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CONFLITTI AMBIENTALI GLOBALI E DIRITTO INTERNAZIONALE:

 

ATTORI E DINAMICHE PER UNA LORO RISOLUZIONE PACIFICA

 

 

Avv. Federico Antich

 

 

La presente indagine è finalizzata a valutare se gli attuali strumenti apprestati in sede internazionale per porre rimedio ai problemi ambientali siano in grado di far fronte al rischio di degenerazione degli stessi in conflitti violenti. Ci si pone cioè l’obiettivo di comprendere se il diritto internazionale preveda oggi strumenti, tecniche ed organi idonei a prevenire e risolvere i cd. Conflitti Ambientali Globali, o se invece il perseguimento di tale obiettivo richieda l’impiego di nuovi strumenti (sostanziali e processuali) e l’emersione di nuovi soggetti.

 

1 - Globalizzazione e ambiente

Come dimostra il continuo aggravarsi delle problematiche ambientali - dalla crisi energetica, a quella climatica, a quella idrica, alla deforestazione -, l’attuale modello di sviluppo, basato su un irrazionale sfruttamento delle risorse, uno smisurato consumo di energia, una sovrapproduzione di rifiuti e di inquinamento, sta portando l’umanità verso un livello mai visto di degrado ambientale ed esaurimento delle risorse naturali disponibili[1]. L’uso delle risorse naturali, disancorato dai principi di solidarietà e ragionevolezza, «tende all’affermazione di un interesse personale o locale»[2] provocando crescenti livelli di ineguaglianza tra i diversi Paesi, e pregiudica altresì il diritto all’ambiente delle future generazioni, in aperto contrasto con il diritto della collettività a godere di un ambiente sano e ad avere libero accesso alle risorse ambientali[3]

La possibilità di arginare i problemi ambientali che affliggono il pianeta è certamente ancora praticabile[4], ma resta ancorata alla volontà di tutti di ricercare ed attuare un diverso approccio alle risorse dell’ambiente, le quali devono essere intese e preservate quale patrimonio comune dell’umanità. Soprattutto occorre favorire uno stretto coordinamento tra i governi, in una sorta di governance mondiale di emergenza: «una globalizzazione sì, ma dagli obiettivi esattamente opposti a quelli perseguiti dall’attuale sistema di mercato»[5].

La difficoltà che ciò avvenga in tempi ragionevoli non può non essere considerata. Vi è allora da chiedersi quali possano essere le conseguenze probabili e gli scenari che si aprirebbero nell’ipotesi in cui non si faccia abbastanza o non si faccia in tempo ad evitare il tracollo.

 

2 - Il rischio di degenerazione degli ecodisastri in conflitti

Nel valutare quali prospettive ci attendono in mancanza di adeguati interventi in campo ambientale, si rivela interessante riprendere le considerazioni formulate in relazione al cd. scenario business-as-usual[6], ossia allo scenario che potrebbe presentarsi nel caso in cui la società procedesse senza avviare adeguati processi diretti a preservare le risorse naturali e porre rimedio alle cd. crisi ambientali globali[7]. In tale contesto, in cui la tecnologia continua incessantemente ad avanzare, in cui la produzione industriale comporta l’emissione di sempre più sostanze inquinanti ed esige sempre più risorse non rinnovabili, in cui aumenta la popolazione mondiale e crescono i consumi pro capite, le crisi ambientali globali si rivelano sostanzialmente irrisolvibili, rendendo il futuro incerto in ordine alla possibilità di mantenere l’attuale livello di sviluppo, e comportando altresì il grave rischio di incidere sulle relazioni politiche, economiche e militari tra i Paesi del mondo. Il pericolo che si corre è cioè di determinare quelli che vengono definiti Conflitti Ambientali Globali (CAG), intesi come conflitti armati provocati dal degrado ambientale su scala planetaria.

 

3 - Il concetto di “Conflitto Ambientale Globale

Al fine di chiarire cosa si intende per CAG, pare utile operare una ricognizione della letteratura presente in argomento[8], valutando innanzitutto i risultati dell’indagine condotta nell’ambito del Progetto su Ambiente, Popolazione e Sicurezza dell’Università di Toronto, diretto da Thomas Homer-Dixon. Attraverso un’analisi empirica[9] delle relazioni esistenti tra scarsità delle risorse e conflitti, è emerso che elementi quali la riduzione quali-quantitativa delle risorse ambientali, la crescita della popolazione e la diseguaglianza nell’accesso a dette risorse conducono, singolarmente o in combinazione tra loro, ad un incremento della scarsità di terre coltivabili, corsi d’acqua, foreste e risorse ittiche per certi gruppi di popolazione. Può determinarsi così una riduzione della produttività, anche al di fuori del gruppo direttamente colpito, potendo addirittura incidere sull’economia di una intera Nazione. Le popolazioni colpite tendono ad emigrare verso nuove terre, dando luogo a consistenti flussi migratori in grado di destabilizzare il Paese di origine e quello di destinazione, aggravando tensioni etniche, razziali e religiose, incrementando le differenze di benessere e potere tra gruppi sociali ed indebolendo le istituzioni sociali e politiche.

Tali conseguenze, che Homer-Dixon inquadra come effetti sociali intermedi della scarsità di risorse, contribuiscono a compromettere lo status quo favorendo l’insorgere di conflitti sia all’interno dei Paesi che tra essi[10]. La riduzione delle risorse disponibili, secondo Homer-Dixon, solo raramente contribuirebbe in modo diretto a provocare conflitti tra Stati[11].

I risultati del progetto paiono, da un lato, non identificare l’esistenza di un nesso diretto ed esclusivo tra il conflitto ed il fattore ambientale che lo avrebbe scatenato, potendo interagire con questo altri fattori di ordine sociale, religioso, economico ed etnico[12]; dall’altro, gli stessi devono essere presi con le dovute cautele in un eventuale processo di generalizzazione che intendesse rapportarli sul piano mondiale, dal momento che ogni situazione presenta propri aspetti peculiari[13].

