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Giurisprudenza: Giurisprudenza Sentenze per esteso massime | Categoria: Diritto processuale amministrativo Numero: 1104 | Data di udienza: 15 Gennaio 2013

* DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO – Interruzione del processo – Parte nei cui confronti si sia verificato l’evento interruttivo – Unica legittimata a valersi della mancata interruzione.


Provvedimento: Sentenza
Sezione: 4^
Regione:
Città:
Data di pubblicazione: 22 Febbraio 2013
Numero: 1104
Data di udienza: 15 Gennaio 2013
Presidente: Trotta
Estensore: Veltri


Premassima

* DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO – Interruzione del processo – Parte nei cui confronti si sia verificato l’evento interruttivo – Unica legittimata a valersi della mancata interruzione.



Massima

 

CONSIGLIO DI STATO, Sez. 4^ – 22 febbraio 2013, n. 1104


DIRITTO PROCESSUALE AMMINISTRATIVO – Interruzione del processo – Parte nei cui confronti si sia verificato l’evento interruttivo – Unica legittimata a valersi della mancata interruzione.

Poiché le norme sull’interruzione del processo sono volte a tutelare la parte nei confronti della quale si sia verificato detto evento e che dallo stesso può essere pregiudicata, questa è la sola legittimata a valersi della mancata interruzione (Cassazione civile sez. II, 19 settembre 2011, n. 19095; Cass. Civ., sez. III, 13 novembre 2009 n. 24025; Consiglio di Stato sez. IV, 19 gennaio 2012, n. 222).

(Riforma T.A.R. Veneto – Venezia – Sezione II n. 01269/2009) – Pres. Trotta, Est. Veltri – O.P. (avv.ti Verino e Maso) c. F.D.P. e altri (avv.ti  Colarizi e Dalle Mule)


Allegato


Titolo Completo

CONSIGLIO DI STATO, Sez. 4^ – 22 febbraio 2013, n. 1104

SENTENZA

 

CONSIGLIO DI STATO, Sez. 4^ – 22 febbraio 2013, n. 1104


N. 01104/2013REG.PROV.COLL.
N. 05825/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente


SENTENZA

 

sul ricorso numero di registro generale 5825 del 2010, proposto da:
Ottavio Pinton, rappresentato e difeso dagli avv. Mario Ettore Verino, Gabriele Maso, con domicilio eletto presso Mario Ettore Verino in Roma, via Barnaba Tortolini N. 13;

contro

Francesco Da Pian, Giovanni Da Pian, Daniele De Biasio, rappresentati e difesi dagli avv. Massimo Colarizi, Luca Dalle Mule, con domicilio eletto presso Massimo Colarizi in Roma, viale Bruno Buozzi N. 87;

nei confronti di

Comune di Alleghe;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. Veneto – Venezia – Sezione II n. 01269/2009, resa tra le parti, concernente concessione in sanatoria per opere edilizie abusivamente realizzate

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio dei sigg.ri Francesco Da Pian e di Giovanni Da Pian e di Daniele De Biasio;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
 

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 15 gennaio 2013 il Cons. Giulio Veltri e uditi per le parti gli avvocati Gabriele Maso e Massimo Colarizi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con sentenza 28 aprile 2008, n. 1269, il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sezione II, ha accolto il ricorso presentato dai signori Daniele De Biasio e Roberto Da Pian, annullando la concessione in sanatoria n. 23/96, rilasciata dal Sindaco del Comune di Alleghe in data 20 marzo 1996 – ai sensi dell’art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 – per il “condono” delle opere abusive realizzate in un fabbricato a uso residenziale denominato “Ai Molini”, edificato dalla società immobiliare Turinvest s.r.l. (dante causa dell’odierno appellante) in forza della concessione edilizia n. 23 del 14/10/1983 e della successiva variante n.1 del 22/01/1986 (quest’ultima annullata con decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 792/1990).

Contro la sentenza ha interposto appello il signor Pinton Ottavio, acquirente di un appartamento nel fabbricato in questione, rimasto soccombente in primo grado.

L’appellante deduce i motivi che seguono.

