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Giancarlo A. Ferro*
 
Riflessioni sul cammino “costituzionale” della Corte di giustizia dell’Unione europea**
 
Sommario:1. Giustizia costituzionale e supremazia della Costituzione: una premessa – 2. La duplice valenza della locuzione “giustizia costituzionale europea”- 3. La primautè del diritto comunitario nella prima giurisprudenza della Corte di Lussemburgo come elemento dell’integrazione (ma non di una costituzionalizzazione della giustizia) europea – 4. La primautè del diritto comunitario e l’ingresso della tutela dei diritti fondamentali tra i parametri della Corte di giustizia (attraverso il “filtro” delle tradizioni costituzionali comuni) – 5. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed il riconoscimento della sua efficacia giuridica vincolante – 6. (segue) E la sua utilizzazione nella giurisprudenza della Corte: ambito di applicazione –7. (segue): la Carta come parametro “debole” – 8. (segue): la Carta come parametro (latamente) “costituzionale” – 9. La portata della Carta dei diritti fondamentali con precipuo riguardo alla distinzione tra “principi” e “diritti” – 10. L’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali nell’interpretazione della Corte di giustizia: il caso Melloni e la “super-primautè” del diritto comunitario – 11. Una Corte alla ricerca della propria identità costituzionale: la “diffusione” del modello di europeo di giustizia costituzionale come mezzo di legittimazione di un sistema comunitario di giustizia costituzionale a vocazione “accentrata”.
 
 
 
1. Giustizia costituzionale e supremazia della Costituzione: una premessa
 
Entro i confini della giustizia costituzionale è tradizionalmente ricompreso l’insieme dei rimedi posti in essere da un ordinamento per garantire la supremazia della Costituzione rispetto alle fonti subordinate, soprattutto di rango legislativo.
Tale visione olistica della giustizia costituzionale è presente, del resto, tanto nei presupposti teorici della judicial review of legislation di matrice anglosassone, quanto della Verfassungsgerichtsbarkeit europea che rappresentano, per dir così, i “modelli-madre” dei sistemi di giustizia costituzionale.
Benchè la prassi abbia dimostrato che tali modelli nella loro purezza non si sono mai compiutamente realizzati, assistendosi piuttosto all’introduzione di sistemi misti o ibridi, alla luce dei quali la dottrina ha elaborato plurimi schemi classificatori, non v’è dubbio che si tratta di due paradigmi fondamentali per lo studio della giustizia costituzionale[1].
Sia il sistema statunitense che quello europeo rappresentano una precisa opzione per forme giurisdizionali di garanzia della Costituzione, l’uno com’è noto optando per la “diffusione” del controllo di legalità costituzionale, l’altro invece per l’”accentramento” in capo ad un Tribunale costituzionale.
Sebbene ciascun modello di giustizia costituzionale sia la costola di una precisa teoria della Costituzione e di una pluralità di fattori di natura politico-sociale (non ultimo, il ruolo assegnato al potere giudiziario), il presupposto di pensabilità è pur sempre identificato nell’esistenza di una Costituzione rigida da garantire in quanto collocata al vertice del sistema delle fonti.
È quanto emerge, ad esempio, nel leading case del sistema statunitense della judicial review.In Marbury vs. Madison (1803), infatti, l’opzione per un sistema di controllo delle leggi rappresentò la naturale conclusione della concezione della Costituzione quale higher Law.
Dopo aver affermato che «non si può presumere che una qualsiasi clausola della Costituzione sia intesa come non avente effetto», la Corte suprema inserì una riflessione destinata ad influenzare tutti i successivi sviluppi in materia di giustizia costituzionale: «o la Costituzione è la legge superiore, come tale non modificabile con procedure ordinarie, oppure ha il rango di legge ordinaria, e come gli altri atti, può essere modificata quando il potere legislativo lo decida. Se la prima alternativa è quella vera, allora una legge ordinaria, contraria alla Costituzione, non è legge; se è la seconda alternativa quella vera, allora le costituzioni scritte sono tentativi assurdi, da parte del popolo, di porre dei limiti a un potere per sua stessa natura non limitabile».
Pur nei diversi esisti e, soprattutto, nella differente teoria costituzionale che ne rappresenta il fondamento, anche nel sistema kelseniano il presupposto è dato dall’esistenza di una Costituzione rigida posta al vertice del sistema, «base indispensabile delle norme giuridiche che regolano la condotta reciproca dei membri della collettività statale e così pure di quelle che determinano gli organi necessari per applicarle ed imporle, ed il modo in cui tali organi dovranno procedere, cioè, in definitiva, l’assetto fondamentale dell’ordinamento statale»[2].
L’annullamento di un atto contra Constitutionem ad opera di un Tribunale (e attraverso una procedura) ad hoc era, del resto, per il Maestro di Praga il corollario diretto della piena normatività della Costituzione, non potendosi immaginare che l’obbligatorietà della Legge fondamentale risultasse sguarnita di mezzi idonei a garantirla.
Si tratta, come è evidente, di una succinta (e necessariamente parziale) descrizione di alcuni tratti fondanti l’idea stessa di giustizia costituzionale, la cui esistenza, oggi, non può essere spiegata solo con il riferimento al mero carattere di rigidità di una Carta costituzionale. Invero, «gli organi “di garanzia” (…) hanno l’originaria e prioritaria funzione della difesa non solo della rigidità delle Costituzioni positive (formali-vigenti), ma anche dell’intangibilità del c.d. “nucleo duro” delle stesse»[3].
Tuttavia, tali coordinate di riferimento possono rappresentare un ausilio per tentare di rispondere alla domanda che dà il titolo all’odierno seminario, potendo a primo acchito apparire forzoso discorrere di giustizia costituzionale con riguardo ad un ordinamento, come quello europeo, per il quale è incerta l’esistenza stessa di una Costituzione.
 
 
2. La duplice valenza della locuzione “giustizia costituzionale europea”
 
Con l’espressione giustizia costituzionale europea può indicarsi tanto la comunitarizzazione dei sistemi domestici di giustizia costituzionale, quanto la costituzionalizzazione dei meccanismi predisposti dall’Unione a garanzia della primautè del diritto comunitario.
Sotto il primo profilo, può con un certo grado di sicurezza sostenersi che l’ingresso del diritto U.E. stia determinando sempre più un livellamento dei sistemi nazionali di giustizia costituzionale verso un modello ispirato a princìpi uniformi.
Non v’è dubbio, ad esempio, che nei sistemi improntati sul c.d. modello europeo-kelseniano, il carattere accentrato del controllo di legittimità costituzionale – aspetto, forse, più importante ma non unico della giustizia costituzionale – si attenua, in virtù del potere-dovere dei giudici non solo di interpretare il diritto interno in senso comunitariamente conforme, ma anche di disapplicare la legge nazionale in eventuale contrasto con il diritto comunitario.
In altri termini, la tendenziale comunitarizzazione della giustizia costituzionale da un lato determina la deminutio potestatis dei Tribunali costituzionali, dall’altro, invece, orienta i modelli di controllo della legittimità verso forme maggiormente rispondenti alle logiche della judicial review of legislation.
In quest’ottica, pertanto, alla domanda che dà il titolo all’odierno seminario (Verso una giustizia costituzionale europea?) tenderei a rispondere in senso affermativo.
Laddove, invece, si consideri la seconda accezione della locuzione “giustizia costituzionale europea” – prospettiva lungo la quale si muoveranno le riflessioni che seguono – è forse opportuna maggiore cautela.
La valutazione del grado di costituzionalizzazione della giustizia dell’Unione richiede, infatti, di prestare attenzione sia alla natura dell’oggetto (costituzionale o meno) di tale giustizia, sia al ruolo dei soggetti in vario modo chiamati ad applicare gli strumenti di garanzia previsti dall’ordinamento europeo per assicurare la tenuta dell’acquis communautaire.
In particolare, non può trascurarsi che, accanto alla posizione certamente di rilievo dei giudici comunitari, v’è da considerare anche il ruolo della Corte di giustizia, che per un verso si presenta come giudice di ultima istanza nell’interpretazione uniforme del diritto comunitario e, per altro verso, come unico giudice cui spetta l’annullamento degli atti derivati dell’Unione, laddove ritenuti in contrasto con i Trattati.
L’interrogativo, pertanto, finisce per involgere la natura della Corte di Lussemburgo e la sua ascrivibilità, o meno, tra i Tribunali costituzionali di stampo kelseniano.
Del resto, il problema della qualificazione da attribuire al giudice dell’Unione non è di poco momento. Basti pensare alle ricadute che l’esistenza di un Tribunale costituzionale dell’Unione avrebbe tanto sul modello europeo, quanto sull’individuazione di un modello comunitario di giustizia costituzionale.
 
