate nell’ambito degli interventi di bonifica e di messa in sicurezza di un sito e sono reflui industriali soggetti ai relativi limiti di concentrazione per lo scarico in fogna o nelle acque superficiali, mentre diversa è la fattispecie di cui all’art. 242, relativa alle acque prodotte nell’ambito delle operazioni di risanamento non trattate e perciò costituenti sostanze da cui disfarsi quali rifiuti. Non sussistono, inoltre, nel sistema di trattamento a regime fasi di stoccaggio delle acque, essendo peraltro precisata nella relazione tecnica al riguardo la continuità tra le fasi di generazione del fluido e quella di immissione nel corpo ricettore ed essendo stato poi di recente previsto, con la modifica dell’art. 243 disposta dall’art. 41 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, che in tale caso le acque sono assimilate alle acque reflue industriali.
7.3. Così come la sentenza è errata nel non aver considerato che, ai sensi dell’art. 14-ter, comma 6-bis, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento finale della conferenza di servizi non è meramente riepilogativo di quanto in essa accaduto ma, avendo valenza costitutiva di adozione delle determinazioni conclusive del procedimento, deve recarne la ponderazione attraverso l’esternazione dei motivi delle determinazioni effettuate.
8. Il Collegio, ciò richiamato, ritiene doversi pronunciare sentenza parziale, sospendendo il giudizio riguardo la questione della legittimità delle prescrizioni impartite alla ricorrente quale proprietaria dei siti e decidendo sulle censure dedotte in appello riguardo le questioni dell’equiparazione delle acque reflue ai rifiuti liquidi e dell’adeguatezza della motivazione del decreto direttoriale impugnato.
8.1. Sulla prima questione va rilevato che l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, con le ordinanze 25 settembre 2013, n. 21 e 13 novembre 2013, n. 25, ha interpretato il “codice” in senso favorevole alla limitazione della responsabilità del proprietario non individuato quale responsabile dell’inquinamento alla luce delle disposizioni poste dagli articoli da 239 a 253 del “codice”, ritenendo il proprietario obbligato soltanto ad adottare le misure di prevenzione cui all’art. 240, comma 1, lett. i). Questa valutazione è stata resa soltanto in funzione di precisazione del punto di vista del giudice remittente, in ossequio a quanto a tal fine indicato nelle “Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale” alla Corte di giustizia, venendo poi prospettato, nel quesito proposto, se “il principio per cui “chi inquina, paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245 e 253 del d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e d’impossibilità d’individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa d’imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”.
L’Adunanza Plenaria ha espresso questo orientamento al fine della rimessione all’esame della Corte di giustizia, per il riscontro della compatibilità con il diritto europeo, non assumendo una valutazione conclusiva al riguardo.
La questione così sottoposta alla Corte di giustizia è rilevante per la decisione della controversia in esame, non condividendosi la valutazione sulla non attinenza al caso di specie dell’ipotesi dell’impossibilità dell’individuazione del soggetto responsabile dell’inquinamento, ovvero di ottenere da questi gli interventi necessari, alla base della questione rimessa all’esame della Corte di giustizia.
Si osserva infatti, da un lato, che le prescrizioni impugnate sono state impartite alla ricorrente in quanto proprietaria dei siti, con ciò evidentemente presupponendo la non individuazione dei soggetti responsabili degli inquinamenti, altrimenti onerati per quanto di ragione, e, dall’altro, che la questione trattata al riguardo in primo grado e in appello, con l’ampia articolazione di cui si è dato conto più sopra, è specificamente quella della responsabilità del proprietario in quanto tale, oggetto delle citate ordinanze dell’Adunanza Plenaria.
La pronuncia che sarà resa dalla Corte di giustizia è da ritenere perciò direttamente incidente ai fini della decisione della controversia in esame riguardo la questione di cui qui si tratta, dovendosi di conseguenza sospendere il giudizio al riguardo in attesa e fino alla detta pronuncia.
8.2. Si esamina ora il motivo di appello sopra sintetizzato al punto 7.2.
Il motivo non può essere accolto.
8.2. Si esamina ora il motivo di appello sopra sintetizzato al punto 7.2.
Il motivo non può essere accolto.
8.2.1. La questione, ripetutamente affrontata dalla giurisprudenza e dalla dottrina, è stata di recente trattata nella sentenza di questa VI Sezione 6 dicembre 2013, n. 5857, nella quale, in riferimento alla normativa del “codice” applicabile ratione temporis (vigente anche per il caso in esame e di seguito indicata con il riferimento agli articoli), si afferma, in sintesi, che:
– per effetto dell’art. 1, lett. a) della direttiva 2006/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 relativa ai rifiuti e dell’art. 243 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 le acque di falda;