Nel rito:

1. Improcedibilità del ricorso di primo grado. Mancherebbe l’interesse dei ricorrenti, posto che la concessione in sanatoria sarebbe già stata annullata dal T.A.R. con la precedente sentenza 30 marzo 2009, n. 982, che aveva accolto il ricorso cumulativo proposto avverso tutte le concessioni in sanatoria. Essendo stata annullata la concessione, difetterebbe lo stesso oggetto della sentenza oggi impugnata, che sarebbe dunque nulla;

2. Nullità della sentenza per violazione dell’art. 110 c.p.c. La sentenza, emessa nei confronti di Roberto Da Pian, successivamente deceduto, non darebbe atto dell’avvenuta interruzione e riassunzione del processo da parte del coerede Francesco Da Pian, costituitosi in giudizio come apparirebbe dall’istanza di fissazione d’udienza;

3. Nullità della sentenza per violazione dell’art. 110 c.p.c. Non sarebbe stato integrato il contraddittorio nei confronti dell’altro coerede Giovanni Da Pian, nei confronti del quale la decisione produrrebbe comunque effetti. Il litisconsorzio necessario di natura processuale, che ricorrerebbe nella fattispecie, non sarebbe venuto meno a seguito dell’avvenuta cessione a Francesco, da parte di Lina e Giovanni Da Pian, di tutti i diritti loro riconosciuti dall’autorità giudiziaria come eredi di Roberto, trattandosi di successione a titolo particolare;

4. Nullità della sentenza ex art. 24 della legge n. 1034 del 1971 nonché artt. 110 e 300 c.p.c., per avere il T.A.R. omesso di dichiarare l’interruzione del processo in ragione della costituzione di uno solo dei coeredi;

5. Estinzione del processo – ex art. 24 della legge n. 1034 del 1971 e art. 300 c.p.c. – non essendo stata tempestivamente notificata la riassunzione, da parte di Francesco Da Pian, nei confronti di Giovanni e delle altre parti.

Nel merito:

6. violazione di legge, sotto diversi profili, e travisamento dei fatti. Erroneamente il Tribunale territoriale avrebbe ritenuto inammissibile la concessione in sanatoria dell’immobile, per trattarsi di opera completata successivamente al 31 dicembre 1993. L’ ultimazione risalirebbe invece al 1988; la demolizione parziale del fabbricato, disposta dal Commissario ad acta nel 1994, con conseguente ricostruzione parziale della facciata, sarebbe stata eseguita in esecuzione della sentenza n. 792/1990 del Consiglio di Stato, di annullamento della concessione in variante n. 1/1986; si sarebbe pertanto dovuta applicare la specifica disciplina dettata per le opere eseguite in base a licenza o concessione edilizia annullata (art. 31, comma 1, lett. b), e art. 36 della legge n. 47 del 1985) ed espressamente richiamata nelle istanze di sanatoria presentate il 28 febbraio 1995. Inoltre la sentenza impugnata, nell’affermare che “il fabbricato costruito prima del 31 dicembre 1993 risultava del tutto diverso per forma e dimensioni da quello realizzato successivamente”, sarebbe viziata da ultrapetizione e travisamento dei fatti, con particolare riguardo alla proprietà degli appellanti, che non avrebbe subito alcuna modificazione per essere collocata su un fronte non interessato da alcun intervento di demolizione;

7. Violazione di legge, sotto vari profili, in quanto – a tutto concedere –le opere eseguite nel 1994 (modestissime e non alteranti in alcun modo il disegno strutturale dell’edificio) potrebbero rappresentare semmai opere di completamento, ammissibili ex art. 35, comma 14, della legge n. 47 del 1985, e suscettibili di sanatoria ex art. 43, comma 5, della medesima legge;

8. Con riguardo all’asserita violazione dell’art. 50 del regolamento edilizio (che stabilisce che gli appartamenti debbano avere una superficie minima di 60 metri quadri):

8.1. vizio di ultrapetizione, perché i ricorrenti non avrebbero fatto riferimento all’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (sulla necessaria conformità dell’opera da sanare alla normativa urbanistica vigente al momento della richiesta);

8.2 inapplicabilità, ad appartamenti ultimati nel 1988, del regolamento edilizio sopravvenuto nel 1992;

8.3 omessa considerazione del fatto che la richiesta di condono era stata comunque formulata con richiesta di applicazione della sanzione prevista dalla tabella 1 della legge n. 47 del 1985 (opere non conformi alle norme urbanistiche o alle prescrizioni degli strumenti urbanistici);