Nel solco di indagine tracciato da Homer-Dixon, benché su presupposti differenti, si pone il Progetto su Ambiente e Conflitti promosso dall’Istituto Tecnico Federale di Zurigo, in collaborazione con la Fondazione Elvetica per la Pace di Berna che, muovendo da un’indagine di casi[14], si è incentrato sui conflitti armati, attuali o potenziali, a bassa e ad alta intensità, offrendo anche una griglia di riferimento concettuale assai utile per inquadrare le possibili cause dei conflitti ambientali in un’ottica di Peace and Ecology compatibility analysis e permetterne, così, una loro più agevole risoluzione[15].

Essa ha altresì il pregio di pervenire ad una analitica formulazione del concetto di CAG, quali conflitti di tipo politico, sociale, economico, etnico, religioso o territoriale, oppure conflitti per risorse o per interessi nazionali: essi costituiscono dunque dei conflitti in senso tradizionale, ma indotti dal degrado ambientale sotto forma di sovrasfruttamento delle risorse rinnovabili; eccessivo impiego delle capacità ambientali di assorbimento dei rifiuti; impoverimento dell’habitat naturale[16].

Un diverso e più recente filone d’indagine è rappresentato dagli studi condotti dall’Istituto Internazionale di Ricerca sulla Pace di Oslo, nell’ambito del “Programma sulla sicurezza del genere umano ed i mutamenti ambientali globali”, la cui ottica di indagine appare degna di nota in quanto focalizzantesi su aspetti di carattere qualitativo e non più solo quantitativo[17]. Il taglio adottato permette di enfatizzare, nella dicotomia scarsità/degrado presente nella definizione di CAG, il secondo dei due elementi e consente di precisare che i CAG non si esauriscono nei conflitti direttamente o indirettamente correlati alla penuria di risorse naturali[18].

Il presente escursus[19] permette di inquadrare il concetto di CAG, anche se presenta il limite di condurre a risultati necessariamente teorici, non potendo essere verificati empiricamente. Resta comunque l’indubbio pregio di avere esaminato analiticamente il fattore ambiente - e, in particolare, i fenomeni di deterioramento ambientale - come causa di conflitti: anche solo l’eventualità che essi possano verificarsi in futuro giustifica non solo la continua attenzione verso di essi, ma anche l’apprestare strumenti idonei per gestirli o, meglio, per evitarli.

 

4 – Potenziali  conflitti ambientali globali

Nel considerare la sempre più stretta interazione tra crisi ambientali e pericolo di conflitti, particolare attenzione deve essere dedicata alla crisi energetico-petrolifera, che assume oggi, nel contesto di un modello di mercato altamente energivoro, una assoluta pregnanza. La continua crescita economica su cui la società odierna si fonda, infatti, comporta un crescente fabbisogno di energia, cui consegue inevitabilmente il progressivo calo della consistenza dei giacimenti e della loro capacità di soddisfare la domanda.  Il rischio di esaurire la disponibilità di risorse non rinnovabili (petrolio e gas naturale)[20], con il conseguente arresto della crescita economica che di esse abbisogna, è di grande minaccia per la pace in quanto in grado di provocare un profondo collasso economico e di alimentare l’aggressività dei Paesi industrializzati nel cercare di garantirsi il futuro approvvigionamento energetico[21].

Ma non è solo la crisi energetica ormai in vista a minacciare la pace tra i Paesi: si deve infatti considerare anche la crisi idrica, le cui dimensioni hanno suscitato l’attenzione, tra gli altri, del Segretario Generale ONU, Kofi Annan, a parere del quale il futuro sarà segnato da conflitti per il controllo e l’utilizzo dei flussi d’acqua[22] È infatti evidente che, rappresentando l’acqua una risorsa indispensabile per lo sviluppo umano, si possa innescare una vera e propria corsa alla sua appropriazione, foriera di controversie tra i potenziali utilizzatori[23]. Nella storia delle relazioni internazionali del XX secolo, del resto, sono numerosi gli esempi di tensioni tra Stati per lo sfruttamento di comuni fonti di approvvigionamento, ed ancor più frequenti sono state le lotte intestine legate alla carenza d’acqua od alla sua ineguale distribuzione[24]. Simili controversie hanno contribuito, in varie zone del mondo, ad esacerbare le relazioni tra Paesi confinanti, innescando situazioni di conflitto per il controllo delle acque contese[25].

Anche l’incessante crescita demografica, peraltro, va considerata quale fattore che può contribuire al collasso del pianeta[26] e lo stesso dicasi del cd. effetto serra[27]; della crescente deforestazione; della minaccia rappresentata dalla perdita della biodiversità; o ancora dell’assottigliamento della fascia di ozono, in grado di determinare gravi conseguenze sulla salute umana e sull’ecosistema[28].

Come si nota, il quadro generale è davvero allarmante e presto si paleserà l’insostenibilità assoluta dell’attuale regime. In questo si sostanzia uno dei maggiori motivi di tensione bellica indotta dalle crisi ambientali, le cui caratteristiche consistono, oltre che nella loro irreversibilità ed incertezza, nella loro dimensione globale. A differenza del passato, infatti, le conseguenze ambientali dell’attività umana non interessano più solo aree circoscritte, ma sono in grado di produrre effetti su ampia scala, travalicando i confini del Paese e dando luogo alle cosiddette esternalità ambientali internazionali[29].

La transnazionalità dei problemi ambientali e l’asimmetrica distribuzione dei potenziali benefici derivanti dalla cooperazione aumentano la complessità di tali problematiche[30] e palesano la necessità di indurre una partecipazione globale agli accordi internazionali sull'ambiente e di costituire dei centri decisionali capaci di affrontare e gestire le relazioni uomo-ambiente su scala planetaria[31].

La peculiarità del problema è data dal fatto che non esiste un’autorità internazionale in grado di svolgere la funzione di regolatore. Certo esistono organismi internazionali che si occupano di sviluppo e ambiente: esemplare in tal senso è l’ONU che, nel contribuire alla soluzione di alcune problematiche globali, ha provveduto alla creazione di numerose agenzie, programmi e fondi, dando luogo al cd. Sistema delle Nazioni Unite[32]. Tuttavia, la mancanza di vere e proprie autorità governative sovranazionali ha generato il proliferare di convenzioni e conferenze alla ricerca di soluzioni che rappresentano soltanto dei compromessi fra le parti e le cui enunciazioni si riducono troppo spesso a pure dichiarazioni di intenti[33].

