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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto processuale amministrativo Numero: 721 | Data di udienza: 9 Maggio 2012

* DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO – Codice del processo amministrativo – Corpo autonomo di norme – Interpretazione analogica interna – Eterointegrazione – Possibilità – Condizioni – Art. 31, c. 4 c.p.a. – Nullità – Domandata dal ricorrente – Eccepita dal resistente – Rilevata d’ufficio – Disciplina differenziata –  Deroga alla natura soggettiva della giurisdizione amministrativa.


Provvedimento: Sentenza
Sezione:
Regione: Sicilia
Città:
Data di pubblicazione: 27 Luglio 2012
Numero: 721
Data di udienza: 9 Maggio 2012
Presidente: Virgilio
Estensore: de Francisco


Premassima

* DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO – Codice del processo amministrativo – Corpo autonomo di norme – Interpretazione analogica interna – Eterointegrazione – Possibilità – Condizioni – Art. 31, c. 4 c.p.a. – Nullità – Domandata dal ricorrente – Eccepita dal resistente – Rilevata d’ufficio – Disciplina differenziata –  Deroga alla natura soggettiva della giurisdizione amministrativa.



Massima

 

CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – 27 luglio 2012, n.  721


DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO – Codice del processo amministrativo – Corpo autonomo di norme – Interpretazione analogica interna – Eterointegrazione – Possibilità – Condizioni.

Il codice del processo amministrativo è un corpo autonomo di norme atto a esprimere principi originali (v., per esempio, gli artt. 44, comma 4-bis, 52, comma 1, che, in materia di nullità degli atti e di prorogabilità dei termini, radicano regole opposte a quelle recate dal codice di procedura civile, sub art. 157 e 152); tale corpo normativo è, in primo luogo, passibile di interpretazione analogica interna, e solo ove ciò sia impossibile (ossia se fosse indispensabile ricorrere a quelli che l’art. 12, II comma, ultima parte, delle “disposizioni sulla legge in generale” chiama “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”) è consentito il ricorso alle disposizioni del codice di procedura civile: ma solo “in quanto compatibili” con i principi posti dal c.p.a., ovvero se “espressioni di principi generali” del processo (così, ex art. 39, è stata disciplinata l’eterointegrazioine del codice del processo amministrativo). Ciò induce a concludere che la disciplina di ogni istituto processuale va ricercata, in primo luogo, unicamente all’interno del codice del processo amministrativo; essendo consentita la sua etero-integrazione con norme o principi promananti da altri codici solo ove la fattispecie in esame non abbia alcuna disciplina all’intero del c.p.a.

(Conferma T.A.R. per la Sicilia – Sede di Palermo (sez. III) – n. 2406 del 19 dicembre 2011) – Pres. Virgilio, Est. De Francisco – C. s.r.l. (avv. de Luca) c. G. s.a.s. (n.c.)

DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO – Art. 31, c. 4 c.p.a. – Nullità – Domandata dal ricorrente – Eccepita dal resistente – Rilevata d’ufficio – Disciplina differenziata –  Deroga alla natura soggettiva della giurisdizione amministrativa.

L’art. 31, comma 4, del c.p.a. è chiarissimo nel prevedere una disciplina differenziata del rilievo della nullità, secondo che essa: a) sia domandata dal ricorrente, in via di azione: in tal caso, è previsto un termine decadenziale triplo rispetto a quello ordinario, ex art. 29 (e in ciò taluno ha ravvisato una sorta di “super-annullabilità”); b) sia opposta dal resistente, in via di eccezione (c.d. impropria, giacché concorre con il potere-dovere di rilievo ufficioso del giudice): in tal caso, il legislatore ha optato per l’imprescrittibilità (rectius: non assoggettamento a termini decadenziali), applicando lo schema logico-concettuale espresso dal broccardo quae temporalia ad agendum, perpetua ad eccipiendum, già noto all’art. 1442, IV comma, c.c. (e per ragioni sostanzialmente analoghe: impedire che, spirato l’ipotetico termine decadenziale, fosse possibile azionare pretese in contrasto con l’ordinamento giuridico, e perciò sanzionate con la nullità testuale); c) sia rilevata d’ufficio dal giudice: in tal caso, la perpetuità del potere di rilevare il vizio è il medesimo di cui si è già detto, sub b). Il potere che la legge dà al giudice – al pari di ogni altra rilevabilità ope iudicis, per esempio quella dell’incompetenza – costituisce per lui una potestà (c.d. potere-dovere) il cui esercizio è sempre obbligatorio, mai facoltativo, come corollario del ruolo di imparziale garante dell’esatta applicazione delle regole processuali che la legge gli ha assegnato.  A ciò consegue che il giudice che rilevi una nullità è sempre tenuto a dichiararla d’ufficio, statuendo in conformità. Si tratta, palesemente, di una deroga alla natura c.d. soggettiva della giurisdizione amministrativa, in cui il giudice è adito dalle parti, e non già dal pubblico ministero nell’interesse oggettivo della legge. Nondimeno, è una deroga espressamente prevista dalla legge.