8.4 inammissibilità della censura per difetto di legittimazione e interesse, trattandosi di opere interne di un altro fabbricato;

9. violazione di legge, sotto diversi profili, in quanto il superamento del limite volumetrico di 750 metri cubi, previsto dall’art. 39 della legge n. 724 del 1994, sarebbe stato dedotto solo nel ricorso cumulativo e non anche in quello relativo all’impugnazione delle singole concessioni (vi sarebbe dunque vizio di ultrapetizione) e comunque sarebbe in fatto irrilevante, poiché – diversamente da quanto ha ritenuto il T.A.R. – i volumi delle singole unità immobiliari, oggetto della domanda di condono, andrebbero considerati singolarmente, in relazione alla domanda di ciascun condomino, e non cumulativamente. L’art. 39 sarebbe, per di più, inapplicabile, poiché il comma 1 escluderebbe l’applicabilità dei limiti di cubatura in caso di annullamento della concessione edilizia. Ulteriori argomenti svolti dai ricorrenti, almeno in parte fatti propri dal T.A.R. (malafede della società costruttrice, eccedenza della cubatura realizzata rispetto a quella prevista dalla concessione annullata, esecuzione dell’abuso secondo un disegno unitario), non avrebbero dovuto essere presi in considerazione, non essendo contenuti nel ricorso introduttivo. Tali argomenti, poi, sarebbero non provati, di fatto insussistenti o irrilevanti;

10. Non sussisterebbe l’asserita violazione delle distanze legali, solo genericamente affermata dal T.A.R.; vi sarebbe inoltre improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse, dato che, secondo il nuovo testo dell’art. 39, comma 2, della legge n. 724 del 1994, il rilascio della concessione in sanatoria non pregiudica i diritti dei terzi.

Gli appellanti hanno chiesto inoltre la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata nonché, se del caso, consulenza tecnica, verificazione o richiesta di relazione al Comune.

I signori Daniele De Biasio, Francesco e Giovanni De Pian si sono costituiti in giudizio per resistere all’appello.

Alla camera di consiglio del 27 luglio 2010, la causa è stata rinviata al merito.

In vista dell’udienza pubblica gli appellati hanno depositato una memoria. Premessa la ritenuta inammissibilità dei documenti nuovi presentati in giudizio – e segnatamente di (quella che definiscono) la consulenza tecnica di parte, redatta il 14 settembre 2009 dall’ing. Guidolin, e della c.d. tabella riepilogativa –, in relazione ai singoli motivi dell’appello argomentano nei termini che seguono.

1. Il motivo fondato sull’avvenuto annullamento, ad opera di altra sentenza, della concessione in sanatoria di cui è causa sarebbe infondato (nel decidere il ricorso cumulativo il T.A.R. avrebbe tenuto preseenti anche quelli proposti contro le singole concessioni) e comunque inammissibile per difetto di interesse, poiché l’esito dell’appello non potrebbe comunque determinare la reviviscenza del titolo edilizio annullato;

2. La sentenza darebbe atto della costituzione in giudizio dei difensori del ricorrente Francesco Da Pian; il processo non sarebbe stato mai interrotto; l’indicazione dell’originario ricorrente, nell’epigrafe della sentenza, costituirebbe tutt’al più un errore materiale;

3. La censura di mancata integrazione del contraddittorio sarebbe inammissibile, in quanto gli appellanti non avrebbero interesse a dedurla; inoltre il litisconsorte attivo che si assume pretermesso (Giovanni Da Pian) avrebbe fatto cessione dei suoi diritti (ciò non è contestato) e si sarebbe formalmente costituito nella fase di appello, accettando la causa nello stato in cui si trova;

4. La mancata dichiarazione dell’interruzione del processo potrebbe essere fatta valere solo dal soggetto rispetto al quale operi l’evento interruttivo; peraltro la documentazione prodotta in giudizio dai Da Pian avrebbe avuto lo scopo proprio di evitare l’interruzione del processo con la costituzione spontanea in giudizio dell’avente causa;

5. Non essendo stato interrotto il processo, sarebbe “forzato” supporre esistente un onere di riassunzione; le censure che precedono non potrebbero comunque investire la posizione dell’altro originario ricorrente Daniele De Biasio;