 
3. La primautè del diritto comunitario nella prima giurisprudenza della Corte di Lussemburgo come elemento dell’integrazione (ma non di una costituzionalizzazione della giustizia) europea
 
Nella dimensione olistica della giustizia costituzionale, come forma di garanzia di una Costituzione intesa quale fonte normativa suprema, potrebbe sostenersi che anche in ambito comunitario si sia voluto instaurare un sistema di giustizia costituzionale, latamente inteso, come forma di garanzia della primautè del diritto europeo.
I germi del sistema andrebbero già rintracciati nella sentenza Van Gend en Loos del 1963 con cui, come noto, la Corte di giustizia della (allora) Comunità economica europea non solo elaborò il primo canovaccio dello statuto dei rapporti tra ordinamento comunitario ed ordinamento interno, ma gettò le basi per una ridefinizione del ruolo della Corte stessa all’interno del sistema CE.
Ed infatti, si affermò che il Trattato di Roma aveva inteso creare «un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini», con conseguente attribuzione a questi di diritti soggettivi non solo espressi ma anche «come contropartita di precisi obblighi imposti dal trattato ai singoli, agli Stati membri o alle istituzioni comunitarie».
Nell’opera, per un verso, di attenuazione della coloritura internazionalistica dell’ordinamento comunitario e, per altro verso, di riconoscimento di centralità ai singoli, quali titolari di posizioni giuridiche comunitarie direttamente azionabili, «il giudice comunitario intravede e fa intravedere al contempo e specularmente, un proprio ruolo diverso, quello di giudice dei doveri e dei diritti dei singoli: non è poco e non è senza conseguenze sull’evoluzione della giurisprudenza della Corte e sul ruolo da essa svolto nel processo di integrazione comunitaria»[4].
È con la sentenza Costa c. Enel del 1964 che la Corte aggiunge un ulteriore tassello alla definizione del contesto entro cui (anche) il giudice comunitario si trova ad operare.
A tal uopo, la Corte di Lussemburgo sottolineò che «a differenza dei comuni trattati internazionali, il trattato Cee ha istituito un proprio ordinamento giuridico, integrato nell’ordinamento giuridico degli stati membri all’ atto dell’ entrata in vigore del trattato e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare. Infatti, istituendo una comunità senza limiti di durata, dotata (…) di poteri effettivi provenienti da una limitazione di competenza o da un trasferimento di attribuzioni degli stati alla comunità, questi hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato quindi un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi».
In tale quadro, si inserì per la prima volta ed in modo esplicito l’affermazione della preminenza del diritto comunitario sul diritto nazionale, dimostrata dal carattere vincolante e non derogabile attribuito ai regolamenti dal Trattato, che sarebbe rimasto, sul punto, privo di significato se uno Stato avesse potuto unilateralmente annullare con un qualsiasi provvedimento interno gli effetti della fonte comunitaria derivata.
Con la sentenza Internationale Handelsgesellschaft del 1970, la Corte, in sede di decisione su rinvio pregiudiziale di validità, si spinse oltre ed affermò il principio della primautè anche su norme interne di rango costituzionale. Infatti, «il richiamo a norme o nozioni di diritto nazionale nel valutare la legittimità di atti emananti dalle istituzioni della comunità menomerebbe l’unità e l’efficacia del diritto comunitario. La validità di detti atti può essere stabilita unicamente alla luce del diritto comunitario. Il diritto nato dal trattato, che ha una fonte autonoma, per sua natura non può, infatti, trovare un limite in qualsivoglia norma di diritto nazionale senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che sia posto in discussione il fondamento giuridico della stessa comunità».
Queste premesse vengono compiutamente affinate nella successiva sentenza Simmenthal del 1977, in cui la Corte ha individuato il noto principio di garanzia dell’effettività della primautè del diritto comunitario, in base al quale «il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale».
Si tratta di vicende ben note, che peraltro hanno visto protagonista, in parte, anche il nostro giudice costituzionale, all’inizio restio a mostrare cedimenti nei confronti della Corte di giustizia.
Se per un verso da tali vicende è derivata una benefica scossa per la comunitarizzazione della giustizia costituzionale domestica, per altro verso non sembra da esse potersi argomentare che la Corte di Lussemburgo abbia inteso, così, costruire anche per l’ordinamento comunitario un sistema lato sensu di giustizia costituzionale, improntato al modello diffuso della judicial review.
Invero, sebbene la Corte abbia fin dai primi anni offerto un contributo essenziale all’integrazione, il principio del primato del diritto comunitario «non è la scoperta dell’ultima ora, se è vero che un principio fondamentale ed antico del diritto internazionale, scolpito nella giurisprudenza e nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, preclude agli Stati di opporre il proprio diritto interno agli impegni sottoscritti liberamente in un trattato internazionale»[5].
Il concetto di prevalenza del diritto comunitario non è, dunque, di per sé sovrapponibile a quello ben diverso di Supremacy of Constitution, posto alla base di ogni sistema di giustizia costituzionale, dovendosi nella primautè individuare un criterio di prevalenza nell’applicazione (Anwendungsvorrang) della fonte comunitaria rispetto a quella interna.
 
 
4. La primautè del diritto comunitario e l’ingresso della tutela dei diritti fondamentali tra i parametri della Corte di giustizia (attraverso il “filtro” delle tradizioni costituzionali comuni)
 
Se negli arresti giurisprudenziali appena richiamati non sembra esservi traccia di una valutazione in termini costituzionali né dei trattati, né delle fonti comunitarie derivate da parte del giudice di Lussemburgo, il quale si muoveva comunque entro i confini di un ordinamento internazionale sui generis e con lo strumentario tipico di una corte internazionale, può tuttavia dirsi che utilizzando i propri precedenti il giudice europeo è giunto progressivamente ad assumere un ruolo affatto diverso nel sistema comunitario.
Superando l’originaria chiusura – giustificata inizialmente dal silenzio dei Trattati – nei confronti della tutela dei diritti fondamentali in ambito comunitario[6] e sviluppando alcune premesse già contenute nella menzionata sentenza Internationale Handelsgesellschaft (ma ancor prima nella sentenza Stauder del 1969) nella sentenza Nold del 1974 ma, in modo particolare, nella successiva sentenza Hauer del 1979, la Corte specificò che i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto, di cui (la Corte) garantisce l’osservanza; nel garantire la tutela di tali diritti, essa è tenuta ad ispirarsi alle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri e non potrebbe, quindi, ammettere provvedimenti incompatibili con i diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dalle costituzioni di tali stati; i trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo, cui gli stati membri hanno cooperato o aderito, possono del pari fornire elementi di cui occorre tenere conto nell’ambito del diritto comunitario».
Attraverso il richiamo alle tradizioni costituzionali comuni, il giudice europeo, per un verso, negò la rilevanza diretta delle disposizioni costituzionali nazionali nell’ordinamento comunitario e, per altro verso, sembrò «abbracciare l’idea di un vincolo, anche se non di tipo diretto, ai valori espressi dalle carte nazionali e pertanto (sembrò) concordare sulla necessità di declinare il principio di autonomia dell’ordinamento comunitario in modo non troppo spinto, ossia senza recidere del tutto i legami tra quell’ordinamento e gli ordinamenti nazionali»[7].
Del resto, si trattò, come noto, della risposta della Corte di giustizia alla c.d. teoria dei controlimiti, elaborata in chiave difensiva dalle Corti costituzionali domestiche, a salvaguardia del “nucleo duro” delle Costituzioni nazionali, rappresentato proprio dai diritti fondamentali della persona umana[8].
L’inclusione dei diritti all’interno dei principi generali del diritto comunitario e, soprattutto, il richiamo alle tradizioni costituzionali comuni consentirono, pertanto, alla Corte europea di stemperare un conflitto, che avrebbe rappresentato un ostacolo all’integrazione.
Attraverso la blindatura della primautè del diritto comunitario, che fu dotata di coloriture latamente costituzionali, si iniziò infatti a delineare un tessuto ordinamentale composto da princìpi, tradizioni costituzionali comuni e testi scritti di natura convenzionale, dai quali sarebbe scaturito un assetto «paragonabile a quello che è proprio dei principi e delle regole che costituiscono la costituzione di un paese a costituzione non scritta»
[9].
Come noto, gli esiti di questa giurisprudenza della Corte furono successivamente tradotti in disposizioni dei Trattati istitutivi, con le modifiche apportate dal Trattato di Maastricht prima e da quello di Amsterdam poi, che nell’istituire l’Unione europea introdussero il principio del rispetto dei diritti fondamentali «quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (…), e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto princìpi del diritto comunitario» (art. 6 TUE).
Per quel che interessa ai nostri fini, tuttavia, occorre evidenziare che con una giurisprudenza orientata (anche) alla tutela dei diritti fondamentali, la Corte europea rinforzò le basi della propria legittimazione all’interno della Comunità, collocandosi nella posizione non più e non solo di garante dei pacta servanda tra gli Stati, ma di giudice che, chiamato ad interpretare ed eventualmente invalidare gli atti delle Istituzioni comunitarie, comprende tra i propri parametri di giudizio i diritti fondamentali.
Non può, inoltre, non leggersi in trasparenza un esempio di raffinata astuzia giurisprudenziale.
Invero, l’aver proiettato all’interno dei principi di diritto comunitario la garanzia della tutela dei diritti fondamentali – attraverso il filtro delle tradizioni costituzionali comuni – ha permesso alla Corte di individuare non solo il crocevia dei rapporti interordinamentali ma anche il punto di contatto (più evidente nelle ipotesi di ricorso per annullamento di atti delle istituzioni europee) tra il modello di giudizio comunitario e quello tipico dei giudici costituzionali[10].
Si trattò, ad ogni modo, di un tentativo di maquillage della giustizia europea non pienamente riuscito.
Se dalle enunciazioni di principio si passa, infatti, all’analisi della giurisprudenza comunitaria ne emerge un quadro affatto diverso rispetto alle premesse teoriche, cui sembrava volersi ancorare la Corte.
Paradigmatica è, in proposito, la vicenda oggetto del caso Grogan del 1991, ove il problema dell’aborto non è letto – come, invece, nella giurisprudenza costituzionale – nel quadro di un bilanciamento tra diritti della madre e diritti del nascituro, ma attraverso il prisma di un contemperamento tra libertà di prestazione di servizi delle cliniche che praticano le interruzioni di gravidanza e diritti del non nato.
Ciò dimostra che «questo primo modello di tutela comunitaria dei diritti fondamentali sconta la sua natura, per così dire, “pretoria” anzitutto nell’assenza di riferimenti normativi interni all’ordinamento comunitario, poiché la Corte richiama parametri esterni al medesimo sistema e, come tali privi, dal suo punto di vista, di valore vincolante». Pur individuando nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e nella Cedu «la base normativa su cui fondare l’opera di enucleazione dei diritti fondamentali, (la Corte) in pari tempo proclama un forte controlimite, allorchè afferma che la tutela dei diritti fondamentali dev’essere assicurata entro l’ambito e le finalità della Comunità, che all’epoca sono ancora essenzialmente economiche»[11].
L’applicazione dei diritti fondamentali in un’ottica funzionale alle finalità economiche del diritto comunitario induceva, infatti, la Corte a «privilegiare gli interessi generali della Comunità – o più spesso un interesse alla conservazione del diritto comunitario – rispetto ai diritti individuali».
Il giudice europeo, da un lato, affermava il diritto in principio e, dall’altro, ne negava la rilevanza o la sussistenza nel caso di specie, oppure riscontrava l’affievolimento del diritto di fronte all’interesse comunitario.
In altri termini, «la Corte di giustizia sembra(va) a volte agire più come un giudice amministrativo che come un giudice costituzionale»[12].
 