 (Conferma T.A.R. per la Sicilia – Sede di Palermo (sez. III) – n. 2406 del 19 dicembre 2011) – Pres. Virgilio, Est. De Francisco – C. s.r.l. (avv. de Luca) c. G. s.a.s. (n.c.)


Allegato


Titolo Completo

CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – 27 luglio 2012, n. 721

SENTENZA

 

CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA – 27 luglio 2012, n.  721

N. 721/12  Reg.Sent.

N. 85  Reg.Ric.

ANNO  2012

REPUBBLICA ITALIANA   
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 
  

Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, ha pronunciato la seguente   

 

S E N T E N Z A

sul ricorso in appello n. 85/2012, proposto da
C.I.R. s.r.l.,
in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Pietro De Luca ed elettivamente domiciliata in Palermo via Notarbartolo n. 5, presso lo studio dell’avv. Domenico Cantavenera;

c o n t r o

la ditta GAMMA FORNITURE E SERVIZI di N.A. PALMISANO & CO. s.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;

e nei confronti
del COMUNE DI GELA, in persona del Sindaco pro tempore, rappre-sentato e difeso dall’avv. Massimo Dell’Utri ed elettivamente domiciliato in Palermo, piazza Tommaso Edison n. 2, presso lo studio dell’avv. Anna Maria Caronia;
per la riforma

della sentenza del T.A.R. per la Sicilia – Sede di Palermo (sez. III) – n. 2406 del 19 dicembre 2011.
Visto il ricorso, con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Gela;
Visti gli atti tutti del giudizio;

Relatore, alla pubblica udienza del 9 maggio 2012, il Consigliere Ermanno de Francisco;
Uditi altresì l’avv. N. D’Alessandro, su delega dell’avv. P. De Luca, per la società appellante e l’avv. M. Dell’Utri per il comune intimato;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.

F A T T O

Viene in  decisione l’appello  avverso la sentenza indicata in epigrafe che – pronunciando sul ricorso della ditta Gamma Forniture e Servizi di N.A. Palmisano & Co. s.a.s. per l’annullamento degli atti della gara per l’appalto della fornitura e posa in opera di arredi e at-trezzature  del nuovo Palazzo di Giustizia  di Gela da  cui era stata esclusa l’impresa ricorrente, inclusi tra gli atti impugnati il bando e il disciplinare nella parte in cui pongono le regole in applicazione delle quali è stata determinata l’esclusione della ricorrente – rilevava d’ufficio, “ai sensi dell’art. 31 comma 4 cod. proc. amm. che, secondo quanto risulta dagli atti di causa, il bando di gara non contiene le previsioni di cui all’art. 2 della l.r. n. 15 del 2008 (ai sensi del quale «1. Per gli appalti di importo superiore a 100 migliaia di euro, i bandi di gara prevedono, pena la nullità del bando, l’obbligo per gli aggiudicatari di indicare un numero di conto corrente unico sul quale gli enti appaltanti fanno confluire tutte le somme relative all’appalto. L’aggiudicatario si avvale di tale conto corrente per tutte le operazioni relative all’appalto, compresi i pagamenti delle retribuzioni al personale da effettuarsi esclusivamente a mezzo di bonifico postale o assegno circolare non trasferibile. Il mancato rispetto dell’obbligo di cui al presente comma comporta la risoluzione per inadempimento contrattuale. 2. I bandi di gara prevedono, pena la nullità degli stessi, la risoluzione del contratto nell’ipotesi in cui il legale rappresentante o uno dei diri-genti dell’impresa aggiudicataria siano rinviati a giudizio per favoreggiamento nell’ambito di procedimenti relativi a reati di criminalità organizzata. 3. Gli enti appaltanti verificano il rispetto degli obblighi di cui ai commi 1 e 2»)” e, per l’effetto, dichiarava, parimenti d’ufficio, “la nullità del bando di gara … nonché di tutti gli atti conseguenti”, compensando le spese del grado.
Disattesa, con ordinanza cautelare 24 febbraio 2012, n. 118, l’istanza di inibitoria degli effetti della sentenza appellata, all’odierna udienza la causa è stata assegnata in decisione.