 

5 - L’esigenza di intervenire secondo un approccio cooperativo alla risoluzione delle questioni ambientali globali. I principali strumenti legislativi internazionali a tutela dell’ambiente

Il moltiplicarsi dei conflitti ambientali e delle ripercussioni globali delle catastrofi ecologiche, cui si è assistito negli ultimi anni, ha indotto la comunità internazionale a cercare soluzioni per addivenire ad un diverso modello di protezione ambientale a livello mondiale. In particolare, è emersa la necessità di incentrarsi sui fenomeni globali legati a prospettive multisettoriali ed alle nozioni di ecosistema e di interdipendenza dei fenomeni naturali che evidenziano rischi globali per l’intera umanità[34].

Tra i diversi tentativi avviati a livello internazionale per rispondere a tale esigenza, un momento importante nel processo di protezione dell’ambiente è segnato dal vertice sui problemi ambientali tenutosi a Stoccolma nel 1972 (UNCHE)[35], il quale ha portato a riconoscere ufficialmente il valore dell’ambiente ed a stabilire delle linee guida per garantirne la tutela ed arginarne il deterioramento[36].

La più nota conferenza ambientale è però certamente quella su Ambiente e Sviluppo (UNCED) tenutasi a Rio de Janeiro nel giugno 1992, cui hanno partecipato 183 Paesi ed in occasione della quale sono state firmate la Convenzione quadro sui Cambiamenti Climatici, che indica le azioni da intraprendere per non compromettere ulteriormente l’atmosfera[37]; la Dichiarazione di Rio, che enuncia i principi (27) cui deve attenersi la strategia dello sviluppo sostenibile[38]; l’AGENDA 21, che consiste in un piano d’azione per specifiche iniziative economiche, sociali ed ambientali[39]; la Convenzione sulla Diversità Biologica[40].

L’importanza della Conferenza di Rio consiste nell’aver evidenziato come sia sempre più necessario integrare, su un piano mondiale, le politiche ambientali, economiche e dello sviluppo, nonché nell’aver auspicato la costituzione di nuove forme di collaborazione in vista di una nuova società globale e l’adozione di accordi internazionali che proteggano l’integrità dell’intero sistema ambientale[41]. Tuttavia, sebbene i principi espressi in quella sede rivestano tuttora grande importanza, il summit di Rio si è rivelato fallimentare sotto diversi aspetti[42], rimanendo una premessa senza seguito: dal 1992 ad oggi la situazione è notevolmente peggiorata, specie per quanto riguarda l’equità intragenerazionale[43].

Certamente, un limite della Dichiarazione di Rio è rappresentato dal fatto che essa, così come quella di Stoccolma, si sostanzia in norme di soft law, ossia nella semplice enunciazione di principi, senza risolversi in uno strumento vincolante per gli Stati che hanno convenuto di aderirvi: il ricorso al soft law, se da un lato favorisce la partecipazione di più Nazioni, dall’altro, trattandosi di uno strumento di natura raccomandatoria, non giuridicamente vincolante, si rivela inidoneo ad indurre effettivamente i partecipanti a rispettare standard ed obblighi specifici[44]

Una svolta importante si è avuta nel dicembre 1997 con l’adozione del Protocollo di Kyoto, che costituisce il primo esempio di trattato globale legalmente vincolante in materia ambientale[45]. Applicando alle possibili conseguenze dell'effetto serra il principio precauzionale - in forza del quale si interviene preventivamente, contro minacce potenziali, ipotetiche ed incerte, e dunque contro minacce sulle quali non sussiste alcuna prova tangibile in merito alla possibilità che il disastro ecologico avrà effettivamente luogo - con il Protocollo di Kyoto la comunità mondiale si è determinata a fissare alcuni obiettivi in termini di riduzione delle emissioni dei gas di cui sono responsabili soprattutto i Paesi sviluppati[46].

Purtroppo, nel corso del recente summit mondiale sullo sviluppo sostenibile (WSSD), tenutosi a Johannesburg dal 26 agosto al 4 settembre 2002, si è dovuto constatare che, a dieci anni dal summit di Rio, pur avendo quest’ultimo determinato una presa di coscienza globale sulle priorità ambientali, comunque i progressi raggiunti in termini di miglioramento dell’ambiente e di sviluppo sostenibile sono stati minimi[47].

Di fronte a questa realtà appare evidente che gli sforzi finora profusi per prevenire i rischi e le violazioni in materia ambientale non abbiano purtroppo raggiunto l’obiettivo in modo soddisfacente.

 

6 - Il sistema internazionale ambientale e la sua effettività

Sebbene il processo legislativo internazionale abbia consentito la definizione di alcuni principi fondamentali - primi tra tutti il principio dell’ambiente come diritto umano, il principio di equità intragenerazionale ed il principio dell’ambiente quale patrimonio comune dell’umanità -, molto carente si è rivelato il sistema in termini di effettività, in ragione della mancanza di autorità sovranazionali deputate ad accertare l’eventuale violazione degli obblighi assunti dagli Stati e ad applicare, se del caso, idonee sanzioni ai Paesi inadempienti[48].      

La constatazione del fatto che una tutela ambientale davvero efficace a livello internazionale sia un'esigenza sempre più impellente, soprattutto in considerazione delle ripercussioni globali di ogni emergenza ambientale, evidenzia così la necessità improcrastinabile di affrontare i problemi ambientali globali secondo altre logiche, prevedendo profondi cambiamenti nella struttura istituzionale internazionale e potenziando gli strumenti di politica globale in grado di arginare i principali fattori di destabilizzazione dell’equilibrio ecologico e della pace tra i Paesi del mondo[49]. Vista la natura competitiva delle relazioni tra Stati, occorre raggiungere un’effettiva cooperazione internazionale nel monitoraggio, nella prevenzione e nella valutazione dei rischi ambientali e soprattutto garantire l’applicazione effettiva e puntuale delle norme giuridiche, affidando il controllo giurisdizionale ad istituzioni indipendenti e rimodellando a livello globale il sistema di risoluzione delle controversie[50].