 
5. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed il riconoscimento della sua efficacia giuridica vincolante
 
La lamentata mancanza di un catalogo dei diritti positivamente stabilito all’interno dell’Unione e, conseguentemente, le incertezze sulla natura costituzionale o meno della giurisdizione comunitaria sembrerebbero oggi esser state definitivamente superate dall’inserimento, tra le fonti del diritto europeo, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che è così uscita «da una condizione di marginalità sul piano applicativo e di efficacia giuridica delle proprie disposizioni, dopo che la incorporazione di essa all’interno del Trattato-costituzionale del 2004 era venuta a cadere e visto che la tentata “costituzionalizzazione” della medesima, come oggetto di ratifica in seno al Trattato di Roma aveva determinato non poche perplessità, emerse, poi, con l’abbandono dell’intero progetto»[13].
Non si può qui ripercorrere l’intero dibattito circa il valore (vincolante o meramente persuasivo-culturale) da attribuire alla Carta dei diritti prima della sua “consacrazione normativa” ad opera del Trattato di Lisbona[14].
La nuova formulazione dell’art. 6.1 del TUE stabilisce che l’Unione nel riconoscere «i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo» attribuisce a questa lo stesso valore giuridico dei trattati.
Come è stato puntualmente osservato, «l’acquisizione di efficacia giuridicamente vincolante, porta sul piano europeo a nuovo equilibrio l’obiettivo della tutela dei diritti fondamentali rispetto alle finalità economiche dell’Unione, operando fondamentalmente (…) nelle due direzioni della creazione di uno spazio europeo politico-costituzionale comune e condiviso nei principi fondanti da parte degli Stati membri e dell’affidamento all’Unione europea dello sviluppo di una e vera e propria politica dei diritti fondamentali nell’ambito dei compiti ad essa affidati dagli stessi Stati»[15].
In tal modo, pertanto, il diritto comunitario si arricchisce di una componente assiologico-valoriale affidata ad un testo scritto di natura vincolante e non più rimessa soltanto alla (non sempre omogenea) opera di individuazione dei diritti fondamentali da parte del giudice di Lussemburgo, che in sede di definizione del contenuto di ciascun diritto ha non di rado manipolato l’elastica nozione di tradizioni costituzionali comuni[16].
Ne consegue che, oltre a rappresentare un confine preciso all’esercizio del potere da parte delle istituzioni comunitarie, la Carta costituisce «un vincolo assai rilevante per la giurisprudenza comunitaria: un appoggio sicuro dal quale tenersi, senza doversi spingere in troppo articolati ed elaborati ragionamenti al fine di dimostrare che un diritto contestato è riconosciuto dalle tradizioni comuni, laddove se ne abbia appunto traccia nella Carta»[17].
Ad ogni buon conto, l’accresciuta valenza “costituzionale” del diritto comunitario per effetto dell’inserimento della Carta dei diritti fondamentali nel corpo dei trattati sembrerebbe aver aperto scenari di grande rilievo anche sul versante della configurabilità di una giustizia costituzionale europea o, secondo l’accezione qui seguita, di una costituzionalizzazione della giustizia comunitaria.
In particolare, si suole affermare che la trasformazione della Carta da documento politico meramente ricognitivo a fonte del diritto dell’Unione e, quindi, a parametro di giudizio cui anche la Corte di giustizia deve conformarsi nella sua attività interpretativa, offra un importante riscontro per attribuire alla Corte dell’Unione la natura di vero e proprio “giudice costituzionale”.
 
 
6. (segue) E la sua utilizzazione nella giurisprudenza della Corte: ambito di applicazione
 
L’inserimento tra le fonti europee di un catalogo scritto di diritti se, per un verso, può indurre a ritenere in parte mutato il ruolo del giudice comunitario, per altro verso, non rappresenta un sicuro sintomo dell’esistenza di un Tribunale costituzionale.
Sembra opportuno, piuttosto, spostare l’attenzione dal piano teorico alle concrete applicazioni pratiche della Carta da parte della Corte comunitaria, al fine di valutare se ed in che misura la Carta condizioni l’esercizio della giurisdizione comunitaria e, quindi, se il giudice europeo, alla luce della nuova formulazione dell’art. 6 TUE, abbia utilizzato la Carta come parametro sostanzialmente costituzionale dei giudizi.[18]
Preliminarmente, deve darsi conto di alcune pronunce in cui la Corte di Lussemburgo ha precisato i confini di applicazione della Carta.
Con disposizione di carattere generale, infatti, l’art. 6 TUE stabilisce che la Carta non può in alcun modo estendere le competenze dell’Unione definite nei Trattati.
Tale principio, ripreso nell’art. 51.2 della Carta, trova poi la sua “specificazione” nell’art. 51.1 della stessa, a norma del quale la Carta «si applica alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze».
La portata di questa disposizione è stata specificata dalla Corte di giustizia in diverse pronunce.
Dopo le “timide” aperture che sembravano potersi ricavare dalla sentenza Åklagaren Fransson (2013)[19], la Corte sembra ormai orientata a ritenere che l’ambito di applicazione della Carta (e, conseguentemente, l’intervento interpretativo del giudice di Lussemburgo su di essa) debba essere limitato ai casi in cui entri in gioco il diritto U.E. [20].
Tale principio lo si trova chiaramente ribadito, ad esempio, nelle sentenze rese sui casi Romeo (2013), Cruciano Siragusa (2014) e nel più recente Pelckmans Turnhout NV (2014), che rappresenta una sintesi dell’orientamento “restrittivo” della Corte in materia.
Il giudice europeo, nel caso da ultimo richiamato, ha ribadito che l’art. 51 deve essere interpretato nel senso «che i diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione sono destinati ad essere applicati in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, ma non possono trovare applicazione fuori di siffatte situazioni».
Ne consegue, quindi, che ove una situazione giuridica non rientri nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, la Corte non è competente al riguardo e le disposizioni della Carta eventualmente richiamate non possono giustificare tale competenza.
 
 
7. (segue): la Carta come parametro “debole”
 
Spostando adesso la focale d’indagine sul profilo della concreta utilizzazione della Carta come parametro, può da subito rilevarsi che l’orientamento della Corte – soprattutto nei primi anni successivi all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona – non è stato sempre coerente.
Si segnalano, in proposito, alcuni arresti giurisprudenziali in cui la Carta dei diritti è stata utilizzata, per lo più, a fini retorico-argomentativi per avvalorare i decisa della Corte di giustizia. Decisa assunti sulla base di una puntuale ricostruzione dei principi generali del diritto comunitario, siccome ricavabili dagli atti dell’Unione e, soprattutto, dalla giurisprudenza della Corte stessa (vedi, ad esempio, i casi Danosa e Chackroun del 2010).
Altre numerose volte la Corte, pur in presenza di un diritto espressamente sancito nella Carta dei diritti, non ha fatto a questa riferimento, nonostante espliciti richiami nell’atto di rinvio dei giudici a quibus (vedi, le sentenze sui casiSalahadin Abdullah, Bruno e Pettini, Sorge del 2010; Yoshikazu Iida, del 2012).
Nel medesimo filone, inserirei in parte anche la recentissima e ben nota sentenza Carratù in materia di lavoro a tempo determinato, ove il problema dell’interpretazione dell’art. 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato inserito nella direttiva 70 del 1999 è per intero risolto attraverso il richiamo ai principi generali di non discriminazione e, soprattutto, dei precedenti della Corte.
Segnalo, inoltre, un’interessantissima sentenza del 4 luglio 2013, pronunciata dalla Corte di giustizia in una procedura per inadempimento ex art. 258 TFUE nei confronti dell’Italia per non corretto recepimento dell’art. 5 della direttiva 78 del 2000, in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro dei soggetti disabili.
L’inadeguatezza delle misure adottate in concreto dall’Italia rispetto a quanto previsto dalla direttiva è stata valutata non solo alla stregua del tenore della direttiva e di precedenti giurisprudenziali della Corte sul principio di non discriminazione sul lavoro nei confronti dei disabili, ma soprattutto facendo leva sulla definizione olistica di disabilitàcontenuta nella Convenzione ONU sui diritti dei disabili che non funge da elemento per l’integrazione della Carta dei diritti dell’Unione (e, in particolare, dell’art. 21, degli artt. 15 e 31) ma da parametro, per dir così, diretto del giudizio. In altri termini, la direttiva deve, secondo la Corte, essere letta alla luce dei principi espressi nella predetta Convenzione, che contiene forme di garanzia più estesa dei diritti dei disabili.
 