6. Quanto al tempo della violazione edilizia, la concessione di cui è causa avrebbe inteso sanare le opere realizzate successivamente alla demolizione della porzione abusiva, quindi senz’altro oltre il termine previsto dalla legge n. 724 del 1994; non vi sarebbe l’asserita ultrapetizione, poiché il T.A.R. si sarebbe limitato a rilevare la difformità del fabbricato, come risultante dai lavori completati nel 1995, rispetto a quello oggetto dell’originaria licenza;

7. Non potrebbe parlarsi di opere di completamento per lavori eseguite dopo la demolizione e prima della presentazione della richiesta di condono; d’altronde, una costruzione conclusa sulla base di un titolo illegittimo, poi annullato, non potrebbe tecnicamente essere definita come “costruzione non ultimata”;

8. Non sussisterebbe il censurato malgoverno del regolamento edilizio comunale: mancherebbe il vizio di ultrapetizione; non trattandosi di abusi realizzati anteriormente al 31 dicembre 1993, sarebbe fuori luogo richiamare la legge n. 47 del 1985 e affermare l’irrilevanza della disciplina sopravvenuta; sarebbe palese l’interesse a far valere la violazione di norme urbanistico-edilizie volte a contenere il carico insediativo;

9. Circa il rispetto del limite volumetrico per la condonabilità degli abusi, non potrebbe che rilevare l’edificio nella sua globalità; l’intervenuta alienazione delle singole porzioni immobiliari, a soggetti ben consapevoli del contenzioso in atto, non varrebbe a rendere ammissibile ciò che sarebbe stato precluso all’unico proprietario del complesso; oggetto del condono, peraltro, non sarebbero le unità immobiliari realizzate sulla base del titolo annullato nel 1990, ma quelle riedificate nel 1994, nell’ambito di un complesso edilizio difforme da quello autorizzato in origine;

10. Infine, in ordine alle distanze legali, l’art. 39 della legge n. 724 del 1994, nella parte in cui fa salvi i diritti dei terzi rispetto alla sanatoria, non potrebbe essere inteso nel senso di impedire a questi ultimi di prospettare la questione.

Anche gli appellanti hanno depositato una memoria, nella quale insistono sui profili di merito e contestano l’eccezione di inammissibilità della relazione depositata. Tale relazione, infatti, si limiterebbe a riassumere il contenuto di altri documenti e comunque dovrebbe essere considerata – ai sensi dell’art. 104, comma 2, c.p.a. – indispensabile ai fini della decisione della causa, dal momento che il T.A.R. avrebbe giudicato in contrasto con le risultanze documentali.

All’udienza pubblica del 15 gennaio 2013, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.

DIRITTO

Le questioni di rito sollevate dall’appellante sono in parte infondate, in parte ininfluenti ed in parte inammissibili.

1.Quanto all’asserita improcedibilità per intervenuto annullamento, in sede giurisdizionale, dell’atto oggetto di giudizio, basti considerare che l’annullamento era stato disposto con sentenza sulla quale non si era ancora formato il giudicato(sent. 30 marzo 2009, n. 982), resa all’esito di un autonomo e diverso giudizio. La provvisoria esecutività della stessa non poteva certo inibire l’accesso alla nuova decisione né togliere interesse al ricorso.

2. Diversamente deve dirsi per il mancato riferimento, nel preambolo della sentenza gravata, al sig. Francesco Da Pian, succeduto, nelle more del processo, nella posizione giuridica controversa, e costituitosi ritualmente in giudizio per la prosecuzione dello stesso. In effetti, sebbene il primo giudice abbia dato atto del mutamento del difensore avvenuto proprio in conseguenza della citata prosecuzione, non ha indicato tra le parti del processo destinatarie della sentenza anche il sig. Francesco Da Pian, continuando invece ad indicare il nome del de cuius. Trattasi tuttavia di errore della sentenza e non di vizio del contraddittorio, al quale avrebbe potuto rimediarsi a mezzo di mera correzione; lo stesso è ininfluente atteso che la revisio prioris istantiae sollecitata a mezzo dell’appello consente ora di apprestare anche la dovuta correzione.

