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UNA NUOVA FLEXICURITY: INDICAZIONI PER UN CAMBIO DI ROTTA

Politiche del lavoro e nuovi modelli

 

Enrico Schenato*





Si dice che l’obiettivo principale della flexicurity è quello di superare le rigidità del mercato del lavoro al fine di creare più occupazione, riducendo le tutele. Questa visione è stata, tuttavia, rimpiazzata recentemente da diversa prospettiva funzionale ad assicurare la stabilità del sistema tramite la partecipazione dei lavoratori. In questo contesto si inserisce il modello che mira a creare simultaneamente livelli di flessibilità nel mercato e di stabilità occupazionale.



La crisi economica ha portato molti a criticare anche aspramente le leggi sul lavoro più recentemente emanate.  Il rallentamento della crescita economica ha poi messo in discussione lo stesso modello di welfare. La persistenza di alti tassi di disoccupazione ha reso difficile la reintegrazione dei lavoratori espulsi dal mondo produttivo. La correzione di sistema per superare questa discrasia implica che siano modificate le strategie in cui si inserisce il modello di flexicurity. Rimettendo al centro il perseguimento di elevati livelli di stabilità occupazionale.


L’esigenza di attuare politiche per rilanciare una piena occupazione ha trovato sponda, a livello europeo, nell’indirizzo del Consiglio europeo, indirizzo che tuttavia è stato tradito dalle politiche regressive e di austerità messe in atto dall’Ue. Per rimediare a queste storture è necessario modificare lo scenario di riferimento. A cominciare dalla necessità di rafforzare la continuità occupazionale nel corso del rapporto lavorativo, aiutando le imprese ad attuare alternative all’esubero. Tra queste, in tema di flessibilità interna, si annoverano i regimi di orario flessibile, la modifica delle mansioni (a parità di tutele e senza peggioramento delle condizioni) e l’adozione di forme flessibili di organizzazione del lavoro.


Analogamente, la flessibilità salariale costituisce una leva rilevante, potendosi realizzare tramite sostegni al reddito per favorire il mantenimento in attività di lavoratori coinvolti in situazioni di crisi, ma anche per agevolare l’assunzione o sostenere la continuità del lavoro. Altri casi di flessibilità riguardano, ad esempio, interventi di sostegno verso il pensionamento anticipato. Nel novero delle misure funzionali a fronteggiare le emergenze occupazionali – già sperimentate con successo in altri paesi europei – ricordiamo, ad esempio, l’istituto della mobilità professionale: cioè, la possibilità di modificare le posizioni dei lavoratori in dipendenza delle esigenze produttive allo scopo di minimizzare il ricorso a contratti temporanei. Con questo intervento, il lavoratore potrà conservare il posto di lavoro, semplicemente mediante il passaggio e la transizione ad altro posto di lavoro all’interno della medesima impresa, evitando periodi di inattività.


Inoltre, la funzione occupazionale è stata favorita quando si sono inserite forme di flessibilità organizzativa accompagnate da piani di formazione per la riqualificazione del personale. In alcuni Stati membri sono stati previsti interventi specifici attraverso la costituzione di un labour pool, cioè un progetto che promuove forme di cooperazione in pool fra imprese, allo scopo di attivare una gestione concertata delle crisi e di agevolare iniziative per la riqualificazione dei lavoratori. Soprattutto, oggi è venuto il momento di investire in una efficace organizzazione dei centri per l’impiego.


Serve, cioè, un cambio di orientamento negli obiettivi e negli investimenti. Prioritariamente vanno destinate maggiori risorse al funzionamento dell’Agenzia nazionale politiche attive del lavoro quale punto di riferimento del settore. Va, inoltre, rivisto il meccanismo delle competenze che oggi, in materia, prevede la concorrenza fra Stato e Regioni. La concorrenza di competenza può costituire un problema non indifferente alla piena integrazione fra servizi all’impiego (controllati dalle Regioni) e le decisioni circa la erogazione di sussidi di disoccupazione (riservate all’Inps). Ma, in particolare, elemento cruciale riguarda la capacità di queste politiche attive di contribuire alla soluzione della questione legata alla disoccupazione giovanile.


Tutte le politiche economiche governative dovrebbero essere tarate ed orientate a questo fine.  Gli incentivi per l’occupazione giovanile devono diventare stabili ed essere inseriti in un quadro organico che comprenda servizi di assistenza, formazione ed accesso al credito per fasce di età. Un piano di supporto all’occupazione giovanile dovrebbe valorizzare il contatto fra scuola e lavoro, ad esempio mettendo i singoli nella condizione di poter fruire di adeguati “conti personali di formazione” da utilizzare in settori ad alto valore aggiunto e ad elevato potenziale di assorbimento della domanda.


La Francia ha già sperimentato questa strada. Attraverso il c.d. Compte Personnel d’Activitè , cioè lo strumento attraverso il quale il lavoratore può finanziare proprie attività di formazione dalla giovane età fino alla pensione.


In conclusione, le esperienza più significative rivelano la necessità di un costante dialogo tra imprese ed istituzioni, finalizzato ad agevolare la ricollocazione dei lavoratori in esubero, facendo ricorso al sostegno pubblico. E’ evidente come il rimedio alle criticità del nostro sistema impone il varo di nuove misure suggerite anche dalle best practice europee, se necessario adattandole al nostro sistema.  In particolare, aiutando le imprese a cooperare con i centri pubblici dell’impiego per sostenere adeguati percorsi di riqualificazione.

  

* avvocato e magistrato onorario

 

PUBBLICATO SU AMBIENTEDIRITTO.IT  – 10 GIUGNO 2018 – ANNO XVIII

 

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