Il sistema derivante dalle norme di diritto internazionale si fonda sull’obbligo degli Stati di risolvere le controversie pacificamente. Tale obbligo sancito dall’art. 2, par. 3, della Carta ONU[51], si applica ovviamente anche in relazione alle controversie internazionali in materia ambientale[52]. Nel rispetto di tale previsione, gli Stati sono liberi di scegliere i mezzi di soluzione che ritengono più idonei, potendo di conseguenza optare per il ricorso a mezzi diplomatici (negoziato, mediazione, inchiesta, conciliazione), che non hanno carattere vincolante e lasciano le parti libere di accettare o rifiutare la risoluzione proposta[53], ovvero per il ricorso a mezzi arbitrali o giurisdizionali di soluzione delle controversie, i quali si risolvono invece in decisioni legalmente vincolanti per le parti opposte[54].

Un recente sviluppo del diritto internazionale ambientale è rappresentato dalla previsione nelle convenzioni di procedure non-compliance[55], intese a favorire l’attuazione degli impegni assunti dagli Stati ex ante, piuttosto che a reprimere ex post eventuali violazioni. Le non compliance procedure consistono in meccanismi collettivi di consultazione e di controllo politico cui ricorrere nel caso di accertata violazione degli obblighi di alcune parti e comprendono sistemi informativi (incluso l’obbligo di rapporti periodici da parte dei Governi, come previsto dalla Convenzione sulla Biodiversità, art. 26) o sistemi di monitoraggio periodico per la verifica dell’osservanza delle obbligazioni da parte degli Stati (Protocollo di Montreal, art. 8; Protocollo di Kyoto; Convenzione di Parigi sulla Prevenzione dell’inquinamento marino da terra)[56].

Accanto a tale genere di misure, spesso le Convenzioni ambientali prevedono anche meccanismi ed incentivi diretti a garantire l’osservanza spontanea degli obblighi assunti da parte di quegli Stati che vertono in situazioni di scarsa disponibilità di risorse economiche o tecnologiche. Al fine di impedire che tali situazioni compromettano il rispetto delle regole a tutela dell’ambiente, si stabiliscono forme di assistenza tecnica ed economica, le cd. misure non-confrontational, tra le quali figurano la previsione di benefici economici potenziali, o meccanismi di assistenza finanziaria (financial cooperation); o misure cd. capacity building, dirette ad incrementare la capacità di uno Stato di affrontare problematiche di tipo ambientale, e consistenti in genere in forme di assistenza tecnica o nel trasferimento di tecnologie (Agenda  21, cap. 34; Convenzione sui Cambiamenti Climatici, art. 4); o ancora la previsione di standard attuativi diversi a seconda del grado di sviluppo delle parti, e dunque di una responsabilità differenziata per i PVS  (Dichiarazione di Rio, principio 7; Convenzione sui Cambiamenti Climatici, art. 3; Protocollo di Montreal, art. 5)[57].

 

7 - Per una effettiva tutela ambientale. Le possibili soluzioni dei conflitti ambientali globali

I progressi realizzati con l’introduzione, nei Trattati multilaterali, di misure di non compliance e di meccanismi procedimentali diretti a prevenire le controversie (scambio di informazioni, notificazione, consultazione; consenso preventivo) non consentono comunque di assicurare il buon funzionamento del sistema giuridico internazionale in materia di ambiente, e lasciano impregiudicata la necessità di dotarsi di istituzioni appropriate. A fronte dei rischi cui il pianeta sta andando incontro, in termini di degrado ecologico e di CAG, appare infatti chiara l’inadeguatezza del sistema internazionale ad oggi apprestato ed imminente la necessità di garantirne l’effettività tramite una cornice istituzionale giuridicamente efficace e funzionale alla risoluzione giuridica dei conflitti ambientali[58].

Su tale ordine di considerazioni si fonda il progetto di istituire la Corte Internazionale dell'Ambiente presso l'ONU, quale giurisdizione competente per ricevere denunce da Stati, individui e ONG. La proposta, avanzata dall'ICEF (Fondazione Internazionale per una Corte Internazionale per l'Ambiente)[59], parte dal riconoscimento del diritto fondamentale all’ambiente in capo ad ogni individuo, presente e futuro, e dalla constatazione della gravità delle sempre più frequenti catastrofi ecologiche. Al fine di assicurare maggiore effettività al diritto internazionale dell'ambiente, il Comitato promotore ha così ribadito la validità internazionale dell'istituto giuridico della responsabilità dei danni ambientali e del crimine ecologico quale offesa grave all'ambiente e al diritto di ogni uomo[60], ed ha concluso per la necessità dell’istituzione e accettazione generale di una giurisdizione internazionale[61]. L’obiettivo che si intende perseguire è non solo quello «di creare una rete normativa più fitta ed efficiente in materia di salvaguardia dell'ambiente», bensì «soprattutto di far in modo che un Tribunale dotato dei poteri più ampi possibili punisca i crimini ecologici, adotti provvedimenti provvisori a scopo preventivo nelle situazioni di emergenza, e, in caso di necessità, possa fungere da fonte legislativa per colmare vuoti normativi specifici»[62].

La proposta di istituire una Corte di Giustizia, competente per le controversie di argomento ecologico, presenterebbe il vantaggio di una protezione giuridica generale in campo ambientale e di una specializzazione dell'applicazione del diritto in questo settore. Tuttavia, si elevano perplessità sul rischio che ciò possa creare confusione nella tutela giuridica e comporti, in particolare, l'interferenza con le competenze della Corte internazionale di Giustizia nel caso di azioni tra Stati[63].

Peraltro, l’opportunità di istituire la Corte Internazionale dell’Ambiente, quale istituzione permanente adita tanto dai singoli quanto dalle organizzazioni, è affermata sulla base della considerazione che i Tribunali Internazionali attualmente esistenti risultano inadeguati ad assolvere il compito suddetto, per tutta una serie di ragioni, tanto di ordine soggettivo, per cui essi in molti casi non sono accessibili direttamente dai singoli mentre la cerchia degli Stati rientranti nella giurisdizione di un determinato Tribunale è ancora piuttosto ristretta; quanto di ordine oggettivo, dovendo tali Tribunali garantire il rispetto di tutta una serie (spesso assai nutrita) di diritti e doveri, di cui quelli relativi in maniera specifica alla salvaguardia ambientale costituiscono (quando espressamente contemplati) soltanto una categoria, finendo così per far assumere a tali Organi una funzione prettamente generalista, certo inadatta ad affrontare le complesse problematiche poste dalle controversie ambientali.