D I R I T T O

1. – Il giudice di primo grado ha rilevato d’ufficio il difetto di un elemento che ha ritenuto essenziale della fattispecie legale disciplinante la gara d’appalto su cui era chiamato a giudicare e, per l’effetto, ha dichiarato la nullità del relativo bando e di tutti gli atti conseguenti: con il risultato pratico di azzerare la vicenda esaminata.
Nei dettagli, questo è stato il percorso argomentativo seguito dalla sentenza gravata: avendo rilevato che “il bando di gara non contiene le previsioni di cui all’art. 2 della l.r. n. 15 del 2008” (che si è trascritto nella narrativa in fatto che precede); ha “Ritenuto che tale disciplina non possa essere considerata superata dalla sopravvenuta legislazione statale (l. n. 136/2010) che ha previsto non già la nullità del bando, ma quella del contratto per effetto della mancata previsione dell’obbligo di tracciabilità dei flussi finanziari (con possibilità di integrazione del contratto ex art. 1374 c.c. limitata, peraltro, soltanto alla fase transitoria susseguente l’entrata in vigore della legge, come previsto dall’art. 6, comma 2, d.l. 187/2010, conv. con l. n. 217/2010); Considerato che il bando non reca neppure la previsione del comma 2 del predetto art. 2 della l.r. n. 15 del 2008 e che la stessa non può essere sussunta sotto quella che impone le dichiarazione di cui all’art. 38 del d. lgs. n. 163 del 2006 (Tar Sicilia, Palermo, III, 9 dicembre 2011, n. 2317); Considerato  che la l.r. n. 15 del  2008 non è stata abrogata né modificata a seguito della riforma della disciplina dei contratti pubblici in Sicilia contenuta nella l.r. n. 12 del 2011 (come pure la disciplina regolatrice del subappalto di cui all’art. 21 della l.r. n. 20/99, parimenti preordinata a prevenire influenze malavitose nella gestione degli appalti), e ciò nel segno della volontà legislativa di mantenere, sul punto, una disciplina differenziata rispetto a quella statale”; e, ulteriormente, “Ritenuto: che tale scelta si inquadri nella più ampia considerazione della particolare situazione in cui versa l’amministrazione locale nella Regione Siciliana, nella quale anche la diffusa commissione di reati comuni e associativi assume una rilevanza tale da giustificare l’adozione di una disciplina diversa e più severa a tutela del primario interesse alla legalità; che la comminatoria legislativa di nullità della lex specialis non tolleri ogni ipotesi di eterointegrazione della stessa (ciò che, quanto alla tracciabilità dei flussi, è escluso in sede statale financo in relazione al contratto); che, pertanto, debba essere dichiarata la nullità degli atti di gara (in termini, Tar Sicilia, Palermo, 2317/2011, cit.) con i connessi obblighi restitutori dell’Amministrazione che da tale nullità discendono”; in dichiarata applicazione dell’art. 31, comma 4, del codice del processo amministrativo, ha reso d’ufficio la declaratoria di nullità di tutti gli atti di gara che si è più sopra trascritta.

2. – L’appello, ai cui contenuti ha aderito la difesa del Comune di Gela, chiede l’integrale riforma della sentenza per un unico motivo:
I) violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato; ultrapetizione; erronea applicazione dell’art. 31, comma 4, c.p.a.; violazione del contraddittorio; inoltre, “Con riguardo al merito della pronuncia”, il motivo proposto deduce l’erroneità, nel merito, della statuizione resa in primo grado, sostenendo “che il comma 1 dell’art. 2 della L.R. n. 15 del 2008, deve ritenersi non più vigente e superato dall’entrata in vigore della L. n. 136/2010”; e svolge analoghe considerazioni “con riguardo al comma 2 dell’art. 2 della medesima L.R. 15/2008, in relazione a quanto disposto e sanzionato dall’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006 e s.m.i.”; rileva, infine, “che il Giudice di primo grado ha ritenuto insanabili le rilevate formali nullità d’ufficio, senza tenere conto delle questioni sostanziali sottostanti che, anche in osservanza del principio di economia dell’attività amministrativa, avrebbero comunque ben potuto essere regolarizzate, in modo tale da soddisfare la ratio delle norme sanzionanti la nullità stessa”.