 
8. (segue): la Carta come parametro (latamente) “costituzionale”
 
Altre volte la Corte ha, invece, utilizzato la Carta come parametro diretto per interpretare o invalidare le fonti comunitarie.
Segnalo, in proposito, la sentenza J. McB (2010), relativa alle complesse interazioni tra fonti nazionali, regolamenti comunitari, convenzioni internazionali e Carta dei diritti in tema di affidamento e sottrazione dei figli naturali, nonché la sentenza Volker und Markus Schecke (2010), in cui un regolamento che disciplinava la pubblicazione dei nominativi dei destinatari di aiuti finanziari dell’Unione è stato dichiarato invalido, poiché il legislatore comunitario non aveva in tal modo adeguatamente operato un bilanciamento tra tutela della riservatezza (ex artt. 7 e 8 della Carta) e principio di trasparenza dell’amministrazione.
Un altro esempio sul punto è dato anche dalla sentenza Association belge des Consommateurs Test-Achats ASBL (2011), con la quale è stata dichiarata l’invalidità parziale di una direttiva comunitaria  per contrasto con gli artt. 21 e 23 della Carta.
In questo filone si inserisce, inoltre, la recentissima sentenza della Corte di giustizia dell’8 aprile 2014 con la quale è stata annullata la direttiva n. 24 del 2006 in materia di conservazione dei dati. (data retention).
La questione di legittimità della direttiva era stata sollevata dall’Alta corte irlandese e dalla Corte costituzionale austriaca in sede di rinvio pregiudiziale non di interpretazione ma di validità, ex art. 267 TFUE, di un atto di diritto comunitario derivato.
In particolare, la High Court e il Verfassungsgerichtshof avevano chiesto alla Corte di giustizia di esaminare la validità della direttiva, segnatamente alla luce di due diritti fondamentali garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ossia il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla protezione dei dati di carattere personale[21].
In virtù di tale direttiva, infatti, si obbligavano i fornitori di servizi di comunicazioni elettroniche, a conservare alcuni dati degli utenti, tra cui l’orario della chiamata ed il numero chiamato.
La Corte, pur ritenendo trattarsi di strumenti utili ai fini di indagini investigative soprattutto volte alla repressione dei reati di matrice terroristica, ha specificato che l’interesse generale alla sicurezza non può in modo sproporzionato (ed irragionevole) sacrificare il diritto ad una vita privata ed alla protezione dei propri dati personali espressamente previsti negli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali, alla luce dei quali è stata appunto annullata la direttiva in parola.
Dopo aver ricostruito il contenuto dei citati diritti, la Corte ha valutato se, nella fattispecie sottoposta al suo esame, sussistessero le tre condizioni richieste dal comma 1 dell’art. 52 della Carta perché un diritto possa essere limitato: previsione di legge; rispetto del contenuto essenziale; sussistenza di interessi di carattere generale che giustifichino la limitazione, fatto salvo il rispetto del principio di proporzionalità.
Secondo i giudici di Lussemburgo, la direttiva, in astratto, rispettava il contenuto essenziale dei diritti alla vita privata ed alla protezione dei dati personali e rispondeva effettivamente a scopi di interesse generale.
Tuttavia, alla luce del canone di proporzionalità, il bilanciamento effettuato in sede comunitaria determinava un’intollerabile attenuazione dei diritti fondamentali di cui agli artt. 7 e 8 della Carta, con conseguente illegittimità della direttiva in parola.
È stato osservato che con tale pronuncia la Corte ha ritrovato la propria «vocazione costituzionale (…). Scegliendo di far propri gli argomenti con cui i giudici tedeschi, cechi, bulgari e rumeni hanno a vario titolo bloccato i provvedimenti nazionali di attuazione, i giudici del Lussemburgo non hanno soltanto eliminato una delle più importanti cause di attrito con le giurisdizioni nazionali, ma hanno anche posto le basi per il superamento di una pratica pericolosamente lesiva di basilari libertà individuali e fissato dei limiti precisi per l’eventuale futura adozione di testi normativi in materia di sicurezza»[22].
Sempre in materia di protezione dei dati si segnala il recente caso Google Spain (13 maggio 2014), nel quale (come erroneamente ed in modo parziale viene sottolineato in ambienti giornalistici) è stato riconosciuto il c.d. “diritto all’oblio in Internet”.
La pronuncia è stata resa in sede di rinvio pregiudiziale concernente l’interpretazione degli articoli 2, lettere b) e d), 4, paragrafo 1, lettere a) e c), 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46/CE relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati.
In detta sentenza, che contiene profili di grande interesse sul versante della disciplina dei servizi di gestione di siti web, il giudice comunitario ha riconosciuto che «se indubbiamente i diritti della persona interessata (tutelati dagli artt. 7 e 8 della Carta), di norma, prevalgono anche sull’interesse degli utenti di Internet, tale equilibrio può nondimeno dipendere, in casi particolari, dalla natura dell’informazione di cui trattasi e dal suo carattere sensibile per la vita privata della persona suddetta, nonché dall’interesse del pubblico a disporre di tale informazione, il quale può variare, in particolare, a seconda del ruolo che tale persona riveste nella vita pubblica».
Sulla base di tale ragionamento, la Corte ha finito in sostanza per disporre una “delega di bilanciamento in concreto”[23] rimessa ai singoli giudici chiamati a valutare, caso per caso, se l’interessato abbia diritto a che l’informazione riguardante la propria persona non venga più, allo stato attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome, senza per questo che la constatazione di un diritto siffatto presupponga che l’inclusione dell’informazione in questione in tale elenco arrechi un pregiudizio a detto interessato.
Infatti, «dato che l’interessato può, sulla scorta dei suoi diritti fondamentali derivanti dagli articoli 7 e 8 della Carta, chiedere che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico in virtù della sua inclusione in un siffatto elenco di risultati, i diritti fondamentali di cui sopra prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse di tale pubblico ad accedere all’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona. Tuttavia, così non sarebbe qualora risultasse, per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi».
Occorre, inoltre, sottolineare l’importanza della recente sentenza Glatzel (22 maggio 2014), pronunciata in sede di ricorso pregiudiziale di validità dell’Allegato III, punto 6.4 della Direttiva 2006/126/CE concernente il rilascio della patente di guida per veicoli a motore in presenza di minimi requisiti di idoneità fisica e, in particolare, di acutezza visiva.
Al sig. Glatzel era stata, infatti, negata la patente di guida, giacché l’acutezza visiva di uno dei suoi occhi non raggiungeva il minimo prescritto all’allegato III, punto 6.4, di detta direttiva.
Secondo il giudice a quo tale allegato si poneva in contrasto con gli articoli 20, 21, paragrafo 1, e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (rispettivamente concernenti l’uguaglianza davanti alla legge, la non discriminazione fondata sulla disabilità e l’inserimento delle persone con disabilità), così come integrati dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.
La Corte ha ritenuto infondati i dubbi di legittimità avanzati dall’autorità rimettente, svolgendo un ragionamento che è opportuno in sintesi ricostruire.
Dopo aver sottolineato che il principio di non discriminazione fondata sulla disabilità enunciato all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta è una particolare espressione del principio generale della parità di trattamento, la Corte ha ribadito il proprio costante orientamento, secondo cui il legislatore dell’Unione, conformemente al disposto dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, non può trattare situazioni analoghe in maniera diversa e situazioni diverse in maniera uguale, a meno che tale trattamento non sia obiettivamente giustificato. Una differenza di trattamento è giustificata se si fonda su un criterio obiettivo e ragionevole, vale a dire qualora essa sia rapportata a un legittimo scopo perseguito dalla normativa in questione e tale differenza sia proporzionata allo scopo perseguito dal trattamento di cui trattasi.
Nel quadro di questa ricostruzione del principio di non discriminazione, il giudice di Lussemburgo svolge le ulteriori valutazioni circa il preteso contrasto tra l’Allegato ed i parametri della Carta.
In particolare, si chiarisce che di per sé la nozione di «disabilità» non è definita dalla Carta e, pertanto, occorre far riferimento alla convezione ONU. Ne consegue, che anche nel diritto dell’Unione, la disabilità deve essere intesa come una limitazione risultante segnatamente da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, la quale, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva integrazione della persona interessata su base di uguaglianza con gli altri consociati.
Ad ogni modo, a parere della Corte, valutare o meno la disabilità del soggetto escluso dal rilascio della patente non sarebbe stato conferente ai fini del giudizio, in quanto la definizione di requisiti minimi di idoneità fisica da parte del legislatore comunitario era rispondente a ragioni di interesse generale alla sicurezza della circolazione stradale.
 