Su tale genere di considerazioni si fondano le reticenze ad accogliere soluzioni legate all’utilizzo di altre Corti Internazionali già esistenti, quale ad esempio la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU). Certamente, la Corte di Strasburgo, deputata a garantire il rispetto dei diritti individuali riconosciuti dalla Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo, annovera a proprio favore, oltre al crescente prestigio anche, soprattutto dopo le recenti riforme, l’allargamento della base dei soggetti legittimati ad adirla (con la previsione della legittimazione di ricorsi individuali di cui al novellato art. 34); inoltre, non va dimenticato che la Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo, assieme ai relativi Protocolli, è stata ratificata finora non soltanto da tutti i paesi dell’Europa occidentale ma anche da quelli dell’Europa dell’Est e dalla Russia. D’altra parte alla CEDU è demandato (art. 32) il compito di interpretare ed applicare la Convenzione e i suoi Protocolli, per cui tale Organo presenta, sul piano processuale, il limite sopra evidenziato del carattere necessariamente generalista del suo intervento e, su quello sostanziale, l’impossibilità di pronunciarsi in materia di tutela ambientale, in assenza di una previsione espressa in tal senso nella Convenzione. Basterebbe, dunque, modificare la Convenzione, includendo nell'elenco delle libertà fondamentali anche il diritto all'ambiente, per ottenere, a seguito della sua adozione generalizzata, un sistema giuridico competente per la salvaguardia ambientale a livello internazionale? La risposta non si presenta agevole e probabilmente dovrà tenere conto non soltanto delle difficoltà insite in qualunque procedimento di revisione di una Convenzione internazionale ma anche e più in specifico alla luce dei nuovi strumenti normativi creati in sede comunitaria e delle delicate interazioni di queste con la Convenzione e la Corte stessa[64]

Anche l’ipotesi di attribuire la competenza in materia ambientale alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee del Lussemburgo si ritiene inadeguata, stante la limitatezza della sua giurisdizione ai soli Stati membri. E nella stessa logica viene valutata la possibilità di assegnare le funzioni di Corte Internazionale dell'ambiente alla Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja (CIG), principale organismo giuridico dell'ONU. Tale soluzione, il cui accoglimento non troverebbe impedimenti a livello statutario - includendo l'art. 36 tra le competenze della Corte anche la trattazione delle controversie giudiziarie in materia ecologica -, presenterebbe il vantaggio di evitare complessi accordi di diritto internazionale diretti alla definizione di una procedura condivisa da tutti. Inoltre, tale possibilità potrebbe ritenersi preferibile rispetto alla creazione di un Tribunale speciale in ragione del fatto che la CIG, oltre a godere oramai di un'accettazione internazionale che qualsiasi nuovo Tribunale dovrebbe cercare di conquistarsi, non si limita alla composizione di concrete controversie fra Stati, ma è chiamata anche a stabilire principi giuridici in forma di giurisprudenza, consentendo di disporre di una fonte giuridica anche per quegli aspetti del diritto internazionale ambientale che non sono ancora codificati[65].

Ciò nonostante, osta all’adozione di tale soluzione la limitatezza della competenza della CIG nel decidere le liti: quest’ultima è infatti circoscritta alle sole controversie fra Stati (art. 34 I statuto), per cui resterebbero privi della facoltà di costituirsi come parte in causa i singoli, le organizzazioni speciali e le associazioni in genere. Si tratta evidentemente di un aspetto di estrema rilevanza, non potendosi ammettere che gli interessi giuridici dei singoli vengano considerati nella pratica solo in modo mediato, ovvero solo se vengano fatti propri dai rispettivi Stati d'origine. A ciò si aggiunge il fatto che anche gli Stati membri dell’ONU sono soggetti alla giurisdizione della CIG solo sulla base di uno specifico atto di sottomissione, consistente in una convenzione multilaterale fra Stati, la quale stabilisca la competenza della CIG, o nella semplice costituzione in giudizio in un processo pendente dinanzi alla CIG, od nella dichiarazione unilaterale dello Stato, a norma della cd. "clausola facoltativa" (art. 36 II Statuto).

Diversamente può valutarsi la possibilità di creare una Camera Speciale nell'ambito della CIG, competente per le questioni ecologiche. Ciò si ritiene innanzitutto coerente con la previsione di cui all’art. 26 I dello statuto CIG, ove è stabilito che la Corte può istituire in qualsiasi momento una o più Camere, composte da tre o più giudici, competenti a trattare specifiche questioni di diritto. A sostegno di tale soluzione sta poi la considerazione che essa consentirebbe di creare un foro di esperti in un determinato ambito e di superare la necessità di particolari convenzioni di diritto internazionale, potendosi la Camera istituire in modo immediato a norma dell'art. 26 I .

Resta peraltro lo svantaggio che la possibilità di accedere alla Sezione Speciale è riservata solo agli Stati, con la conseguenza che, non avendo l'individuo facoltà di costituirsi parte in giudizio, tale istituzione non si ritiene possa svolgere il ruolo di giustizia ecologica del mondo[66]. Al fine di rispondere all'esigenza di una più ampia tutela giuridica per l'ambiente, sarebbe perciò necessario introdurre nel disposto dell'art. 34 dello statuto  CIG la facoltà degli individui di costituirsi parte in causa, come richiedeva già la Dichiarazione di Rio per la tutela dell'ambiente.

Si è inoltre osservato che, giudicando sul presupposto dell’accordo delle sole parti della controversia, la Sezione Speciale per l’ambiente della Corte di Giustizia si sostanzierebbe in un mero Tribunale arbitrale. Certo, il ricorso a modelli alternativi di risoluzione dei conflitti (composizione negoziale e arbitrato) può svolgere un ruolo positivo ed auspicabile in materia ambientale: ciò è dimostrato del resto dall’utilità della funzione svolta dalla Corte Permanente di Arbitrato dell’Aia, che ha adottato, il 19 giugno 2001, alcune regole opzionali di arbitraggio per le controversie inerenti l'ambiente e/o le risorse naturali al fine di colmare la principali lacune nelle risoluzioni delle controversie ambientali. Le Environmental Rules sono state completate, il 16 aprile 2002, con ulteriori regole opzionali (Rules for conciliation of disputes relating to natural resources and/or the environment), attraverso le quali la Corte ha inteso mettere a disposizione della comunità internazionale un'ampia varietà di meccanismi procedurali per regolamentare le controversie ambientali.