3. – Il Collegio ritiene che l’appello – che peraltro pone basilari questioni sulla natura del processo amministrativo – non sia fondato.

3.1. – L’articolo 31, comma 4, del c.p.a. stabilisce che “La do-manda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni. La nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice. Le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all’ articolo 114, comma 4, lettera b), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV”.
Giova chiarire, in primo luogo, che tale comma va letto e inter-pretato del tutto a prescindere da quelli precedenti dello stesso art. 31, con cui unicamente condivide – oltre alla sedes – la natura meramente dichiarativa della pronuncia emananda.
Come emerge anche dalla rubrica della norma (“Azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità”), si tratta di due istituti distinti, che sono stati disciplinati nell’ambito di uno stesso articolo sol perché – ciò risulta da un accurato esame dei lavori preparatori del codice – in sede di stesura del testo definitivo del codice, ossia in esito ai pareri resi dalle competenti commissioni parlamentari ai sensi dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, si è ritenuto di dover introdurre una specifica disciplina dell’istituto della nullità (vuoi quale “azione”, nel primo periodo del comma 4; vuoi quale “eccezione” o quale pronunzia ufficiosa del giudice, nel secondo periodo di esso); ma, siccome a quel punto mancavano solo pochissimi giorni alla scadenza della delega, si è ritenuto  inopportuno, come  invece un maggior rigore di sistema avrebbe forse suggerito, aggiungere allo schema del codice un articolo nuovo (perché ciò avrebbe comportato la necessità di modificare tutti i rinvii interni al codice, con un elevato rischio di gravi inesattezze), e si è pertanto optato per l’inserimento di un ulteriore comma nell’ambito dell’unico articolo che già era dedicato a una pronuncia dichiarativa.

3.2. – Giova, in secondo luogo, evidenziare che il codice del processo amministrativo non è l’appendice di alcun altro codice (né quello civile, né quello di procedura civile), bensì un autonomo corpo di norme atto a esprimere principi originali (v., per esempio, gli artt. 44, comma 4-bis, 52, comma 1, che, in materia di nullità degli atti e di prorogabilità dei termini, radicano regole opposte a quelle recate dal codice di procedura civile, sub art. 157 e 152); tale corpo normativo è, in primo luogo, passibile di interpretazione analogica interna, e solo ove ciò sia impossibile (ossia se fosse indispensabile ricorrere a quelli che l’art. 12, II comma, ultima parte, delle “disposizioni sulla legge in generale” chiama “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”) è consentito il ricorso alle disposizioni del codice di procedura civile: ma solo “in quanto compatibili” con i prinicipi posti dal c.p.a., ovvero se “espressioni di principi generali” del processo (così, ex art. 39, è stata disciplinata l’eterointegrazioine del codice del processo amministrativo: merita osservarsi, in proposito, come, rispetto al testo inizialmente proposto, si è ivi soppresso l’avverbio “espressamente”, che avrebbe invece precluso l’autointegrazione analogica del codice).
Ciò induce a concludere che la disciplina di ogni istituto pro-cessuale va ricercata, in primo luogo, unicamente all’interno del codice del processo amministrativo; essendo consentita la sua etero-integrazione con norme o principi promananti da altri codici solo ove la fattispecie in esame non abbia alcuna disciplina all’intero del c.p.a.
Ciò, probabilmente, è quello che sarebbe accaduto per la nullità degli atti extraprocessuali se – conformemente a quello che era il testo dello schema di decreto legislativo prima che su di esso fossero resi i ricordati pareri delle competenti commissioni parlamentali – non fosse esistito il comma 4 del cit. art. 31.
Viceversa, in presenza di detta norma, è unicamente ad essa che l’interprete deve fare riferimento; applicandola per quale essa è (e non già per come ciascuno l’avrebbe potuta ipoteticamente preferire).