 
9. La portata della Carta dei diritti fondamentali con precipuo riguardo alla distinzione tra “principi” e “diritti”
 
Sebbene rappresenti la prima decisione ove la Corte ha fatto – dopo Lisbona – un espresso (ma, per così dire, rapido) richiamo alla Carta dei diritti fondamentali come parte integrante del diritto dell’Unione, la sentenza Kucukdeveci del gennaio 2010 merita separata attenzione per i riflessi sul sistema di giustizia costituzionale europea[24].
Nella specie, la Corte era stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale da un tribunale tedesco sull’interpretazione del principio di non discriminazione in base all’età e della direttiva del Consiglio 2000/78/CE in tema di parità di trattamento dei lavoratori.
La normativa tedesca in tema di licenziamento individuale prevedeva che il preavviso di licenziamento fosse commisurato all’anzianità di servizio.
La Signora Kucukdeveci lamentava che l’azienda per la quale aveva lavorato dieci anni (da quando ne aveva diciotto), l’avesse licenziata con un minimo preavviso, in virtù di una disposizione del BGB che esclude dal computo i servizi prestati prima del compimento del venticinquesimo anno di età.
Il giudice del rinvio – un rinvio, peraltro, risalente ad epoca precedente l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona – aveva rilevato il contrasto tra norme interne e direttiva comunitaria (i cui termini di recepimento erano scaduti al momento del giudizio), che vieta anche le discriminazioni fondate sull’età.
La Corte di giustizia ha rilevato in primo luogo che il principio di non discriminazione in base all’età deve essere considerato un “principio generale del diritto dell’Unione” e, attraverso il richiamo all’art. 6 TUE, ha inserito un riferimento all’art. 21, c. 1, della Carta, che vieta, tra le altre discriminazioni, quella fondata appunto sull’età.
Attraverso il richiamo alla Carta, tuttavia, la Corte non ha inteso conferirle efficacia costituzionale, ma utilizzarla per sostenere, in punto di argomentazione, l’esistenza di un principio generale dell’ordinamento comunitario. L’intero ragionamento dei giudici è, infatti, improntato sulla ricostruzione dei propri precedenti in materia di non discriminazione.
Al di là del richiamo alla Carta, comunque, la sentenza Kucukdeveci – come è stato osservato in dottrina[25] – assume un indubbio rilievo sotto il profilo della configurazione di una “giustizia costituzionale europea”.
In quest’occasione, infatti, la Corte di giustizia (svolgendo alcune premesse già presenti nella sentenza Mangold del 2005), ha affermato che, in virtù del principio del primato del diritto dell’Unione, il giudice nazionale ha il potere/dovere di disapplicare – anche con riguardo ai c.d. rapporti orizzontali tra privati – le norme nazionali in contrasto con un principio generale (quale quello della parità di trattamento), siccome specificato (anche) in direttive non self executing (e, nella fattispecie in esame, non ancora recepite, né scadute).
Le conclusioni cui è pervenuta la Corte non sono di poco momento.
Ed infatti è stato in tal modo accresciuto ulteriormente il ruolo dei giudici nazionali «i quali, per effetto della ricostruzione appena ricordata, si trovano investiti del potere/dovere di disapplicare disposizioni legislative interne (anche) nell’ipotesi in cui queste contrastino con principi generali del diritto comunitario (…) (a) contenutisticamente specificati (o… “espressi concretamente”) e (b) “processualmente” resi applicabili alla fattispecie ad opera di direttive (anche non recepite; e, quanto al primo aspetto, anche non “scadute”)»[26].
Secondo l’opinione dottrinale appena richiamata, dalla sentenza in parola avrebbero potuto ricavarsi le coordinate per un sistema di giustizia costituzionale europea caratterizzato da un’accentuazione del carattere “diffuso”, atteso che al giudice nazionale avrebbe dovuto attribuirsi il ruolo di custode delle norme in senso lato costituzionali dell’Unione. Invero, portando alle estreme conseguenze la ricostruzione offerta dalla Corte, il giudice comune avrebbe potuto disapplicare – pur negli ambiti applicativi stabiliti dall’art. 51 della Carta – atti interni in eventuale contrasto con i diritti della Carta.
Tali suggestioni sembrano oggi dover essere, in parte, ridimensionate alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di giustizia.
Il riferimento va, in particolare, alla sentenza Association de médiation sociale(gennaio 2014),in cui il giudice di Lussemburgo ha specificato la portata applicativa dell’art. 52.5 della Carta, a norma del quale le disposizioni «che contengono dei principi possono essere attuate da atti legislativi e esecutivi adottati da istituzioni, organi e organismi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell’Unione, nell’esercizio delle loro rispettive competenze. Esse possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti».
Secondo i giudici di Lussemburgo – che in tal modo hanno affrontato una questione solo lambita nella precedente sentenza Dominguez (2012) – vi sono disposizioni della Carta direttamente applicabili ai rapporti “orizzontali” (tra privati) e disposizioni che, invece, richiedono la necessaria interpositio legislatoris.
Nella prima ipotesi rientrerebbe, ad esempio, il principio di non discriminazione in base all’età ex art. 21.1 come peraltro affermato – senza un esplicito richiamo all’efficacia orizzontale della Carta – nella sentenza Kucukdeveci. Si tratterebbe, infatti, di un principio di per sé sufficiente per conferire ai singoli un diritto soggettivo invocabile in quanto strutturalmente idoneo a produrre effetti diretti, senza necessità di una direttiva che ne specifichi il contenuto.
Altre disposizioni della Carta, invece, sarebbero ascrivibili tra i “principi” non immediatamente applicabili e bisognevoli di un’opera di concretizzazione da parte del diritto dell’Unione o di quello nazionale. Un esempio è fornito dall’art. 27 della Carta, che assicura il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa e che, secondo il giudice comunitario non può essere invocato per disapplicare una norma interna non conforme a una direttiva Ue.
 
 
10. L’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali nell’interpretazione della Corte di giustizia: il caso Melloni e la super-primautè” del diritto comunitario
 
L’attribuzione di efficacia normativa alla Carta dei diritti dell’Unione europea ha riproposto, in chiave diversa, l’annoso problema del rapporto tra livelli di tutela (comunitario e nazionale) dei diritti fondamentali.
Disposizione di rilievo è, sul punto, l’art. 53 della Carta, a norma del quale «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione, la Comunità o tutti gli Stati membri sono parti contraenti, in particolare la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle Costituzioni degli Stati membri».
Si tratta di una clausola di salvaguardia che consacra il c.d. principio del trattamento di maggior favore, peraltro non nuovo nelle Carte internazionali sui diritti (si pensi, ad esempio, a quanto previsto nell’art. 27 della Convenzione di Oviedo), ma che nel contesto comunitario assume un valore di assoluto rilievo.
Tra diritto interno, diritto Cedu e diritto U.E dovrà, dunque, prevalere la disposizione maggiormente protettiva, senza che venga stabilita alcuna prevalenza gerarchica aprioristicamente determinata tra fonti sui diritti, il che si traduce – ancora una volta – in una delega di bilanciamento affidata in primo luogo ai giudici di Lussemburgo, ai quali spetterà di individuare il livello più elevato di protezione per i diritti, tenendo in debito conto anche le soluzioni offerte in ambito nazionale.
La disposizione va, peraltro, letta in stretto collegamento con l’art. 4.2 del TUE a norma del quale  l’Unione rispetta l’identità nazionale degli Stati membri insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale.
Ne consegue che nell’interpretazione dei diritti e, soprattutto, nell’opera di individuazione del livello di maggior tutela, la Corte di giustizia dovrà confrontarsi con il “patrimonio costituzionale domestico”, componente essenziale del quale è, appunto, la tutela dei diritti fondamentali siccome garantita dalle Costituzioni (e dai singoli Tribunali costituzionali) nazionali.
Ben si comprende, pertanto, il potenziale conflittuale sotteso all’art. 53 della Carta, soprattutto laddove si considerino i non facili rapporti tra Corte di giustizia e Corti costituzionali, già in concreto manifestatisi prima dell’entrata in scena della Carta dei diritti.
Conflitto che non ha tardato a realizzarsi nella c.d. vicenda Melloni, risolta dalla Corte con l’omonima sentenza del 2013[27].
Come noto, i giudici di Lussemburgo erano stati investiti di una questione pregiudiziale di interpretazione (e, in subordine, di validità) dell’art. 4 bis della decisione quadro 2002/584 relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna, come modificata dalla 2009/299/Gai.
Tra le tante questioni sottoposte al giudizio della Corte di giustizia, giova ricordare il dubbio sollevato dal Tribunale costituzionale spagnolo circa la possibilità per lo Stato di esecuzione di subordinare l’attuazione di un mandato di arresto alla condizione che il procedimento in contumacia che ha condotto alla condanna possa essere oggetto di revisione.
Stefano Melloni, cittadino italiano, era stato condannato in contumacia per bancarotta fraudolenta.
Le autorità spagnole avevano disposto la consegna del condannato, il quale aveva impugnato con recurso de amparo il provvedimento ritenendo che vi fosse stata una violazione dell’art. 24 della Costituzione spagnola, in quanto la consegna non era stata condizionata alla possibilità di chiedere una revisione del processo.
La Corte di Lussemburgo ha chiarito che l’articolo 4 bis prevede che lo Stato di esecuzione possa rifiutare la consegna se l’interessato non sia comparso personalmente nel processo ma questo non nel caso in cui il condannato sia stato informato in anticipo dell’inizio del processo o abbia nominato dei legali che lo hanno poi effettivamente difeso, come effettivamente era avvenuto nel caso di Melloni.
Secondo la Corte europea, lo Stato di esecuzione non poteva condizionare l’esecuzione del provvedimento alla revisione del processo. Ne conseguiva che non poteva considerarsi violato l’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali, che assicura il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva, laddove l’interessato abbia rinunciato sua sponte alla comparizione in giudizio. Tale, del resto, era stata la lettura fornita dalla Corte di Strasburgo in sede di interpretazione dell’art. 6 Cedu.
Ma è l’ultima delle questioni affrontata dalla Corte a meritare maggiore attenzione ai fini che qui interessano.
Il giudice europeo, infatti, ha analizzato la portata dell’articolo 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, individuando nella primautè del diritto comunitario sul diritto nazionale il criterio guida per la risoluzione di eventuali conflitti tra livelli di tutela.
Secondo i giudici europei, l’interpretazione avanzata dal Tribunale costituzionale spagnolo sarebbe stata lesiva del principio del primato del diritto dell’Unione, in quanto avrebbe consentito a uno Stato membro di ostacolare l’applicazione di atti di diritto dell’Unione, conformi alla Carta, sulla base del rilievo che tali atti si sarebbero posti in contrasto con i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione nazionale.
La premessa del ragionamento condotto dalla Corte di giustizia è stata rappresentata dalla consolidata giurisprudenza in tema di principio del primato del diritto dell’Unione, quale elemento di struttura dell’ordinamento giuridico dell’Unione: «il fatto che uno Stato membro invochi disposizioni di diritto nazionale, quand’anche di rango costituzionale, non può sminuire l’efficacia del diritto dell’Unione nel territorio di tale Stato».
Ne consegue, secondo i giudici di Lussemburgo, che l’articolo 53 non consente di rimettere in discussione «l’uniformità dello standard di tutela dei diritti fondamentali definiti dalla decisione quadro» perché ciò «nuocerebbe ai principi di fiducia e riconoscimento reciproci» che l’atto Ue mira a rafforzare.
Si tratta di una pronuncia che mostra un nervo scoperto nel sistema integrato di tutela dei diritti in Europa e che mal si concilia «con la previsione di cui all’art. 4 del trattato di Lisbona, che vuole scrupolosamente osservati i principi di struttura degli Stati membri dell’Unione, con specifico riguardo alla salvaguardia (la più “intensa” possibile, appunto) dei diritti inviolabili dell’uomo, nel suo fare “sistema” col principio di eguaglianza e coi principi restanti»[28]. 
 
 
11. Una Corte alla ricerca della propria identità costituzionale: la “diffusione” del modello di europeo di giustizia costituzionale come mezzo di legittimazione di un sistema comunitario di giustizia costituzionale a vocazione “accentrata”.
 