Tuttavia, stanti i limiti della decisione arbitrale - la sua natura volontaria privata, la limitatezza dell’efficacia della decisione alle sole parti, la mancanza di garanzie in termini di pubblicità e trasparenza, l’impossibilità che essa svolga un ruolo anche solo dichiarativo e di prevenzione - l’arbitrato internazionale in tema di ambiente resta privo di reali possibilità di esplicazione e di effettive capacità di rispondere all’esigenza di un modello di protezione ambientale in sede mondiale[67].


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[1] Cfr. NESPOR (2002), 1 ss.; Federazione Internazionale degli Amici della Terra (a cura di), Verso un'economia sostenibile: nuove regole per la globalizzazione economica, www.amiciterra.it/NEWSLETT/news19/economiasos.htm

[2] LETTERA (1992), 235-236.

[3] Il diritto fondamentale dell’uomo all’ambiente ha trovato affermazione già nella Dichiarazione di Stoccolma del 1972, che ha sancito, da un lato, il diritto di ognuno alla libertà, all'uguaglianza e a condizioni di vita soddisfacenti, in un ambiente che gli consenta di vivere nella dignità e nel benessere, e, dall’altro, il suo corrispondente dovere di proteggere l'ambiente a favore delle generazioni presenti e future.

[4] BROWN - FLAVIN - POSTEL (1991), descrive come sviluppare un’economia meno inquinante al fine di evitare l’aggravarsi della crisi energetica.

[5] DI FAZIO (2002).

[6] MEADOWS ET AL. (1972), 25.

[7] Per una disamina delle principali problematiche ambientali globali, cfr. BROWN ET AL. (2000), nonché il sito del Worldwatch Institute, www.worldwatch.org.

[8] Cfr. EHRLICH - GLEICK - CONCA (2000); ROMANO (2000), 13-24.

[9] Gaza, Haiti, Pakistan, Rwanda e Sud Africa.

[10] Cfr. HOMER DIXON (1991), 76 ss.; ID. (1995).

[11] ZEBICH-KNOS (1998) osserva come i cambiamenti ambientali possano portare a differenti tipologie di conflitto che vanno dalle dispute diplomatiche e commerciali al terrorismo fino a sfociare in vere e proprie guerre.

Un’altra definizione di conflitto ambientale è proposta da DOKKEN - GRAEGHER’S (1995), 38 ss., quale «conflitto che coinvolge lo stress o il degrado ambientale sia come causa, come conseguenza o come variabile incidente, magari combinata ad elementi sociali, etnici o politici».

[12] Con riferimento ai conflitti indotti, oltre che da cause ambientali, anche da ragioni etniche, religiose ecc., alcuni ricercatori preferiscono utilizzare il termine “environmentally-induced conflict”, piuttosto che il generico “environmental conflict”. In proposito LIBISZEWSKI (1992). Per un’indagine ENCOP sui diversi tipi di conflitti e relative cause, cfr. MOLVÆR REIDULF (1991), 175-188.

[13] DABELKO (1996) critica la ricerca effettuata da Homer Dixon in quanto i casi riportati a supporto delle argomentazioni espresse risultano quantitativamente ridotti e geograficamente circoscritti ai Paesi del Terzo Mondo. Secondo DEUDNEY (1990), 461-476, la scarsità delle risorse ambientali non necessariamente genera conflitti, avendo gli Stati la possibilità di colmare la propria carenza di una determinata risorsa operando sui mercati internazionali. Dello stesso autore si vedano DEUDNEY (1991), 23-28; DEUDNEY - RICHARD (1999).

[14] Bangladesh, Asia Centrale, Rwanda, M.O., Sudan e Nigeria.

[15] Cfr. BOGE (1992).

[16] LIBISZEWSKI (1992).

[17] Cfr. DIEHL - GLEIDITSCH (2000).

[18] WESTING (1986).

[19] Altri contributi sul tema sono stati forniti da BYRES (1991), 65 ss., il quale è convinto che i conflitti ambientali possano nascere dalla non coincidenza tra confini politici e confini ecologici, come nei casi in cui due o più Stati condividono una medesima ecoregione e nei casi in cui singoli Stati occupano più di una ecoregione; da SHIN-WHA LEE (2001), 73 ss., che identifica le fasi che conducono ad un ecoconflitto; nonché dal Programma sulla Dimensione Umana Internazionale dei mutamenti ambientali del Comitato Nazionale Elvetico, l’Istituto Belga di Ricerca e Formazione sulla Pace e la Sicurezza e l’Istituto di Ricerca sulla Pace di Tampere, il quale, tuttavia, tratta l’argomento in un’ottica strettamente locale.

[20] Secondo la Canadian Imperial Bank of Commerce, «all’attuale crescita della domanda di energia, la capacità residua di pompaggio sarà saturata prima di due anni. Oltre quel punto, la domanda dovrà essere razionata». Cfr. STARA (2001).

[21] Cfr. DI FAZIO (2002). 

[22] In tali termini il Segretario Generale dell’ONU, che già nel 1995 aveva sostenuto che “Nel prossimo secolo, le guerre scoppieranno per l’acqua”, si è espresso nel suo rapporto predisposto in vista del Vertice Mondiale sullo sviluppo sostenibile del 2002.

[23] Sul punto PEPE (1997), 175; SOMOZA(2002).  

[24] Si pensi alla controversia tra Canada e USA per lo sfruttamento del fiume Columbia, o a quella tra India e Pakistan per la ripartizione delle acque del fiume Indo, o ancora a quella tra Egitto e Sudan per l’utilizzo delle acque del Nilo. Si parla così di “guerre dell’acqua” con riferimento a controversie quali quelle tra Israele e Siria circa il controllo delle fonti del fiume Giordano: ARCARI (2002); NOSENGO (2002).