3.3. – Ciò premesso, risulta ben evidente come l’interpretazione seguita dalla sentenza di prime cure sia stata assolutamente corretta, perché pienamente conforme all’unico dato normativo che disciplina la vicenda di cui, sia pure d’ufficio, il giudice ha dovuto conoscere.
Infatti, il cit. art. 31, comma 4, è chiarissimo nel prevedere una disciplina differenziata del rilievo della nullità, secondo che essa:
a) sia domandata dal ricorrente, in via di azione: in tal caso, è previsto un termine decadenziale triplo rispetto a quello ordinario, ex art. 29 (e in ciò taluno ha ravvisato una sorta di “super-annullabilità”);
b) sia opposta dal resistente, in via di eccezione (c.d. impropria, giacché concorre con il potere-dovere di rilievo ufficioso del giudice): in tal caso, il legislatore ha optato per l’imprescrittibilità (rectius: non assoggettamento a termini decadenziali), applicando lo schema logico-concettuale espresso dal broccardo quae temporalia ad agendum, perpetua ad eccipiendum, già noto all’art. 1442, IV comma, c.c. (e per ragioni sostanzialmente analoghe: impedire che, spirato l’ipotetico termine decadenziale, fosse possibile azionare pretese in contrasto con l’ordinamento giuridico, e perciò sanzionate con la nullità testuale);
c) sia rilevata d’ufficio dal giudice: in tal caso, la perpetuità del potere di rilevare il vizio è il medesimo di cui si è già detto, sub b).
Anche a confutazione di alcune contrarie suggestioni emergenti nelle difese delle parti costituite in questa sede, va specificato che il potere che la legge dà al giudice – al pari di ogni altra rilevabilità ope iudicis: per esempio quella dell’incompetenza – costituisce per lui una potestà (c.d. potere-dovere): il cui esercizio è sempre obbligatorio, mai facoltativo, come corollario del ruolo di imparziale garante dell’esatta applicazione delle regole processuali che la legge gli ha assegnato.

4. – A ciò consegue che il giudice che rilevi una nullità – e, quantomeno, nei casi in cui, come in quello che qui viene in rilievo, si tratti di una c.d. nullità testuale, ossia espressamente comminata dalla legge che vi riconnetta il potere di rilievo giudiziale ufficioso – è sempre tenuto a dichiararla d’ufficio, statuendo in conformità.
Non sfugge al Collegio che si tratta, palesemente, di una deroga alla natura c.d. soggettiva della giurisdizione amministrativa: in cui il giudice è adito dalle parti (private o pubbliche, ma sempre a tutela del loro interesse speficico, quand’anche si tratti di un interesse pubblico), e non già dal pubblico ministero nell’interesse oggettivo della legge.
Nondimeno, è una deroga espressamente prevista dalla legge.
Né l’art. 31, comma 4, è una norma fuori sistema: esso, infatti, coerentemente si colloca nell’ambito di una serie di principi propri del codice del processo amministrativo (di alcuni dei quali si è già detto: rilevabilità d’ufficio delle nullità processuali; perentorietà dei termini assegnati dal giudice; rilevabilità d’ufficio dell’incompentenza; etc.) da correlare al fatto che il processo amministrativo, elettivamente, conosce di una situazione giuridica soggettiva – l’interesse legittimo – così intimamente connessa all’interesse pubblico generale, da non poter essere tout court trattata, anche nel processo, come i diritti soggettivi, di norma disponibili, di cui si conosce nel processo civile.
L’art. 31, comma 4, c.p.a., esprime, dunque, una parentesi di giurisdizione oggettiva che, per espressa previsione di legge, si innesta nel processo amministrativo, in deroga al suo ordinario carattere di giurisdizione soggettiva.
Così dovendosi ricostruire il sistema, è evidente che non vi può essere luogo ad alcun temperamento tra l’art. 31, comma 4 – nonché, dalla stessa parte, tra le singole norme che testualmente comminano, in modo espresso, una nullità rilevabile d’ufficio – e, dall’altra parte, il c.d. principio della domanda (o dell’interesse della parte istante) che, nel processo civile, ha costituito un limite interpretativo alla generale applicazione del principio della rilevabilità d’ufficio della nullità.
In argomento si veda, da ultima, Cass. 27 aprile 2011, n. 9395: che, nel ribadire il prevalente orientamento in materia (secondo cui “la rilevabilità d’ufficio della nullità del contratto in ogni stato e grado del processo opera solo se da parte dell’attore se ne richieda l’adempimento, essendo il giudice tenuto a verificare l’esistenza delle condizioni dell’azione e a rilevare d’ufficio le eccezioni che, senza ampliare l’oggetto della controversia, tendano al rigetto della domanda e possano configurarsi come mere difese del convenuto, ma non quando la domanda sia, invece, diretta a far valere l’invalidità del contratto o a pronunciarne la risoluzione per inadempimento”; ma v. anche, per un’applicazione ben più restrittiva di tale principio, Cass. 7 febbraio 2011, n. 2956), da un lato afferma che il giudice (civile), “sulla base dell’interpretazione coordinata dell’art. 1421 cod. civ. e 112 cod. proc. civ., [è] tenuto al rispetto del principio dispositivo, anche alla luce dell’art. 111 Cost.”; ma che, dall’altro lato, non chiude la porta all’eventualità che possano esservi, perfino nell’ambito della propria giurisdizione (ordinaria), “precise indicazioni normative” che in ipotesi impongano “ampliamenti dei poteri d’iniziativa officiosa”.
Il Collegio osserva che tali indicazioni normative nella specie indubbiamente sussistono; esse consistono, da un lato, in quella – di ordine generale, per il processo amministrativo – di cui al cit. art. 31, comma 4 (che si è visto essere espressione, appunto, di un principio diverso e antitetico rispetto a quello dispositivo, che permea di sé tutto il processo civile, anche allorché il giudice debba applicare l’art. 1421 c.c.); nonché, dall’altro lato, in quella – di ordine speciale, per la sola fattispecie in esame – di cui all’art. 2 della L.R. 20 novembre 2008, n. 15 (che si è sopra trascritto, nella narrativa in fatto che precede).