3. Più complesse sono le questioni introdotte a mezzo del terzo motivo di gravame. Secondo l’appellante, la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altro coerede Giovanni Da Pian (anch’egli succeduto a Roberto), determinerebbe la nullità della sentenza, a nulla rilevando la preventiva cessione a Francesco, da parte di tutti gli altri coeredi, della posizione giuridica controversa, trattandosi, in questo caso, di successione a titolo particolare.

L’appellante richiama in proposito la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo la quale “in caso di morte della parte nel corso del processo, la legittimazione attiva e passiva si trasmette ai suoi eredi con la conseguenza che il rapporto processuale deve proseguire nei confronti di tutti costoro, ricorrendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario di natura processuale, indipendentemente dalla natura scindibile o inscindibile del rapporto dedotto in giudizio” (in tal senso, Cass. 03/09/1997, n. 8437; 25/03/2005).

In caso di morte della parte, la continuazione del processo, sarebbe dunque subordinata all’istanza di tutti gli eredi. Il successivo trasferimento contrattuale dei diritti in capo ad uno dei coeredi non farebbe venir meno il litisconsorzio processuale, ma solo scattare la norma che consente l’estromissione dei coeredi cedenti, ex art. 111 cpc (successione a titolo particolare nel diritto controverso).

3.1. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse. Già la Corte costituzionale era stata chiarissima nell’avvertire che “l’interruzione è finalizzata esclusivamente alla tutela della parte colpita dall’evento…” e che “la valutazione dell’effettivo verificarsi di un danno in caso di prosecuzione del processo può essere utilmente compiuta solo dal procuratore di detta parte, cui perciò è logicamente rimesso il potere di decidere se provocare o meno l’interruzione”, mentre “è del tutto estranea alla norma impugnata la finalità di tutelare le controparti dal “pregiudizio” della mancata interruzione del processo, la quale finalità sarebbe anzi in contrasto con la funzione stessa del processo e con il principio costituzionale che impone sia assicurata la sua ragionevole durata” (cfr. Corte cost. 28 novembre 2003, n. 349).

Di recente in tal senso si sono pronunciate anche la Corte di Cassazione ed il Consiglio di Stato, ribadendo a chiare lettere che “poiché le norme sull’interruzione del processo sono volte a tutelare la parte nei confronti della quale si sia verificato detto evento e che dallo stesso può essere pregiudicata, questa è la sola legittimata a valersi della mancata interruzione” (Cassazione civile sez. II, 19 settembre 2011, n. 19095; Cass. Civ., sez. III, 13 novembre 2009 n. 24025; Consiglio di Stato sez. IV, 19 gennaio 2012, n. 222).

Nel caso di specie, non è la parte colpita dall’evento a dolersi della mancata interruzione, ma è l’altra parte (privata) del processo (il controinteressato) la quale mira in tal modo a porre nel nulla l’azione di annullamento, com’è noto sottoposta a termine decadenziale. Trattasi, dunque, di un utilizzo strumentale delle norme processuali invece applicabili nel caso di specie a tutela della sola parte avversa (ed in particolare di uno degli eredi del ricorrente asseritamente pretermesso), al quale non può riconoscersi ingresso nel processo.

4. Quanto detto refluisce ovviamente sugli altri motivi di rito, fondati sull’omessa dichiarazione di interruzione, invece necessitata dalla costituzione di uno solo dei coeredi (quarto motivo), nonchè sull’omessa dichiarazione di estinzione del giudizio per sua mancata tempestiva riassunzione, da parte di Francesco Da Pian, nei confronti di Giovanni e delle altre parti (quinto motivo).

Trattasi di censure la cui sorte è legata all’ammissibilità della propedeutica questione concernente la mancata interruzione, come visto esclusa per difetto di interesse alla sua proposizione.

5. Nel merito l’appello è fondato.

E’ pacifico che oggetto del primigenio annullamento sia stata la variante e non l’originaria concessione edilizia, così com’è pacifico che il Consiglio di Stato, in sede di ottemperanza (dec. 1401/1994), abbia concretamente circoscritto l’obbligo di demolizione alle parti dell’edificio realizzate in violazione delle norme sulle distanze, avuto in particolare riguardo ai balconi con solette aggettanti presenti sulla parete, rispetto alla linea di congiunzione degli spigoli del frontistante immobile di proprietà De Biasio, e nominato un commissario ad acta che nel maggio del 1994 ha ingiunto la demolizione parziale dell’edificio. Intervenuta la demolizione nel settembre 1994, ciascuno dei proprietari degli appartamenti ha poi chiesto il condono delle opere prive di titolo, ex art. 31 comma 1 della legge 47/1985.