Si è già detto che l’angolo prospettico prescelto per lo svolgimento della riflessione qui proposta sulla c.d. giustizia costituzionale europea non è rappresentato dalle trasformazioni (comunitarizzazione) dei sistemi domestici di giustizia costituzionale, ma da quella che si è definita costituzionalizzazione della giustizia europea[29].
Sono due piani che, a mio avviso, vanno tenuti ben distinti per evitare sovrapposizioni concettuali (e conseguenti fraintendimenti).
Dal punto di vista della comunitarizzazione, intesa come livellamento dei sistemi nazionali di giustizia costituzionale verso un modello ispirato a princìpi uniformi (soprattutto in materia di tutela dei diritti fondamentali ed in particolare alla luce delle sentenze Kücükdeveci e Association de médiation sociale ), declinato sulle logiche della judicial review of legislation, la “giustizia costituzionale europea” rappresenta ormai un’acquisizione, che impone forse la rimeditazione dei modelli (tanto di tutela dei diritti, quanto) di giustizia costituzionale[30].
Del resto, la parziale abdicazione dei Tribunali costituzionali dal tradizionale ruolo loro attribuito all’interno del modello kelseniano deve essere, in parte, ricondotta al mutamento di senso delle Costituzioni nazionali, che nel contesto europeo si sono, quasi per necessità, flessibilizzate anche e soprattutto sul versante dei diritti[31].
Basti pensare, in proposito, a quanto nella sua relazione ha messo in evidenza il Prof. Cariola: l’integrazione dei parametri costituzionali, il loro arricchirsi di contenuti del tutto nuovi, l’estensione dei confini delle disposizioni sui diritti definiti in Costituzione ne rappresentano un palpabile esempio.
A ciò si aggiunga il dato di non poco momento dell’integrazione dei parametri non solo attraverso il riferimento alla normativa comunitaria, ma anche mediante il richiamo alla giurisprudenza della Corti Edu, le cui pronunce sono caratterizzate spesso dalla concretezza connessa alla risoluzione di specifici casi di vita. Concretezza che si riflette, quindi, sulla lettura (e sulla natura) dei parametri costituzionali di giudizio.
Anche quel che ci ha detto il Prof. Giupponi sugli effetti della crisi economica e sulla gestione “comunitaria” di questa ci dimostra, in parte, la “malleabilità” delle Costituzioni nazionali, all’interno delle quali, su espressa indicazione degli organi dell’Unione, sono state inserite disposizioni specifiche sul c.d. “pareggio di bilancio”[32].
Altro e diverso discorso merita, invece, il problema della costituzionalizzazione della giustizia europea, che si risolve, nell’ottica qui seguita, nell’individuazione  – o meno – della Corte di giustizia come giurisdizione costituzionale, pur in mancanza di una precisa qualificazione in tal senso nei Trattati.
Gli orientamenti ondivaghi e non sempre lineari della giurisprudenza sopra richiamata sembrano, comunque, consigliare una certa prudenza nella configurazione della Corte di giustizia siccome giudice costituzionale.
Se, infatti, ci si fermasse al dato positivo dovrebbe piuttosto sostenersi che si tratta di un tribunale “ibrido”, la cui natura non può essere ricostruita in termini univoci. Infatti, la pluralità di funzioni esercitata dalla Corte determina, al contempo, una pluralità di tecniche decisorie ed argomentative, che tendono ad avvicinarla ora ad un giudice civile, ora alle forme di un giudice amministrativo.
Per altri versi, invece, la Corte ha forgiato, partendo dalla lettera dei Trattati, l’armamentario tipico di un giudice costituzionale, applicando modelli di giudizio e tecniche decisorie proprie delle Corti costituzionali[33].
Si pensi, in primo luogo, alla centralità del meccanismo di rinvio pregiudiziale – di cui ci ha parlato il Prof. Raiti – attraverso cui la Corte, oltre a svolgere un sindacato interpretativo su tutto il diritto comunitario e un sindacato di validità sul diritto comunitario derivato, ha esercitato anche una forma di indiretto sindacato sul diritto nazionale, ove il parametro è stato rappresentato dal diritto comunitario primario e derivato. «E tale sindacato può assumere talvolta una valenza in qualche modo costituzionale, laddove operato in riferimento ai diritti fondamentali, o meglio a quei particolari “principi generali” enucleati dalla Corte allo scopo di attribuire rilievo nell’ordinamento comunitario ai diritti fondamentali»[34].
A ciò deve aggiungersi, solo per fare un esempio, l’efficacia erga omnes delle pronunce adottate a seguito di una procedura di rinvio pregiudiziale, la modulazione degli effetti temporali delle pronunce di annullamento per invalidità, il ricorso a tecniche di giudizio fondate sul balancing test etc.
Elementi, questi, che sebbene avvicinino il giudice europeo ad un giudice costituzionale non possono essere considerati di per sé risolutivi.
Deve, semmai, tenersi presente che se l’istituzione delle giurisdizioni costituzionali è stata accompagnata ovunque da grandi incertezze sulle modalità di funzionamento, sui modelli (anche processuali) da seguire, sul ruolo che effettivamente avrebbero in concreto dovuto svolgere e, perfino, sulla loro natura giurisdizionale, la Corte di giustizia ha, invece, giocato di vantaggio.
Il giudice del Lussemburgo, infatti, ha operato (ed opera) in un terreno fertile per la giustizia costituzionale, in un contesto di consolidato funzionamento delle Corti costituzionali, di un loro radicamento nei sistemi nazionali.
Si innesta qui un’ulteriore rapida riflessione relativa al modello di giustizia costituzionale comunitaria.
Il tema meriterebbe altro approfondimento, soprattutto con riguardo alla dimensione eurounitaria del problema, ma mi limiterò in questa sede a porre solo alcuni punti di riflessione.
La Corte attraverso la propria attività interpretativa, l’enucleazione dei principi del diritto dell’Unione e l’individuazione del patrimonio costituzionale comune, nell’affermare la primautè del diritto comunitario ha, al contempo, contribuito a tessere i propri parametri di giudizio e, in definitiva, il terreno su cui innestare il proprio peculiare ruolo in ambito comunitario.
Attraverso l’esame della giurisprudenza comunitaria si è tentato di mettere in luce la progressiva evoluzione non solo dei rapporti tra ordinamento europeo ed ordinamenti nazionali, ma anche e soprattutto dello specifico ruolo assunto dalla Corte di giustizia nel sistema comunitario.
Invero, il processo di “potenziamento” della primautè del diritto comunitario sul diritto nazionale – trainato (soprattutto nei primi decenni di funzionamento della Comunità) in massima parte dal giudice europeo – si è compiuto attraverso l’opera di introiezione all’interno dell’ordinamento comunitario del “cruciale” tema della tutela dei diritti fondamentali.
Prevalenza del diritto comunitario e conseguente integrazione tra gli ordinamenti sono state, in tal modo, declinate in chiave costituzionale dalla Corte, in assenza di una reale politica costituente europea.
La giurisdizione, dunque, attraverso l’arma (forse più affilata ma al contempo più) nobile del costituzionalismo moderno – rappresentata appunto dalla tutela dei diritti – ha inciso profondamente sui successivi sviluppi dell’Unione.
Del resto «la connotazione dell’Unione come “comunità è legata allo sviluppo di un sistema di tutela dei diritti soggettivi, sempre più salda acquisizione da quando la Corte di giustizia ebbe ad affermare l’esistenza di una “comunità di diritto”, che né i suoi Stati membri, né le sue istituzioni sono sottratti al controllo della conformità dei loro atti “alla carta costituzionale fondamentale costituita dal Trattato CE»[35].
Mediante l’inserimento dei diritti fondamentali tra le componenti strutturali dell’ordinamento europeo, tuttavia, la Corte non ha soltanto guidato il traghettamento  verso la costituzionalizzazione dell’ordinamento comunitario, ma ha trasformato, al contempo, il proprio ruolo nel sistema, avvicinando il modello di giudizio comunitario a quello tipico dei giudici costituzionali.
In altri termini – riallacciandoci a quanto affermato in premessa – la Corte ha costruito essa stessa la condizione di “pensabilità” di un giudice e di una giustizia costituzionale dell’Unione a fronte della mancanza di una Costituzione tradizionalmente intesa.
L’entrata sulla scena comunitaria dei diritti fondamentali ha, del resto, condizionato il dibattito sulla c.d. “giustizia costituzionale europea”, appiattitosi spesso su quello della tutela dei diritti.
Basti solo un esempio: l’inserimento della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e, quindi, la positivizzazione di un catalogo di diritti, che la Corte di giustizia deve (recte: può) utilizzare come parametro di giudizio, ha rafforzato l’idea della configurabilità della Corte come Tribunale costituzionale dell’Unione.
Non v’è dubbio che l’esistenza di enunciati scritti sui diritti determini l’ulteriore avvicinamento delle forme della giustizia europea a quelle tipiche dei giudici costituzionali contemporanei: il giudice europeo ha il potere (quale giurisdizione di unica istanza) di annullare un atto delle istituzioni comunitarie, lesivo altresì dei diritti fondamentali.
Tuttavia non pare potersi per ciò solo affermare che vi sia giustizia costituzionale sol perché vi siano diritti (scritti o meno) da tutelare. In tal modo non si renderebbe del tutto onore al vero, sol che si pensi alla doppia anima della giustizia costituzionale: per un verso rimedio volto alla tutela di situazioni giuridiche soggettive, per altro verso strumento per la realizzazione di finalità di diritto oggettivo, di tenuta complessiva dell’ordinamento[36].
Ed è proprio su quest’ultimo estremo del corno che sembra muoversi ancora – nonostante alcuni vagiti dell’anima “soggettiva” del giudizio comunitario – il giudice di Lussemburgo, anche quando vengano in questione i diritti e la loro tutela.
Si pensi, solo a mo’ d’esempio, alla vicenda Melloni, ove la Corte, in nome della primautè, ha ritenuto prevalenti – oltrepassando l’espresso limite previsto dall’art. 4 TUE – le ragioni di coesione dell’ordinamento comunitario sulle esigenze di maggior tutela dei diritti fondamentali, ben presenti invece nelle argomentazioni del Tribunale costituzionale spagnolo.
Quel che, in altri termini, si vuole sostenere è che il carattere costituzionale del giudice europeo non dipende dal suo essere (solo) giudice dei diritti.
La costituzionalizzazione della giustizia comunitaria va letta, dunque, in un quadro complessivo ove la Corte continua a dover colmare il vuoto politico europeo, attraverso opere di tessitura di un ordinamento assai complesso, ove coesistono realtà costituzionali tra loro differenti[37].
Sotto questo profilo, assume particolare rilievo la funzione interpretativa del diritto comunitario posta in essere dalla Corte, la quale ha mostrato un intelligentestrabismo, per un verso attenta sì, alla risoluzione della questione sottopostale, ma al contempo guardando oltre la questione, tenendo sempre presenti gli equilibri – per così dire – politici non solo “interni” agli Stati ma anche e soprattutto tra gli Stati e, quindi, alla coesione tra questi[38].
Nel processo di costituzionalizzazione della giustizia comunitaria, pertanto, la Corte ha dovuto progressivamente cercare la propria legittimazione all’interno dello spazio giuridico europeo, ponendo in essere “strategie” di coesistenza con le realtà nazionali[39].
Ed è proprio in un’ottica di ricerca di legittimazione (tanto dell’ordinamento comunitario quanto del proprio ruolo), che potrebbe essere letta la progressiva “diffusione” dei sistemi interni di giustizia costituzionale favorita dalla Corte di giustizia fin dalla sentenza Simmenthal.
In altre parole, attraverso il potere-dovere di disapplicazione del diritto interno in eventuale collisione con il diritto comunitario (siccome interpretato dalla Corte), il giudice comunitario ha, per un verso, direttamente coinvolto i giudici nazionali nell’opera di costruzione (prima e di consolidamento, dopo) dell’ordinamento europeo e, per altro verso, creato la base – anche mediante sollecitazioni a ricorrere allo strumento del rinvio pregiudiziale – della propria centralità nel contesto “costituzionale” dell’Unione.
Sembrerebbe, dunque, profilarsi la costituzionalizzazione di un sistema “oggettivo” di giustizia comunitaria a vocazione accentrata, cui fa da pendant – per le ragioni anzidette – la diffusione dei sistemi nazionali di giustizia costituzionale (tendenzialmente) “soggettiva”.
 