5. – Ciò che si è detto fa giustizia di molte delle censure svolte nell’unico motivo di appello proposto (ossia di quelle di violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato; ultrapetizione; erronea applicazione dell’art. 31, comma 4, c.p.a.).
Nondimeno, resta da svolgere qualche ulteriore considerazione.

5.1. – In ordine al dedotto profilo di “violazione del contraddittorio”, si rileva che l’appellante si duole, unicamente, del fatto “che l’iniziativa d’ufficio del T.A.R. non ha consentito né al Comune restistente né alla Ditta contro interessata, né alla stessa ricorrente, di contraddire, dal momento che la dichiarazione di nullità del bando era questione assolutamente estranea al giudizio (e mai trattata in alcun atto)”; senza però dedurre alcuna violazione, da parte del primo giudice, del disposto dell’art. 73, comma 3, c.p.a..
Orbene, tale norma – che mira a prevenire la c.d. “sentenza della terza via”, rispetto ai due percorsi argomentativi svolti dalle parti in causa – lungi dal vietare al giudice di porre a fondamento della sua decisione le questioni rilevate d’ufficio, gli consente piuttosto di farlo fino al momento che immediatamente precede l’assegnazione della causa in decisione, senz’altro onere che quello di indicare in udienza alle parti tale questione e di darne atto a verbale.
In tal caso, tutto quello che va concesso al contraddittorio delle parti è solo la possibilità di discutere oralmente, nella stessa udienza, della questione sollevata d’ufficio dal giudice; infatti, nonostante qualche prassi di segno diverso, si deve radicalmente escludere che il giudice debba (né possa) assegnare termini di sorta per difese scritte, men che mai rinviando la causa ad un’udienza successiva (salvo che ambo le parti lo richiedano, e che il giudice stesso vi consenta).
Il chiaro disposto dell’art. 73, comma 3, prevede infatti la fissazione di un termine ulteriore, per il mero deposito di difese scritte (e, dunque, anche in questo caso senza alcuna possibilità di rimettere la causa sul ruolo), unicamente nel caso in cui il rilievo d’ufficio di una questione nuova per le parti sia effettuato dopo il passaggio della causa in decisione.
Da siffatta compiuta disciplina normativa si evince che non è sufficiente dedurre – come vizi di difetto di contraddittorio o lesione del diritto di difesa: che, ex art. 105, comma 1, darebbero adito a ri-messione della causa al primo giudice – che il rilievo d’ufficio abbia rigurdato una questione “assolutamente estranea al giudizio (e mai trattata in alcun atto)”, essendo assolutamente normale che così sia.
Sarebbe stato necessario, viceversa, che il motivo di appello avesse dedotto, esplicitamente, la violazione del cit. art. 73, comma 3.
In tal caso, il giudice d’appello avrebbe dovuto verificare se nel verbale d’udienza si fosse dato atto, o meno, del rilievo d’ufficio della questione nuova: e, secondo l’esito di tale accertamento, annullare, o meno, (con rinvio) la sentenza gravata.
In difetto di tale espressa censura, non v’è luogo – stante la ge-nericità con cui essa è stata formulata, nei termini testualmente sopra trascritti – a disporre alcun accertamento in proposito.