La tesi degli appellati, accolta dal primo giudice è che la demolizione della sporgenze e la successiva ricostruzione della facciata, id est, “l’ultimazione dell’edificio” sia avvenuta in epoca successiva alla data ultima, fissata dalle legge 724/94 al 31 dicembre 1993.

Siffatta tesi non può essere condivisa.

5.1. L’attività di parziale demolizione dell’edificio, eseguita nel rispetto dell’ingiunzione emanata dall’ausiliario del Giudice dell’ottemperanza, nonché quella successiva e conseguente di ricostruzione delle pareti, non rendono l’edificio il prodotto di una nuova attività edificatoria, ma costituiscono riduzione in pristino delle parti, considerate abusive, realizzate in violazione delle distanze, di un edificio già completato seppur in forza di un titolo annullato.

Nel caso di specie, al momento dell’annullamento del titolo (12 novembre 1992- decisione n. 1306/1992), ed a quello della data ultima fissata dalla legge di condono, l’immobile era già completato, ma si presentava (non importa se in toto o in parte) abusivo in forza dell’annullamento della concessione in variante del 1986, con ciò integrando tutti i presupposti di legge per l’ottenimento del condono. Ottenuto quest’ultimo (che com’è noto fa salvi i diritti dei terzi) ed eliminate le parti in violazione dei diritti dei terzi, in osservanza a quanto ingiunto dal Commissario ad acta nominato dal Giudice dell’ottemperanza, la situazione è stata ricondotta a legalità.

E’ pur vero che l’immobile condonato non corrisponde perfettamente a quello ultimato prima del dicembre 1993, ma le variazioni costituiscono riduzione di superficie imposta da provvedimenti giudiziari e dunque non pongono un problema di elusione della norma di condono, sia in ragione della finalità del nuovo intervento (riduzione e non già ampliamento), sia in ragione delle cause dello stesso (ottemperanza ad un ordine giudiziario).

6. Fondati sono anche i motivi d’appello relativi alla ritenuta violazione dell’art. 50 del regolamento edilizio, ed allo sforamento del limite volumetrico di 750 metri cubi (da riferire all’intero immobile condonato grazie all’accoglimento di tutte le singole domande di condono aventi ad oggetto gli appartamenti).

Trattasi, come sopra chiarito, di condono di opere abusive, disposto in via eccezionale dal legislatore a prescindere dal requisito della cd doppia conformità che invece caratterizza l’accertamento in sanatoria dei presupposti per il rilascio del titolo, ex art. 36 TU edilizia (ancor prima, legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 13).

Inoltre, anche a prescindere dalla correttezza del procedimento ermeneutico teso ad unificare virtualmente le singole domande di condono, i predetti limiti di cubatura, ai sensi dell’art. 39 della legge 724/1994 “non trovano applicazione nel caso di annullamento della concessione edilizia”, com’è per l’appunto nel caso di specie.

7. Quanto, infine, all’ultimo motivo d’appello, premesso che le statuizioni del Giudice di prime cure non appaiono univocamente dirette a sostenere la sussistenza, ancora in atto, di una violazione delle distanze, in ogni caso ha ragione l’appellante quando osserva che non risulta affatto dimostrata la persistenza di detta violazione, per converso esclusa dall’attestazione del Commissario ad acta del 30/01/1995.

8. L’appello è pertanto accolto e, in riforma della sentenza gravata, il ricorso di prime cure respinto.

9. Avuto riguardo alla complessità del contenzioso ed alla peculiarità delle questioni ermeneutiche trattate, le spese possono essere compensate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta). definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza gravata respinge il ricorso originario.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 gennaio 2013 con l’intervento dei magistrati:

Gaetano Trotta, Presidente
Raffaele Greco, Consigliere
Diego Sabatino, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
Giulio Veltri, Consigliere, Estensore

L’ESTENSORE

IL PRESIDENTE
     

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 22/02/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

 

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