 
 
 

 



* Ricercatore di Diritto costituzionale nell’Università degli studi di Catania.
 
* * Testo dell’intervento al Seminario dal titolo “Verso una giustizia costituzionale europea?”, tenutosi a Catania l’11 aprile 2014, nell’ambito delle attività del progetto europeo – Azione Jean Monnet – “New strategies for democratic development and political integration in Europe”, (responsabile scientifico Prof.ssa Adriana Ciancio).
[1]La letteratura sulla trasformazione dei modelli originari di giustizia costituzionale e sulla gemmazione di modelli ibridi è, ormai, sterminata. Cfr., a mero titolo esemplificativo, nella dottrina italiana i classici studi di M. Cappelletti, La giurisdizione costituzionale delle libertà, Milano 1965;  Id.,Il controllo giudiziario di costituzionalità delle leggi nel diritto comparato, Milano 1968; L. Mezzetti, Sistemi e modelli di giustizia costituzionale, in Id. (a cura di), Sistemi e modelli di giustizia costituzionale, Padova 2009, 1 ss.; A. Pizzorusso, I sistemi di giustizia costituzionale: dai modelli alla prassi, in Quaderni costituzionali, 1982, 521 ss.; A. Pegoraro, Giustizia costituzionale comparata, Torino 2007.
[2]H. Kelsen, Wer soll der Huter der Verfassung sein? In Die Justiz, 1930-1931, (trad. It.), Chi deve essere il custode della Costituzione? In Id., La giustizia costituzionale, Milano, 1981, 133.
[3]A. Ruggeri – A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2014, 6.
[4] G. Tesauro, Alcune riflessioni sul ruolo della Corte di giustizia nell’evoluzione dell’Unione europea, in Dir. Un. Eur., 2013, 485.
[5]G. Tesauro, op. ult. cit., 486.
[6] Sent. sentenza del 4 febbraio 1959 (caso Stork), quella del 18 luglio 1960 (caso Comptoirs de vente) e la sentenza del 1 aprile 1965 (caso Sgarlata).
[7] L. Cozzolino, Le tradizioni costituzionali comuni nella giurisprudenza della Corte di giustizia della Comunità europea, in P. Falzea – A. Spadaro – L. Ventura (a cura di), La Corte costituzionale e le Corti d’Europa, Torino 2003, 21 s.. Cfr., inoltre, nello stesso volume il contributo di A. Ruggeri, Tradizioni costituzionali comuni” e “controlimiti”, tra teoria delle fonti e teoria dell’interpretazione, ivi, 505 ss.
[8] Cfr. BVG, sent. 29 maggio 1974, c.d. Solange I e 22 ottobre 1986, c.d. Solange II.
[9]A. Pizzorusso, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna 2002, 181.
[10]Un punto di contatto, tuttavia, che non ha tardato a trasformarsi talvolta in punto di contrasto tra Corte comunitaria e Tribunali costituzionali nazionali, come le emblematiche vicende Grogan (1991), Kreil (2000), Köbler (2003) e Omega (2004) hanno dimostrato.
[11]A. Ciancio, A margine dell’evoluzione della tutela dei diritti fondamentali in ambito europeo, tra luci ed ombre, in Federalismi.it, n. 21, 2012, 2.
[12] Le notazioni sono di L.S. Rossi, La Carta dei diritti come strumento di costituzionalizzazione dell’ordinamento dell’U.E., in Quad. cost., 2002, 572.
[13]Così E. Castorina, Due profili del cammino per la Costituzione europea: tutela dei diritti e separazione dei poteri nel Trattato di Lisbona, in Studi in onore di Luigi Arcidiacono, II, Torino 2010, 582.
[14] Sul punto cfr., a mero titolo esemplificativo, R. Bifulco – M. Cartabia – A. Celotto, L’Europa dei diritti, Bologna, 2001; A. Manzella – P. Melograni – E. Paciotti – S. Rodotà (a cura di), Riscrivere i diritti in Europa. Introduzione alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Bologna, 2001; A. Pizzorusso – R. Romboli – A. Ruggeri – A. Saitta – G. Silvestri (a cura di), Riflessi della Carta europea dei diritti sulla giustizia e la giurisprudenza costituzionale: Italia e Spagna a confronto, Milano 2003. Si vedano, inoltre, le stimolanti riflessioni già allora svolte da A. Ruggeri, Carta europea dei diritti e integrazione interordinamentale, dal punto di vista della giustizia e della giurisprudenza costituzionale (Notazioni introduttive), in Riflessi della Carta europea, cit. 7 ss., nonché, Id., Carte internazionali dei diritti, Costituzione europea, Costituzione nazionale: prospettive di ricomposizione delle fonti in sistema, in Forumcostituzionale.it, 2007.
[15]A. Ciancio, A margine dell’evoluzione della tutela dei diritti fondamentali, cit., 4 s., che richiama sul punto le osservazioni di E. Castorina nello scritto citato alla nota 12.
[16]Di manipolazione delle tradizioni costituzionali discorre A. Ruggeri, Carta europea dei diritti e integrazione interordinamentale, cit., 12.
[17]A. Ruggeri, loc. ult. cit.
[18] In questa sede non potrà darsi conto di tutte le pronunce rilevanti sul punto. Si richiameranno soltanto alcuni arresti giurisprudenziali, ritenuti più significativi. Per una puntuale ricostruzione, si rinvia a L. Trucco, Carta dei diritti fondamentali e costituzionalizzazione dell’Unione europea. Un’analisi delle strategie argomentative e delle tecniche decisorie a Lussemburgo, Torino 2013, passim.
[19] In senso contrario, R. Conti, Dalla Fransson alla Siragusa. Prove tecniche di definizione dei “confini” fra diritto UE e diritti nazionali dopo Corte giust. 6 marzo, causa C‑206/13, Cruciano Siragusa, in Consulta on line, 04.04.2014.
[20] L’espressione è di R. Conti, op. ult. cit., 4, secondo il quale peraltro alla luce dell’orientamento della Corte «riconoscere, per la regolamentazione di una vicenda interna non direttamente regolata dal diritto dell’Unione europea, l’efficacia precettiva di un diritto fondamentale garantito dalla Carta di Nizza-Strasburgo (o ritenuto principio generale dalla Corte di Giustizia8) potrebbe costituire operazione culturalmente commendevole, ma giuridicamente poco persuasiva – ancorché ventilata autorevolmente in dottrina». Del resto, a parere dell’A. «la Carta di Nizza non sembra essere in grado di modificare i confini del diritto dell’Unione, avuto anche riguardo al contenuto dell’art.5 par.2 del TUE come modificato per effetto dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona – In virtù del principio di attribuzione, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti.- e ancor di più all’art. 6 par.1 TUE, – Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati- e par.2 –L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati-e dello stesso art.51 della Carta dei diritti fondamentali, a cui tenore Le disposizioni della presente Carta si applicano …esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione».
[21] Nella specie, la High Court era stata chiamata a pronunciarsi su una controversia tra la società irlandese Digital Rights e le autorità irlandesi in merito alla legittimità di provvedimenti nazionali riguardanti la conservazione di dati relativi a comunicazioni elettroniche.
Il Verfassungsgerichtshof era stato, invece, investito di vari ricorsi in materia costituzionale presentati dalla Kärtner Landesregierung (governo del Land di Carinzia) nonché dai sigg. Seitlinger, Tschohl. Tali ricorsi miravano ad ottenere l’annullamento della disposizione nazionale che attuava la direttiva nel diritto austriaco
[22]F. Vecchio, L’ingloriosa fine della direttiva Data retention, la ritrovata vocazione costituzionale della Corte di giustizia e il destino dell’art. 132 del Codice della privacy, in www.diritticomparati.it, 2014 (corsivo aggiunto).
[23]Per questa espressione, R. Bin, Diritti ed argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano 1992, 91.
[24]La sentenza è stata oggetto di un serrato dibattito in dottrina. Cfr., in particolare, R. Conti, La prima volta della Corte di giustizia sulla carta di Nizza “vincolante”, in www.ilquotidianogiuridico.it, 2010;  L. Feliziani, La tutela dei diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona. La Corte di giustizia prende atto della natura giuridica vincolate della Carta di Nizza (nota a CGCE 19 gennaio 2010, Seda Kücükdeveci c. Swedex, C-555/07), in Rivista Aic; V. Sciarabba, La sentenza Kücükdeveci e le prospettive della giustizia costituzionale europea, in www.europeanrights.it. 2010.
[25] Il riferimento è, soprattutto, a V. Sciarabba, op. ult. cit.
[26]V. Sciarabba, op., ult. cit., 15.