5.2. – Inoltre, “Con riguardo al merito della pronuncia”, il Collegio condivide l’assunto del primo giudice, in punto di perdurante vigenza, in Sicilia, dell’art. 2, comma 1, della cit. L.R. n. 15/2008.
In proposito – oltre a richiamarsi l’orientamento espresso da questo Consiglio, con sentenza 14 giugno 2011, n. 427, nel senso che “Nella regione siciliana, il mancato richiamo nei bandi di gara della disciplina dettata dall’art. 2 della L.R. del 20 novembre 2008, n. 15, recante “Misure di contrasto alla criminalità organizzata”, determina la nullità di tali atti” – si rileva:
a) che l’art. 3 della legge statale 13 agosto 2010, n. 136, invocato dall’appellante come implicitamente abrogativo dell’art. 2, comma 1, L.R. n. 15/2008, non è affatto incompatibile con tale ultima disposizione;
b) che, come già osservato dal primo giudice, la nota peculiarità della criminalità organizzata in Sicilia può “giustificare l’adozione di una disciplina diversa e più severa” di quella nazionale;
c) che, in forza dell’art. 14, lett. g), dello Statuto regionale, la Regione siciliana ha competenza legislativa esclusiva in materia di “lavori pubblici, eccettuate le grandi opere pubbliche di interesse prevalentemente nazionale”, con il corollario che la disciplina statale – anche se recante disposizioni analoghe a quelle regionali ed essendo dichiaratamente rivolte entrambe a finalità di contrasto alla criminalità organizzata; epperò reciprocamente non formalmente incompatibili – non può interpretarsi come abrogativa delle disposizioni regionali che, con qualunque finalità, disciplinano le modalità di svolgimento delle gare d’appalto di lavori pubblici nella Regione (qual’è l’art. 2, cit.).

5.3. – Infine, quanto alla contestazione dell’insanabilità delle “rilevate formali nullità”, è sufficiente richiamare la soggezione del giudice alla legge, ex art. 101, II comma, Cost., per escludere che, a fronte dell’inequivoca scelta legislativa di sanzionare un precetto con la nullità dell’atto che lo abbia violato, possa fondatamente ipotizzarsi un’interpretazione giudiziale correttiva (rectius: violativa), che porti a ritenere “regolarizzabile” l’atto nullo (anche perché quod nullum est non potest, tractu temporis, convalescere: cfr. art. 1423 c.c.).
Perciò è del tutto improprio invocare, come fa l’appellante, il “principio di economia dell’attività amministrativa”, ovvero “la ratio delle norme sanzionanti la nullità stessa”: giacché, pure a fronte di tali esigenze, c’è già stata una chiara scelta legislativa, cui il giudice – se non la ritiene incostituzionale (e, comunque, solo previo avallo della Corte costituzionale): e questa non lo è – non può sostituire la propria.

6. – Ogni altro profilo di appello – ivi incluse le contestazioni mosse relativamente alla violazione, pure affermata dal T.A.R., anche del comma 2 del cit. art. 2 della L.R. n. 15 del 2008 – resta assorbito nell’insuperabilità della declaratoria di nullità del bando, resa dalla sentenza gravata, per violazione dell’art. 2, comma 1, L.R. cit..

7. – In conclusione, l’appello va disatteso, siccome infondato.
Non v’è luogo a statuire sulle spese del grado, attesa l’identità di posizioni assunte – così come, peraltro, pure in primo grado – dalle uniche due parti costituite in questo grado di giudizio; che, essendo state entrambe resistenti in prime cure, hanno richiesto in appello, ma senza ottenerla, la riforma della sentenza gravata: e così soccombendo.


P. Q. M.

Il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione sicilia-na, in sede giurisdizionale, respinge l’appello.
Nulla per le spese del presente grado.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità am-ministrativa.
Così deciso in Palermo dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 9 maggio 2012, con l’intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Guido Salemi, Ermanno de Francisco, estensore, Pietro Ciani, Giuseppe Mineo, Componenti,

F.to Riccardo Virgilio, Presidente
F.to Ermanno de Francisco, Estensore

Depositata in Segreteria
    27 luglio 2012
 

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