[25] La crescente gravità dei fenomeni di scarsità e di inquinamento delle risorse idriche ha così fatto emergere la necessità di guardare ad esse come risorse ambientali meritevoli di autonoma protezione e di ragionare, soprattutto a partire dalla Conferenza di Rio, in termini di un loro uso sostenibile, determinando la configurabilità, anche a livello internazionale, di «un vero e proprio diritto umano fondamentale all’acqua»: ARCARI (2002).

[26] Secondo il World Watch Institute, se gli abitanti del pianeta dovessero vivere allo standard degli Stati Uniti, dovremmo avere altri 3 pianeti come il nostro per disporre delle risorse necessarie. Secondo DI FAZIO (2002), si tratta di un’altra dimostrazione dell’insostenibilità dell’attuale regime economico.

[27] Per approfondimenti si rinvia al sito internet dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, www.ipcc.ch.

[28] Sul problema del buco nella fascia di ozono e sulle soluzioni internazionali adottate, cfr. ZOBOLI (1995).

[29] Sull’interregionalità dei fenomeni ambientali e le sue cause, cfr. MALER (1990); IVALDI (1994), 979, che parla di “danni transfrontalieri”. Sui maggiori problemi di inquinamento transfrontaliero attualmente esistenti, cfr. PEARCE – TURNER (1999).

[30] La consapevolezza della transnazionalità di certe problematiche ambientali ha condotto, negli anni ‘80, la Commissione Brundtland sullo sviluppo sostenibile, istituita presso l’ONU, a pubblicare il rapporto “Our Common Future”, nel quale si determinò secondo criteri scientifici che lo sviluppo non fosse sostenibile: DI FAZIO (2002);  LETTERA (1992), 243 ss.

[31] Sulla necessità di una cooperazione internazionale, si vedano ROMBALDONI (2001); MUSU (2000).

[32] Il Sistema delle Nazioni Unite ha in realtà mostrato grossi limiti di coordinamento ed efficienza, tanto da indurre ad una sua ristrutturazione, iniziata nel 1993 con l’istituzione della “Commissione per lo Sviluppo Sostenibile” (UNCSD), avente lo scopo di coordinare l’implementazione internazionale dell’Agenda 21.

[33] Si consideri che negli ultimi vent’anni sono stati firmati oltre 200 accordi multilaterali ambientali, mentre il numero dei concordati bilaterali supera il migliaio. Spesso, tuttavia, anche se in modo non esplicito, gli accordi ambientali si fondano su considerazioni prettamente economiche.

[34] Sulle origini e sullo sviluppo del diritto internazionale dell’ambiente, cfr. TREVES (2000), 175-185; CECCHINI (1979), 333 ss.

[35] In seguito al vertice di Stoccolma, venne istituito, l’anno successivo, l’UNEP, il programma dell’ONU volto a coordinare e promuovere le iniziative ONU sulle questioni ambientali (www.unep.org/unep/conv.htm). Coerentemente con quanto stabilito nel quadro dell’UNCHE, nel 1977 è stato redatto per conto dell’ONU il “Rapporto Leontief” inteso a valutare i possibili scenari di fine secolo rispetto al binomio sviluppo-ambiente, mentre nel 1983 la Commissione mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo ha prodotto il già citato “Rapporto Brundtland”.

[36] Ulteriori importanti accordi ambientali multilaterali sono la Convenzione sul Commercio Internazionale delle specie a rischio di estinzione, del 1975; la Convenzione di Vienna sul buco nell’ozono, del 1985; il Protocollo di Montreal, del 1987, che vietò la fabbricazione di sostanze in grado di ridurre lo strato di ozono (cfr. OECD, Experience with the Use of Trade Measures in The Montreal Protocol on substances that deplete the ozone layer, OECD, Paris, 1997; DE SOMBRE (2001), 1-30); la Convenzione di Basilea sul controllo del movimento transfrontaliero di rifiuti pericolosi e relativa eliminazione, entrata in vigore nel 1992.

[37] Per un approfondimento sui risultati emersi dalla Conferenza di Rio, cfr. OECD, Climate Change: mobilising global effort, OECD, Paris, 1997; CAMPIGLIO ET AL. (1994).

[38] Tra i più significativi principi guida ambientali riconosciuti in tale Dichiarazione, nella quale si è formulato il concetto di sviluppo sostenibile, vanno citati il principio secondo il quale, avendo tutti gli individui uguale diritto alle risorse naturali, ogni generazione ha il dovere di lasciare alle generazioni future una natura intatta; il principio precauzionale, in forza del quale, in caso di rischio grave per l'ambiente, l'assenza di una certezza scientifica assoluta non deve servire da pretesto per rinviare l'adozione di misure adeguate ed efficaci per prevenire il degrado ambientale; il principio "chi inquina paga", fondato sull’idea che i costi per evitare e riparare i danni all'ambiente siano sostenuti dai soggetti che ne sono responsabili.

[39] L’Agenda 21 afferma il principio che la crisi ecologica può essere fermata solo con un impegno coordinato dell’intera comunità internazionale.

[40] Sulla Convenzione sulla Diversità Biologica cfr. CERVIGLI (1995); PERRINGS (1997). Si vedano inoltre il sito della Convention on Biological Diversità, www.biodiv.org, e quello della OECD, www.oecd.org.

[41] GIACOMOZZI R., Gestione delle problematiche ambientali all'interno dell'impresa, in Impresa e Ambiente, www.ambiente.it/impresa/monografie/problematiche/sviluppo.htm.

[42] La prevista Carta della Terra è stata sostituita dai 27 principi della Dichiarazione di Rio; la Convenzione sulla Biodiversità è stata invalidata dal rifiuto degli USA, che la sottoscrissero soltanto dopo l’elezione di Bill Clinton, e lo stesso dicasi per la Convenzione sui Cambiamenti Climatici. Inoltre, non si è dato vita alla Convenzione delle Foreste: solo nel 1994 si è giunti alla Convenzione per combattere la desertificazione (Parigi, 17 giugno 1994), sulla quale si rimanda a DE PIETRI (1999), 171 ss.