[27] Su cui, cfr. almeno R. Conti, Da giudice (nazionale) a giudice (eurounitario). A cuore aperto dopo il caso Melloni, in www.diritticomparati.it; A. Di Martino, Mandato d’arresto europeo e primo rinvio pregiudiziale del TCE: la via solitaria della Corte di giustizia, in www.diritticomparati.it; A. Ruggeri, La Corte di giustizia, il primato incondizionato del diritto dell’Unione e il suo mancato bilanciamento col valore della salvaguardia dei principi di struttura degli ordinamenti nazionali nel loro fare “sistema”, in www.dirittticomparati.it; F. Vecchio, I casi Melloni e Akerberg: il sistema multilivello di protezione dei diritti fondamentali, in Quaderni costituzionali, 2/2013, 454 ss.;  F. Viganò, Obblighi di adeguamento al diritto UE e ‘controlimiti’: la Corte costituzionale spagnola si adegua, bon gré mal gré, alla sentenza dei giudici di Lussemburgo nel caso Melloni, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.
[28]A. Ruggeri, CEDU, diritto “eurounitario” e diritto interno: alla ricerca del “sistema dei sistemi, in Giurcost.org, 19.04.2013, 10, n. 30.
Come noto, con riferimento all’art. 4.2 si è parlato di europeizzazione dei controlimiti. Su tale profilo cfr., ex multis, A. Randazzo, La teoria dei controlimiti riletta alla luce del Trattato di Lisbona: un futuro non diverso dal presente?, in diritticomparati.it (2011), nonché  F. Vecchio, Primazia del diritto europeo e salvaguardia delle identità costituzionali. Effetti asimmetrici dell’europeizzazione dei controlimiti, Torino 2012, passim ma soprattutto 207 ss.
[29] In tal caso, avendo riguardo anche all’indubbio ruolo delle Carte internazionali dei diritti e, in primo luogo, della Cedu e delle interpretazioni fornite dalla Corte di Strasburgo non solo nel sistema di tutela dei diritti, ma anche nel processo di trasformazione della giustizia costituzionale  dovrebbe parlarsi  – riprendendo il termine coniato per la prima volta da Antonio Ruggeri – di “eurounitarizzazione” della giustizia costituzionale, livello tuttavia non preso in esame in queste note.
[30]Con riferimento al caso italiano ne ha recentemente discorso R. Romboli, I differenti livelli di protezione dei diritti: un invito a ripensare i modelli, in Forumcostituzionale.it, 2013.
[31] Si veda, sul punto, A. Ruggeri, CEDU, diritto “eurounitario” e diritto interno: alla ricerca del “sistema dei sistemi”, in giurcost.org, 19 aprile 2013 e, più di recente, Id. La Costituzione europea attraverso i diritti e il “valore” della Costituzione, in Federalismi.it, il quale discorre suggestivamente del passaggio da una Costituzione totale ad una Costituzione parziale. «Non più, dunque, il mito di una Costituzione in grado di dire tutto su tutto e che, in ogni caso, nulla ha da invidiare alle altre Carte per ciò che concerne il riconoscimento dei diritti o l’intensità della loro tutela, bensì l’ammissione delle strutturali carenze esibite dalla legge fondamentale della Repubblica, suscettibili di essere colmate ora a mezzo di una nuova “razionalizzazione” costituzionale, ora ancora con interventi della legge comune ed ora infine per effetto di una viepiù coraggiosa e sensibile giurisprudenza».
Interessanti riflessioni sull’integrazione attraverso il linguaggio “costituzionale” dei diritti nello spazio giuridico europeo, sono fornite da E. Castorina, Constitutional language and european integration, in E. Castorina – P- Policastro (a cura di), Liberty and language. The global dimension of european constitutional integration, Torino 2010,121 ss.
[32] Del resto è proprio sul versante economico che si è assistito alle maggiori cessioni di sovranità e, soprattutto, ad evidenti limitazioni della politica interna, fino ad incidere sulla stessa formazione dei governi. Basti pensare alle ultime vicende italiane e, in particolare, alla scelta di affidare soprattutto il dicastero dell’economia a tecnici “graditi” all’Unione (si pensi all’iniziale interim di Monti, poi sostituito da Grilli – alla scelta di Saccomani e, da ultimo, di Padoan). Tra i tanti altri aspetti che potrebbero evidenziarsi – ma che trascendono dall’oggetto di questo intervento – vi è l’ulteriore flessibilizzazione del richiamo alla “proposta del Presidente del Consiglio” sulla nomina, da parte del Presidente della Repubblica, dei Ministri ex art. 92 Cost. Infatti, la natura “politica” della proposta risulta notevolmente ridimensionata dalla necessità di individuare personalità di “respiro europeo” (oltre che la corrispondenza ai desiderata del Capo dello Stato, che potrebbe assurgere – soprattutto nella fase di scelta dei ministri – a garante della composizione “europeista” dei governi, con gli effetti distorsivi che ne deriverebbero. Il Capo dello Stato, infatti, pur sottratto al circuito della responsabilità politica, finirebbe per limitare la “libertà politica” nell’individuazione dei Ministri soprattutto economici).
[33] Ne danno conto in modo analitico O. Pollicino-V. Sciarabba, La Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di giustizia nella prospettiva della giustizia costituzionale, su Forum di quaderni costituzionali (ed ora in L. Mezzetti (a cura di) Sistemi e modelli di giustizia costituzionale, II, Padova, 2011).
[34] O. Pollicino -V. Sciarabba, op. ult. cit., 37.
[35]E. Castorina, Due profili del cammino, cit. 579. La pronuncia della Corte di giustizia cui fa riferimento l’A. è la sentenza Le Verts/Parlamento del 1986.
[36] Sul punto, per puntuali notazioni di carattere generale, cfr., a titolo esemplificativo, E. Malfatti – S. Panizza – R. Romboli, Giustizia costituzionale, Torino 2013, 12 ss.
[37] Su questi profili, diffusamente, A. Ciancio, Quali prospettive per l’integrazione politica in Europa dopo le elezioni, in Federalismi.it, 28 maggio 2014.
[38] Soprattutto laddove si consideri l’allargamento comunitario ad Est, ove le Corti costituzionali – penso soprattutto a quella polacca e ceca – “tollerano” con molta difficoltà le intrusioni del diritto comunitario ed adottano talvolta interpretazioni molto rigide del principio di sovranità, del nucleo duro delle Costituzioni e, soprattutto fanno esasperatamente riferimento al concetto di identità nazionale, talvolta con toni assai conflittuali. Si pensi, ad esempio, alla sentenza del 16.11.2011 con cui la Corte polacca aveva dichiarato ammissibile una questione di legittimità costituzionale di un regolamento comunitario per poi dichiararla infondata. Su questi profili, cfr. O. Pollicino, Allargamento dell’Europa ad est e rapporti tra Corti costituzionali e Corti europee. Verso una teoria generale dell’impatto interordinamentale del diritto sovranazionale? Milano 2010, passim; Id.Qualcosa è cambiato? La recente giurisprudenza delle Corti costituzionali dell’est vis à vis il processo di integrazione europea, in Diritticomparati.it, 2012. Per interessanti riflessioni d’insieme, con precipuo riguardo al caso ungherese, si veda F. Vecchio, Teorie costituzionali alla prova. La nuova Costituzione ungherese come metafora della crisi del costituzionalismo europeo, Padova 2013, passim.
[39] Del resto, il problema della legittimazione del giudice costituzionale è uno dei punti centrali di ogni riflessione sulla giustizia costituzionale. Ne discorrono, tra i tanti e in varie prospettive, A. CariolaLegittimazioni del giudice costituzionale ed uso del criterio di ragionevolezza, in G. Pitruzzella e G. Verde (a cura di), Il parametro del giudizio di costituzionalità, Torino, 2000, 145 ss.; V. Crisafulli, Giustizia costituzionale e potere legislativo, in Aspetti e tendenze del diritto costituzionale. Scritti in onore di Costantino Mortati, IV, Milano 1977, 132 ss; A. Di Giovine, Potere giudiziario e democrazia costituzionale, in S. Sicardi (a cura di), Magistratura e democrazia italiana: problemi e prospettive, Napoli 2010, 34 ss.;  L. Elia, L’esperienza italiana della giustizia costituzionale. Alcuni nodi critici, in M. Olivetti, T. Groppi (a cura di), La giustizia costituzionale in Europa, Milano 2003, 138 s. ; R. Romboli, Il diritto processo costituzionale dopo la “svolta” degli anni 1987 – 1989, in R. Balduzzi–M. Cavino–J. Luther (a cura di), La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta. Atti del seminario svoltosi a Stresa il 12 novembre 2010, Torino, 2011, 317 ss.; G. Zagrebelsky, Corte in–politica, in Quad. cost., 2005, 273 (ora in Id., Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune, Torino, 2009, 303 ss.).
 
 
 
Pubblicato su AmbienteDiritto.it il 8 Luglio 2014

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