– in un sito di bonifica di interesse nazionale – emunte per finalità di disinquinamento vanno qualificate come rifiuti liquidi e, conseguentemente, devono rispettare la normativa prevista per i relativi impianti di smaltimento e per i limiti di emissione – nella normativa scarichi industriali e rifiuti sono concetti diversi disciplinati da norme diverse e specifiche, collocate le prime nella Parte III (Norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione, di tutela delle acque dall’inquinamento e di gestione delle risorse idriche) e le seconde nella Parte IV (Norme in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati) del “codice”;
– l’art. 243 (Acque di falda) rientra nella Parte IV, Titolo V (bonifica di siti contaminati) in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati, non attiene perciò alla disciplina degli scarichi, e riguarda le acque di falda emunte dalle falde sotterranee nell’ambito degli interventi di bonifica; al comma 1 in particolare dispone che “le acque di falda emunte dalle falde sotterranee, nell’ambito degli interventi di bonifica di un sito, possono essere scaricate, direttamente o dopo essere state utilizzate in cicli produttivi in esercizio nel sito stesso, nel rispetto dei limiti di emissione di acque reflue industriali in acque superficiali di cui al presente decreto”;
– la nozione normativa di scarico si evince dall’art. 74 (Definizioni), comma 1, lett. ff), individuata in qualsiasi immissione di acque reflue in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione, risultando distinto lo “scarico” dalle “acque di scarico” definite dalla lettera gg) come “tutte le acque reflue provenienti dallo scarico” e non dovendosi perciò confondere lo “scarico” con le “sostanze scaricate” cioè le acque emunte;
– ne consegue che “la qualità delle acque che possono essere reimesse nei corpi recettori, se sconta l’applicazione della normativa dedicata alle acque reflue industriali di cui al medesimo decreto, non è sottratta al rispetto delle altre normative comunitarie e nazionali, tra le quali la stessa normativa relativa ai rifiuti contenuta nel d.lgs. n. 152, il cui art. 185, nel testo vigente all’epoca dei fatti, nell’escludere dal campo di applicazione della parte quarta gli scarichi idrici, espressamente fa eccezione per “i rifiuti liquidi costituiti da acque reflue”;
– non è fondata perciò la tesi dell’esclusione a priori, ai sensi dell’art. 243, della riconduzione al regime proprio dei rifiuti liquidi delle acque emunte in disinquinamento della falda, poiché al contrario “l’individuazione del regime normativo concretamente applicabile non può non tenere conto della particolare natura dell’oggetto dell’attività posta in essere, siccome individuati dal legislatore quali rifiuti liquidi, come emerge dalla classificazione attraverso i codici CER allegati al decreto. L’allegato D alla parte quarta del medesimo decreto legislativo, nell’elencare i rifiuti conformemente all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE e all’articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi di cui alla decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 e alla direttiva del Ministero dell’ambiente 9 aprile 2002, ha infatti espressamente previsto, sub 19.13.07 e 19.13.08, i “rifiuti liquidi acquosi e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda”:
– concludendosi che “Se, quindi, le acque reflue emunte nelle operazioni di bonifica devono, alla luce di una interpretazione sistematica del quadro normativo nazionale e comunitario (l’art. 1 lett. a della direttiva n. 2006/12/CE non consente dubbi al proposito…), essere considerate rifiuti (restando affidato al solo regime degli scarichi lo sversamento derivante dagli ordinari cicli produttivi: e tali non sono, certamente, le acque di falda emunte nell’ambito dell’attività di disinquinamento, che non derivano certamente ed in via diretta dagli ordinari cicli produttivi), infondato è l’impianto sul quale si basa l’appello; il quale, inoltre, non è condivisibile neppure laddove critica la sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto gli elementi della definizione di scarico nell’impianto della ricorrente. Come già aveva chiarito la giurisprudenza, recepita poi con il d.lgs. n. 4 del 2008, essenziale, a tal fine, è la continuità dell’immissione, mediante un sistema stabile di collettamento, dal luogo della produzione fino all’esito finale, condizioni che non si verificavano, all’epoca dei fatti, nella fattispecie in esame, in cui le acque di falda emunte dal sito contaminato non passavano direttamente dalla falda al corpo recettore, ma erano convogliate provvisoriamente in appositi contenitori per essere poi trasportate all’impianto di depurazione consortile di Porto Torres al fine dello smaltimento”.
In questo quadro assume rilievo decisivo accertare se nei casi di specie lo scarico delle acque emunte sia diretto, con canalizzazione non interrotta delle acque dal punto di prelievo al punto di immissione nel corpo ricettore, previa depurazione, ovvero se il riversamento sia interrotto con lo stoccaggio delle acque avviate allo smaltimento, trattamento o depurazione, a mezzo di trasporto, ricadendosi nel primo caso nella normativa della Parte III del “codice”, relativa alla disciplina degli scarichi e, nel secondo, in quella della Parte IV relativa alla disciplina dei rifiuti (cfr. anche Cass. pen. n. 12476 e n. 49454 del 2012).
Questa accezione è oggi assunta e regolata dall’art. 243, comma 4, del “codice” nel testo modificato dall’art. 41, comma 1, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n. 98), per il quale “Le acque emunte convogliate tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il punto di prelievo di tali acque con il punto di immissione delle stesse, previo trattamento di depurazione, in corpo ricettore, sono assimilate alle acque reflue industriali che provengono da uno scarico e come tali soggette al regime di cui alla parte terza”.