[43] La forbice che divide i Paesi ricchi da quelli poveri si è allargata ulteriormente, tanto che, nel giugno del 1997, si è tenuto a New York il vertice “Rio +5” per valutare la situazione dopo Rio. Anche in tale occasione è emersa però l’incapacità della comunità internazionale di assumere decisioni in grado di scavalcare interessi specifici a favore del benessere dell’umanità. Cfr. CHIANURA (2002).

[44] Cfr. TREVES (2000), 181-182. Sul punto anche MAROTTA (1992), 48-49.

[45] Il testo del Protocollo, adottato dalla Conference of the Parties (COP3) della Convenzione sui Cambiamenti Climatici, si legge su www.unfccc.de. Per approfondimenti cfr. MOLOCCHI (1998); GALIZZI (1998), 561 ss.

[46] Sul principio di precauzione, DE SADELEER (2001), 598 ss.; ACERBONI (2000), 245 ss.; SCOVAZZI (1992), 699 ss.; AA.VV. (1999); POSTIGLIONE (1998), 69.

[47] Sul summit di Johannesburg, GARDNER (2002); BOLOGNA (2002); s.a. (2002).

[48] In tal senso POSTIGLIONE (2001), 34 («i soggetti che sottoscrivono gli obblighi internazionali sono gli stessi a decidere se osservarli, quando osservarli, come osservarli, senza alcun controllo di autorità indipendenti sovraordinate»), il quale, sul rapporto tra compliance ed effectiveness, rinvia a MITCHELL (1996), 24-26. Sulla effettività del sistema e sui criteri che possono favorirla, HAAS  – KEOENE – LAVY (1993), 3 ss.

[49] Secondo Kofi Annan, «Oggi ci occorre una rivoluzione intesa nel senso di una comune gestione del pianeta»: cfr. Una rivoluzione per salvare l'ambiente, in La Repubblica, 27 agosto 2002. Sul punto anche PEPE (1997),175; CECCHINI (1979), 331 ss. 

[50] Cfr. Federazione Internazionale degli Amici della Terra (a cura di), Verso un'economia sostenibile, cit.

[51] Cfr. MERRILLS (1998); GRAY – KINGSBURY (1992).

[52] Così stabilisce tra le altre la Dichiarazione di Rio (principio n. 26).

[53] Quasi tutti gli accordi in materia ambientale considerano l’utilizzo dei mezzi diplomatici, in primis il negoziato, la prima risorsa di soluzione di una disputa: cfr. art. 14 Convenzione sui Cambiamenti Climatici e art. 27 Convenzione sulla Biodiversità. Cfr. ROMANO (2000), 46-64; PASSINI (1998), 781 ss.

[54] Il ricorso a tribunali arbitrali o alla Corte Internazionale di Giustizia è previsto, tra l’altro, dalla Convenzione di Vienna, dalla Convenzione sui Cambiamenti Climatici e dalla Convenzione sulla Biodiversità. Rispetto ai mezzi diplomatici ed ai mezzi arbitrali o giurisdizionali, una sorta di via mediana è rappresentata dal ricorso ad accordi regionali o ad organizzazioni internazionali come mediatori e conciliatori.

[55] «Non si ritengono più sufficienti ed adeguati i vecchi sistemi basati principalmente su mezzi di composizione delle controversie insorte tra le parti, mezzi peraltro mai utilizzati ed inseriti principalmente per motivi di completezza dei documenti internazionali»: PASSINI (1998), 781 ss. Sul punto cfr. anche ROMANO (2000), 65-90; HANDL (1997). Sulle «positive compliance measures» adottate nei confronti dei PVS, cfr. HUNTER – SALZMAN - ZAELKE (2002), 171 ss.

[56] Cfr. POSTIGLIONE (2001), 35; FORLATI - PALCHETTI (2000), 213 ss.

[57] Cfr. FORLATI - PALCHETTI (2000), 217 ss.

[58] Cfr. POSTIGLIONE (2001), 53 ss.

[59] Sulle fasi del progetto, POSTIGLIONE (1993), 29 ss.; ID. (1995), 919 ss.; ID. (1997), 623 ss.; BATTISTINI (2000).

[60] In tema di responsabilità civile per danni all’ambiente si veda TREVES (1994), 105 ss.

[61] Cfr. POSTIGLIONE (1997), 625.

Il Comitato ha altresì proposto l’insediamento di un'Agenzia Internazionale per l'ambiente, a livello ONU, incaricata di raccogliere dati, svolgere ricerche, assistere nella prevenzione e organizzare iniziative concrete di salvaguardia ecologica.

[62] POSTIGLIONE (1995), 932. Sulle funzioni specifiche della Corte, cfr. VALDRÈ (2001).

[63] Cfr. PASQUALINI SALSA C., La 3° giornata dell'ambiente presso la Corte di Cassazione - la Corte Internazionale di Giustizia per l'Ambiente, in LegaliNet, www.legalinet.it/corte_costituzionaleamb.htm.

[64] Più in generale, sull’inadeguatezza delle Corti attualmente esistenti a far fronte al problema dei CAG, cfr.  POSTIGLIONE (1995), 926-927. Per un ampio excursus in italiano sulla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo cfr. da ultimo NASCIMBENE (2002). La Convenzione, resa a Roma il 4 novembre del 1950 sulla scorta anche della Dichiarazione Universale  dei Diritti dell’Uomo proclamata il 10 dicembre del 1948 dall’Assemblea delle Nazioni Unite conta oggi l’adesione di 43 Stati tra cui quella, intervenuta nell’aprile del 2002, di Armenia e Azerbaijan (per l’andamento delle ratifiche cfr. il sito http://www.coe.int). Tra i recenti strumenti normativi elaborati in sede comunitaria si fa riferimento alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, proclamata solennemente a Nizza il 7 febbraio 2000 (v. in G.U.C.E., n. C 364 del 18 dicembre 2000, pag. 1); in essa è contemplata espressamente (art. 37) la Tutela dell’ambiente; sul valore giuridico della Carta e sui problemi concernenti i rapporti tra questa da un lato e la Convenzione e la CEDU dall’altra, v. in particolare il contributo di I. Viarengo, in Nascimbene (2002) cit., 209-212.

[65] Cfr. JENNINGS (1992), 312 ss.

[66] POSTIGLIONE (1997), 626.

[67] Cfr. POSTIGLIONE (1997), 627 ss.