8.2.2. Riguardo il caso di specie si rileva che la ricorrente:
– nel ricorso di primo grado e nella successiva memoria del 7 gennaio 2011, indica che in atto, per il punto di vendita n. 6753, stante la mancata risposta del Comune di Civitanova Marche alla richiesta, con prescrizioni, dello scarico in fogna, emunge i derivati idrocarburici nelle acque di falda ove presenti, ed in tal caso, li stocca in una cisterna, con asportazione e smaltimento periodico da parte di impresa autorizzata;
– nelle relazioni tecniche depositate nel presente giudizio, il 16 gennaio 2012 e il 15 dicembre 2014, si descrive l’impianto Pump &Treat che, come indicato in entrambe le relazioni, ENI “intende installare”, precisando che si tratta di un impianto che assicura l’ ininterrotta continuità tra la fase di generazione del fluido e quella di immissione nel corpo recettore, ciò che, di conseguenza, “depone per la qualificabilità delle acque in termini di “scarico”, laddove la nozione di “rifiuto liquido” implica la discontinuità tra la generazione del refluo e l’immissione nel corpo recettore”, specificando, nella seconda relazione, che, data la nuova formulazione dell’art. 243, introdotta dal decreto – legge n. 98 del 2013, “è venuta meno la necessità di disporre di un’autorizzazione al trattamento dei rifiuti per l’impianto/sistema della bonifica delle acque sotterranee presenti sul punto di vendita”; conseguentemente “sui P.V. in esame, vista la mutata disciplina del regime giuridico delle acque emunte è stata richiesta o è in corso di richiesta l’autorizzazione allo scarico in acque superficiali al fine di procedere alle relative installazioni di Pump &Treat”, essendo stata convocata nuova conferenza di servizi il 9 ottobre 2014;
– sempre nella seconda relazione si precisa che, dopo l’attivazione di un sistema di pompaggio e trattamento delle acque di falda a partire dal maggio 1999 interrotto nel febbraio 2002, nel dicembre 2011 “è stato istallato e avviato un impianto di Pump and Stock.
8.2.3. Da tutto ciò emerge che le acque emunte di cui si tratta non sono in atto canalizzate con collettamento continuo dal prelievo all’immissione ma stoccate con asporto e smaltimento periodico e che il diverso sistema, che le assoggetta al regime della Parte III del “codice” ai sensi e alle condizioni del testo dell’art. 243 come modificato con il d.-l. n. 98 del 2013, non risulta in atto installato, almeno alla recente data del 15 dicembre 2014.
8.2.4. Ne consegue, per quanto sopra esposto, che il sistema in atto riconduce le acque così emunte alla categoria dei “rifiuti liquidi” con l’applicazione della relativa normativa. Tanto vale fintanto che l’impianto non verrà installato con le caratteristiche proprie della fattispecie di cui al vigente art. 243, comma 4: e tale è comunque la qualificazione valevole ai fini del vaglio di legittimità degli atti qui impugnati.
9. Anche il motivo di appello sopra sintetizzato al punto 7.3. è da respingere.
La giurisprudenza ha chiarito che il provvedimento conclusivo della conferenza di servizi, adottato ai sensi dell’art. 14- ter, comma 6-bis, della legge n. 241 del 1990, quando non ribalti le decisioni prese in sede di conferenza, è atto meramente consequenziale delle determinazioni ivi assunte, derivandone la sufficienza di una motivazione che si limiti a richiamare o recepire quella del verbale conclusivo (Cons. Stato, II, 30 aprile 2012, n. 566/2011).
Altrettanto è per il caso in esame, in cui con il decreto direttoriale impugnato si decreta di “approvare e considerare come definitive tutte le prescrizioni stabilite nel verbale della Conferenza di Servizi decisoria del 10/01/2008” il cui verbale “viene allegato al presente decreto onde costituirne parte integrante”.
10. Per le ragioni che precedono il giudizio sull’appello in esame è sospeso, quanto alla decisione sul motivo esposto nel precedente punto 7.1., fino alla pubblicazione della decisione della Corte di giustizia dell’Unione Europea sulla questione pregiudiziale che le stata sottoposta con le ordinanze dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato n. 21 e n. 25 del 2013; è respinto per il resto.
Le spese seguono, come di regola, la soccombenza e sono liquidate in € 5.000.
P.Q.M.
 
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), non definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto, n. 10029 del 2011, sospende il giudizio in parte come da motivazione; respinge l’appello per il resto come da motivazione. Condanna l’appellante ENI s.p.a. alla rifusione delle spese processuali del presente grado di giudizio della costituita Amministrazione statale, che liquida in euro 5.000,00 (cinquemila), oltre oneri di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 27 gennaio 2015 con l’intervento dei magistrati:
Giuseppe Severini, Presidente, Estensore
Sergio De Felice, Consigliere
Roberta Vigotti, Consigliere
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Marco Buricelli, Consigliere
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 04/03/2015
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)
 

Luca Prati
www.cpslex.it

 

 
Pubblicato su AmbienteDiritto.it il 18 Giugno 2016
 
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